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INFINITA MACCHI

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March madness

March madness

COVER STORY di GIULIA ARTURI

ALLA SOGLIA DEI 40 ANNI, CHICCA APRE IL SUO ROMANZO PER NOI, PARTENDO DA NAPOLI: “UNO SHOCK PER TUTTI”. E POI IL DERBY CHE VERRÀCONTRO SCHIO, QUEI DUE MALEDETTI PALLONI-SCUDETTO PERSI A COMO,LA LEZIONE DI LUCCA, IL RUOLO PESANTE DI GUIDA IN CAMPO

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Chicca, tu sei la “signora del basket italiano” per classe, vittorie ed età: non ti fa un po’ sorridere la definizione?

“Assolutamente sì! Sono felice certo, ma quando penso a come sono, mi vedo ancora fare le cazzate in campo, come se il tempo non fosse passato. Faccio fatica ad immaginarmi in una descrizione del genere, non mi ci ritrovo”.

Non esiste una serie A senza di lei, almeno per quanto mi riguarda. Quando la pallacanestro era solo un’aspirazione, andavo a Como, al Palasampietro, per veder giocare i mostri sacri, tra cui una giovane e spettacolare Macchi. Poi, incredibile, è diventata un’avversaria: così sullo scout degli allenatori prima di affrontare la sua squadra, si potevano trovare le sue caratteristiche nella versione lunga (“tiro da tre, palleggio arresto e tiro, entrata, rimbalzo, destra, sinistra, passaggio”) o nella versione breve (“tutto”). Ed infine oggi aggiungo ai tanti che, intervistandola, hanno toccato l’argomento “futuro”. Ma andiamo per ordine, c’è prima il presente: a 39 anni, dopo il fallimento di Napoli, Chicca Macchi si è sistemata a Venezia, pronta a rincorrere il suo decimo scudetto.

“Sto cercando di farle tutte - sdrammatizza -. Il fallimento a metà stagione mi mancava (risata). La vicenda di Napoli è stata uno shock, vissuto da noi giocatrici anche come una sconfitta personale. Ma dopo qualche giorno abbiamo realizzato che avevamo fatto tutto quello che potevamo. Da mesi mi ero abituata a vivere alla giornata; nel giro di un paio di giorni sono arrivata a Venezia, dove, al contrario, c’è un’organizzazione impeccabile; che scombussolamento! (risata). Sono molto contenta, ma all’inizio ero un po’ spaventata, non è facile inserirsi in una squadra prima in classifica, che lavora insieme da sei mesi, con dei meccanismi e delle rotazioni ben precise. Mi rendo conto di essere una presenza un po’ ingombrante, lo dico sempre. È difficile da assimilare. Prima di capire cosa posso dare alla squadra ci vuole un po’ di tempo”.

In tanti vorremmo sapere come si fa a mantenersi come te: se vuoi condividere il segreto noi ti ascoltiamo.

“Di recente mi hanno chiesto dove mi vedevo tra dieci anni. È la stessa domanda che mi ero fatta quando ne avevo 30. Riflettevo: famiglia, figli, amici. Poi in un attimo ti accorgi di come il tempo è volato, e sono ancora qui. La gestione della mia persona fuori dal campo è fondamentale, sono sempre stata molto rigorosa, fin troppo forse. Poi giocare sempre in squadre con grandi ambizioni mi ha agevolato, l’appetito vien mangiando come si usa dire. Arrivati ad un certo punto poi, non se ne può più fare a meno”.

L’obiettivo della Reyer è lo scudetto. Sulla tua strada potresti incontrare Schio, che effetto ti fa?

“Mi fa strano, ma lo scoglio l’ho già dovuto superare. Sono arrivata di venerdì, e la partita del week end era proprio contro Schio. Avevo parlato con il coach e non avrei dovuto giocare; non c’era stato neanche il tempo di allenarmi, ero d’accordo. Ero tranquilla, me la sarei guardata dalla tribuna. Ma poi improvvisamente il contrordine: il presidente voleva vedermi in campo! È una partita che sento particolarmente, non posso negarlo, e volevo arrivarci nelle condizioni di riuscire a giocarla al mio miglior livello; ma così almeno mi sono dovuta buttare senza avere il tempo di pensarci su troppo”.

Ti pesa non giocare più 30 minuti ed avere un ruolo diverso?

“L’anno scorso a Schio mi è pesato, sì. Cambia tanto anche nel modo di impattare una partita. Poi, a dire la verità, nei momenti importanti ero sempre in campo, ed è quello che conta. Si possono giocare anche 35 minuti, ma se poi sei in panchina nei 5 decisivi… In verità, durante la prima metà di campionato con Napoli, ne giocavo 35 (risata). Comunque non sono ingenua: giocare come voglio io, ad una certa intensità, concentrata in un certo modo, so che non è più possibile ad un certo minutaggio. Anche in questa nuova avventura voglio arrivare ad essere in campo nei momenti decisivi”.

Per sistemare in bacheca nove scudetti, di minuti cruciali bisogna averne giocati tanti. Se è facile celebrare i trionfi, per Chicca è importante anche ricordare i fallimenti.

“A Como perdemmo lo scudetto contro Taranto in gara 5 in casa. Io buttai via due palloni sanguinosi sul finale di gara. Il presidente Pennestrì me lo rinfacciò per i successivi quattro anni, avevo vanificato una stagione di lavoro per superficialità. All’inizio la presi un po’ alla leggera, quando sei giovane pensi di avere tante altre occasioni di rifarti. Quando poi mi sono resa conto che bisognava ricostruire tutto da capo, è stata una batosta. A conti fatti è stato un crocevia della mia carriera fondamentale: da quel momento voltai pagina, cambiai mentalità. Sentirmelo ricordare così spesso da Pennestrì, mi ha preparato ad arrivare pronta quando contava”.

A proposito di presidenti, hai avuto forse quelli più “vivaci” nella storia del basket femminile, cioè Pennestrì, Cestaro e ora Brugnaro. Cosa li accomuna?

“Al mio esordio casalingo con Como, stavamo perdendo di 5-6 punti all’intervallo, era una partita qualsiasi. Lui entrò in spogliatoio e ribaltò un tavolino. Mi chiesi dove fossi capitata. A Cestaro non servivano questi gesti, gli bastava uno sguardo per farti capire cosa pensava. Anche Brugnaro, che ho vissuto ancora poco, ma che conosco da avversaria, mi sembra un presidente sanguigno. Sono tre personaggi importanti, con personalità forti. Io preferisco una figura di questo genere, piuttosto che un presidente passivo, a cui va bene tutto”.

Numero 3, numero 4, ne hanno discusso un po’ tutti nel corso del tempo. Macchi che numero è davvero?

“Macchi è un numero 1, un playmaker! Il dibattito si protrae da tempo, e mi ha sempre fatto sorridere. Quando a Como arrivò Lambruschi da 3 sono diventata 4, poi di nuovo 3, e via così. La verità? Mi interessa poco che numero sono, voglio stare in campo. E davvero ho giocato anche playmaker, con Sandro Orlando a Schio. ‘Tu sei matto’, gli dicevo. Ma effettivamente dall’alto del mio 1.87 i passaggi mi venivano piuttosto facili (risata). Divertimento è la parola chiave. È quello che mi fa paura quando mi fanno la fatidica domanda ‘quando ti ritiri?’: il fatto è che io mi diverto ancora tutti i giorni. Certo, è un bene, ma c’è anche un altro lato della medaglia: sembra non arrivare mai quel momento definitivo in cui dico ‘sono stanca, non ce la faccio più.”

Ma quindi non esistono dei momenti di stanchezza mentale nella vita di Chicca Macchi?

“Scherzi? Ma certo che ci sono! Mi è capitato spesso, durante la stagione, di affrontare almeno un paio di situazioni di crisi. Non sono un robot. Per esempio, l’anno scorso a Schio ad un certo punto il pensiero era proprio ‘basta, non ce la faccio più’. E in questi frangenti la cosa veramente difficile era che non riuscivo a fare le cose come avrei voluto”.

E come ne esci? Da sola o ti appoggi agli affetti?

“Da sola, sempre. Quando vedo ragazze giovani che vanno in crisi perché non entra il tiro, perché non si sentono al massimo quel mese, senza riuscire a venirne fuori, dico che lo spunto deve arrivare da loro stesse. Certo, gli affetti contano, aiutano. Io quando ho bisogno di chiudermi in me stessa vado a Varese, a casa, e mi sento protetta. Ma quando entri in una spirale negativa, non c’è nessuno che può uscirne al posto tuo: queste situazioni sono dei momenti di crescita”.

Tornando a Napoli. Cosa vuoi raccontarci di quei momenti?

“La forza per superare tante problematiche quotidiane era il gruppo. In tanti se ne sarebbero andati subito, ma noi l’abbiamo sempre buttata sul ridere, per cercare di sdrammatizzare. È stato tutto un po’ strano: l’inizio zoppicante, le straniere si fermavano quando non ricevevano il bonifico con lo stipendio. Noi invece, le solite ‘sfigate’ italiane, siamo andate avanti. Tutte nel contratto avevano la clausola per fermarsi, ma nessuno l’ha fatto. Alla fine eravamo noi a metterci la faccia ogni domenica, non aveva senso non allenarsi. C’è stato un momento in cui sembrava che la situazione potesse sistemarsi, sino al crollo finale, quasi improvviso. Sì, se ne parlava, ma poi è successo tutto in un attimo. Eravamo quarte giocando solo con le italiane, c’erano ambizioni. Per evitare condizioni del genere ci dovrebbero essere molti più controlli, quelli reali. È stato un danno per tutto il movimento, e ha anche falsato il campionato, per quanto riguarda il discorso salvezza”.

Il futuro ti spaventa o ti incuriosisce?

“Mi incuriosisce molto. Inizialmente pensavo che, una volta chiusa la carriera da giocatrice, mi sarei completamente staccata dalla pallacanestro. Ad esempio, d’estate, nei tre-quattro mesi senza campionato, posso stare tranquillamente senza vedere basket, anzi, non ne voglio neanche sapere. Arrivavo ad un punto di sovraccarico, dopo stagioni lunghe, e dovevo staccare. Pensavo che mi sarebbe piaciuto lavorare in un bar ad esempio; insomma tutto tranne che allacciarmi le scarpe e fare allenamento. Ultimamente il mio pensiero sta cambiando: vedendo quello che fa Roberta Meneghel, mi accorgo che quella tipologia di lavoro mi affascina. Mi piacerebbe riuscire a portare quello che ho vissuto e imparato in questi 25 anni all’interno di un progetto, per aiutare chi ha appena iniziato”.

Argomento social. Sei sbarcata da non moltissimo su Instagram, come ti rapporti con questo mondo? Ti diverte?

“All’inizio mi tenevo a distanza. Sono molto spaventata da Facebook, mi sembra troppo invadente. Il presupposto è che la mia vita è sempre stata messa in piazza in qualsiasi momento, non c’era bisogno di aggiungere anche i social. Basta una ricerca su Google per trovare tutte le scemenze che ho combinato da vent’anni ad oggi. Si è sempre parlato di me appena muovevo un passo, non volevo amplificare questa tendenza. Instagram invece mi diverte, ho scoperto esserci un mondo dentro e sono sempre curiosa di scoprire qualcosa di nuovo”.

Da quando sei sbarcata sui social, il tuo lato goliardico lo può intuire anche chi ti conosce poco. Qual è stato il tuo anno più divertente di pallacanestro?

“Il primo anno a Schio. Credo di aver detto la prima parola in spogliatoio dopo qualche mese: arrivavo in un gruppo che aveva già vinto, entrai con i piedi di piombo. Poi da gennaio, con Betta Moro, è stato fantastico. Lei per me è una seconda sorella. Abbiamo vinto tutto, quindi anche dal punto di vista sportivo è stato super, ma l’atmosfera e la compattezza del gruppo si trova raramente”.

L’ultima volta che ti sei arrabbiata sul serio?

“Mi viene in mente la sconfitta a Lucca in gara 3, nel 2017. Quando perdemmo quel rimbalzo che mandò la partita al supplementare, ero indemoniata. È stata la dimostrazione che i dettagli fanno la differenza. Per questo in allenamento insisto con le mie compagne perché l’impegno sia costante, sino a farmi un po’ detestare. Io pretendo molto da me e dagli altri. Ogni tanto sbaglio, mi rendo conto che non tutti possono o vogliono dare sempre il massimo, ma per arrivare in fondo bisogna fare anche le cose scomode. Ho incontrato anche chi mi ha risposto che per me era facile fare così, perché ero forte. Non è questo il punto: se lavori e stai concentrata in allenamento, è sicuro che qualcosa di buono ne esce. Così si crea la mentalità per vincere. La tensione degli attimi decisivi la sento anch’io, ma se sei abituata a viverla, riesci a gestirla”.

L’ultima volta che qualcuno ti ha stupito in senso positivo?

“Torno sempre a Lucca: una squadra che costava meno di tutte le altre, con il lavoro e l’entusiasmo può arrivare a vincere uno scudetto. Io a Schio avevo tutto, ma poi arriva chi ha più fame di te e il resto non conta più”.

Due nomi di under 23 su cui giureresti un avvenire?

“Ho visto giocare Panzera e mi sembra che poche ne nascano così, anche dal punto di vista fisico. E su Zandalasini penso non ci sia più niente da aggiungere, è il presente. Ho sentito dire ‘Zanda è la nuova Macchi, ora stiamo aspettando la nuova Zanda’. Un attimo, mi sembra che stiano correndo un po’ troppo tutti! Io ringrazio che nella mia cronologia di presidenti ho avuto per primo Pennestrì: mi ha sempre tenuto con la testa schiacciata al pavimento, anche quando le cose andavano bene. Non lasciare il tempo alle giocatrici di crescere e di sbagliare è controproducente”.

Il canestro dei tuoi sogni l’hai già segnato?

“Forse avrei dovuto chiudere la carriera dopo quel famoso canestro ma non era il momento. Spero sempre che il più bello debba ancora arrivare, ma quello rimane per ora il più importante. Vediamo però cosa ci regala il futuro… ancora (risata)”.

Stiamo parlando dei due punti che sono valsi uno scudetto, segnati a 3” dalla fine di gara 5 contro Ragusa, nel 2015. Un sottomano rovesciato con un terzo tempo in allontanamento dal ferro. Un canestro da campionessa, che ci racconta anche un po’ del carattere anticonformista, mai banale, scanzonato di Chicca. Le interviste rilasciate in carriera ormai non si contano, allora l’ultima autodomanda la lasciamo a lei stessa.

“Mi chiederei se penso di essermi divertita abbastanza in tutti questi anni, o se è stata una perdita di tempo. Nel mondo dello sport hai successo, sei qualcuno, poi quando cala il sipario a nessuno interessa più niente che hai vinto nove scudetti. Diventi una persona normale, e paradossalmente dopo 25 anni di carriera devi ricominciare da capo. Diventa fondamentale allora la domanda: ‘Ne è valsa la pena?’ Si tratta di una grossa fetta della vita che ho passato con le scarpe allacciate”.

E la risposta?

“Assolutamente sì, lo rifarei altre centomila volte, comprese le scelte che ho fatto, giuste o sbagliate che fossero”.

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