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GORLIN, OCCHI DA TIGRE

STORIE di Caterina Caparello

DAL 2010, LIDIA GORLIN È UFFICIALMENTE ENTRATA NELL’ITALIA BASKET HALL OF FAME TRASFORMANDO LA SUA CARRIERA IN STORIA. NONOSTANTE ABBIA APPESO LE SCARPE AL CHIODO, NON HA ABBANDONATO I CAMPI DA BASKET INDOSSANDO LA GIACCA DA DIRIGENTE PER LUCCA IN A1, VINCENDO LO SCUDETTO NEL 2017

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La palla è sempre stata a spicchi ma la tenacia, il carisma e il talento non sono mai stati prevedibili. Tre semplici sostantivi non bastano a spiegare chi è stata la playmaker Lidia Gorlin, la giocatrice che, da bambina delle elementari, alzando la piccola testolina si innamorò di quel “coso di ferro attaccato ad un muro di legno”.

“Il mio amore per il basket è iniziato per caso, sono entrata in una scuola e ho chiesto cosa fosse quell’affare. Dopodiché, sono andata alla scuola media dove come attività fisica si praticavano atletica e basket. Siccome non potevo mai stare ferma, li ho praticati tutti e due e subito dopo ho preso la mia scelta: il basket”. Il basket dava di più a livello umano e Lidia lo aveva capito bene: “Perché la pallacanestro? per dei motivi che per me sono solidi: è uno sport di squadra dove potevi condividere con gli altri sia la gioia della vittoria che la tristezza della sconfitta, la condivisione con le compagne, stare insieme e condividere. Ho scelto quello che proprio mi dava tanto da quel punto di vista, quello che mi rendeva felice e soddisfatta. Anche l’atletica mi piaceva, ma essere da sola non mi completava”. Senza sapere nemmeno cosa fosse un canestro, la curiosità di una bambina di Vicenza del ’54 si trasformò in una passione, in un viaggio che l’avrebbe portata a vincere 10 scudetti (Torino ’79, ’80 e Vicenza ’69 e dall’82 all’88) e 6 coppe dei Campioni (Torino ’80, Vicenza ’83 e dall’85 all’88).

Chi era la Gorlin giocatrice? "Era una persona con varie fasi. Una Gorlin giovanile, talentuosa e con tanta voglia di emergere, ma anche caratterialmente abbastanza fragile che è stata aiutata da allenatori e compagne entrando nella fase della sicurezza. In campo riuscivo a scaricare tutto quello che accumulavo nella vita normale dove ero abbastanza timida, infatti non ero estroversa o aggressiva, mentre in palestra mi trasformavo e tiravo fuori quello che effettivamente al di fuori non davo. Grazie al basket, allo sport e di chi mi è stato vicino sono diventata una giocatrice con la testa, che giocava per la squadra e che dava moltissimo”.

La Gorlin ha iniziato a crescere talmente tanto da arrivare ad indossare l’ambita maglia azzurra, con 234 presenze, 10 anni da capitano dell’Italia e una storica qualificazione ai Giochi Olimpici Mosca 1980 quando solo sei squadre potevano accedervi. “Per chi fa sport, giocare con la maglia della nazionale è un sogno. Il fatto di rappresentare la tua nazione in giro per il mondo e difendere i propri colori contro altre squadre dà quella carica che il club non dà. Inoltre, anche l’essere scelta tra altre persone dà ancora più responsabilità. Stesso discorso per il capitano. Io, nell’ultima fase della mia carriera sportiva, ero piuttosto carismatica e non mi è costata fatica perché me lo sentivo. In realtà è stato Bruno Arrigoni, a Torino, a farmi capire l’importanza del ruolo da capitano, perché inizialmente il capitano per me era quello che firmava il foglio. Con Arrigoni sono cresciuta come persona e ho cercato di interpretare quel ruolo non tanto per me quanto per le mie compagne. Il capitano è un ruolo come gli altri, ma deve essere un tipo carismatico”.

Giocare il basket del passato e vivere nelle vesti da dirigente di una forte squadra di A1 femminile, quale Lucca, il basket di oggi potrebbe portare a facili paragoni: “Non si può fare il confronto tra basket di una volta e basket di ora, perché è concepito in modo diverso. In realtà è proprio la società ad essere cambiata e quindi anche lo sport. È vero che la palla deve finire nel canestro, ma anche i metodi di allenamento sono cambiati, non so se meglio o peggio. Posso però dire, dalla mia esperienza da allenatore minibasket, come i ragazzi che ora si avvicinano al basket hanno pochissima capacità motoria e coordinazione”. La società odierna ha effettivamente cambiato il momento del gioco per un bambino: “La mia generazione era sempre a correre nel cortile, quando si entrava in palestra veniva insegnato direttamente il gioco del basket. Ora, quando un bimbo arriva in palestra, bisogna insegnargli tutto: i bimbi di oggi sono chiusi in appartamento davanti alla tv, stanno a scuola tante ore e nei cortili non ci possono stare. Insomma, manca la palestra naturale. Oggi la società è cambiata. Se un bimbo non corre, non salta e non lancia la palla al di fuori del campo, risulta difficile muoversi in palestra con una o due volte la settimana di minibasket oltre ad insegnargli il gioco vero e proprio”.

Dopo aver appeso le scarpe al chiodo, Lidia non ha affatto abbandonato la palestra e la palla a spicchi, infatti dopo un periodo nel minibasket, è da anni general manager di Lucca. “Mi è sempre piaciuto organizzare e una squadra va bene se il contorno che circonda la squadra e alla società va altrettanto bene. Ho pensato quindi di mettermi dietro una scrivania e di far quadrare tutto quanto: trasferte, visite mediche, ma soprattutto dare alle ragazze una persona di riferimento. Diventare dirigente è stato questo, far parte di una famiglia".

Fin da quando Lidia giocava, vinceva scudetti e coppe, il basket femminile è sempre stato visto con un occhio diverso dal suo corrispettivo maschile: “In Italia, le donne nello sport vengono considerate molto poco. Anche nella pallacanestro. È dagli anni in cui gioco che è così. È anche vero che noi siamo un movimento con pochi numeri, ma io resto dell’idea che avere pochi numeri è un problema di cambiamento e scelta da parte delle ragazze. Il nostro è uno sport molto più fisico, è chiaro che una mamma, magari amante della danza, porterà la figlia a fare quello sport. Ma, a mio avviso, uno sport con un po’ di agonismo e aggressività serve anche alle donne. Cosa fare affinché qualcosa cambi? Incrementare i settori giovanili attraverso anche la scuola: “Il basket femminile ha pochi numeri, è seguito poco e purtroppo vive in un ambiente chiuso facendo fatica ad aprirsi all’esterno. Se il basket femminile non riesce a uscire dal suo guscio, saremo sempre gli stessi e bisogna cercare di far aumentare il numero di bambine. C’è anche da dire che le stesse società sono lasciate sole, per non parlare della solita questione economica: chi ha una prima squadra, se avesse più forza economica, farebbe qualcosa per i settori giovanili attraverso soprattutto le scuole, sin dalle materne. Purtroppo, in Italia c’è il forte problema delle strutture. Ho fatto una serie di lezioni nelle scuole elementari, lavorando negli atri e senza canestri con le maestre che uscivano dalle classi chiedendomi di far urlare meno i bimbi. Dovremmo seguire la Francia e la Spagna. Nonostante in prima squadra ci siano parecchie straniere, la Spagna sta puntando continuamente su vivai buonissimi che danno degli ottimi risultati alla loro nazionale. In Italia, allora, il problema parte da noi.

Nel 2010, Lidia Gorlin è ufficialmente entrata nell’Italia Basket Hall of Fame trasformando la sua carriera in storia. “Il basket per me è una grande passione nata guardando un canestro, senza nemmeno sapere cos’era. È stato un modo per conoscere tanta gente e avere tante amiche, un modo di socializzare, un modo per conoscere il mondo, infatti all’epoca se non avessi giocato non avrei potuto vedere il mondo. Al basket devo dire grazie perché ha formato il mio carattere: ero timida, non riuscivo a parlare con tutti e poi lo sport mi ha aiutato a trovare me stessa, a capire le difficoltà che potevo superare”.

Capelli biondi e “occhi da tigre”, come ricorda la compagna Mara Fullin, velocità e intelligenza cestistica, visione di gioco e coraggio, qualità che non si dimenticano di avere, così come quelle emozioni e sensazioni che rimarranno per sempre nel cuore di una vera giocatrice: “Sono state tante le cose che mi hanno emozionata. Potrei dire il primo scudetto vinto giocato, perché il primo in assoluto l’ho vinto in panchina guardando le altre giocare. Anche gli altri scudetti sono stati belli perché vissuti con persone e momenti diversi. Potrei dire la prima Coppa europea ma tutte le vittorie sono state belle. Forse la vittoria che mi ha emozionata di più è stata quella per andare alle Olimpiadi, il sogno di ogni atleta. Riuscire a qualificarci è stato meraviglioso sia per la squadra che per ognuna di noi. A livello individuale, invece, lo scudetto vinto a Pesaro contro l’Algida Roma nel 1980 perché, oltre a fare 27 punti, ho giocato bene nonostante fossi stata ferma per un problema al ginocchio scendendo in campo con il palazzetto pieno”.

Per una carriera come quella della Gorlin, è importante soprattutto trasmettere qualcosa a queste nuove generazioni, le quali si trovano spesso troppo perse: “Bisogna trasmettere alle nuove generazioni l’entusiasmo, la voglia di andare in palestra, di allenarsi, di migliorare, lo spirito di squadra e, a livello individuale, la voglia di imparare sempre e di divertirsi andando in palestra. Se riusciamo a trasmettere questo, non riusciremo mai a perdere nemmeno un’atleta. Quello che mi piace e che vorrei trasmettere è proprio questo, come la palestra sia anche una palestra di vita”.

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