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March madness

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BRILLANO LE STELLE

BRILLANO LE STELLE

Focus di Alice Pedrazzi

MARZO IN NCAA SIGNIFICA MARCH MADNESS, UNA FORMULA AVVINCENTE E VINCENTE CHE ATTIRA SEMPRE PIÙ GIOCATRICI. LA COLONIA DELLE AZZURRE IN NCAA QUEST’ANNO È DI 11 ATLETE: UNA VITTORIA O SCONFITTA DEL NOSTRO MOVIMENTO?

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“Tu vuò fa’ l’americano, mmericano, mmericano. Ma sì nato in Italy... Tu vuò fa’ l’americano, mmericano, mmericano…”

Anno 1956: Renato Carosone racconta, sulle note di un boogie-woogie che spopolerà, il sogno americano che nell’immediato dopo-guerra affascinava migliaia di italiani attratti dall’immagine di un’America ricca e prosperosa, luccicante al confronto con un’Italia ancora fortemente legata alla tradizione rurale. L’America della canzone di Carosone era il sogno di chi “voleva farcela” nella vita.

Anno 2019: il sogno americano, declinato cestisticamente, pare sia tornato di gran moda, affascinando sempre più giocatrici italiane che sognano – appunto – di “fa’ l’americane”. Spesso riuscendoci. L’America del basket è, oggi, il sogno di chi “vuole farcela” nello sport. Gli Stati Uniti sono - sportivamente parlando - la nazione a cui guardare e nell’immaginario, e nelle scelte, di molte ragazze del nostro basket sono una meta agognata, per vivere una esperienza formativa e qualificante non soltanto dal punto di vista strettamente tecnico, ma anche di vita. Così cresce sempre più il numero di ragazze che preparano borse e borsoni, le riempiono di scarpe e tute, magliette, belle speranze e libri, e salgono su un aereo per volare oltre l’Atlantico a giocare e studiare. A studiare e giocare. A formarsi, insomma, dentro e fuori dal campo, attratte da un mondo capace di affascinare per l’attenzione e la cura quasi maniacale dei dettagli, per l’organizzazione impeccabile, la professionalità dei metodi di allenamento e per la qualità (anche delle strutture) che caratterizza il mondo dello sport (e del basket in particolare) a stelle e strisce. “Qui ti trattano da vera protagonista”, dice ad esempio Alessia Smaldone, una delle tante cestiste italiane attualmente negli Usa.

La NCAA, tanto al maschile quanto al femminile, è, infatti, capace di brillare di luce propria, non soltanto grazie al riflesso delle luci accecanti della NBA (e della WNBA), ed è capace di esercitare una forza attrattiva in tutto il mondo. Non ne sono rimaste immuni le cestiste italiane. Anzi. Andare negli Usa a fare il college, da sogno di molte è diventata la scelta di tante. La colonia italiana che popola, quest’anno, il campionato universitario femminile americano, è formata da 11 ragazze (fra Division I e Division II) formatesi nei settori giovanili delle nostre società, alcune anche con già esperienze in squadre senior e chiamate in azzurro, che però hanno scelto gli Usa per la loro formazione cestistica e universitaria. Francesca Pan e Lorena Cubaj (Georgia Tech University di Atlanta), Elisa Penna (Wake Forest University, Winston Salem, Carolina del Nord), Elisa Pinzan (University of South Florida), Mariella Santucci (Toledo University), Lucia Decortes (Albany University), Lucrezia Costa (UMBC), Chiara Bacchini (Quinnipiac), Elisa Pilli (Wyoming), Carlotta Gianolla (Kennesaw State) e Alessia Smaldone (Caldwell University): eccole, le nostre azzurre d’America. Ventenni o poco più (nate tutte tra il 1995 e il 1999), di belle speranze cestistiche, partite per tornare. Più forti.

Vittoria o sconfitta del nostro movimento? Questo è il dilemma. Irrisolvibile, perché – forse – dipende da quale parte si guardi questa medaglia. Il movimento, certamente, sforna giocatrici capaci di farsi notare anche oltreoceano, coraggiose nelle scelte di vita, forti di testa per tentare (e portare a termine con successo) una avventura lontano da casa, vincendo piccole e grandi paure e superando le difficoltà iniziali (legate soprattutto, per molte, quasi tutte le nostre ragazze partite, alla lingua da imparare ad usare nel quotidiano) e determinate a farsi notare in campo. Le “azzurre d’America” sono, quasi in tutti i casi, giocatrici che nella NCAA fanno ottime stagioni, (si pensi – su tutte – a Penna, che segna più di 15 punti di media). È altrettanto vero, però, che la nostra pallacanestro, oggi, non può nemmeno lontanamente sperare di competere, per fascino, con quella americana e non riesce a trattenere quelle ragazze che forse più di altre, sentono i sogni bussare forte.

Nei racconti di tutte le nostre cestiste volate negli Usa per il college, infatti, si riscontra un unico comun denominatore: il fascino che il campionato NCAA sa esercitare, per storia e storie, per tradizioni e per l’attenzione mediatica che richiama. È la stessa Elisa Penna, classe 1995, per talento e prospettive forse la “punta di diamante” della delegazione azzurra in America, al suo quarto ed ultimo anno nel college che fu di Tim Duncan e Chris Paul, ad aver raccontato più volte a più giornali, anche recentemente alla Gazzetta dello Sport, che “vivere nel mito di grandi campioni che hanno abitato, anche fisicamente, gli stessi spazi che ora utilizzo io e respirare la loro stessa aria, è fonte di grande ispirazione”. È forse proprio questo il fascino che manca al movimento di casa nostra, che soffre di una atavica difficoltà nel creare e soprattutto raccontare storie & tradizioni?

Impensabile per noi, ad esempio, poter paragonare un qualsiasi campionato giovanile o universitario a ciò che negli States hanno creato con la famosissima (e attesissima) “March Madness”, anche quest’anno ormai prossima al via. L’americanissima “follia di marzo”, mitica fase del campionato Ncaa ad eliminazione diretta, che deve il suo nome alla imprevedibilità dei risultati che le gare secche portano nel loro dna e che tanto appassionano il pubblico, stupendolo spesso e volentieri con storie da “Davide che batte Golia”, è un evento atteso da milioni di americani e dunque diventa, per tanti giovani atleti, un traguardo importante da raggiungere, al punto che la sua eco rimbalza ormai da diversi anni oltreoceano, fungendo da forza attrattiva. Tanto al maschile, quanto – e negli ultimi anni sempre più - al femminile. Saranno state, quindi, anche le sirene di questa appassionante sfida da “dentro o fuori”, che racchiude il senso spietato e magico dello sport (e della vita), ad affascinare le nostre ragazze, che hanno ceduto alle sirene a stelle e strisce, tentatrici non solo dal punto di vista tecnico, ma anche per tutto quello (ed è tanto) che ci sta attorno.

La meravigliosa “follia di marzo” è una formula avvincente e vincente, si parte da un tabellone di 64 squadre ed ogni week end di marzo si giocano sfide senza domani: se vinci respiri, se perdi non hai appello e ci ripensi, casomai, l’anno dopo. Di settimana in settimana, si passa da 64 a 32, poi dalle “sweet 16” alle 8 per arrivare, infine, alle Final Four. La formula delle Finals, diffusasi anche in Europa, nasce propria dalle finali del campionato studentesco americano, dove costituisce un vero fenomeno di costume. Dove lo sport conta, ma non è (il) tutto. O meglio: dove lo sport è capace di fare story-telling di se stesso e di farsi emozione per chi guarda. Un’emozione che affascina. A pensare a cosa (e quanto) si muove attorno al “March Madness” c’è da stropicciarsi gli occhi. Ed imparare, molto. Nelle settimane che precedono la partenza di questa folle corsa al titolo universitario, i siti specializzati e non, impazzano rendendo disponibili i cosidcosiddetti “bracket”, le griglie che contengono i tabelloni dei 4 Regionals in cui è diviso il torneo più pazzo del mondo, in tutte le forme e le modalità: ce ne sono di stampabili, di compilabili online, ci sono bracket fatti appositamente per pronostici e scommesse: i pronostici, infatti, sono una attività diffusissima che coinvolge migliaia di appassionati e che segue regole ben precise. Prima dell’inizio della prima fase, i bracket vanno compilati con i nomi delle squadre che si ipotizza possano vincere i vari confronti, dal primo turno sino alla finalissima: per ogni pronostico azzeccato si vincono dei punti (dai 2 per i turni iniziali fino ai 64 assegnati a chi ha la sfera di cristallo per indovinare la vincente). I bracket sono così popolari negli uffici di tutta l’America che alcune stime hanno rilevato un incremento esponenziale di consumo di risme di carta e di toner per fotocopiatrici nella settimana che dà il via alla March Madness.

E attorno alle finali c’è un mercato turistico sviluppatissimo: il paradosso è che i biglietti per assistere alle gare sono quasi un dettaglio, infilati dentro a “Vip Pack”, “All-In Experience” e pacchetti di ogni tipo e prezzo, si va dai 100 dollari ai 1895 richiesti per assistere alle Finals - femminili ovviamente, perché per la maschile si parla di 3515 dollari a persona - in programma nella prima settimana di aprile a Tampa, in Florida, con accesso non solo alle gare, ma alla vip lounge prevista nell’arena, alla conferenze stampa pre e post gara, con incontri con le giocatrici e partecipando anche ad un tour fotografico sul campo. Perché l’America, in questo, ci spiega che cosa significa avere la capacità di trasformare un incontro sportivo in un evento, generando e raccontando una emozione che gli spettatori possono vivere dal “di dentro”. Pagando, of course. E tanto. E questo, per le atlete, anche per le nostre atlete, non è solo lusinghiero, è anche molto responsabilizzante.

Le nostre ragazze che crescono in questo contesto, respirano quest’aria e vivono queste emozioni, tornano, spesso, giocatrici migliori da un punto di vista tecnico e fisico, grazie al confronto quotidiano sul campo con compagne e avversarie di indubbio valore, ma tornano soprattutto atlete più mature e forti da un punto di vista mentale e caratteriale, (più) pronte per affrontare le sfide dei campionati senior. In questo la bella brigata azzurra al momento in trasferta oltreoceano, può farsi forza, oltre che sulle proprie sensazioni positive, peraltro il coro che si alza dalle 11 italiane è unanime (“Esperienza fantastica, sotto il profilo non solo cestistico, ma anche umano e formativo”), anche su illustri esperienze pregresse: in tal senso una pioniera era stata, ad esempio, Kathrin Ress (classe 1985), oggi l’azzurra in attività che vanta il maggior numero di presenze in Nazionale, ha frequentato con profitto e successo (anche cestistico) il college a Boston dal 2003 al 2007, per poi tornare sul suol patrio giocatrice matura di tecnica, fisico e testa.

E quindi, sì, forse il dilemma è sciolto: avere così tante giovani che stanno diventando giocatrici e donne nei college americani è un successo del nostro movimento o, meglio, una grande opportunità. Che il movimento stesso non può lasciarsi scappare, né in termini di crescita tecnica e di valorizzazione delle atlete che, presto o tardi, torneranno a casa e che già possono vestire l’azzurro, né in termini di racconto di queste belle storie di vita e sport. Perché non sia solo una follia quello di avere, un giorno, anche noi la nostra bellissima “March Madness”.

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