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ECCO RESS LA ROCCIA
from PINK BASKET N.32
by Pink Basket
Storie di Giulia Arturi
“NON SONO MAI STATA LA GIOCATRICE DI PUNTA, MA IL COLLANTE, QUELLA DEL LAVORO CHE NON SI LEGGE SUI TABELLINI. DA MAMMA TI SPUNTANO SUPERPOTERI E DUE OCCHI IN PIÙ. IL PRIMO SCUDETTO A SCHIO È QUELLO CHE SENTO PIÙ MIO. ORA SONO ALLENATRICE E CONSIGLIERA FEDERALE: DEVO STUDIARE E CAPIRE”
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Fatti molto più che parole. Kathrin Ress, 36 anni, ci risponde mentre è impegnata in un trasloco, gestisce i suoi due bambini (Mikol, 20 mesi e Sebastian, 11 anni), finalizza la chiusura dell’albergo di famiglia e pensa all’allenamento del pomeriggio delle sue piccole del minibasket. Il mondo di Kathrin Ress è soprattutto questo. Una “presenza”, come le sue montagne dell’Alto Adige. Una roccia, appunto. Concreta, indispensabile: la Nazionale, infortuni a parte, non ha mai fatto a meno di lei: 140 presenze, 1060 punti, 5 Europei giocati oltre a tutti quelli nelle Nazionali giovanili. In azzurro, ogni volta che è stata disponibile, la squadra era composta da lei e altre 11. Boston College, la WNBA, un’esperienza a Gran Canaria, e tanto Schio nella sua carriera. Con Tomas forma la coppia di fratelli più vincenti del basket italiano. Un collante in campo e fuori. Da una parte le statistiche, dall’altra tutto un mondo, il suo. Lasciato il basket giocato, nel 2019 si è occupata per due anni dell’hotel di famiglia, a Pochi di Salorno, un piccolissimo paese a 40km da Bolzano. “Ho fatto mille cose in una: a parte cucinare facevo tutto! Giocare significa avere una routine ben definita, andare in palestra, fare pesi, giocare. Era schematico. Poi è arrivato il bambino quindi quegli schemi sono saltati, e facendo la mamma atleta già avevo iniziato a fare mille cose in una volta sola. Mi ci sono ritrovata!”. E adesso il ritorno in palestra: proprio a Bolzano con un gruppo del minibasket, e in azzurro come assistente di Lucchesi nella Nazionale under18. “Torno all’obiettivo di partenza una volta smesso di giocare: fare l’allenatrice. Per ora ho preso un gruppetto del minibasket perché non avrei il tempo materiale per fare di più, tra il trasloco, la chiusura dell’hotel e la bimba ancora piccola, devo accontentarmi”.
Rimanere nella pallacanestro è sempre stato un tuo obiettivo?
“Non proprio, ho maturato questa decisione durante la mia carriera. Poi ho fatto il corso per allenatori, e mi è piaciuta l’idea. Anche per quello che ho studiato, la mia priorità era di lavorare con i bambini, sempre dal lato educativo, e lo sport è esattamente questo”.
L’Alto Adige e i suoi campioni, da Thoeni a Sinner: Bolzano è sempre stata una delle province più “sportive” d’Italia. Come sei arrivata alla pallacanestro?
“Come hai detto tu, nella nostra regione prevalgono gli sport individuali, a parte il solito calcio. E mio papà vista l’altezza dei figli e scartando il calcio ha indirizzato tutti verso il basket. E così alla fine anch’io, che avevo iniziato con la pallavolo, mi sono avviata su questa strada”.
Durante le stagioni ti confrontavi spesso con tuo fratello Tomas?
“Pochissimo a dire il vero. Ai tempi non c’era la stessa facilità di ora di parlarsi da lontano. Io il cellulare l’ho preso a Schio perché la famiglia presso cui abitavo voleva sapere a che ora tornavo a casa. La mia è sempre stata una famiglia diciamo un po’ ‘alla buona’: se chiamano vuol dire che c’è qualche problema, se no vuol dire che tutto va bene. Questo succedeva anche quando eravamo in America, un po’ anche per la maggiore difficoltà a comunicare. Li sentivo durante la stagione, volevano essere aggiornati su come andava, sui risultati delle partite. Ma i primi mesi capitava non ci sentissimo: i miei genitori erano impegnati, loro facevano il loro lavoro, io il mio: dovevo studiare e allenarmi, quella era la strada che stavo seguendo. Come si suol dire: lasciato il nido, vai e cresci!”.
A proposito di lasciare il nido, la tua scelta di andare in America all’epoca non era così diffusa come oggi. Sei stata quasi una pioniera. Come è maturata la decisione?
“Mio fratello Tomas ha fatto da apripista. Per quel che mi riguarda, ho cominciato a pensare anch’io a questa opportunità e dopo una partita giocata contro la squadra del college dove poi sarei andata, Boston College, ho parlato con l’allenatrice che mi ha indirizzata verso una high school un po’ più piccolina dove avrei potuto imparare l’inglese, iniziare i primi approcci con il basket e capire l’ambiente per poi andare a giocare da loro”.
E quella famosa vittoria contro Uconn?
“Quell’anno abbiamo vinto la conference, quella era la semifinale. Una di quelle partite difficili da dimenticare, mi resterà per sempre nel cuore. Pensare che tra loro c’era tra le altre Diana Taurasi! E mi ricordo che alla finale il loro allenatore le aveva obbligate a venire a vedere la partita!”.
Ti è servita quell’esperienza americana per il resto della tua carriera?
“Sicuramente sì. Nei tempi in cui l’ho fatta io aveva un certo significato, forse ora la scelta di andare in America ha motivazioni diverse dalle mie di allora. Come è giusto che sia, per l’evolversi dei tempi, della pallacanestro stessa e della comunicazione che è diventata trasversale rendendo tutto un po’ più aperto, più vicino. È un’esperienza formativa a 360 gradi e non solo focalizzata sul lato sportivo, ma anche su quello accademico”.
Nella tua lunga permanenza a Schio quali sono le compagne più forti con cui ti sei confrontata?
“Partiamo dal presupposto che a Schio passano le giocatrici più forti…”.
Certo, non a caso ci sei passata anche tu!
“Sì, ma io per Schio non sono mai stata la giocatrice di punta ma quella più di contorno, che magari non spicca nelle statistiche ma che fa comunque sentire il suo peso facendo tutto quello che non si legge nei tabellini. Tornando alle più forti, tra le italiane Chicca Macchi è e resterà per il tipo di gioco la numero uno del nostro basket, poi Mascia ovviamente, e la stessa Betta Moro, un totem, un esempio: il prototipo della capitana, della giocatrice che ha sempre la situazione in mano”.
Qual era il tuo ruolo in spogliatoio?
“Forse non da ‘vocalist’, ma rifletteva un po’ il mio modo di giocare: se c’era un buco da tappare in difesa lo tappavo, senza dire vado io. Se c’era da far girare la palla la facevo girare. Non sono mai stata una persona che aveva bisogno di evidenziare il suo operato, facevo e basta. Ho sempre cercato di essere il collante, dentro e fuori dal campo, senza perdermi troppo in chiacchiere”.
La soddisfazione più grande che ti sei tolta a Schio?
“Il primo scudetto appena tornata dall’America, forse perché è quello che ho sentito un po’ più mio come protagonista in campo”.
In Spagna invece come è andata? È stata una bella esperienza di vita e sportiva?
“Sì, quello a Gran Canaria è stato proprio un momento di cambiamento: ho vissuto la pallacanestro in modo un po’ più leggero. È vero, io ero la giocatrice straniera, ma avendo alle spalle l’America per me vivere all’estero non rappresentava niente di nuovo. Con una struttura societaria praticamente a conduzione familiare, era impressionante il lavoro che facevano sulle giovani, con un sistema strutturato. In Italia siamo più indietro, soprattutto proprio per l’impegno nel settore giovanile che poi deve essere proiettato verso la prima squadra. Ad esempio, ho visto crescere Astou Ndour (centro della Nazionale spagnola, ora a Venezia ndr) che si allenava con me”.
In Italia com’è la situazione del settore giovanile? Le Nazionali ottengono spesso grandi risultati, ma poi sembra sempre mancare qualcosa.
“Ci sono delle oasi felici che lavorano bene sul settore giovanile, che però sono lasciate un po’ a sé. Ad esempio, penso a Venezia che fa un gran lavoro di reclutamento e ha un ritorno, con delle ragazze ora protagoniste in prima squadra. E va benissimo, perché queste giocatrici crescono in un settore giovanile forte. Ma non deve esaurirsi tutto lì, nel raggruppare il talento da una parte sola. Serve un sistema e si parte sempre dal discorso della formazione degli istruttori, degli allenatori, delle società. Comunque, di grandi risultati con le giovanili anche a livello Nazionali ne abbiamo. Penso però manchi un ponte che traghetti alle realtà senior, portandoti dietro quella cosa in più, che arriva da un percorso nelle giovanili, che ti consente di esprimerti anche a livelli maggiori. Forse il fatto di aver accettato di entrare nel Consiglio Federale è stato un po’ mosso dalla curiosità personale (la stessa che mi ha spinto ora verso il minibasket) di vedere perché succede, e come si affrontano i vari problemi”.
E cosa hai visto?
“Ci sono molte idee, ma c’è ancora tanto da migliorare. Io non ho una formazione ‘politica’, ma vengo dal campo, è un ruolo in cui ho da imparare, ma dove la mia esperienza da giocatrice ha un valore. Anche in questo senso serve trovare un ponte tra queste due realtà: le decisioni ai piani alti devono raggiungere la base, il campo, e incidere nella sostanza per un miglioramento”.
Com’è stato tornare in campo dopo la maternità?
“Ti ci butti e lo fai. È tutto work in progress per gestire una nuova realtà. Spesso Sebastian veniva in palestra con me, si è sempre adattato. Non si faceva sentire, poi ad un certo punto si avvertiva un profumo di cibo: era lui che cenava. E aveva tre anni. È un adattamento sia del bambino sia della mamma. Penso si sviluppino dei super poteri che non ti rendevi conto di avere (risata). E sicuramente anche un paio di occhi in più. Non solo è diversa la gestione del tempo, ma anche la prospettiva per me era un po’ cambiata. La parte ludica, della passione, quella non si perde mai, è la base: fai sport perché ti piace, con l’amore del gioco, le relazioni che si costruiscono e l’esperienza. Ma tutte quelle paranoie, quelle ansie che ogni atleta ha si sono un po’ diradate”.
Cosa ti manca del campo?
“Mi manca lo stare lì. Quelle piccole cose in cui hai successo. Quando tutta la preparazione dà i suoi frutti, quando le cose in campo vengono bene perché il lavoro fatto si conclude con i risultati voluti”.
C’è un allenatore che ti ha cambiato la carriera?
“Dico sempre i primi, che sono quelli che restano di più dietro le quinte. Quando ti trovi a pensare ‘caspita quando andavo in palestra quelle cose quante volte le ho sentite’. Ed è un bagaglio che mi sono poi portata dietro durante tutta la carriera. Sono magari anche quelli che mi hanno ‘massacrato’ di più per voler tirare fuori il possibile dalle giocatrici di più talento. I miei primi in Italia sono stati coach Scanzani e Serventi”.
E cosa si impara dalle bimbe del minibasket?
“Ho preso in mano il gruppo da due settimane, da pochissimo quindi. I bambini sono tra quelli che hanno sofferto di più in questi due anni e questo si nota. C’è tanto da fare e soprattutto c’è tanta voglia di fare, di imparare, di stare insieme. Il credo del minibasket di oggi è non dire tutto quello che succede, ma lasciare che arrivino alla soluzione. È difficile ed è una bella sfida. Bisogna lasciargli quello spazio per arrivarci da sole. Ci sono anche tante incertezze e tante insicurezze che questi due anni di Covid hanno lasciato. Privarsi delle esperienze che fai interagendo con altri bambini, andando fuori a giocare, si sente”.
L’esperienza più bella in azzurro?
“In un certo senso, dal punto di vista dei risultati, non l’ho mai fatta, ma allo stesso tempo sono state tutte le più belle. Ogni estate in azzurro, ogni Europeo, poi l’esperienza nello staff di Capobianco, e quella di commentare in televisione gli Europei. E ora tornerò in azzurro: andrò a fare l’assistente di Lucchesi nell’under 18, si comincia con due raduni e poi gli impegni estivi”.
Quindi vice dell’under 18: tutta un’altra età rispetto al minibasket, tutta un’altra storia.
“Torniamo al discorso di come si affronta il dopo: è l’età in cui sta finendo il basket dove sei bambina per iniziare a pensare a cosa c’è dopo, a come si ascolta e si affronta quella fase. Prendo questa occasione come una sorta di studio, per vedere, per cercare di capire perché non si riesce a fare quel salto. Vediamo come va!”.