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NOTE AZZURRE SU SCIAMANESIMO
NOTE AZZURRE SU SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
Usiamo così spesso la parola ‘scienza’ e il suo termine correlato, l’aggettivo ‘scientifico,’ che certamente ci stupiremmo se qualcuno ce ne domandasse il significato. E fortunatamente nessuno ci rivolge la domanda ‘cos’è la scienza?’, altrimenti ci troveremmo probabilmente nello stesso imbarazzo di Agostino, il vescovo di Ippona, davanti a una domanda simile.
Intorno all’anno quattrocento, Agostino ha scritto che sebbene credesse di sapere cosa fosse il tempo, quando la domanda ’cos’è il tempo?’ gli era stata rivolta direttamente si era trovato a corto di risposte. Ed effettivamente, la definizione di una nozione è questione tutt’altro che banale: prova ne sia il fatto che solo a metà del secolo scorso Ludwig Wittgenstein si è rivelato in grado di placare l’ansia di Agostino (e la nostra) in proposito.
Poiché Wittgenstein voleva che il suo ragionamento sulla definizione fosse chiaramente comprensibile, ha sostituito una nozione evidentemente complessa come quella di tempo con quella familiare di gioco. Lo scrittore viennese ci ha ricordato che nelle nostre conversazioni usiamo la parola ‘gioco’ in modi diversi. Per esempio, un gioco di parole è certamente differente dal gioco di squadra dei partecipanti ad uno stesso progetto: una definizione che tenesse conto del primo senso della parola ‘gioco’ escluderebbe il secondo.
Wittgenstein ha fatto leva sulla nostra stessa esperienza per mostrarci che è impossibile catturare entro un’unica definizione anche una parola apparentemente banale come ‘gioco.’ Questo non impedisce che, se necessario, si possa definire con precisione l’uso della parola ‘gioco’ in un ambito specifico, come quello, per esempio, dei giochi di parole, o dei giochi di squadra: con una certa ironia, Wittgenstein ha chiamato ‘gioco linguistico’ la pratica del linguaggio in ciascuno di questi campi particolari.
Se dunque qualcuno ci domandasse ‘cos’è la scienza?’ potremmo rispondere, col sostegno autorevole di Wittgenstein, che una qualsiasi risposta a questa domanda non solo non sarebbe ragionevole, ma che escluderebbe aspetti sostanziali della ricerca scientifica. 147
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Se invece ci occupassimo di un ambito specifico di ricerca, l’uso della parola ‘scientifico’ sarebbe precisamente riferito a un insieme di procedure e criteri adottati dai ricercatori. Potremmo dire che questi ricercatori nel corso delle loro attività condividono un gioco linguistico: proprio questa condivisione permette loro di interagire scambiando informazioni su metodi e risultati delle loro ricerche.
Per esempio, un ricercatore come Antonio Damasio lavora a mostrare nella sua ricerca neurologica che le nostre esperienze emotive sono essenziali per permetterci di prendere decisioni ragionevoli. Nel suo gioco linguistico, Damasio usa il termine ‘marcatore somatico’ per indicare la traccia neurologica della nostra esperienza emotiva: secondo il ricercatore portoghese, sono proprio i marcatori somatici che orientano le nostre scelte.
Un altro esempio è quello di Rick Strassman, che ha studiato come una sostanza organica prodotta nel cervello dei mammiferi, la N, N-dimetiltriptammina o DMT, provochi una serie di effetti che definisce psichedelici: questi effetti vanno dalla rievocazione dell’esperienza della nascita all’anticipazione di quella della morte, dalle psicosi alle esperienze mistiche, e includono anche l’esperienza del cosiddetto rapimento alieno.
Un terzo esempio è quello di Michael Winkelman, che ha riconsiderato le cerimonie sciamaniche non solo come interventi terapeutici, ma anche come evidenze neuroteologiche. In questo caso, Winkelman si è appropriato del termine ‘neuroteologia,’ che era apparso in precedenza come parte di un altro gioco linguistico: quello del narratore Aldous Huxley nel suo ultimo romanzo Isola, pubblicato nel 1962. Negli anni Ottanta del secolo scorso il termine ‘neuroteologia,’ soprattutto per iniziativa di Laurence McKinney, era poi diventato la definizione di un nuovo campo di studi sugli aspetti neurologici delle esperienze religiose.
Abbiamo visto che Wittgenstein ha evidenziato la varietà dei giochi linguistici: purtroppo, la sua morte prematura gli ha impedito di esplorare in dettaglio le loro relazioni. Ce ne ha però lasciato un’immagine illuminante: sebbene gli usi della parola ‘gioco’ siano tanto diversi, ne riconosciamo le ‘somiglianze di famiglia.’
Wittgenstein ha argomentato che i membri di una famiglia ci sembrano tutti somiglianti tra loro perché ciascuno ci ricorda almeno alcuni degli altri membri, ma non tutti: allo stesso modo, ciascun gioco ci ricorda almeno alcuni degli altri giochi, ma non tutti.
Se confrontassimo i giochi linguistici di neuroscienziati come Damasio e Strassmann e di un antropologo come Winkelman, non sarebbe difficile notare le somiglianze di famiglia tra i loro usi della parola ‘coscienza,’ specialmente nella frase ‘stati alterati di coscienza,’ o ASC nel suo acronimo inglese. Prima però di prendere in esame le somiglianze di famiglia tra alcuni degli usi contemporanei della parola ‘coscienza,’ potrebbe essere utile tracciarne la traiettoria storica.
Il termine italiano ‘coscienza’ deriva dal latino conscientia, che risulta dalla combinazione delle voci cum, con, e scientia, conoscenza: ne consegue il senso di una conoscenza condivisa. Sul modello del-
PINEALE 2 | L’epifisi detiene un ruolo considerevole nel campo filosofico e delle dottrine esoteriche. Alcuni lo identificano come il terzo occhio, l’occhio di Shiva della tradizione induista, traccia atrofizzata di quell’organo della visione spirituale.
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la parola greca syneidēsis, che è costruita alla stessa maniera, la parola conscientia ha poi finito per esprimere già nell’antichità classica la condivisione con sé stessi di una conoscenza spesso negativa: quella di una cattiva azione commessa.
Nei testi dei moderni ricercatori scientifici, la parola ‘coscienza’ ha poi perso ogni riferimento alle nozioni etiche di bene e male che la caratterizzano ancora nei discorsi religiosi, morali e nel nostro lessico quotidiano. Almeno fino alle ricerche di Damasio, gli usi scientifici della parola ‘coscienza’ si sono generalmente riferiti all’esercizio della cognizione di sé e del mondo, mediante l’uso consapevole della percezione.
Di conseguenza, la nozione di ‘stati alterati di coscienza’ è stata spesso usata per indicare condizioni di distorsioni cognitive. Eppure, la locuzione ‘stati alterati di coscienza’ ha cominciato a circolare alla fine dell’Ottocento in relazione all’esercizio dell’ipnosi, che i medici francesi stavano allora introducendo nella loro pratica clinica: e la capacità dell’ipnotizzatore di indurre comportamenti nell’ipnotizzato certamente investe una sfera più ampia della mera cognizione e delle sue alterazioni.
In realtà, già nel secolo precedente Anton Mesmer aveva introdotto la pratica dell’ipnosi nella cultura europea: ma poiché Mesmer aveva giustificato la sua pratica con la nozione di fluido magnetico, che era stata considerata inattendibile dalle autorità scientifiche dell’epoca, l’ipnosi stessa era risultata scientificamente compromessa. Étienne Félix d’Henin de Cuvillers, un seguace di Mesmer e delle pratiche mesmeriche che però non condivideva la sua teoria del fluido magnetico, probabilmente per questo aveva poi cominciato ad usare negli anni Venti dell’Ottocento l’aggettivo ‘ipnotico’: lui stesso aveva notato che quest’ultimo termine era già stato registrato nell’edizione del 1814 del Dizionario dell’Accademia di Francia.
Nel corso dell’Ottocento, medici come Paul Broca, Jean-Martin Charcot e Pierre Janet avevano poi fatto ricorso all’ipnosi sia come anestetico sia come strumento di indagine: è in quest’ultima veste che il giovane Sigmund Freud aveva cominciato a sperimentarne gli effetti. Freud ha successivamente abbandonato l’ipnosi per una nuova pratica di intervento, che conosciamo sotto il nome di psicoanalisi: e ci ha lasciato una descrizione della relazione tra ipnosi e psicoanalisi sotto forma di una brillante similitudine.
Il medico viennese ha ripreso un confronto tra pittura e scultura che Leonardo da Vinci aveva derivato da Leon Battista Alberti: mentre la pittura agisce ‘in mettere,’ ovvero con l’aggiunta di strati di colore, la scultura opera ‘in levare,’ cioè mediante la sottrazione del materiale superfluo. Freud ha affermato che l’ipnosi agisce, analogamente alla pittura, aggiungendo ingiunzioni e suggestioni: al contrario, proprio come la scultura, secondo Freud l’analisi scava nella psiche del paziente per portarne alla luce elementi altrimenti inaccessibili.
Non è difficile riconoscere dietro questo nitido parallelo che privilegia l’analisi rispetto all’ipnosi il pregiudizio moderno – ma di chiara derivazione platonica – che considera obiettivo dell’attività di
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ricerca la realtà così com’è, senza aggiunte da parte del ricercatore.
Circa trent’anni orsono, questo pregiudizio è stato esplorato in atto da Bruno Latour nel corso della sua indagine antropologica nei laboratori dell’istituto Salk (in cui Damasio è stato poi professore aggiunto). Osservando quotidianamente per due anni le attività della sua ‘tribù di scienziati,’ Latour ha potuto tracciare il percorso di identificazione di un nuovo composto, il peptide TRF (acronimo di Thyrotropin Releasing Factor, fattore di rilascio della tireotropina), un ormone secreto dal sistema nervoso: nel 1977, questo risultato è valso a Roger Guillemin, in quanto responsabile del gruppo di ricerca, il conferimento del premio Nobel per la medicina.
L’aspetto straordinario dell’inchiesta condotta da Latour è stato il suo rifiuto di adottare il punto di vista dei suoi oggetti d’osservazione, cioè gli scienziati: in questo modo, lo studioso francese ha potuto prendere le distanze dalla loro (e nostra) moderna presupposizione che l’attività di laboratorio miri a svelare una realtà finora inosservata. Latour ha invece minuziosamente esaminato l’impegno profuso dai ricercatori nell’ideazione e nella realizzazione di procedure, strumenti di laboratorio e criteri di identificazione ingegnosi e innovativi: tuttavia, mentre proprio questi nuovi strumenti, procedure e criteri hanno permesso l’identificazione dell’altrettanto nuovo composto TRF, il loro intervento (cioè l’intervento dei ricercatori stessi) è stato poi accuratamente rimosso dalla definizione dell’ormone.
Latour e Woolgar hanno così descritto lo svolgersi degli avvenimenti:
All’inizio i membri del laboratorio non sono in grado di determinare se le affermazioni siano vere o false, oggettive o soggettive, altamente probabili o abbastanza probabili. (...) Una volta che l’affermazione inizia a stabilizzarsi, però, avviene un cambiamento importante. L’affermazione diventa un’entità sdoppiata. Da un lato, è un insieme di parole che rappresenta un’affermazione su un oggetto. Dall’altro, corrisponde a un oggetto in sé che assume una vita propria. (...) In poco tempo, all’oggetto viene attribuita sempre più realtà e sempre meno all’affermazione sull’oggetto. Di conseguenza, avviene un’inversione: l’oggetto diventa la ragione per cui l’affermazione è stata formulata in primo luogo. (...) Allo stesso tempo, il passato si capovolge. Il TRF è sempre stato lì, aspettando solo di essere rivelato agli occhi di tutti.
In altri termini, l’ipotesi di lavoro – in questo caso, l’ipotesi che il composto TRF esista – è dapprima semplicemente un’affermazione dei ricercatori: a mano a mano, questa affermazione trova poi conferma negli esiti degli esperimenti di laboratorio concepiti a questo scopo. L’oggetto dell’affermazione, cioè l’esistenza del composto TRF, è dunque il risultato dell’attività di laboratorio: eppure, nelle descrizioni finali degli scienziati, l’esistenza stessa del composto sembra precedere e giustificare le loro affermazioni e la loro attività di ricerca.
A conclusione della loro ricerca sulla ricerca, Latour e Woolgar hanno sottolineato (anche scrivendo in corsivo) il carattere generale di questa dinamica:
La nostra argomentazione non è solo che i fatti sono costruiti socialmente. Intendiamo anche mostrare che il processo di costruzione prevede l’uso 151
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di alcuni dispositivi grazie ai quali tutte le tracce della produzione sono rese estremamente difficili da rilevare.
Latour e Woolgar intendono dire che le attività di ricerca si svolgono su un doppio binario: il primo è quello della produzione di nuovi fatti mediante l’uso di strumenti pratici e teorici spesso altrettanto nuovi; il secondo è quello della cancellazione delle tracce di queste attività di produzione, che vengono opportunamente occultate proprio come le scorie di lavorazione delle statue descritte da Alberti, Leonardo e Freud.
Un esperto del ramo, Michelangelo, ha messo in rima questo processo con altrettanta maestria:
Non ha l’ottimo artista alcun concetto ch’un marmo solo in sé non circonscriva col suo superchio, e solo a quello arriva la man che ubbidisce all’intelletto.
È solo per ragioni di chiarezza che infliggiamo a questo testo meravigliosamente sintetico una parafrasi in prosa: l’ottimo artista non ha concezione (concetto) di opera alcuna che un solo blocco di marmo non circondi insieme al materiale superfluo (superchio), e solo la mano che obbedisce all’intelletto la raggiunge.
Nei limpidi versi di Michelangelo, la parola ‘concetto’ svolge un ruolo simile a quello dell’entità sdoppiata di Latour e Woolgar: è al tempo stesso l’idea dell’artista e la sua manifestazione materiale nel cuore del blocco di marmo, che solo ‘la man che ubbidisce all’intelletto’ può arrivare a toccare. Come per l’ormone TRF, il ‘concetto’ di Michelangelo non solo precede la sua messa in opera, ma è anche già nel blocco di marmo prima che la mano (e gli utensili) dell’artista lo raggiungano. Nel caso di Michelangelo, questa duplicità è probabilmente l’effetto della nozione platonica di forma, che precede le sue manifestazioni specifiche: è quindi come ‘concetto,’ cioè come forma, che l’opera è già nel marmo.
È invece improbabile che Guillemin e la sua equipe di ricerca all’istituto Salk abbiano condiviso la familiarità di Michelangelo con i circoli neoplatonici fiorentini: eppure, la separazione operata dai moderni ricercatori tra l’identificazione dell’ormone TRF e il suo processo di produzione manifesta una somiglianza, se non proprio di famiglia, almeno di struttura con quanto affermato da Michelangelo e dai platonici in generale.
Proviamo a mettere a confronto l’operato dell’artista secondo Michelangelo con quello di Guillemin (come rappresentante dell’equipe di ricercatori da lui guidata) secondo Latour e Woolgar. Poiché Michelangelo sostiene che non ci sia forma scultorea che non possa essere contenuta in un blocco di marmo, l’attività dell’artista è solo lo strumento che permette alla forma di essere rivelata: naturalmente, a patto che questo strumento segua rigorosamente le istruzioni dell’autore della forma, ovvero l’intelletto dell’artista stesso.
Quindi, anche se la scultura come oggetto emerge fisicamente dal marmo solo al termine dell’intervento dello scultore, secondo Michelangelo la scultura come forma precede questo intervento: a tale proposito, potremmo usare le parole di Latour e Woolgar e dire che la scultura secondo Michelangelo
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condivide la condizione dell’ormone TRF, che ‘è sempre stato lì, aspettando solo di essere rivelato agli occhi di tutti.’
Per essere più precisi, bisognerebbe delimitare la portata temporale della parola ‘sempre,’ che nella frase precedente Latour e Woolgar usano retoricamente come un’iperbole: scrivendo ‘sempre,’ Latour e Woolgar non intendono attribuire ai ricercatori la supposizione che l’ormone TRF sia esistito sin dall’inizio dei tempi, ma solo da quando le condizioni evolutive hanno permesso al sistema nervoso umano di produrlo. Allo stesso modo, secondo Michelangelo il marmo racchiude la forma fin dal momento in cui l’artista la concepisce.
L’aspetto che apparenta l’operato di Guillemin e quello dell’artista michelangiolesco non è dunque l’eternità dei loro rispettivi oggetti – un composto chimico e una statua – ma la supposizione che sia l’uno sia l’altra fossero, per così dire, già lì prima delle operazioni (gli esperimenti e la scultura) che ne hanno poi permesso l’emergenza.
È come se l’attività pratica di scienziati e artisti, le loro lunghe ore passate al lavoro in laboratorio e nello studio, diventassero solo un dettaglio inessenziale di fronte al risultato finale dei loro sforzi. È certamente comprensibile che questo risultato – il composto, o la statua – dia un senso nuovo e compiuto al percorso della sua realizzazione: ma non è altrettanto comprensibile che questo percorso debba essere azzerato.
Al fine di rendere comprensibile l’azzeramento del percorso di produzione di ogni nuovo fatto scientifico, lasciamo per ora da parte lo scultore descritto da Michelangelo, e consideriamo un altro tipo di azzeramento, che si produce nel corso dell’avvicendamento di fatti e teorie scientifiche. Possiamo confrontare questo avvicendamento con quello di una serie di personaggi evocati dall’antropologo James Frazer.
Nella sua opera monumentale Il ramo d’oro, Frazer ha messo a confronto narrazioni di ogni tempo e di ogni parte del mondo. Proprio all’inizio del suo testo, Frazer ha ripreso da Strabone la regola che in epoca romana vigeva nel santuario di Diana a Nemi:
Un candidato al sacerdozio poteva accedere all’ufficio solo uccidendo il sacerdote, e dopo averlo ucciso manteneva l’incarico fino a quando non era lui stesso ucciso da qualcuno più forte o più abile.
Frazer ha arricchito quest’enunciato sobrio e agghiacciante con l’evocazione della ‘figura severa e sinistra’ del sacerdote che si aggira per il bosco ansioso ed armato; e apparentemente, né la terribile regola del tempio di Diana Nemorense né la sua sanguinosa applicazione sembrano avere molto a che fare con la pratica della ricerca moderna.
Per quanto la concorrenza tra moderni programmi di ricerca sia feroce, di certo l’avvicendamento di teorie e fatti scientifici non comporta spargimento di sangue. Eppure, a ben vedere questo ricambio incessante sembra seguire proprio la norma che regolava la sostituzione dei sacerdoti di Diana a Nemi: nella sua espressione lapidaria in latino, mors tua vita mea, ovvero la tua morte (è) la mia vita. 153
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Più precisamente, le moderne attività di ricerca scientifica mirano ad individuare nuovi fatti e nuove connessioni teoriche, la cui affermazione comporta l’obsolescenza di teorie e fatti precedentemente accettati e non compatibili con i nuovi risultati della ricerca. Quindi, se volessimo descrivere questa dinamica di sostituzione del vecchio col nuovo ricorrendo all’adagio latino citato in precedenza, sarebbe preferibile invertirne i termini: vita mea mors tua, ovvero la mia vita (è) la tua morte.
Potremmo dunque dire che mentre l’uccisione dell’officiante in carica produceva l’investitura del nuovo sacerdote di Diana, l’affermazione di nuovi fatti e teorie scientifiche oggi produce l’obsolescenza di teorie e fatti incompatibili con i nuovi. Sebbene la direzione dell’intervento causale sia nei due casi opposta, l’effetto di sostituzione sembra essere molto simile.
Certamente, mentre questo effetto era immediato nel cruento rituale Nemorense, nella sfera della ricerca scientifica risulta dilazionato dai tempi del dibattito accademico, e non è raro che interpretazioni rivali si contendano il campo anche a lungo.
Per esempio, nel secolo scorso Albert Einstein non ha mai acconsentito alle conclusioni che Niels Bohr traeva dalla nuova fisica quantistica: benché l’autore della teoria della relatività avesse sottolineato l’importanza decisiva della posizione dell’osservatore nella descrizione della simultaneità degli eventi osservati, egli non è mai riuscito ad accettare il fatto che modi diversi di interrogare la realtà potessero produrre diverse configurazioni della realtà stessa. Al contrario, Bohr ha evidenziato il ruolo di questa interrogazione, e ha considerato l’impossibilità di determinare contemporaneamente caratteristiche complementari di una particella subatomica come posizione e momento non come un limite della conoscenza umana, come Einstein suggeriva, ma come ‘una situazione nuova, non prevista dalla fisica classica.’ E anzi, mettendo a confronto relatività e complementarità quantistica, Bohr ha rilevato ‘sorprendenti somiglianze per quanto riguarda la rinuncia al significato assoluto degli attributi fisici convenzionali degli oggetti.’
Generalmente si considera che un articolo scientifico pubblicato da John Stewart Bell nel 1964 abbia posto fine alla diatriba tra Einstein e Bohr in favore di quest’ultimo, per quanto non siano mancati ulteriori strascichi della vicenda. Comunque, nelle ricostruzioni degli storici della scienza la compresenza di letture alternative del mondo fisico è considerata come una anomalia temporanea: potremmo per questo paragonarla ad un’altra compresenza, quella dei pretendenti al seggio di Pietro che le descrizioni successive hanno similmente ricostruito come eccezione alla regola.
Nel corso della storia della chiesa cristiana è infatti accaduto più volte che il ruolo di papa sia stato rivendicato contemporaneamente da due o più persone: la storiografia cattolica ha poi assegnato loro a posteriori il ruolo di papi o di antipapi. Se paragonassimo la posizione di questi personaggi storici a quella delle teorie scientifiche, ci accorgeremmo che accanto all’avvicendamento di papi e teorie riconosciute sussiste non solo la serie degli antipapi, ma anche quella delle teorie (e dei fatti) che non
CONNESSIONI | Una teoria asserisce che due particelle che hanno condiviso parte della loro storia rimangono, anche se allontanate, in contatto. Il big bang accumuna tutte le particelle dell’universo, dato che in quel momento eravamo un unico insieme. Possiamo quindi affermare che tutte le particelle sono connesse tra loro.
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sono riusciti ad ottenere il riconoscimento unanime della comunità scientifica.
Abbiamo già incontrato uno di questi casi: la pratica mesmerica dell’ipnosi, che la teoria del fluido magnetico elaborata da Mesmer a sua giustificazione aveva squalificato davanti agli esperti dell’epoca. Il successo raggiunto da Mesmer mediante l’induzione di stati di cosiddetto sonnambulismo non si era rivelato sufficiente ad ovviare al giudizio negativo sull’interpretazione più generale che Mesmer dava del suo operato. Questo giudizio, dunque, verteva meno sull’operato di Mesmer che sul modo in cui Mesmer lo presentava.
Fortunatamente, a differenza di quanto accadeva nel diciottesimo secolo, la comunità delle scienze mediche europee sembra oggi disposta a riconoscere l’efficacia di pratiche cliniche come l’agopuntura, nonostante la giustificazione tradizionale del suo operato ricorra alla nozione di flussi energetici: questa nozione non sembra essere meno distante del fluido magnetico di Mesmer dai criteri di costruzione del corpo umano della medicina europea.
L’integrazione dell’agopuntura tra le pratiche della medicina europea ha soprattutto motivazioni pragmatiche, e non mancano studi che indagano sulle possibili cause organiche della sua efficacia: la compresenza dell’agopuntura e di altre pratiche anestetiche riconosce semplicemente il fatto che diverse modalità di intervento sul corpo umano possono produrre reazioni simili, quali appunto l’anestesia. Tuttavia, non possiamo escludere la possibilità che l’agopuntura non operi secondo i criteri biochimici accettati dalla medicina europea, e che la sua interazione col corpo umano produca una configurazione metabolica non necessariamente assimilabile a questi criteri.
Naturalmente, l’ipotesi che le tecniche anestetiche europee attivino un percorso metabolico differente rispetto a quello attivato dall’agopuntura non esclude che quest’ultimo possa essere indagato secondo i criteri della biochimica: per esempio, la sperimentazione in vivo su soggetti animali, i topi di laboratorio, ha evidenziato una relazione tra l’intervento dell’agopuntura e la produzione di adenosina, un composto dall’importante funzione di neurotrasmettitore.
Mentre la stampa non specialistica ha salutato questi risultati come la scoperta del funzionamento dell’agopuntura, sarebbe più prudente (e meno semplicistico) accogliere questi studi meno come tentativi di spiegazione che di assimilazione ai criteri scientifici europei di un’attività dall’efficacia plurimillenaria quale l’agopuntura.
Abbiamo già ricordato che, a differenza delle pratiche mesmeriche nel diciottesimo secolo, l’interpretazione tradizionale dell’agopuntura al momento fortunatamente non impedisce alla medicina europea di riconoscerne l’efficacia. Non possiamo che compiacerci di questa nuova attitudine pragmatica della medicina europea contemporanea: e però, la relativa incompatibilità tra il suo approccio biochimico e l’interpretazione tradizionale dell’agopuntura ancora relega quest’ultima ad una funzione meramente ausiliaria.
Potremmo invece immaginare approcci terapeutici diversi sotto forma di linguaggi diversi, e costruire le loro relazioni come traduzioni da una sfera lingui-
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stica all’altra: in questo caso, proprio la nozione di traduzione da un linguaggio ad un altro potrebbe aiutarci a riformulare la relazione tra l’agopuntura, come espressione di una tradizione clinica extraeuropea, e la medicina europea corrente. A questo scopo dovremmo però entrare nel merito della nozione stessa di traduzione.
Per esempio, la traduzione di un testo cinese di agopuntura in un linguaggio europeo è un’opera di ricostruzione vera e propria: il traduttore si deve sobbarcare l’onere di coniugare verbi, declinare casi, generi e numeri, e inserire connettivi, oltre ad articolare sintatticamente il tutto. Un’opera analoga di decostruzione e ricostruzione del senso mediante l’opportuna sequenza di ideogrammi, o più precisamente di logogrammi, attende il traduttore impegnato nell’operazione inversa, da una lingua europea al cinese.
Apparentemente, questa duplice operazione è resa possibile dal fatto che entrambe le versioni del testo tradotto si riferiscono allo stesso argomento, ovvero, quello che dal medioevo siamo abituati a chiamare nelle lingue europee ‘significato’ del testo. Il termine latino significatus, su cui la parola italiana ‘significato’ è modellata, in epoca romana aveva invece generalmente un senso diverso, quello di ‘indizio’ o ‘segno.’ Per esempio, secondo Plinio il fatto che la fiamma di una lampada formasse una spirale o fluttuasse era segno (significatus) di venti in arrivo.
Quando a partire dal primo secolo il termine significatus ha cominciato ad essere associato all’uso delle parole, il suo senso si è rovesciato: da segno che indica, è diventato ciò che è indicato dalla parola. Due secoli dopo, Aulo Gellio si è espresso scrivendo che la particella latina ve ‘assume un duplice significatus’: così facendo ha confermato non solo il cambio di senso della parola significatus da indice a indicato, ma anche la trasformazione dell’indicato (o, nel nostro senso, il significato) in caratteristica della parola stessa.
Queste trasformazioni sono state il preludio dell’invenzione medievale del significato come ciò che sta dietro, per così dire, ad una qualsiasi espressione linguistica. La nuova nozione è stata poi utilizzata anche retrospettivamente, come esemplificato dalla traduzione inglese del testo biblico di Daniele: nel quattordicesimo secolo, John Wyclif ha reso la frase ebraica ‘il sogno e la sua interpretazione’ come ‘il sogno, e la relativa congettura o significato.’ Wyclyf ha qui equiparato il risultato di un intervento di interpretazione al significato come caratteristica dell’oggetto interpretato. In questa traduzione illuminante vediamo già applicata al significato del sogno di Daniele la condizione descritta da Latour e Woolgar dell’ormone TRF, che ‘è sempre stato lì, aspettando solo di essere rivelato agli occhi di tutti.’
Potremmo considerare questa condizione come un esempio di uno slittamento di senso più generale, che equipara un’azione umana al suo effetto finale. Questo slittamento di senso è evidente nel caso della traduzione di Wyclif, che ha equiparato l’attività di interpretazione del sogno al suo risultato, il significato. Al contrario, sia in Daniele sia nei suoi modelli greci solo l’interpretazione dava senso al sogno: e anche quando questa interpretazione si rivelava ingannevole, solo il corso degli eventi ne rivelava il senso proprio. 157
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Per esempio, in Erodoto il re Creso solo dopo la sua sconfitta aveva realizzato il senso della profezia che la sua impresa bellica avrebbe distrutto un impero: non quello del persiano Ciro, ma il suo. Per i greci (almeno fino a Platone) il senso che prevaleva in questa narrazione non era però quello della priorità cognitiva del significato della profezia, che non a caso era espressa in termini estremamente ambigui: era piuttosto il senso di un destino inevitabile che si sarebbe affermato indipendentemente dal suo possibile disvelamento. La tragica vicenda di Edipo non faceva che confermare questa dinamica inarrestabile.
Solo dal medioevo in poi i traduttori cristiani hanno innestato la nuova nozione di significato sui testi greci ed ebraici, modificandone il senso. Per esempio, nel 1584 il traduttore inglese di Erodoto di cui conosciamo solo le iniziali, B. R., ha aggiunto la parola ‘significato’ in riferimento ad un sogno; nel 1611 i traduttori della bibbia di re Giacomo si sono comportati allo stesso modo con il testo biblico di Daniele, e hanno reso la parola ebraica per ‘comprensione’ con ‘significato.’
La supposizione che dietro ogni parola ci sia un significato non è dunque il residuo di una concezione primitiva del linguaggio (come anche Wittgenstein sembrava congetturare): al contrario, la presenza della nozione di significato nei testi antichi è il risultato di una loro rilettura in chiave medievale e moderna.
Potremmo allora sospettare che solo una motivazione teologica abbia potuto sostenere la precedenza del supposto significato di una parola sulle sue espressioni e interpretazioni: quella della presenza di idee eterne nella mente del dio cristiano, sul modello delle idee platoniche. Questa presenza rimandava a sua volta alla tradizione ebraica, in cui Adamo era stato incaricato dal suo dio di nominare gli esseri viventi.
In questa tradizione, il senso proprio delle parole non poteva che precedere il loro uso nel linguaggio. Questa precedenza rendeva possibile l’operazione di traduzione da una lingua all’altra come l’effetto di una resa in forme diverse dello stesso senso: e spinta alle sue estreme conseguenze, come nella narrazione dello pseudo-Aristea, faceva sì che i settantadue traduttori del testo ebraico della bibbia ne producessero settantadue versioni greche esattamente identiche.
Non possiamo certo verificare l’identità delle settantadue versioni della bibbia in greco che ancora oggi chiamiamo ‘dei settanta’: possiamo però confrontare il testo greco di questa traduzione con l’originale ebraico. Se lo facessimo in dettaglio, potremmo accorgerci che ad una parola greca come diaspora corrispondono cinque diverse parole ebraiche, con cinque diverse sfumature di senso. O meglio, poiché la parola greca diaspora (inventata dai traduttori della bibbia dei settanta più di duemila anni fa) ha assunto poi la rilevanza che sappiamo, le differenze di senso tra le parole ebraiche che è servita a tradurre si è per noi ridotta a una sfumatura.
Possiamo osservare che mentre l’intervento dei traduttori ha forzato le cinque parole ebraiche e i loro sensi nel collo di bottiglia di un’unica parola greca inventata a questo scopo, gli usi successivi della parola diaspora ne hanno a loro volta moltiplicato
SMEMBRAMENTO 1 | È straordinario come, ovunque nel mondo, uno dei passaggi comuni nell’iniziazione sciamanica sia quello dello smembramento del corpo in tutte le sue parti, seguita dall’azione degli spiriti adiutori per la ricomposizione del corpo e dei nuovi organi. Il significato è la rinascita dell’individuo dotato di nuovi poteri. Qui è rappresentata la suggestione sudamericana.
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i sensi, che, come Khachig Tölölyan ci ricorda, oggi associamo a termini tanto vari quali ‘immigrato, espatriato, rifugiato, lavoratore ospite, comunità in esilio, comunità d’oltremare, comunità etnica.’
La nozione di significato come entità che precede la sua espressione non ci aiuta di certo a comprendere questi processi sia di riduzione sia di espansione del senso delle parole. Seguendo un suggerimento di Wittgenstein, sarebbe allora in genere preferibile fare riferimento all’uso di una parola piuttosto che al suo significato: e come abbiamo visto con la parola ‘gioco,’ sarebbero le somiglianze tra i suoi vari usi a permetterci di comprenderne il senso.
Ma se sono le somiglianze tra gli usi delle parole a illuminarci sul loro senso, allora queste somiglianze d’uso ci possono anche permettere di apparentare sensi espressi con lingue differenti. Tornando all’esempio del manuale di agopuntura e della sua traduzione in una lingua europea, potremmo allora riconsiderare ciò che garantisce la corrispondenza tra le due sequenze di logogrammi cinesi e parole europee.
Abbiamo visto che il significato comune che apparentemente garantirebbe la corrispondenza tra testo e traduzione richiede un vero e proprio atto di fede nella sua preesistenza. Al contrario, se le due sequenze di logogrammi e parole non sono che usi particolari dell’una e dell’altra lingua, è sufficiente mettere a confronto questi usi per valutarne la reciproca convertibilità. In altri termini, l’esito più o meno felice di una traduzione dipende meno dalla sua vicinanza al supposto significato del testo, che dalla somiglianza di due usi: quello del testo tradotto e quello del testo nella lingua originale. In questo caso, la traduzione europea del testo di agopuntura sarà più o meno riuscita a seconda della sua capacità di fare qualcosa di molto simile a ciò che il testo cinese fa.
Per questo la cosiddetta traduzione letterale di un testo, che si sforza di aderire al supposto significato di ciascuna parola, rischia di allontanarsi dal senso del testo anche più di una sua resa meno lessicalmente fedele. D’altra parte, abbiamo anche visto che una traduzione non letterale rischia di introdurre in un testo sensi a questo estranei, come, per esempio, la nozione di significato nelle traduzioni medievali e moderne di Erodoto e della bibbia.
Possiamo allora osservare che la buona riuscita di un’operazione di traduzione non può affidarsi a un criterio predeterminato semplicemente perché il confronto tra gli usi di due testi nelle rispettive lingue apre nuove possibilità d’uso, come nel caso della parola diaspora. Poiché questi nuovi usi modificano costantemente i sensi di parole e testi, una traduzione risulterà più o meno felice anche a seconda del suo contesto e dei suoi lettori.
Ma poiché le aspettative dei lettori possono discostarsi anche sostanzialmente dai sensi dell’autore, il successo di una traduzione può anche risultare da un uso del testo tradotto che si allontana da quello del testo originale: per esempio, la traduzione latina medievale del testo greco in cui Aristotele aveva descritto la funzione che imprime il movimento alle sfere celesti è stata letta a lungo come la descrizione (anacronistica) del dio cristiano come ‘motore immobile.’ Oggi cerchiamo di distinguere il testo aristotelico da quello dei suoi interpreti medievali: e però noi stessi non possiamo fare a meno di usare il
NOTE AZZURRE
nostro linguaggio corrente e le nozioni che implica nella lettura dell’uno e dell’altro testo.
In altre parole, potremmo dire che ogni nuova lettura opera come una sorta di traduzione del testo, cui aggiunge, per così dire, un nuovo strato di senso. Questo strato non elimina i precedenti ma li riconfigura, avvolgendoli come l’ultima di una serie di scatole cinesi. Se volessimo ulteriormente generalizzare, potremmo dire che ogni lettura, come ogni traduzione, continua per questo a produrre il testo stesso.
Se torniamo all’esempio della traduzione europea di un testo di agopuntura, dovremmo dunque ammettere che per quanto l’uso del testo tradotto possa essere paragonato con successo all’uso del testo originale, la nuova versione non potrà che aggiungere qualcosa alla precedente. Se dovessimo ricorrere alle immagini di Alberti, Leonardo e Freud, di certo sarebbe la pittura e non la scultura – l’aggiunta e non la sottrazione – ad offrirci un modello rappresentativo dell’operazione di traduzione, come anche, potremmo dire, delle nostre attività di scrittura e lettura in generale.
Potremmo dunque adottare l’immagine della pittura come operazione additiva per illustrare le nostre attività di scrittura e lettura. In questo caso, l’aggiunta di nuovi strati di senso non richiederebbe l’eliminazione degli strati precedenti, che verrebbero semplicemente più o meno ricoperti, per così dire, da quelli successivi. Se volessimo spingere oltre questo paragone, potremmo dire che i precedenti strati di pittura, anche se non direttamente visibili, continuano in qualche modo ad influenzare quelli successivi con la loro presenza volumetrica in forma di grumi, striature o semplice spessore. Ma in quest’immagine si rivelano i limiti della similitudine tra pittura e parole scritte, poiché l’aspetto cromatico, che caratterizza essenzialmente la pittura almeno fino alle avanguardie del Novecento, è solo parzialmente influenzato dai rilievi sulla superficie del quadro: questi rilievi possono quindi svolgere un ruolo solo molto parziale di memoria delle stratificazioni di colore precedenti.
Al contrario, le parole sono in grado di evocare una varietà di loro usi precedenti: Wittgenstein ricorre proprio al parallelo con la pittura per illustrare questa capacità evocativa delle parole, che secondo lui si manifesta come una sorta di ‘ “alone” di usi appena accennati. - Come se ciascuna delle figure di un quadro fosse circonfusa anche da scene sfumate e vaporose disegnate, per così dire, in un’altra dimensione, e noi vedessimo, qui, le figure inserite in altri contesti.’
Per fornirci un’immagine della connessione tra gli usi di una stessa parola, Wittgenstein è stato costretto a inventare una fantastica pittura multidimensionale: noi invece possiamo figurarci questa connessione facilmente, perché una sua nuova forma, l’ipertesto, è entrata a far parte delle nostre attività quotidiane. Per esempio, ogni volta che apriamo il collegamento ipertestuale di una parola su una pagina di Wikipedia, accediamo ad un altro testo in cui la parola è usata: questa catena di riferimenti è virtualmente illimitata, e ci permette di visualizzare quasi immediatamente in forma di testo le altre dimensioni d’uso della parola evocate da Wittgenstein in forma pittorica.
Inoltre, e sfortunatamente per lui, Wittgenstein non disponeva della funzione di ricerca, che ci permette 161
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
oggi di visualizzare quasi immediatamente le ripetizioni di una parola nello stesso testo digitale: grazie a questa funzione possiamo operare rapidamente la scansione del testo passando direttamente da un’occorrenza della parola all’altra.
La funzione di ricerca digitale non solo ci permette di toccare con mano, per così dire, le somiglianze di famiglia tra gli usi di una stessa parola descritte da Wittgenstein: più in generale, questa funzione imprime un’accelerazione straordinaria all’operazione di ‘scansione all’indietro,’ che l’antropologo Jack Goody ha indicato come una differenza fondamentale tra l’uso di un testo scritto e quello di un testo orale, ‘proprio perché nella scansione dei dati informativi l’occhio agisce in modo del tutto differente dall’orecchio.’
Goody ha osservato che il flusso del discorso orale non permette all’ascoltatore che un confronto sommario tra le sue parti: al contrario, la presenza di un testo (relativamente) permanente prodotta dalla scrittura consente al lettore un’analisi retrospettiva del testo stesso, il cui effetto più eclatante è proprio il controllo delle variazioni degli usi delle parole. A questo proposito, Goody ha citato l’osservazione che la parola ‘paradigma’ era stata usata in ben ventuno sensi diversi nel famoso saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn.
Sia Goody, sia Margaret Masterman – la responsabile del computo – sia lo stesso Kuhn apparivano preoccupati da questa varietà di sensi: potremmo allora osservare che probabilmente per loro il confronto tra gli usi della parola ‘paradigma’ nel testo del saggio si riduceva ad un intervento questurino, diretto a disciplinare le variazioni di senso della parola ‘paradigma’ nel nome della sua coerenza concettuale.
Se la parola ‘paradigma’ fosse apparsa nel testo del libro della Genesi, probabilmente Adamo avrebbe condiviso le preoccupazioni in proposito di Goody, Masterman e Kuhn: e si potrebbe anche scherzare sul fatto che se l’autore del testo ebraico avesse avuto la nostra dimestichezza con nozioni astratte come ‘paradigma,’ il nostro presunto progenitore comune ne avrebbe potuto definire il senso in modo inequivocabile.
C’è qualcosa che sembra apparentare scrittori così diversi come l’autore del libro della Genesi, Michelangelo, Freud, Goody, Masterman e Kuhn: se riprendiamo il parallelo tra pittura e scultura come attività di addizione e di sottrazione, quest’ultima operazione sembra poter meglio caratterizzare i vari interventi di Adamo (come selezionatore di parole adatte a nominare il vivente), dell’artista michelangiolesco (come ideatore e poi scultore), di Freud (come escavatore delle profondità della psiche), di Goody, Masterman e Kuhn (come definitori di termini astratti).
Queste operazioni di sottrazione mirano a liberare il campo dai materiali più vari, dai termini impropri alle porzioni superflue di marmo, dalle scorie psichiche e comportamentali alle nozioni imprecise e incoerenti. Si potrebbe osservare che simili azioni selettive sono generalmente rese possibili da un’idea di realtà che precede le nostre attività di intervento e di interpretazione: una realtà cui le parole che usiamo devono necessariamente corrisponde-
NAVE DEGLI ANTENATI | Il Viaggio a volte è rappresentato come una navigazione, un andare verso altri lidi, sconosciuti, ignoti; e così non raramente vengono rappresentati i capostipiti sulle parteti delle caverne dove abitavano i nostri più antichi progenitori.
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
re, e che va definita eliminando via via quello che rende questa corrispondenza incerta. Secondo questo approccio, la varietà degli usi delle parole dev’essere irreggimentata entro definizioni che ostacolino la deriva incessante dei loro usi.
Naturalmente, nessuno potrebbe negare l’utilità delle definizioni, specie nell’ambito di una attività particolare o, nelle parole di Wittgenstein, un gioco linguistico. Per esempio, la nomenclatura dei composti chimici svolge il compito di stabilizzare la comunicazione secondo regole di combinazione degli elementi, che a loro volta sono ordinati dalle versioni aggiornate della tavola di Mendeleev.
La stessa nomenclatura chimica è stata aggiornata più volte: per esempio, il composto formato da un atomo di carbonio e due atomi di ossigeno, e che è correntemente identificato come ‘diossido di carbonio,’ è stato a lungo indicato come ‘anidride carbonica,’ termine che è ancora presente nel nostro lessico. In questo caso, il cambio di denominazione non era correlato al comportamento chimico del composto, che sia sotto il nome di anidride carbonica sia sotto quello di biossido di carbonio ha continuato a produrre sugli esseri umani gli stessi effetti intossicanti.
Diverso è il caso di una stessa denominazione riferita a una varietà di entità dai comportamenti differenti. Per esempio, composti chimici con ugual numero di componenti atomici ma comportamenti diversi erano stati già definiti da Jacob Berzelius nel 1830 come ‘corpi isomeri’: queste differenze tra isomeri di uno stesso composto sono state poi attribuite a differenti distribuzioni spaziali delle sue parti, quindi identificate con l’aggiunta di una varietà di prefissi al nome del composto stesso.
E ancora, nel 1921 Frederick Soddy è stato insignito del premio Nobel per la chimica per aver indagato sugli isotopi, ovvero atomi che occupavano lo stesso posto (in greco, isos topos) nella tavola degli elementi di Mendeleev, ma avevano peso e comportamento differenti. Nel 1934, l’identificazione di uno degli isotopi dell’idrogeno, il deuterio, è valsa a Harold Urey il premio Nobel per la chimica: pochi anni dopo, questo isotopo ha assunto una importanza drammatica a causa del suo uso nella produzione di armi nucleari.
L’espansione delle attività di ricerca ha evidentemente prodotto l’aggiunta di nuove configurazioni sovra- e subatomiche, e delle relative denominazioni. Se attribuissimo a queste denominazioni un significato, dovremmo accettare, per esempio, che quello della parola ‘idrogeno’ sia inevitabilmente cambiato dopo l’identificazione dei suoi isotopi. Eppure, l’uso della parola ‘idrogeno’ anche dopo questa identificazione nella maggioranza dei casi è rimasto invariato, mentre è stato modificato solo nell’ambito specifico dei giochi linguistici di chimici e fisici subatomici.
Negli ambiti specifici della chimica e fisica subatomica è stata una diversa operatività umana che ha richiesto un aggiornamento della nomenclatura: le locuzioni equivalenti ‘isotopo di idrogeno di massa 2,’ ‘idrogeno pesante,’ e ‘deuterio’ hanno permesso di esprimere proprio questa operatività rinnovata ed espansa (anche in direzioni preoccupanti come gli armamenti nucleari).
NOTE AZZURRE
Al contrario, la motivazione del conferimento del premio Nobel a Urey menzionava la sua ‘scoperta dell’idrogeno pesante’: questa espressione presupponeva, riprendendo le parole di Latour e Woolgar, che l’isotopo fosse sempre stato lì, aspettando solo di essere rivelato agli occhi di tutti.
La nozione di scoperta presuppone infatti che il suo oggetto preceda assolutamente l’attività di scoperta stessa: a questo proposito, possiamo osservare che gli usi correnti della parola ‘scoperta’ espandono per analogia quello del termine tardo latino discooperire, che aveva inizialmente il senso eminentemente pratico di ‘rimuovere una copertura.’ Comunque, già nel medioevo il verbo discooperire era stato associato alle attività di esplorazione che in italiano vanno sotto la denominazione di ‘scoperte geografiche.’
Se consideriamo tra queste ultime la scoperta per antonomasia, quella dell’America, dovremmo riconoscere che il suo senso era sfuggito al presunto scopritore Colombo: e comunque, solo l’adozione da parte degli europei del termine ‘America’ (applicato inizialmente alla sua porzione meridionale) ha individuato sotto forma di ‘nuovo continente’ un continuum di terre emerse e abitate, per contrasto con il ‘vecchio continente’ identificato come il continuum territoriale di Europa, Asia e Africa.
In altri termini, l’America non era sempre stata lì, aspettando solo di essere rivelata agli occhi di tutti: è stata la sua individuazione come continente da parte dei cartografi europei che ha assoggettato ai sensi della geografia (e della cartografia) europea una molteplicità di terre emerse, molto prima che gli europei ne assoggettassero territori ed abitanti.
Potremmo riconsiderare in questa luce il senso dell’espressione ‘scoperta dell’idrogeno pesante’ che abbiamo incontrato nel testo della motivazione del conferimento del premio Nobel per la chimica a Urey. ‘L’assunzione di un isotopo di idrogeno di massa 2,’ che Urey, Brickwedde e Murphy hanno reso pubblica per la prima volta in una comunicazione del 1931, ha individuato l’isotopo di massa 2 distinguendolo da quello di massa 1: questa distinzione ha ritagliato, per così dire, i contorni di una nuova entità.
Se dicessimo che l’adozione della locuzione ‘isotopo di idrogeno di massa 2’ – o, nella sua forma grecizzata, della parola ‘deuterio,’ da deuteros, secondo – ha isolato una nuova entità, avvicineremmo questa operazione all’intervento sottrattivo dello scultore michelangiolesco, che libera la sua statua da ciò che non le appartiene. Potremmo invece sottolineare l’aspetto innovativo dell’operazione di individuazione dell’isotopo descrivendola come l’aggiunta di una nuova entità alla varietà delle entità precedentemente contemplate dai chimici.
Senza dubbio, quest’ultima descrizione si addice perfettamente alla parola ‘isotopo,’ che è stata inventata ad hoc da Margaret Todd nel 1913 a beneficio del suo amico di famiglia, il chimico Soddy: e solo attribuendo alla parola ‘isotopo’ un significato preesistente alla sua invenzione si potrebbe evitare di riconoscere che l’uso della parola ‘isotopo’ ha letteralmente prodotto l’individuazione di una nuova entità, che per questo è stata, per così dire, aggiunta al mondo. 165
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
E però, se si concepisce la parola ‘isotopo’ semplicemente come un tentativo di descrivere in termini umani una realtà preesistente, la sua aggiunta non espande, per così dire, il mondo, ma solo la sfera limitata della nostra conoscenza del mondo: e questa sfera non può che apparire imperfetta e mancante al confronto con l’ipotetica conoscenza oggettiva del mondo stesso. Non è difficile identificare il modello storico di questo metro di misura oggettivo e inarrivabile delle nostre conoscenze: è quello di Adamo e del suo dio.
Il narratore argentino Jorge Luis Borges ha descritto mirabilmente questo confronto impari nella forma di una illuminazione che avrebbe colpito il celebre poeta Giovan Battista Marino in uno dei suoi ultimi giorni di vita. Nelle parole di Borges, Marino ‘si stava spegnendo in un ampio letto spagnolo dalle colonne intagliate,’ e alla vista di una rosa recisa aveva mormorato il suo celebre encomio in versi del nobile fiore: ‘Porpora del giardin, pompa del prato, / gemma di primavera, occhio d’aprile.’ In quel momento era sopraggiunta la rivelazione:
Marino vide la rosa, come Adamo poté vederla in Paradiso, e sentì che era nella sua eternità e non nelle sue parole e che possiamo menzionare o alludere ma non esprimere e che i volumi alti e superbi che formavano una penombra dorata in un angolo della stanza non erano (come sognava la sua vanità) uno specchio del mondo, ma una cosa in più aggiunta al mondo.
Al confronto con la rosa del paradiso, quella menzionata nei versi del poeta non poteva che apparire come un’aggiunta inessenziale e inadeguata a rispecchiare il suo modello inarrivabile: secondo Borges, questa straordinaria illuminazione sulla supposta natura reale delle cose aveva forse raggiunto anche Omero e Dante.
Qui come altrove, Borges ha esposto con feroce ironia la distanza incolmabile tra nozioni ed entità assolute e immutabili – in questo caso, la rosa del paradiso – e le pratiche umane: e qui come altrove, ha mostrato che il confronto impari tra le due dimensioni non può che risolversi con lo svilimento degli umani e dei loro prodotti, che sono inevitabilmente limitati e soggetti al cambiamento. E allo stesso tempo, proprio narrando l’intuizione di Marino che la rosa stia nella sua eternità e non nelle parole del poeta, Borges ne ha minato il senso, perché ha anche praticamente mostrato la presenza della rosa di Adamo nelle sue parole di narratore.
Si potrebbe però notare che proprio a causa del suo sottile gioco di rovesciamenti, Borges ha sì affermato la capacità additiva del linguaggio, ma solo come un ridimensionamento dell’aspirazione del linguaggio stesso a proporsi come immagine del mondo: al contrario, questa capacità additiva era stata già rivendicata apertamente da Ovidio, che aveva proclamato con orgoglio incontenibile: ‘anche gli dèi, se è lecito dirlo, sono prodotti dai versi.’
Considerando che la poesia era stata l’espressione essenziale del mondo omerico (o preclassico), e che anche nel mondo classico aveva mantenuto la sua priorità culturale, l’affermazione di Ovidio non solo è difficilmente contestabile, ma si presta ad ulteriori considerazioni. Nel suo studio magistrale sui nomi degli dèi, Hermann Usener ha fatto notare la straordinaria somiglianza tra la produzione delle divinità
CICLO MISTERICO | Tre volti, occhi diversi, due teschi, due feti, la vita, la morte, incastri, il conscio, l’inconscio… qualcosa ci appare, sembra volerci dire qualcosa, non comprendiamo. Ma qualcosa s’è mosso dentro di noi, s’è attivato, purtroppo o per fortuna non siamo in grado di padroneggiarlo.
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
e dei loro attributi e quella delle nozioni astratte: si potrebbe dire che, almeno secondo Usener, queste attività parallele di individuazione di dèi ed astrazioni abbiano svolto analoghe funzioni di ordinamento della realtà.
Nel primo caso – l’individuazione degli dèi – lo studioso tedesco ha sottolineato la precedenza di uno stadio arcaico, in cui il singolo fenomeno veniva divinizzato: nell’icastica descrizione di Usener, in questa fase precedente ‘quell’unica cosa che tu vedi dinnanzi a te, questa stessa cosa, e non altro, è il dio.’ Questo atteggiamento arcaico si è poi conservato a lungo nei componimenti poetici: ancora nel terzo secolo prima della nostra era, Asclepiade si rivolgeva al lume che aveva di fronte come a un dio.
Considerata da questa prospettiva, possiamo dire che la cosa o l’evento soggetto a una divinizzazione temporanea non era un rappresentante improprio o abusivo (un feticcio, nella nomenclatura più tarda dei missionari cristiani) di una forza o un potere divino universale, ma semmai un suo stadio precedente di elaborazione: ‘uno stadio precedente – nelle parole di Usener – che non conosceva ancora alcun dio personale, dotato di nome proprio e mito, ma solo dèi particolari, designati unicamente mediante aggettivi.’
È evidente che le trasformazioni nell’individuazione degli dèi, da entità momentanee a divinità particolari e poi a persone designate con nomi propri, possano anche essere interpretate come un processo di generalizzazione e centralizzazione: nelle parole di Usener, ‘un processo secondo cui il dio principale di una stirpe attiene un’autorità generale, in ultima istanza monoteistica, presso la stirpe stessa.’
È anche evidente che questo processo di centralizzazione, come nel caso delle divinità romane e greche, non abbia dovuto necessariamente raggiungere lo stadio monoteistico: ma è ugualmente evidente che abbia potuto manifestarsi anche sotto una forma diversa, come quando Ippocrate ha sostituito la divinità particolare responsabile dell’attacco epilettico con cause di ordine più generale.
Naturalmente, noi siamo invece abituati a considerare quest’ultimo passaggio soprattutto come un cambio radicale di percorso: secondo la nostra tradizione moderna, ad una concezione ‘primitiva’ che sacralizzava l’evento patologico Ippocrate avrebbe contrapposto l’analisi razionale delle sue cause.
Eppure, l’autore del saggio Sul morbo sacro – generalmente considerato come il primo esame clinico dell’epilessia – apriva la sua trattazione dichiarando che il morbo definito sacro non era né più divino né più sacro degli altri, e la chiudeva con questa specificazione:
Questa malattia chiamata sacra deriva dalle stesse cause delle altre, dalle cose che vanno e vengono dal corpo, dal freddo, dal sole e dall’irrequietezza mutevole dei venti. Queste cose sono divine, sicché non c’è bisogno di mettere la malattia in una classe speciale e di considerarla più divina delle altre: sono tutte divine e tutte umane.
L’autore del saggio Sul morbo sacro – Ippocrate, secondo la tradizione – non prendeva dunque le di-
NOTE AZZURRE
stanze dalla divinizzazione degli eventi naturali, ma dalla loro associazione ad entità divine particolari: questa associazione, secondo Ippocrate, non era utile ai fini della cura.
L’intento della cura era infatti la chiave della riflessione ippocratica, che si distingueva per questo dalla letteratura filosofica contemporanea: come il filosofo, il medico indagava su cose e persone, ma con l’obiettivo preciso di favorire il processo di guarigione. Questo obiettivo pragmatico aveva permesso ai medici di limitare l’eccesso di generalizzazione che invece un altro testo ippocratico imputava al filosofo Empedocle.
Più in generale, potremmo dire che nella letteratura medica europea, presumibilmente inaugurata da Alcmeone di Crotone e ampiamente arricchita dalla scuola ippocratica, le circostanze del caso clinico individuale controbilanciavano, per così dire, il peso delle cause generali di malattie e traumi: poiché il testo mirava a guidare l’intervento pratico (per quanto minimamente invasivo) del medico, le conoscenze cliniche vi apparivano come meri strumenti operativi.
Aristotele, che era figlio del medico di corte del re Aminta III di Macedonia, ha poi esteso il linguaggio e le tecniche di osservazione della medicina al vivente in generale: nelle sue opere che con un termine moderno modellato sulla lingua greca chiamiamo ‘biologiche’ Aristotele ha descritto per la prima volta in maniera sistematica forme e funzioni di animali (esseri umani inclusi) e piante. In questo modo, le conoscenze che noi oggi definiamo biologiche hanno assunto un ruolo autonomo rispetto ai loro usi terapeutici. Nel testo aristotelico, le descrizioni del vivente sono presentate come conoscenze acquisite: Aristotele non ci ha fornito alcuna informazione sul loro processo di acquisizione, come, ad esempio, il resoconto delle sue attività di dissezione. Per di più, Aristotele ha rovesciato la relazione tra pratica clinica e conoscenze biologiche, cui ha conferito una funzione prioritaria: secondo la sua lettura inedita, sarebbero stati ‘i medici più orientati filosoficamente’ ad adottare i principi biologici come fondamento della loro pratica clinica.
In realtà, l’approccio aristotelico ha probabilmente cominciato ad affermarsi nelle pratiche mediche solo mezzo millennio dopo, quando Galeno ha riconsiderato la medicina ippocratica alla luce della priorità assoluta accordata alle conoscenze biologiche da Aristotele stesso: questa impostazione ha poi determinato il corso successivo della medicina sia nel mondo cristiano sia in quello islamico. La medicina europea moderna ha continuato ad affermare la precedenza della conoscenza biologica, e poi biochimica, sull’intervento terapeutico: in tempi recenti, nella pratica clinica questa precedenza si è anche manifestata sempre più nella forma di esami funzionali (analisi di laboratorio, radiologiche etc.), che hanno assunto un ruolo preponderante nella semeiotica medica.
Dal punto di vista della relazione tra conoscenze e intervento terapeutico è difficile immaginare un contrasto più stridente di quello tra la medicina europea contemporanea e l’arcipelago di pratiche che va sotto il nome di ‘sciamanesimo.’ Comunque, prima di procedere ad un confronto in questo rispetto tra pratiche cliniche europee e pratiche sciamani- 169
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
che, è opportuno spendere qualche parola di cautela sui loro oggetti.
Abbiamo visto che dobbiamo al più brillante allievo di Platone, Aristotele, l’individuazione della nuova sfera delle conoscenze biologiche. Potremmo notare che la separazione aristotelica di queste conoscenze dal loro uso clinico seguiva l’analoga separazione operata da Platone tra la conoscenza in generale e i suoi usi possibili. A sua volta, questa separazione era stata concepita da Platone come un vero e proprio sdoppiamento della realtà in due sfere separate: quella delle entità immutabili, e quella delle entità mutevoli derivate dalle prime.
Aristotele aveva poi obiettato che lo sdoppiamento di entità immutabili e mutevoli non richiedeva la loro separazione. Per esempio, l’essere umano Socrate era stato al tempo stesso una manifestazione della nozione immutabile (per Aristotele) di specie umana e uno specifico e perituro essere umano: mentre Socrate, come qualsiasi altro essere vivente, era stato inevitabilmente soggetto alla sequenza di nascita, trasformazione e morte, il ciclo incessante della riproduzione umana lo aveva reso partecipe dell’eternità della specie.
Secondo Aristotele, proprio la ripetizione illimitata del ciclo riproduttivo conferiva alle specie viventi quel carattere di immutabilità che solo garantiva, secondo l’insegnamento del suo maestro Platone, la possibilità di conoscenza. Per questo secondo Aristotele le conoscenze biologiche, in quanto conoscenze dei caratteri immutabili della specie, non potevano che precedere qualsiasi intervento terapeutico sugli individui in quanto manifestazioni particolari della specie umana. Solo a metà dell’Ottocento Alfred Wallace e Charles Darwin hanno modificato radicalmente l’orizzonte disegnato da Aristotele per il vivente, perché hanno esteso la nozione di trasformazione dal singolo individuo alla specie. Darwin ha concluso il suo testo fondamentale Sull’origine delle specie osservando che da una o poche forme viventi ‘forme infinite, le più belle e meravigliose, sono state e continuano a essere evolute.’
L’uso del verbo ‘evolvere’ in forma passiva, ormai raro anche in italiano, presuppone almeno grammaticalmente un agente che faccia evolvere, in questo caso, le forme viventi. Si poteva immaginare questo agente come il dio cristiano della teologia naturale che dominava gli studi universitari sulla natura ai tempi di Darwin: comunque, secondo Darwin era l’operazione di ‘selezione naturale’ che aveva ricoperto e continuava a ricoprire il ruolo di agente nel processo di trasformazione delle specie. Nella sesta e ultima edizione del suo capolavoro, Darwin aveva finito per adottare un termine astratto (e già corrente) per definire questo processo: evoluzione.
Nella nuova biologia evolutiva inaugurata da Wallace e Darwin le indagini sull’agente della trasformazione delle specie hanno considerato una varietà di meccanismi evolutivi tra loro alternativi: e anche tra i seguaci di Darwin, la sua nozione di ‘selezione naturale’ ha continuato ad essere interpretata in modi differenti.
Se osservassimo questa molteplicità di interpretazioni del meccanismo selettivo attraverso le lenti di Michelangelo e dell’approccio sottrattivo, la loro varietà ci apparirebbe come un eccesso da ridurre
SIMBOLI | Figure, segni e altre immagini presenti nell’universo dello sciamanismo, soprattutto sui tamburi. Il tamburo è considerato il cavallo dello sciamano, lo conduce in luoghi “altri”, in universi paralleli, nel mondo di Sopra dove può incontrare gli spiriti adiutori o ancestrali, nel mondo ctonio dove ci sono le anime dei morti. Il tamburo fa volare lo sciamano, gli consente di raggiungere quei luoghi dove il grande pericolo è quello di perdersi e non fare più ritorno nel mondo dei vivi.
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
necessariamente: eppure, la traiettoria stessa delle conoscenze biologiche dovrebbe suggerirci un orientamento differente.
Abbiamo visto che Aristotele aveva costruito il dispositivo della coppia di nozioni di individuo e di specie per catturare entro la forma immutabile della specie le trasformazioni dell’individuo, concepite come un ciclo che si ripeteva all’infinito. Wallace e Darwin hanno poi liberato, per così dire, le trasformazioni del vivente dall’apparato di cattura della specie: questa apertura avrebbe dovuto suggerire la possibilità di pensare che il processo stesso della trasformazione era stato e continuava a essere soggetto alla trasformazione. In altri termini, si sarebbe potuto pensare ad una evoluzione degli stessi meccanismi evolutivi: al contrario, per almeno un secolo dopo Darwin il dibattito dei teorici evoluzionisti si è concentrato sulla ricerca del meccanismo evolutivo tout court.
Come nel caso della fisica, anche in biologia è stato poi lo studio del microcosmo sottratto alla nostra sfera sensoriale ad aprire nuove prospettive: per di più, a differenza dei fisici quantistici, il biologo Carl Woese ha ripensato il vivente in chiave evolutiva, cioè secondo l’aspetto dei suoi processi di trasformazione. Questo approccio dinamico ha permesso a Woese non solo di aggiungere alla classificazione del vivente un terzo dominio, quello degli archea: Woese ha anche combinato gli archea con l’altro dominio primario, quello dei batteri, e con il dominio derivato degli eucarioti per costruire il suo ‘albero della vita,’ che descrive – anche in forma grafica – la sua genealogia del vivente. Woese ha anche ipotizzato uno stadio precedente a questa tripartizione, in cui una varietà di ‘aggregati supramolecolari’ – i predecessori delle cellule – avrebbero usufruito di un bacino universale di scambio genico mediante modalità di trasferimento genico orizzontale. Nelle parole di Woese, ‘[l]a componentistica delle cellule primitive deve essere di natura cosmopolita, poiché solo passando attraverso un numero di ambienti cellulari diversi può essere significativamente alterata e raffinata.’
Secondo Woese, questo processo condiviso di raffinamento ha permesso a vari aggregati supramolecolari di raggiungere in tempi diversi la ‘soglia Darwiniana,’ cioè uno stadio di organizzazione paragonabile a quello delle cellule odierne. Ma anche dopo il raggiungimento di questa soglia, il trasferimento genico orizzontale ha continuato ad operare perfino tra rami diversi dell’albero evolutivo, incluso quello dei mammiferi.
Dunque, anche senza contemplare l’evoluzione umana, il recente riconoscimento di varie modalità evolutive differenti (a dispetto della tradizione Darwiniana) dovrebbe aiutarci a propendere per un approccio additivo alla nozione stessa di evoluzione. In altri termini, potremmo ipotizzare che una varietà di dinamiche e meccanismi evolutivi sono stati e continuano ad essere all’opera sia in tempi successivi, sia contemporaneamente. E come fanno notare Goldenfeld e Woese, queste dinamiche potrebbero non essere tutte necessariamente casuali:
È ormai stata segnalata una pletora di meccanismi che generano una risposta adattativa allo stress (...). Ci sono anche prove convincenti che non solo le mu-
NOTE AZZURRE
tazioni ma anche il trasferimento genico orizzontale possano essere non casuali.
Se poi prendessimo in considerazione il breve (su scala biologica) tratto di storia dell’evoluzione umana, non mancheremmo di notare un’ulteriore varietà di trasformazioni evolutive né isolate, né (probabilmente) casuali: sulla scorta delle ricerche di Leroi-Gourhan, ci accorgeremmo che sensibili trasformazioni morfologiche quali il notevole ingrandimento della scatola cranica dei nostri antenati (e presumibilmente del cervello in questa contenuto) hanno proceduto di pari passo con l’altrettanto notevole sviluppo della loro industria litica, ovvero la produzione di pietre scheggiate.
Potremmo anzi dire che sottolineando la correlazione evolutiva tra l’espansione delle abilità manuali degli umani e quella del loro volume cerebrale Leroi-Gourhan ha aggiunto un senso dinamico all’intuizione brillante ma statica di Anassagora, che secondo Aristotele avrebbe affermato: ‘grazie all’aver mani l’essere umano è il più intelligente degli animali.’
Secondo la prospettiva evolutiva, non è stato il possesso ma l’uso delle mani – e la sua espansione in collaborazione con gli utensili – che ha caratterizzato gli esseri umani rispetto agli altri animali. Scrive Leroi-Gourhan:
La comparsa dell’utensile tra i caratteri della specie segna appunto il confine specifico dell’umanità, con una lunga transizione nel corso della quale a poco a poco la sociologia prende il posto della zoologia. Naturalmente, la sostituzione della zoologia con la sociologia non ha comportato la scomparsa dell’evoluzione umana in senso biologico: semplicemente, la velocità crescente della trasformazione delle operazioni umane e dei loro strumenti ha reso al confronto quella delle loro trasformazioni biologiche relativamente trascurabile. La chiave dell’evoluzione culturale è comunque rimasta operativa: gli esseri umani continuano a distinguersi dagli altri animali non per quello che sanno, ma per quello che fanno.
Leroi-Gourhan ha anche esaminato un altro effetto duraturo del buon uso delle mani da parte dei nostri progenitori: le immagini che costellano le superfici rocciose di ogni parte del globo. La miriade di incisioni e pitture preistoriche testimonia di processi inediti di individuazione che hanno letteralmente aggiunto un’ulteriore dimensione al mondo, quella delle immagini di produzione umana.
Leroi-Gourhan si è basato sulle trasformazioni sia degli strumenti in pietra sia delle immagini sia della scatola cranica come prove indirette di analoghe trasformazioni nell’uso del linguaggio verbale, che ha supposto espandersi di concerto alla varietà delle operazioni tecniche degli umani e alle dimensioni del loro cervello. Il ricercatore francese non aveva dubbi su questa connessione:
[E]siste la possibilità di un linguaggio a partire dal momento in cui la preistoria ci tramanda degli utensili, perché utensile e linguaggio sono collegati neurologicamente e perché l’uno non è dissociabile dall’altro nella struttura sociale dell’umanità. 173
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
In particolare, Leroi-Gourhan ha attribuito già ai Neandertaliani, che producevano oggetti complessi e avevano un cervello ancora più grande del nostro, un ipotetico sviluppo delle capacità di parlare e pensare, il cui effetto potremmo chiamare ‘pensiero vocale.’ Noi abbiamo ereditato questa abilità narrativa, i cui prodotti necessariamente effimeri, le parole, hanno aggiunto al mondo una dimensione non meno straordinaria di quella delle immagini rupestri.
Purtroppo, non siamo in grado di accedere direttamente né alle narrazioni né ad altre espressioni dei nostri remoti antenati, come gesti, balli, canti e musiche: e però disponiamo almeno di immagini e di artefatti musicali, come i tubi di osso perforati a distanze regolari probabilmente usati come flauti. I paleoantropologi hanno infatti imparato a comprendere l’uso di strumenti di fattura remota per analogia con l’uso di strumenti simili in culture tradizionali a noi contemporanee.
Per analogia coi testi scritti, si potrebbe considerare l’operazione di ricostruzione dei paleoantropologi come una traduzione ipotetica della serie di gesti dei nostri lontani antenati nella serie di gesti messa in atto dagli sperimentatori contemporanei: questa traduzione riposa sull’ipotesi che l’una e l’altra serie di gesti – che Leroi-Gourhan chiama ‘catena operativa’ – seguano la medesima ‘sintassi operativa.’
Leroi-Gourhan ha proposto la nozione di sintassi operativa, che governa le relazioni tra gesti, per analogia con quella di sintassi linguistica, che governa le relazioni tra parole e tra frasi: sebbene egli abbia condotto questo parallelo sulla base dell’evidenza più rilevante dei Paleantropi, ovvero i prodotti dell’industria litica, nulla ci impedisce di estendere la nozione di sintassi operativa ad altri campi d’azione.
Per esempio, la moderna pratica sperimentale di scheggiatura della selce ha illustrato la concatenazione operativa tra i gesti necessari a produrre le pietre scheggiate, e al tempo stesso ci ha permesso di tradurre queste moderne esperienze nelle serie di gesti presunti dei nostri remoti antenati. Analogamente, possiamo ipotizzare che l’uso di tamburi, canti e musica nel corso delle cerimonie sciamaniche contemporanee sia concatenato secondo una sintassi operativa molto simile a quella che presumibilmente governava rituali analoghi decine di migliaia di anni fa. Secondo questa ipotesi, noi potremmo considerare le esperienze cerimoniali descritte dagli antropologi come traduzioni contemporanee delle esperienze remote testimoniate più o meno direttamente dalla tradizione orale e dalle immagini rupestri.
Nel caso della scheggiatura della selce è stato il confronto tra i prodotti finali (le pietre scheggiate) delle catene operative contemporanee e preistoriche a permetterne la reciproca traduzione: nel caso delle cerimonie sciamaniche, la tradizione narrata – possibilmente con l’ausilio delle immagini rupestri – ci ha aiutato a rilevare la somiglianza tra gli effetti sui partecipanti delle catene operative contemporanee e di quelle preistoriche, cioè la condizione che va sotto la definizione recente di stato alterato di coscienza.
Potremmo dunque supporre che la condizione di stato alterato di coscienza sia il termine comune alle cerimonie sciamaniche contemporanee e primiti-
IL SOPRA/IL SOTTO | Sopra e sotto il mondo degli uomini esistono, per le culture sciamaniche (ma non solo), altri due mondi ognuno dei quali ha i suoi simboli raffigurati su ogni tamburo utilizzato per intraprendere il viaggio in uno o nell’altro mondo.
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ve: ma è anche il luogo dell’incontro possibile tra le pratiche sciamaniche e le pratiche neurologiche di ricerca. Proprio in apertura di queste note, abbiamo incontrato alcune di queste pratiche di ricerca che si avvalgono delle nozioni di coscienza e di stato alterato di coscienza.
Abbiamo anche accennato all’emergenza della nozione di ‘coscienza,’ che Julian Jaynes ha definito ‘una nuova creazione,’ e che grazie alle nostre precedenti considerazioni possiamo ora descrivere come l’individuazione di una nuova entità aggiunta al mondo. Abbiamo ricordato che questa innovazione è risultata da uno slittamento d’uso della parola latina conscientia: questa parola, che indicava una conoscenza condivisa, nei testi di Cicerone ha cominciato a indicare la conoscenza di sé e delle proprie azioni.
Abbiamo visto che questo slittamento d’uso ricalcava esattamente quello precedente della parola greca syneidēsis, che già Democrito aveva usato per descrivere ‘la consapevolezza delle cattive azioni commesse.’ A questo proposito, è opportuno sottolineare che la nozione di coscienza come consapevolezza di sé presupponeva una qualche nozione del sé, che aveva appunto cominciato ad affiorare nei contemporanei dialoghi platonici.
In questi testi la nozione del sé aveva preso forma proprio come operazione riflessiva di un pronome su sé stesso: nel primo dialogo dal titolo ‘Alcibiade’ tradizionalmente attribuito a Platone, il personaggio Socrate aveva forzato la grammatica greca con l’inedita locuzione ‘lo stesso stesso’ per indicare l’oggetto dell’ingiunzione delfica ‘conosci te stesso,’ ovvero quel ‘te stesso’ che noi ora designeremmo come la nozione del sé.
Secondo il Socrate platonico, la conoscenza di questa nozione generale del sé avrebbe potuto poi aiutare ciascuno a conoscere lo specifico sé stesso. In questa convinzione platonica era già chiaramente adombrata la presupposizione, comune a buona parte della psicologia e della psichiatria moderne, che almeno a partire dalla nostra stabilizzazione biologica come specie, la psiche umana era sempre stata lì, aspettando solo di essere rivelata agli occhi di tutti.
Se considerata da una prospettiva evolutiva, la presupposizione della stabilità della psiche umana ha operato e continua ad operare una duplice rimozione. In primo luogo, questa presupposizione ha cancellato il processo incessante di trasformazione degli esseri umani sia sotto il profilo zoologico sia sotto quello sociologico (nell’immagine di Leroi-Gourhan); e in secondo luogo ha ignorato il ruolo di ricercatori e medici nelle indagini e negli interventi clinici sugli esseri umani.
Per esempio, la Commissione Reale sul Magnetismo Animale che nel diciottesimo secolo aveva esaminato le pratiche cliniche del seguace di Mesmer, Charles d’Eslon, aveva insistito sull’inefficacia di tutti gli interventi terapeutici se operati all’insaputa del paziente.
Certamente, solo la concezione moderna dell’essere umano come un’entità sdoppiata in un apparato fisiologico, il corpo, e un apparato psicologico, la mente, aveva potuto giustificare la necessità di
NOTE AZZURRE
tenere il paziente all’oscuro della terapia a lui rivolta per dimostrarne l’efficacia. In altri termini, solo la costruzione separata di corpo e mente aveva potuto far temere che la seconda avesse potuto esercitare un’indebita interferenza sul metabolismo del primo. Ed è per questo che la commissione aveva potuto giudicare i risultati positivi delle pratiche mesmeriche come l’effetto di una intrusione intollerabile: ‘l’immaginazione fa tutto, il Magnetismo è nullo.’
Ma non erano solo l’immaginazione e la suggestione ipnotica a complicare il campo d’indagine degli scienziati commissari: le loro stesse relazioni, che avevano la pretesa di esprimere un giudizio definitivo sulle pratiche mesmeriche, si aggiungevano al loro oggetto arricchendolo di un’ulteriore stratificazione di senso, come solo l’ultima di una infinita serie di scatole cinesi.
I relatori della commissione, che con l’epurazione del mesmerismo credevano di salvaguardare l’immagine della scienza, stavano dunque piuttosto aggiungendo un altro paragrafo alla storia della coscienza: e mutatis mutandis, si potrebbe descrivere in modo simile la mappatura dell’arcipelago degli stati alterati di coscienza coordinata nel 1969 da Charles Tart. In questo caso, Tart era pienamente consapevole dei limiti delle definizioni scientifiche, come lui stesso ha raccontato:
Alcuni anni fa, ad esempio, ho cercato di trovare una definizione chiara della parola trance, un termine psicologico molto comune, usato in senso esplicativo oltre che descrittivo. Con mia sorpresa, per ogni caratteristica distintiva di una trance menzionata da un’autorità, un’altra autorità userebbe la caratteristica opposta. Analogamente alla trance, o transe, la nozione di stato alterato di coscienza già si prestava agli usi più diversi: per esempio, i saggi della raccolta edita da Tart avevano preso in considerazione alterazioni di coscienza correlate allo stato ipnagogico tra il sonno e la veglia, al sogno, alla meditazione, all’ipnosi, all’assunzione di sostanze psicotrope e alle crisi psicotiche. L’esame di questi stati alterati era stato condotto sia in forma dialogica sia come osservazione qualitativa del comportamento della persona sia mediante l’uso di apparecchiature quali l’elettroencefalografo.
Nel corso dei decenni successivi, i ricercatori hanno ulteriormente ampliato questa varietà di strumenti analitici, specialmente grazie alla messa a punto di nuovi dispositivi ed apparecchiature di laboratorio. Ed è proprio a questa pluralità di pratiche di analisi, e specialmente alla produzione sperimentale di condizioni descrivibili come stati alterati di coscienza, che è possibile apparentare le catene operative che nelle cerimonie sciamaniche producono effetti anch’essi descrivibili come alterazioni della coscienza. In altri termini, è l’apparente somiglianza dei risultati, ovvero quelli che la scienza europea definisce come stati alterati di coscienza, che ci permette di ipotizzare una qualche forma di traduzione del rituale sciamanico nelle procedure di laboratorio che producono effetti di alterazione di coscienza.
Tuttavia, in questo caso dovremmo far appello ad un tipo di traduzione differente da quella operata dai paleoantropologi tra catene operative contemporanee e primitive. A questo proposito, riconsideriamo il doppio confronto tra l’esperienza contemporanea e la supposta esperienza primitiva sia della 177
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scheggiatura delle pietre sia del raggiungimento di stati alterati di coscienza. In entrambi i casi, è la somiglianza tra gli effetti finali a permetterci la traduzione reciproca di presente e passato: nel primo caso, la somiglianza tra evidenze morfologiche, quelle delle pietre scheggiate; nel secondo caso, la somiglianza che risulta dalle interpretazioni di una varietà di elementi eterogenei, dalle testimonianze dei partecipanti (inclusi gli antropologi), alle narrazioni tradizionali e alle loro trascrizioni, e alle immagini possibilmente riconducibili a fenomeni entoptici, cioè prodotti dall’organismo senza una relazione immediata col mondo esterno.
Nonostante queste differenze, in entrambi i casi possiamo ipotizzare l’omogeneità delle catene operative che hanno prodotto le pietre scheggiate e di quelle che hanno generato gli stati alterati di coscienza. Al contrario, sappiamo bene che le catene operative dei rituali sciamanici (contemporanei e non) differiscono sostanzialmente da quelle messe in atto dai ricercatori nei loro laboratori. È la somiglianza tra gli effetti a permetterci di ipotizzare la traducibilità reciproca di queste pratiche, malgrado l’eterogeneità delle loro catene operative.
E a ben vedere, abbiamo già incontrato un caso simile, che per di più è parte integrante delle pratiche cliniche della medicina europea: l’agopuntura. Le catene operative di un agopunturista al lavoro differiscono sostanzialmente da quelle di un anestesista: e anzi i gesti con cui l’uno e l’altro inseriscono nel corpo dei pazienti aghi di forma e funzione radicalmente differenti sembrano parodiarsi a vicenda. Eppure, malgrado le differenze tra pratiche, la somiglianza dei loro effetti anestetici ci permette di tradurne reciprocamente l’operato, anche in mancanza di una comune logica interpretativa.
Abbiamo ricordato uno dei tentativi di ricondurre la pratica dell’agopuntura alla logica interpretativa della biochimica europea: la ricerca coordinata da Maiken Nedergaard ha correlato l’intervento dell’agopuntura e la produzione del neurotrasmettitore adenosina in soggetti non umani. Possiamo ora paragonare questo tentativo di interpretazione al confronto tra gli effetti dei rituali sciamanici e gli stati alterati di coscienza prodotti in laboratorio.
Quanto ai primi, le parole russe di derivazione tungusa шаманской [shamanskoy] e шаманить [shamanit’], ‘sciamanico’ e ‘sciamanizzare,’ coniate dall’arciprete Avvakum nel diciassettesimo secolo, avevano individuato per gli europei il ruolo di un esecutore rituale siberiano, associato nelle stampe contemporanee all’uso del tamburo e al travestimento animale, dalle pelli alle corna di cervo. Ma è probabilmente solo a partire dalla pubblicazione nel 1951 del testo di Mircea Eliade intitolato Lo sciamanesimo che la nozione omonima ha preso forma per un pubblico più vasto della comunità degli antropologi.
Possiamo ricordare che già ottant’anni prima Charles Tylor aveva considerato sotto la sua ampia rubrica di ‘animismo’ le pratiche degli sciamani dalla Finlandia alla Kamchatka. Tra l’altro, Tylor aveva rilevato l’associazione tra il ruolo dello sciamano e l’epilessia: ‘Tra le tribù siberiane, gli sciamani selezionano i bambini soggetti alle convulsioni come individui adatti ad essere instradati alla professione [sic].’
NOTE AZZURRE
È però la monografia di Eliade che ha disegnato la nozione universale di sciamanesimo e al tempo stesso ne ha esposto il senso ad un’ampia serie di fraintendimenti, a partire dall’equazione ‘sciamanesimo = tecnica dell’estasi.’
Possiamo ricordare che la parola ‘estasi’ deriva dal termine greco ekstasis, che, per esempio, Ippocrate aveva usato nel senso originario di spostamento (di un’articolazione); comunque, lo stesso termine era già apparso nei più tardi aforismi ippocratici nel senso figurato di spostamento mentale. Ma è nelle scritture cristiane che questo senso psicologico si è definitivamente affermato, prima in Marco come ‘sorpresa’ e poi in Luca-Atti come la fuoriuscita visionaria da sé di Pietro.
È questo senso di fuoriuscita dalla dimensione ordinaria delle cose che le varie traduzioni della parola greca ekstasis hanno generalmente riprodotto: in particolare, nella letteratura mistica medievale il termine ‘estasi’ ha spesso descritto la condizione imprevedibile di comunione immediata e individuale con il dio cristiano.
All’inizio dell’epoca moderna, Gian Lorenzo Bernini ha dato duplice e mirabile forma statuaria al rapimento estatico di due giovani donne, Teresa d’Avila e Teresa Albertoni: la resa Berniniana dei loro tratti comuni – testa reclinata all’indietro, occhi semichiusi e bocca aperta – ha chiaramente espresso il godimento estatico come uno stato di abbandono.
Al contrario, narrazioni e testimonianze dei rituali sciamanici – incluse quelle riportate da Eliade – sembrano concordare sia sulla capacità dell’officiante di raggiungere di propria iniziativa una condizione diversa dall’ordinario, sia sul suo ruolo generalmente attivo nel corso della cerimonia: e anche il caso meno frequente dello stato catalettico dello sciamano – o della sciamana – potrebbe rimandare ad un’altra dimensione della sua attività, invisibile agli astanti.
Il ruolo attivo dell’officiante sciamanico è dunque difficilmente compatibile con il senso generalmente passivo acquisito dalla parola ‘estasi’ nel corso della sua evoluzione, come effetto dell’assoluta subordinazione del credente al dio cristiano. Roberte Hamayon ci ricorda invece che nelle cerimonie sciamaniche ‘il contatto con gli spiriti è indicato come un mezzo per agire su di essi.’
Per questo sarebbe preferibile ricorrere, piuttosto che al termine ‘estasi,’ ad un’altra costruzione linguistica europea, quella di transe, che già nel dodicesimo secolo era apparsa in Francia come derivazione del verbo latino transire, cioè, passare: a patto però di ricordare ancora con Hamayon che ‘il comportamento dello sciamano, chiamato transe dagli osservatori, è qualificato dalle società sciamaniche in riferimento non ad uno specifico stato fisico o psichico, ma al contatto diretto dello sciamano con gli spiriti.’
Dunque, per tornare alla definizione di sciamanesimo come tecnica dell’estasi coniata da Eliade, non sarebbe sufficiente sostituire la nozione di estasi con quella di transe, perché quest’ultima descrive solo lo strumento con cui lo sciamano entra in contatto con i cosiddetti spiriti, o meglio, con ciò che è ordinariamente invisibile, per potersene valere nella sfera del visibile. 179
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Quanto alla nozione di tecnica, sia in italiano sia in francese (lingua in cui Eliade ha scritto Lo sciamanesimo) generalmente descrive un insieme di operazioni conformi a uno scopo, organizzate secondo criteri procedurali. In questo senso, la catena di operazioni di cui lo sciamano si avvale per arrivare alla transe – quali, per esempio, canto, ballo e uso della percussione – potrebbe essere assimilata a una tecnica nel senso moderno e strumentale del termine: e sarebbe certamente possibile mappare l’arcipelago di procedure rituali con cui gli sciamani giungono a oltrepassare la soglia dell’invisibile.
Tuttavia, come sottolinea l’etnomusicologo Gilbert Rouget, la catena operativa con cui lo sciamano raggiunge la transe non è semplicemente tecnica:
La tecnica opera solo perché è al servizio di una credenza, e perché la transe costituisce un modello culturale integrato in una certa rappresentazione generale del mondo. Qui abbiamo un dato intellettuale essenziale, che sta alla base sia della psicologia sia della fisiologia della transe.
In realtà, potremmo arrivare a conclusioni simili a quelle di Rouget anche senza ricorrere alla nozione di credenza: questa nozione, infatti, porta con sé un bagaglio pesante, quello del suo radicamento nella cultura cristiana e nelle sue fonti scritte.
Potremmo invece notare che gli sciamani sono esponenti di tradizioni culturali in cui la scrittura non è il principale depositario e il principio d’ordine dell’esperienza. Diversamente dal nostro mondo letterato, in queste tradizioni la relazione con l’esperienza precedente non è costruita come la rievocazione del passato attraverso le sue testimonianze, ma come la riattivazione dell’esperienza stessa, secondo la pratica della narrazione orale: è la permanenza grafica di un testo scritto a permettere la mera ripetizione di parole e frasi, che invece nel flusso narrativo piuttosto ricorrono in una nuova espressione orale.
La sequenza di azioni che permette allo sciamano di raggiungere la soglia dell’invisibile quindi non opera come una mera ripetizione ma come una ricorrenza che riattiva la sua precedente esperienza di alterazione: queste azioni non sono dunque separabili dalla pratica vivente dello sciamano sotto la forma astratta di operazioni ripetibili, ovvero di un tecnica nel senso moderno e strumentale del termine.
In altre parole, la capacità degli sciamani di raggiungere la transe potrebbe essere concepita come una tecnica solo nel senso di una tradizione vivente che si rinnova costantemente attraverso la triplice somiglianza tra le varie esperienze di transe del singolo sciamano, quelle del suo mentore e quelle dei suoi allievi: ma comunque, la riduzione dello sciamanesimo alla tecnica della transe come raggiungimento della soglia dell’invisibile non darebbe conto di ciò che accade al di là della soglia, e che sembra racchiudere il senso di quello che Hamayon chiama ‘agire in qualità di sciamano.’
Se dunque volessimo mettere a confronto le catene operative degli sciamani con quelle dei ricercatori che indagano sugli stati alterati di coscienza, dovremmo almeno distinguere tra ciò che precede e ciò che segue l’attraversamento della soglia dell’invisibile.
NOTE AZZURRE
Nel primo caso (l’avvicinamento alla soglia dell’invisibile), bisognerebbe sottolineare che sebbene gli sciamani si avvalgano di strumenti tradizionali, non raggiungono la transe semplicemente ripetendo catene operative predefinite, ma piuttosto riattivano la loro esperienza di alterazione con l’ausilio di queste catene operative e della partecipazione degli astanti. Si potrebbe dire che nella prima fase della cerimonia lo sciamano si adopera per rinnovare il suo contatto con l’invisibile con la guida della sua esperienza e con il sostegno degli altri partecipanti.
Non si può certo dire altrettanto dei ricercatori che perseguono la produzione di stati alterati di coscienza in laboratorio: poiché la chiave dichiarata della ricerca è l’innovazione, l’improvvisazione è spesso necessaria a garantire risultati che colmino il divario di conoscenza, secondo quanto recita la narrazione scientifica corrente. In questo stadio, il ricercatore dunque aggiunge al mondo metodi e strumenti d’indagine.
La situazione del confronto tra ricercatore e sciamano sembra invece ribaltarsi dopo che quest’ultimo varca la soglia dell’invisibile: è a questo punto che le risorse della tradizione lasciano il passo alla capacità di improvvisazione dello sciamano.
Certamente, già dall’inizio della cerimonia lo sciamano opera come un attore consumato, che mette in scena una recita a soggetto perché necessariamente priva di copione scritto: ma secondo quanto generalmente riportato da informatori e antropologi, dal momento in cui lo sciamano entra in una condizione di transe la varietà e l’incongruità delle sue azioni sembra poter essere motivata solo dalla sua interazione con una realtà inaccessibile ai presenti. In altri termini, sembra che una volta entrato in transe lo sciamano veda altro rispetto a ciò che vedono i partecipanti alla cerimonia: e probabilmente, la relativa imprevedibilità di questa visione altra sembra esigere da lui una straordinaria flessibilità d’azione.
Potremmo paragonare la capacità dello sciamano di vedere altrimenti con quanto accade nella tradizione orale europea, che ci è giunta soprattutto nelle trascrizioni dell’Iliade e dell’Odissea: in questo caso, la realtà non è mai trasfigurata se non nell’aspetto esteriore degli dèi, che possono assumere a piacere altre forme. Solo nella successiva rielaborazione scritta delle narrazioni omeriche la trasfigurazione di persone e cose appare anche come l’effetto di un intervento divino malevolo: nel caso di Aiace ingannato da Atena, che lo precipita in uno stato di mania, l’eroe fa strage di bestiame credendo di decimare i suoi stessi compagni d’arme.
Sia la mania di Aiace cantata da Sofocle, sia l’estasi delle giovani Terese immortalate da Bernini sono effetti diretti dell’intervento divino: al contrario, lo sciamano è in grado di raggiungere la transe, seppure con l’ausilio del suo apparato eterogeneo di aiutanti. Da questo punto di vista, potremmo dire che lo sciamano in qualche modo condivide la capacità del ricercatore moderno di intervenire sugli stati di coscienza: e abbiamo visto che nel corso di questo intervento, la tradizione influenza l’azione del primo più di quella del secondo fino al raggiungimento della soglia dell’invisibile.
Dopo l’ingresso nel mondo dell’invisibile – che come anche Eliade ricorda è spesso descritto in forma di 181
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immersione – sia la descrizione del rituale sciamanico sia quella degli stati alterati di coscienza in laboratorio si sdoppiano nell’esame del comportamento di sciamani e volontari umani (anche corroborato da elementi fattuali come i tracciati elettroencefalografici) e nel contributo esclusivamente narrativo delle loro testimonianze.
Per quanto riguarda l’osservazione dei soggetti umani, il comportamento dello sciamano sembra generalmente (fatti salvi, cioè, gli episodi catalettici) far leva su una straordinaria riserva di energia, che gli permette di eseguire operazioni defatiganti e prolungate nel tempo. Una simile iperattività sembra talvolta essere l’effetto dell’assunzione di sostanze psicotrope da parte dei volontari negli esperimenti di laboratorio: e i risultati degli esami obiettivi condotti nel corso delle sperimentazioni sembrano fornire dei riscontri fattuali della condizione di alterazione dei volontari.
Tuttavia, è bene ricordare che l’ingresso nel mondo dell’invisibile è solo la condizione necessaria allo sciamano per operare. Da questo punto di vista, a differenza degli stati di alterazione indotta in laboratorio solo condizioni volontarie di concentrazione profonda, di meditazione e di controllo del sogno possono essere paragonate alla transe sciamanica: anche in questi casi la transizione è la condizione di accesso ad una diversa operatività.
Nella transe sciamanica, questa operatività reindirizzata si manifesta spesso come un’iperattività non facilmente decifrabile: sono poi le testimonianze rese dagli sciamani stessi agli antropologi che ci permettono di leggere le loro azioni in stato di transe come se fossero proiezioni (in senso geometrico) sulla dimensione del visibile di azioni compiute in una dimensione invisibile.
Potremmo cercare di descrivere questa proiezione enigmatica paragonandola agli effetti di due dimensioni operative aggiunte di recente alla nostra esperienza ordinaria: la realtà virtuale e quella aumentata. La realtà virtuale immersiva permette ad una persona di sostituire la sua esperienza visiva, uditiva e tattile con un’esperienza alternativa mediante l’uso di un visore, di una cuffia e di sensori che possono anche trasferire nella realtà parallela artificiale le sue capacità operative: in tal caso, i movimenti della persona nello spazio reale sono riprodotti nello spazio virtuale, in proporzione variabile a piacimento.
Se osservate dall’esterno, le azioni di una persona immersa in una realtà virtuale appaiono scarsamente connesse con lo spazio tridimensionale circostante e logicamente incomprensibili: un osservatore può attribuire un senso a queste azioni solo supponendo che siano una espressione nello spazio reale di azioni prodotte nello spazio virtuale. Potremmo anche dire che dal punto di vista di un osservatore, queste azioni sono proiezioni nello spazio reale e visibile di azioni prodotte nello spazio virtuale e (per l’osservatore) invisibile: in questo caso, potremmo paragonare realtà virtuale e transe sciamanica sotto il profilo della proiezione.
Le proiezioni delle azioni virtuali nello spazio reale non hanno però con quest’ultimo alcuna interazione intenzionale: al contrario, le proiezioni delle azioni dello sciamano nella dimensione dell’invisibile entrano in relazione con lo spazio visibile attraverso la
NOTE AZZURRE
persona del ‘paziente.’ Durante la transe, infatti, lo sciamano generalmente interagisce col paziente nei modi più vari, come se mediasse per lui tra la sfera dell’invisibile e quella del visibile.
L’integrazione prodotta dallo sciamano tra realtà differenti può essere meglio correlata agli effetti della cosiddetta realtà aumentata, che non sostituisce la realtà ordinaria, ma la integra con l’aggiunta di ulteriori elementi. Potremmo dire che lo sciamano integra dimensione visibile e dimensione invisibile facendole convergere, per così dire, nella persona del paziente come loro luogo d’incontro.
Comunque, non solo questa convergenza è temporanea e problematica, ma di per sé non garantisce neanche quella modifica della condizione del paziente che possiamo riduttivamente descrivere come ‘guarigione.’ Al contrario, gli stessi sciamani non assicurano l’esito positivo del rituale, e spesso descrivono il loro incontro con l’invisibile come un confronto rischioso oltre che imprevedibile.
Possiamo ora tirare le somme del nostro confronto tra le catene operative di sciamani e ricercatori degli stati alterati di coscienza. Nella fase che precede la transe la ricorrenza di strumenti tradizionali impiegati dallo sciamano contrasta con la produzione di tecniche innovative da parte del ricercatore; durante la transe l’operato dello sciamano diventa a sua volta imponderabile, e presumibilmente risponde ad una logica di improvvisazione per far fronte a situazioni altrettanto imponderabili nella dimensione dell’invisibile.
Da questo punto di vista, si potrebbe paragonare l’operato di uno sciamano in transe a quello di un musicista jazz o ad un esecutore di musica classica indiana, che costantemente ricombina a seconda delle circostanze il suo patrimonio di microstrutture ritmiche e melodiche. Se consideriamo che questo approccio non è troppo lontano da quello dei musicisti barocchi, quando lo spartito non aveva ancora integralmente catturato l’intera composizione entro una simbologia scritta, potremmo considerare queste similitudini come il risultato comune della logica di flusso della narrazione orale.
A rischio di semplificare eccessivamente le cose, si potrebbe dire che la logica del flusso narrativo è modellata come un percorso, che ammette ricorrenze (come le famose formule omeriche) e risonanze ma non ripetizioni in senso stretto. Nel confronto tra l’operatività dello sciamano e quella del ricercatore è soprattutto questa logica di flusso che rende problematica la traduzione della transe sciamanica nello stato alterato di coscienza indagato in laboratorio.
Le catene operative dei ricercatori e dei volontari risentono infatti inevitabilmente di un’altra logica, quella del testo scritto e ripercorribile a volontà. Abbiamo visto che la possibilità di rivisitare un testo permette al lettore di individuare le ripetizioni di parole e frasi e vagliarne le variazioni d’uso: ma l’acquisizione della tecnologia della scrittura ha comportato anche altre trasformazioni fondamentali nella relazione con le parole e, mediante le parole, col mondo.
Possiamo, per esempio, considerare il processo di acquisizione della scrittura da una prospettiva europea. Nella Grecia postomerica, la diffusione del testo scritto ha non solo permesso di separare la narrazione poetica dal narratore: la trasformazione 183
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delle narrazioni orali in testi scritti e quindi relativamente permanenti ha anche permesso agli alfabetizzati di svincolare la ricezione del testo dall’evento della narrazione, e di dilatare a volontà i tempi d’uso del testo stesso, come attività di lettura e di interpretazione.
Le nuove attività di lettura e di interpretazione hanno aggiunto alla dimensione visibile del testo scritto le dimensioni non immediatamente visibili del suo senso letterale e delle sue spiegazioni allegoriche. A sua volta, questo sdoppiamento ha permesso di concepire un argomento come relativamente autonomo rispetto alla sua espressione verbale: e l’invenzione della prosa come genere di scrittura ha proprio dato forma all’autonomia dell’argomento affrancando il testo scritto dalla necessità di sottostare alle regole del verso.
Come la logica del flusso orale, la logica della scrittura si è dunque evoluta col tempo: è solo l’evidenza dei testi scritti che ci permette di seguirne più facilmente il percorso. In questo percorso, la reinvenzione europea della stampa nel Quattrocento ha straordinariamente moltiplicato gli effetti della scrittura stessa, al punto di replicare su una scala di massa gli effetti innovativi dell’esperienza della lettura nell’antica Grecia: e nel caso dell’Europa cristiana, l’attività di interpretazione dei lettori dei nuovi testi stampati si è rivolta non all’epica omerica, ma al testo della bibbia.
A differenza dell’antica Grecia però, l’attività diffusa di interpretazione di uno stesso testo scritto – la bibbia, appunto – è costata agli europei due secoli di devastanti conflitti religiosi. Probabilmente anche per questo nel Seicento intellettuali di varie nazionalità e fedi cristiane si sono dedicati alla costruzione di una realtà deliberatamente sottratta all’interpretazione, perché ridotta a parametri quantitativi e quindi computabili.
I filosofi naturali che hanno costruito le nuove scienze moderne, da Galileo a Cartesio e a Newton, hanno effettivamente aggiunto al mondo anche l’oggetto di queste scienze: la dimensione dei fatti naturali e quantificabili. Questa nuova dimensione fattuale e oggettivamente misurabile avrebbe dovuto scongiurare i conflitti sulla natura delle cose: per usare l’immagine ottimistica di Leibniz, in questo modo chiunque si sarebbe potuto sedere ad un tavolo, calcolare, e ottenere il medesimo risultato degli altri.
Secondo la similitudine recuperata da Galileo, nel Seicento i filosofi naturali stavano quindi deliberatamente spostando la propria attenzione dai libri di fattura umana al ‘grandissimo libro’ dell’universo e alla sua ‘lingua matematica’ scritta in altri caratteri: ‘triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche.’
In altri termini, i filosofi naturali stavano modificando sia l’oggetto sia il linguaggio delle loro indagini: da libri e parole a fatti ed enti matematici, cioè, numeri e forme. Tuttavia, la loro modalità di lettura era rimasta la stessa: come la relativa stabilità del testo scritto permetteva di individuare le ripetizioni e di stabilizzarne i sensi, così i filosofi naturali continuavano a ricercare le ripetizioni nei fatti da loro aggiunti al mondo, così da stabilizzare i fatti stessi e i loro sensi.
Inoltre, i fondatori delle nuove scienze non si accontentavano di registrare queste ripetizioni nella
TAMBURO/PORTALE | Interpretazione del tamburo dello sciamano con rappresentazioni simboliche dei tre mondi: quello ctonio, terreno e degli spiriti. Le trasparenze, nelle quali si leggono altri simboli, stanno a rappresentare l’arcaicità dello strumento, utilizzato per aprire varchi verso gli altri mondi.
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realtà ordinaria delle cose. Per questo, avevano cominciato a predisporre sistematicamente delle versioni controllate e ripetibili della realtà fattuale che si prestassero meglio alla misurazione dei fatti: gli esperimenti.
Considerando la diffusione di queste attività sperimentali nel Seicento, Marshall McLuhan ha sottolineato: ‘L’osservazione e la sperimentazione non erano una novità. Quella che era nuova era l’insistenza su prove tangibili, ripetibili e visibili.’ E ha suggerito come modello di questa nuova richiesta di uniformità proprio la stampa: ‘La catena di montaggio dei caratteri mobili ha reso possibile un prodotto uniforme e ripetibile come un esperimento scientifico.’
Quello che noi chiamiamo ancora ‘esperimento scientifico’ è la messa in opera di catene operative precisamente definite e descritte, così che possano essere altrettanto precisamente ripetute: la ripetibilità di un esperimento e dei suoi risultati è ancora oggi considerata dagli scienziati come la garanzia della stabilità dei fatti così aggiunti al mondo.
Possiamo considerare in questa chiave le attività sperimentali sugli stati alterati di coscienza: e anche in questo caso, è l’esigenza di fissare i risultati sperimentali in forme definite e ripetibili che determina la logica della ricerca. Secondo questa logica, l’alterazione di coscienza non è tanto concepita come un transito ma piuttosto come uno stato (seppure temporaneo): è come stato ripetibile in laboratorio che se ne possono indagare le cause.
D’altra parte, abbiamo visto che la ripetibilità è stata usata come chiave di accesso alla conoscenza sin dall’antichità classica: la ripetizione del ciclo di nascita, vita e morte degli esseri viventi aveva permesso ad Aristotele di adattare lo studio del vivente al pregiudizio filosofico che considerava oggetto di conoscenza solo entità immutabili. Alla luce delle nostre considerazioni sugli effetti della scrittura, possiamo ora associare questo pregiudizio all’emergenza della scrittura nella Grecia postomerica.
Inoltre, le osservazioni precedenti sugli effetti della diffusione della stampa a partire dal Quattrocento ci permettono di rilevare un’associazione simile tra la pratica della stampa stessa e la pratica sperimentale dei filosofi naturali. In altri termini, due rivoluzioni tecnologiche sostanziali, cioè la propagazione della scrittura alfabetica nella Grecia antica e quella della stampa nell’Europa rinascimentale, sembrano poter essere direttamente associate a due fasi fondamentali dell’elaborazione europea della cultura filosofico-scientifica: e in entrambi i casi, la rinnovata condizione di stabilità prodotta dai testi scritti prima e a stampa poi sembra aver indirizzato l’operato di filosofi antichi e filosofi naturali moderni.
Una terza rivoluzione tecnologica oggi in corso, quella della digitalizzazione dei testi, non ha ancora prodotto effetti paragonabili all’invenzione della scienza antica e di quella moderna: comunque, la smaterializzazione apparente del testo digitale ha già trasferito il carattere di stabilità del testo stesso nella dimensione intangibile ed invisibile del suo contenuto di informazione.
La stabilità attuale del testo scritto o stampato è infatti diventata temporanea nella versione della sua visualizzazione digitale, che è però potenzialmen-
NOTE AZZURRE
te (e illimitatamente) ripetibile. Questa potenzialità meramente ripetitiva prolunga la traiettoria della scrittura e dei suoi effetti nella direzione opposta a quella dello stile orale, della sua logica di flusso e delle sue pratiche di riattivazione.
Agli antipodi dall’esperienza sempre rinnovata o, nelle parole di Marcel Jousse, revitalizzata dello stile orale, la visualizzazione digitale è un’esperienza semplicemente ripetuta, nonostante la varietà delle sue espressioni grafiche in termini, tra l’altro, di dimensione, colore, tipo di carattere, allineamento e impaginazione.
Proprio questa varietà potenziale produce un effetto paradossale: la svalutazione della modalità di visualizzazione del testo digitale rispetto al testo stesso, concepito come una sequenza di lettere e spazi senza specifica determinazione visiva. L’uso della duplice funzione di ‘copia e incolla’ è un esempio operativo di questa svalutazione: una sequenza qualsiasi di lettere e spazi può essere non solo isolata dal corpo del testo ma anche disincarnata, per così dire, dal corpo del proprio carattere tipografico. Abbiamo infatti la possibilità di incollare la sequenza di lettere e spazi mantenendo solo il testo, ovvero le forme (invisibili all’occhio ordinario come quelle platoniche) delle lettere, che si incarnano poi nel corpo del carattere del testo di destinazione.
Da questo punto di vista, la digitalizzazione del testo radicalizza ulteriormente il processo di astrazione inaugurato dalla scrittura alfabetica, con la sua vertiginosa riduzione della varietà di suoni del linguaggio verbale ad una sequenza di lettere isolate. Potremmo dire che al collo di bottiglia prodotto dall’alfabeto nella dimensione del visibile ha corrisposto una moltiplicazione di dimensioni invisibili: tra le altre, quella del senso letterale, quella dell’interpretazione allegorica, quella delle forme platoniche e poi aristoteliche e quella dei significati. Il testo che la funzione ‘incolla’ ci permette di mantenere è solo l’ultima della serie di illustri proiezioni della scrittura nella sfera dell’invisibile.
La scrittura e i suoi sviluppi successivi hanno quindi rinnovato a più riprese sia la sfera del visibile sia quella dell’invisibile. Ma allora, se supponiamo che le attività dello sciamano siano espressione di una tradizione principalmente ordinata secondo lo stile orale, sia la dimensione visibile sia quella invisibile da lui congiunte nella persona del paziente probabilmente si distinguono da quelle esplorate nelle indagini sugli stati alterati di coscienza.
È almeno probabile che l’esperienza aurale, che caratterizza lo stile orale come sua dimensione privilegiata, influenzi sostanzialmente la costruzione sia della sfera visibile sia di quella invisibile: è anzi possibile che addirittura getti un ponte tra le due sfere al modo in cui, per usare un esempio della nostra esperienza letterata, l’aggiunta della terza dimensione geometrica permette di connettere figure bidimensionali altrimenti separate.
È altrettanto probabile che la serie di rivoluzioni scritturali, proprio enfatizzando a più riprese l’esperienza visiva a discapito di quella uditiva, abbia per questo operato anche indirettamente sulla sfera visibile e su quella invisibile, riducendone le connessioni aurali e quindi, di fatto, allontanando l’una dall’altra. 187
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In questa prospettiva, l’esperienza vivente dello sciamano è tanto più preziosa in quanto continua a riattivare una contiguità tra dimensioni visibili e invisibili che proprio la priorità visiva della nostra civiltà della scrittura sembra aver pregiudicato.
Comunque, la transe sciamanica in quanto condizione di questa contiguità riattivata esprime, come sottolineato in precedenza, una tradizione caratterizzata dallo stile orale: ci si potrebbe allora domandare se la sua traduzione nei termini europei di alterazione di coscienza non debba riferirsi ad una specifica modalità orale della coscienza stessa.
E a questo punto, non possiamo evitare di domandarci se la nozione di ‘coscienza orale’ non sia una contraddizione in termini. Abbiamo già menzionato la definizione che Jaynes ha dato della coscienza come ‘una nuova creazione’: potremmo anche ricordare che secondo lo psicologo statunitense la coscienza è emersa dal crollo di un assetto psicologico precedente che caratterizzava, tra l’altro, la cultura greca orale dei poemi omerici. Jaynes ha descritto questo assetto come ‘mente bicamerale,’ che rende conto dello sdoppiamento operativo tra umani e dèi con cui Omero ha reso i conflitti che noi oggi definiremmo ‘psicologici.’
Un caso eclatante è quello dell’eroe Achille che, messa mano alla spada per uccidere il proprio comandante militare Agamennone nel corso dell’assemblea, è afferrato per i capelli dalla dea Atena che gli impedisce di intervenire se non a parole. Nel linguaggio della psicologia contemporanea, potremmo dire che l’eroe dà forma ad un intervento repressivo sulla propria pulsione aggressiva allucinando l’ingerenza divina a cui si sottomette prontamente. Jaynes usa la nozione di ‘mente bicamerale’ proprio per sottolineare l’effettivo sdoppiamento di umani e divinità nella gestione del corso d’azione: ma così facendo proietta sul testo omerico, che ignora le parole ‘mente’ e ‘corpo’ e le relative nozioni, un senso che emerge solo successivamente.
Potremmo ipotizzare che come le nozioni di mente e corpo, la nozione di coscienza prenda forma nella Grecia postomerica come effetto collaterale, per così dire, della scrittura alfabetica e della sua capacità di assicurare la coerenza di un testo, e per analogia, dei suoi oggetti. Abbiamo ricordato che la nozione del sé emerge nel testo platonico come operazione riflessiva: analogamente, la nozione di coscienza, proprio come le parole syneidēsis e conscientia che finiscono poi per descriverla, sembra affiorare dalla trasformazione di una pluralità di agenti in una unità che agisce su sé stessa spesso in modo conflittuale, perché costretta a interiorizzare una varietà di componenti scarsamente compatibili.
Platone notoriamente descrive questo conflitto divenuto interno con un’immagine di violenza straordinaria. Un auriga (la porzione calcolante e per questo dominante della psiche) guida agevolmente uno dei suoi cavalli (la porzione emotiva), e invece per tenere a bada l’altro cavallo (la porzione desiderante) tira violentemente il morso tra i suoi denti, ‘gli copre di sangue la lingua scurrile e le mascelle, e gli forza a terra le zampe e le anche, causandogli molto dolore.’
La conversione delle modalità di rapporto di una persona col mondo in componenti interne alla per-
NOTE AZZURRE
sona stessa ha non solo prodotto dolorosi conflitti interni, ma ha anche sostituito la precedente relativa fluidità di relazione con una barriera tra interno ed esterno. Questo irrigidimento si è riflesso nella nuova organizzazione delle voci verbali greche dopo la diffusione della scrittura.
Émile Benveniste ha sottolineato che analogamente al sanscrito, in greco la diatesi o forma attiva e quella media del verbo sono state le due principali modalità d’azione originarie. Mentre la forma attiva descrive un’azione operata su altro, quella media ‘indica un processo la cui sede è il soggetto.’ Al contrario, nelle prime grammatiche greche scritte che ci sono giunte non solo la forma passiva si era affiancata a quella attiva e a quella media, ma quest’ultima era stata ridotta ad un ruolo intermedio (e apparentemente ridondante) tra forma attiva e passiva.
Potremmo dire che nel mondo di entità circoscritte prodotto dalla lingua greca scritta e dai suoi apparati di definizioni, le relazioni di interscambio relativamente fluido erano divenute marginali rispetto alla contrapposizione netta tra l’agire (espresso dalla forma attiva) e il patire (espresso dalla forma passiva). Siamo così abituati a questo schema binario che dal suo interno ci risulta difficile anche solo descrivere la funzione della forma verbale media in termini più semplici di quelli usati da Benveniste: potremmo dire che il suo effetto è nominare un’azione rivolta ad altro ma che ha effetto anche su chi la compie.
L’antropologo danese Rane Willerslev ha incontrato una serie di analoghe difficoltà nel rendere a beneficio dei suoi lettori anglofoni la psicologia degli Yukaghir, una popolazione della Siberia la cui cultura è tutt’ora legata alla tradizione sciamanica, sebbene la funzione attiva degli sciamani sia scomparsa durante l’era sovietica. Nel suo tentativo di descrizione, Willerslev ha applicato agli Yukaghir la nozione europea del sé, e si è trovato per questo in una sorta di terra di mezzo tra la serie di dualismi ad essa associati:
[I]l sé Yukaghir è in uno stato intermedio: la sua anima è sia sostanza sia non-sostanza; [il sè] è il suo corpo e la sua anima, sé stesso e un altro reincarnato; è sia l’umano sia l’animale cacciato; è sia il predatore che la preda, e così via.
In definitiva, Willerslev sembra essersi arreso all’evidenza che per gli Yukaghir – come probabilmente per ogni altra cultura prima della stabilizzazione scritturale – ‘ognuno non è mai solo sé stesso ma sempre allo stesso tempo qualcos’altro.’
Poco meno di un secolo prima dell’antropologo danese, il filosofo francese Lévy-Bruhl aveva gratificato dell’epiteto di ‘primitivi’ tutti gli appartenenti alle culture in cui proprio la condizione di essere sé e allo stesso tempo qualcos’altro – definita pomposamente come ‘legge di partecipazione’ – appariva la norma.
Proviamo a rivisitare brevemente la questione sollevata da Lévy-Bruhl. In ambito europeo, abbiamo visto che la nozione del sé era comparsa per prima nei dialoghi di Platone: il suo allievo Aristotele aveva poi costruito la nozione più generale di ‘essere qualcosa.’ Proprio l’uso del verbo ‘essere’ aveva permesso ad Aristotele di immaginare i suoi oggetti 189
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d’indagine facendo astrazione dalle loro condizioni specifiche: secondo Aristotele, il fatto che qualcosa sia è la condizione necessaria perché questo qualcosa possa assumere caratteristiche specifiche ed entrare in relazione con altro.
In termini contemporanei, potremmo dire che la nozione aristotelica di ‘essere qualcosa’ rappresentava una conferma tangibile dell’intervento di stabilizzazione operato dai testi scritti sui loro oggetti. Secondo Aristotele (e quasi tutti i successivi teorici europei) la caratteristica comune di questi oggetti, cioè, delle realtà in generale, era appunto di essere qualcosa.
Nel confronto con gli esponenti di culture orali in cui questo processo di stabilizzazione non aveva semplicemente avuto luogo, Lévy-Bruhl – come quasi tutti gli osservatori europei – aveva candidamente rovesciato la situazione: invece di considerare l’invenzione aristotelica della nozione di ‘essere qualcosa’ come un dispositivo linguistico e teoretico che confermava la stabilizzazione degli oggetti dei testi scritti, l’aveva trasformata in una condizione naturale cui curiosamente gli appartenenti alle culture orali sembravano sottrarsi.
Potremmo dunque osservare che allo sguardo di Lévy-Bruhl – come più tardi a quello benevolo di Willerslev – i praticanti dello stile orale sembravano ‘essere sé e allo stesso tempo qualcos’altro’ solo perché non condividevano il ruolo che le culture europee letterate avevano affidato al verbo ‘essere’: quello di confine tra l’interno e l’esterno delle cose.
Potremmo dire che sulla scorta della nozione aristotelica di ‘essere qualcosa’ il verbo essere ha operato nella cultura europea come una sorta di marcatore identitario proprio separando assolutamente una entità qualsiasi da ciò che è altro da sé.
Ma il ruolo di marcatore identitario del verbo essere non ha solo influenzato la cultura europea da Aristotele in poi, perché è anche stato proiettato a ritroso nel tempo: per esempio, la separazione assoluta che l’uso del verbo essere in funzione identitaria ha introdotto tra interno ed esterno ha permesso di concepire la formazione della membrana cellulare come un elemento di separazione tra l’interno e l’esterno della cellula stessa, piuttosto che l’articolazione locale di una relazione di scambio selettivo tra porzioni di realtà.
Abbiamo visto invece che nella ricostruzione di Woese ben prima del raggiungimento della ‘soglia Darwiniana’ è stata proprio la condivisione orizzontale del patrimonio genetico tra varie porzioni di realtà – gli ‘aggregati supramolecolari’ – a permettere la produzione di composti sempre più complessi: ed è solo il pregiudizio identitario del linguaggio europeo dell’essere che ha reso difficile l’emergenza di modelli, come quello proposto da Woese, che enfatizzano caratteristiche di orizzontalità, permeabilità reciproca e condivisione.
Al contrario, lo stesso pregiudizio identitario ha permesso l’affermazione, nel corso del dibattito evolutivo, di nozioni quali la Spenceriana ‘sopravvivenza del più adatto,’ che sfortunatamente anche Darwin ha poi adottato, e che riduce l’evoluzione ad un confronto tra individui atomizzati; del modello genetico di Watson e Crick, che è ancora usato per isolare il patrimonio genetico dalle cir-
NOTE AZZURRE
costanze della sua trasmissione; e della più recente (e risibile) narrazione del ‘gene egoista’ propugnata da Richard Dawkins.
Questa riduzione della storia dell’evoluzione ad una sorta di corsa ad ostacoli di una miriade di concorrenti in gara tutti contro tutti ha certamente ostacolato la considerazione della produzione culturale umana come strumento evolutivo: solo sessant’anni fa Leroi-Gourhan ha evidenziato la correlazione positiva di evidenza litica, volume cranico e supposta capacità linguistica come fattore fondamentale dell’evoluzione umana in un’opera che significativamente è apparsa in traduzione inglese solo trent’anni dopo.
Lo stesso processo di accelerazione evolutiva innescato dall’elaborazione culturale umana – culminato, nelle parole di Leroi-Gourhan, con il passaggio dalla zoologia alla sociologia – rischia ancora di essere letto secondo il pregiudizio identitario come opera di una generica collettività umana, in cui l’individualità della specie sostituisce l’individualità del soggetto singolo. Al contrario, abbiamo visto che una figura specifica, quella dello sciamano, ha incanalato gli effetti di una presumibile variazione genetica verso un uso sociale, trasformando la propensione convulsiva nell’abilità di entrare in transe e di produrre effetti terapeutici.
Se confrontiamo l’approccio sciamanico ai fenomeni convulsivi con quello ippocratico, la differenza principale non riguarda certo la considerazione delle loro cause, che era rilevante solo nel caso di Ippocrate. Mentre per Ippocrate, infatti, il cosiddetto morbo sacro non era che una patologia che richiedeva un intervento terapeutico adeguato, le culture sciamaniche hanno trasformato la tendenza convulsiva stessa in uno strumento di intervento terapeutico.
Sulla base delle considerazioni precedenti, potremmo osservare che Ippocrate ha ereditato una specifica tradizione medica più che centenaria organizzata sulla base di una pratica di scrittura in prosa sin dai tempi di Alcmeone. La presenza del testo scritto ha accompagnato la stabilizzazione non solo della nomenclatura clinica ma anche del paziente come entità individuale: nei testi ippocratici, l’individuo non è solo il luogo in cui la malattia si manifesta, ma anche l’ambito specifico di osservazione che permette al medico di assecondarne il decorso positivo.
La pratica ippocratica di osservazione degli effetti visibili delle affezioni sul corpo si riallaccia ad una pratica clinica ancora più antica, quella degli interventi terapeutici sui feriti narrata nei poemi omerici. Possiamo notare che in Omero la sfera delle patologie traumatiche (le ferite di guerra) è chiaramente distinta da quella dell’evento epidemico, che è descritto per analogia come l’effetto di un’arma divina, le frecce scoccate da Apollo: Ippocrate (possibilmente sulla scorta di Alcmeone) trasforma poi questa causa direttamente divina in quella solo indirettamente divina delle congiunture ambientali e in particolare atmosferiche.
Mentre quindi in Omero la cessazione dell’epidemia non dipende dall’intervento dei medici ma dall’estinzione della sua causa, cioè l’ira di Apollo, Ippocrate – come il suo contemporaneo, lo storico Tucidide – assorbe l’evento epidemico nella sfera d’azione me- 191
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dica. In generale, possiamo osservare che la medicina postomerica espande il campo di intervento del medico dai traumi ad una varietà di alterazioni (trasmissibili e non) dello stato delle persone. Questa espansione comporta anche una applicazione più ampia della terminologia elaborata in relazione agli eventi traumatici: abbiamo visto come la parola ekstasis, usata dapprima nel senso di fuoriuscita fisica di un osso dall’articolazione, finisca per descrivere la condizione di essere fuori di sé.
Lo stesso termine diagnōsis fa la sua comparsa in un testo ippocratico sui traumi con il senso di ‘rilievo accurato’ della condizione dell’osso fratturato. Se confrontiamo quest’uso con quello a noi familiare della parola ‘diagnosi,’ ci accorgiamo di un rilevante slittamento di senso, che va ben oltre quello traslato della parola ‘estasi’: l’osservazione diretta dell’alterazione di ossa, muscoli e tessuti vari diventa infatti una deduzione diagnostica sulla base dell’osservazione.
Più in generale, si potrebbe osservare che l’espansione analogica di pratiche mediche basate originariamente su tecniche lenitive e chirurgiche rischia di applicare un approccio riduzionista a sfere d’intervento più complesse, quali le alterazioni metaboliche. Questo rischio è divenuto certezza, per esempio, nella moderna costruzione frenologica della psiche.
Comunque, la medicina europea – quali che ne siano stati poi gli sviluppi – già nella sua fase ippocratica ha manifestato una tendenza alla patologizzazione individuale, che ancora oggi relega la medicina sociale in un ruolo assolutamente subordinato. In questo senso, l’uso curativo della transe distingue sostanzialmente l’approccio terapeutico degli sciamani da quello della medicina europea.
Questa distinzione non riguarda certo l’appello sciamanico ai cosiddetti spiriti, o meglio, a realtà ordinariamente invisibili, e che non sono più invisibili della pletora di entità aggiunte al mondo dalla cultura europea: microorganismi, particelle subatomiche, entità astrofisiche e soprattutto le dimensioni teoretiche che filosofi, teologi e scienziati hanno prodotto con l’uso della scrittura.
La differenza sostanziale sta piuttosto nella collocazione dell’esperienza convulsiva sui due versanti opposti dell’intervento terapeutico: da quello della malattia, per opera dei medici europei, e da quello della cura, per opera degli sciamani. Questa contrapposizione è il risultato di prospettive differenti: nell’Europa della scrittura, è la costruzione della malattia come alterazione della condizione ordinaria dell’individuo che ha permesso ad Ippocrate di descrivere la convulsione come epilēpsis, presa o cattura (da parte del morbo) dell’individuo stesso. La parola greca da cui deriva il nostro termine ‘epilessia’ illustra dunque la conquista della fortezza individuale, di cui la malattia appare come una tragica capitolazione.
Poiché invece l’universo orale di cui gli sciamani sono espressione non avviluppa le persone nella camicia di forza dell’identità individuale, l’anomalia dell’esperienza convulsiva non è stata immediatamente racchiusa nei confini del suo occasionale portatore genetico, ma è stato possibile elaborarne culturalmente una distribuzione, per così dire, entro comunità più o meno ampie perché ne diventasse una risorsa.
COSCIENZA | ‘Coscienza collettiva’ sono le conoscenze e le credenze condivise da un gruppo di individui, una nazione o la popolazione planetaria. Consente ai membri di condividere obiettivi, comportamenti, espressioni. Incoraggia gli individui a conformarsi alle credenze del gruppo. In breve, rende possibile la società umana.
ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA
In termini contemporanei, potremmo essere tentati di descrivere questa straordinaria elaborazione culturale come una sorta di riconversione di una possibile mutazione genetica e dei suoi effetti in una risorsa evolutiva: e però, il termine ‘riconversione’ manifesterebbe un pregiudizio europeo nei confronti di questi stessi effetti convulsivi in quanto interruzioni del controllo della coscienza.
Potremmo allora piuttosto suggerire che l’ambiente orale ha permesso alle tradizioni che definiamo sciamaniche di cogliere l’opportunità di una variazione nella costituzione umana per elaborarne e metterne socialmente a frutto gli effetti. In questo senso, la costruzione sciamanica della transe sarebbe però non semplicemente espressione dello stile orale, ma della sostituzione della zoologia con la sociologia che ancora oggi costituisce la specificità della relazione evolutiva tra umani e non-umani: quest’avvicendamento di priorità trasferisce sul piano della cultura umana la più generale capacità del vivente di cogliere opportunità.
Naturalmente, nel caso del vivente in generale, possiamo individuare un’opportunità evolutiva solo in retrospettiva, sulla base dei suoi sviluppi successivi. È importante ricordare che il nostro sguardo retrospettivo proprio valutando i percorsi evolutivi alla luce dei loro risultati più recenti rovescia la prospettiva evolutiva stessa: e se non tenessimo conto di questo rovesciamento prospettico prodotto dal nostro sguardo, rischieremmo di continuare ad attribuire alla nozione di evoluzione il senso di miglioramento piuttosto che di differenziazione. Nel caso delle culture umane, l’attribuzione storica del senso di miglioramento alla nozione di evoluzione ha motivato la collocazione delle culture stesse in un ordine ascendente, dai cosiddetti primitivi ai moderni europei. Quest’ordine, che ha giustificato l’impresa coloniale europea come missione civilizzatrice, ha neutralizzato a lungo le differenze tra culture riducendole a stadi gerarchici di un unico sviluppo evolutivo.
Le stesse tradizioni sciamaniche sono state per molto tempo classificate come uno stadio inferiore dell’evoluzione religiosa. Eliade ha realizzato il primo studio sistematico dello sciamanesimo per appropriarsene come costituente della sua storia delle religioni: e già nella prefazione al suo saggio aveva definito lo sciamanesimo come un ‘complesso fenomeno religioso.’
Come però ci ricorda lo storico Brent Nongbri, che ha esplorato ‘le origini moderne delle religioni antiche,’ il concetto di religione è una costruzione relativamente recente: e non sarà inutile ripercorrere brevemente i passi di questa costruzione e dei suoi presupposti nella storia europea, per chiarire la relazione tra la nozione di religione e quella di sciamanesimo.
Nell’antica Roma, il termine latino religio da cui deriva la parola ‘religione’ indicava un complesso di consuetudini e cerimonie civiche che includevano anche delle divinità: non deve dunque sorprendere il fatto che ancora nel quarto secolo Agostino non era convinto del suo uso per definire la fede cristiana.
L’uso della parola religio si è poi affermato nel corso del medioevo come riferimento esclusivo al cristia-
NOTE AZZURRE
nesimo: in seguito alla riforma protestante, le varie denominazioni cristiane si sono poi contese violentemente l’attribuzione di ‘vera religione.’ Da questo conflitto è emersa in Europa la possibilità di concepire una pluralità di religioni, che includeva oltre alle confessioni cristiane anche il credo ebraico e quello islamico.
L’invasione coloniale europea ha poi allargato il campo ad altre culture, le cui manifestazioni sono state assimilate alla nozione europea di religione. Abbiamo già ricordato che questa assimilazione, grazie alla nozione di evoluzione culturale come miglioramento, ha comportato per le culture più distanti dal modello di religione offerto dal cristianesimo e dai monoteismi – come nel caso dello sciamanesimo – la degradazione a livelli inferiori dello sviluppo evolutivo umano.
In parallelo all’estensione geografica della nozione di religione in età moderna, una corrispondente espansione retrospettiva ha trasformato il giudizio dantesco sugli ‘dèi falsi e bugiardi’ dell’antichità nella nozione inedita di religione greco-romana. La nozione di religione è stata poi ulteriormente estesa a tutte le civiltà del passato, fino al punto di ritardare (per la sua incongruità) la decifrazione della scrittura maya in pieno Novecento.
Non solo la nozione di religione, che presuppone una pluralità di religioni possibili, è almeno in Europa una costruzione moderna, che nasce dai conflitti di interpretazione di un testo scritto, la bibbia: le tre fedi abramitiche – ebraismo, cristianesimo e islamismo – su cui questa nozione è stata retrospettivamente modellata rimandano allo stesso testo scritto, che per gli autori islamici motiva la vicinanza tra i ‘popoli del libro.’
Un doppio filo lega dunque la costruzione della nozione di religione e l’uso della scrittura. Al contrario, abbiamo ricordato a più riprese che lo stile orale caratterizza la tradizione sciamanica, cui conferisce un indirizzo eminentemente operativo: i rituali sciamanici non comportano l’applicazione di principi stabilizzati dalla loro trascrizione, ma la riattivazione, rischiosa perché sempre inedita, della serie di esperienze di transe dello sciamano e dei suoi predecessori.
Sono proprio queste esperienze di transe che ci hanno permesso di avvicinare l’esperienza sciamanica a quella di mistiche cristiane: e tuttavia, abbiamo anche rilevato che a differenza dell’estasi concessa a queste ultime per grazia divina, la transe sciamanica è il risultato di operazioni compiute deliberatamente con l’ausilio fondamentale dei partecipanti alla cerimonia.
Abbiamo anche considerato un possibile confronto tra le serie operative degli sciamani e quelle messe all’opera in laboratorio per generare e analizzare stati alterati di coscienza. Abbiamo allora osservato che mentre lo sciamano dà vita insieme ad agenti visibili e invisibili ad un processo aperto e irripetibile, l’attività del ricercatore è orientata dalla necessità di produrre effetti ripetibili in forma di stati osservabili o riferibili.
Tenendo presenti queste differenze sostanziali, è ora possibile prendere in esame la possibilità di associare questa varietà di esperienze a una serie di processi metabolici, quali prodotti della ricerca neu- 195
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rofisiologica più recente: e abbiamo già sottolineato che questa associazione è stata esplorata da studiosi come McKinney e Winkelman con l’aiuto della nozione di neuroteologia.
Abbiamo anche ricordato che la parola ‘neuroteologia’ è molto probabilmente un neologismo coniato dal romanziere e saggista Huxley, che peraltro nel romanzo Isola dove la parola appare non ce ne fornisce una definizione: comunque, la psicoterapeuta Susila – un personaggio chiave del romanzo – descrive il neuro-teologo come ‘[q]ualcuno che pensa alle persone simultaneamente nei termini della Chiara Luce del Vuoto e del sistema nervoso vegetativo.’
Il riferimento è qui alle due fonti dell’esperimento culturale in atto nell’immaginaria isola orientale in cui la narrazione è ambientata: buddismo Mahayana e scienza europea. La parola ‘neuroteologia’ combina infatti il prefisso ‘neuro,’ comune alla discipline scientifiche che si occupano del sistema nervoso, e ‘teologia,’ una nozione che secondo Huxley include il buddismo.
Possiamo notare che la parola greca neuron è apparsa già in Omero nel senso di ‘tendine’: probabilmente il medico Erasistrato è stato poi il primo ad applicarla ad un’altra fibra del corpo umano, quella nervosa, nel terzo secolo prima dell’era cristiana. A sua volta, la parola greca theologia è stata probabilmente coniata da Platone nel senso di discorso sul divino, e solo nel medioevo il prestito latino theologia è diventato un termine tecnico per designare lo studio sistematico del dio cristiano. L’applicazione della categoria europea di religione alle culture extraeuropee ha poi esteso anche a queste ultime la nozione di teologia. La parola ‘neuroteologia’ svolge dunque per Huxley la funzione di un doppio raccordo, tra oriente e occidente e tra religione e scienza. Secondo le considerazioni precedenti, l’associazione di neuroteologia e sciamanesimo riprende questa duplice connessione ma ne modifica i termini: le coppie di poli che congiunge sono da una parte oralità e scrittura, e dall’altra transe e alterazioni metaboliche.
La combinazione di neuroteologia e sciamanesimo allarga dunque il quadro delle relazioni concepite da Huxley: l’incontro tra un corpo di testi scritti asiatici (il canone buddista Mahayana) e uno di testi scritti europei (le iscrizioni scientifiche moderne) si estende a quello ben più ampio tra una famiglia presumibilmente ubiquitaria di tradizioni orali e il corpus scientifico europeo quali rappresentanti dello stile orale e di quello della scrittura.
In altri termini, l’articolazione di neuroteologia e sciamanesimo non si limita a connettere scienza e religione, che sono categorie europee moderne e manifestazioni dell’universo della scrittura: al contrario, la considerazione delle pratiche sciamaniche apre l’orizzonte alle costruzioni orali della realtà, di cui la transe sciamanica è un’espressione eclatante.
Abbiamo visto che proprio la differenza tra lo stile orale e quello della scrittura distingue la transe sciamanica come percorso dall’alterazione di coscienza esaminata scientificamente come stato: questa distinzione non impedisce però un intervento di traduzione tra queste esperienze.
Abbiamo anche già esplorato a questo scopo i sensi delle operazioni di traduzione. Abbiamo sottolinea-
NOTE AZZURRE
to che la comprensione tradizionale della traduzione come espressione del significato comune è soprattutto l’effetto della reinterpretazione medievale in chiave platonica della tradizione giudaico-cristiana: la preesistenza dei significati alle operazioni di interpretazione è presumibilmente modellata sulla presenza delle idee nella mente divina.
Abbiamo poi suggerito, sulla scorta delle osservazioni di Wittgenstein, che si potrebbe invece valutare una traduzione sulla base della somiglianza tra l’uso del testo tradotto e quello del testo originario. Abbiamo però anche notato che l’operazione di traduzione produce inevitabilmente uno slittamento di senso che si sovrappone, per così dire, ai sensi precedenti come l’ultima di una serie di scatole cinesi: ed è la prospettiva di chi confeziona l’ultima scatola a riorientare il corso precedente della serie.
Potremmo applicare queste considerazioni all’operazione di traduzione in senso lato della transe sciamanica in termini di alterazioni metaboliche. In questo caso, siamo ora in grado di individuare il limite di questa traduzione nel linguaggio stesso in cui viene condotta: le nozioni di stato e di equilibrio (per quanto dinamico) che strutturano il discorso biochimico in quanto operazione di scrittura mal si adattano allo stile orale delle operazioni sciamaniche.
In altre parole, c’è il rischio che il mondo sciamanico, che è letteralmente costruito come una narrazione, venga frammentato e ricostruito come una combinazione di reazioni biochimiche, e che l’esperienza della transe sia assimilata in maniera riduzionista ad una descrizione di cosa accade nel sistema nervoso dello sciamano. Eppure, il rischio possibile di questa traduzione è più che controbilanciato dai suoi possibili benefici. Per prima cosa, l’introduzione nel linguaggio neurofisiologico di una nuova lettura dei fenomeni convulsivi in chiave non meramente patologica risuona con la recente attenzione alle varianti dell’umano come differenze e non insufficienze.
Potremmo ricordare a questo proposito che, per esempio, numerosi intellettuali autistici hanno rivendicato la loro condizione come una forma di neurodiversità e non una malattia da curare: e nelle parole di Harvey Blume, ‘la neurodiversità può essere tanto cruciale per la razza umana quanto la biodiversità lo è per la vita in generale.’ Pur riconoscendo la necessità di supporto in casi potenzialmente invalidanti, i sostenitori del pluralismo neurologico considerano la variante autistica semplicemente come una delle componenti del patrimonio neurologico (e possibilmente genetico) dell’umanità.
Più in generale, la traduzione della transe sciamanica nel linguaggio del metabolismo integra nel discorso evolutivo una tradizione di lunga durata e di grande diffusione di pratiche culturali che risuonano con le nuove interpretazioni dell’evoluzione in chiave pluralista e collaborativa: l’esempio sciamanico della valorizzazione di una variante umana e della sua tendenza convulsiva come risorsa comunitaria è un ulteriore invito a rivedere radicalmente la narrazione tradizionale dell’evoluzione come mera competizione.
È importante sottolineare che questa revisione ha non solo valore retrospettivo, ma anche (e soprattutto) propositivo: il ripensamento in chiave pluralista del nostro percorso evolutivo non può infatti 197
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non influenzare i criteri delle nostre scelte presenti. Queste scelte sono ancora troppo spesso ispirate al monismo della nostra tradizione filosofico-teologica – ereditato poi dalla scienza moderna – che afferma l’unicità esclusiva della propria costruzione del mondo.
Al contrario, la ripresentazione nel linguaggio delle scienze europee di una tradizione altra come lo sciamanesimo può avere un duplice effetto. Abbiamo già ricordato il suo apporto interno al discorso delle neuroscienze come valorizzazione della neurodiversità: ma non è meno importante l’apporto esterno al discorso più ampio delle scienze europee, quello dell’esempio della transe sciamanica come aggiunta al mondo.
In termini europei, la tradizione vivente dei rituali sciamanici agisce come un dispositivo di supporto sociale, perché opera al tempo stesso sul ‘malato’ e sulla sua comunità. In questo senso, l’attività degli sciamani esprime pienamente lo spostamento di fuoco dalla zoologia alla sociologia che secondo Leroi-Gourhan è la chiave dell’evoluzione umana. Questo spostamento non esclude l’aspetto fisiologico dell’intervento che noi definiremmo ‘terapeutico,’ ma lo integra in un quadro sociale più ampio. E non dovrebbe essere difficile comprendere questo quadro sociale come una produzione culturale aggiunta al mondo.
L’esempio della cultura sciamanica potrebbe aiutarci a concepire anche la cultura delle scienze europee come una aggiunta umana al mondo. E tuttavia, questo parallelo è ostacolato dalla presupposizione europea di una distinzione sostanziale tra il complesso delle conoscenze e il loro oggetto, la natura, che le scienze europee generalmente suppongono sia sempre stata lì, aspettando solo di essere rivelata agli occhi di tutti: e abbiamo visto come questa distinzione si sia acuita per motivi storici, all’apice delle guerre di religione.
Nel caso specifico della tradizione medica, il complesso di tecniche di ricerca e di cura è nettamente distinto dall’oggetto di queste tecniche, il corpo vivente. Eppure, abbiamo visto che in Europa la scissione tra attività terapeutica e costruzione del mondo sotto forma di descrizione e classificazione del vivente risale principalmente ad Aristotele: e se continuassimo ad applicare retrospettivamente il termine ‘biologia’ (che è un’invenzione moderna) alle ricerche aristoteliche, potremmo dire che non c’è biologia senza scrittura che ne stabilizzi entità e relazioni. In questa prospettiva storica, dovremmo allora poter considerare anche il discorso biomedico – che include la sua propria costruzione biologica del vivente – come una aggiunta al mondo.
In questo caso, potremmo descrivere visivamente le varie aggiunte umane al mondo come strati che continuano a sovrapporsi gli uni agli altri lungo una dimensione che potremmo definire temporale, o più precisamente, storica. Questa dimensione, che è il risultato della ricostruzione storica dell’accaduto, è certo anch’essa un’aggiunta umana al mondo: ma è un’aggiunta che ci permette – come già in queste note – di far posto per qualsiasi costruzione umana anche quando questa costruzione pretende (come nel caso di filosofie, religioni e scienze) di esaurire con le sue produzioni tutto lo spazio disponibile.
La dimensione storica è una delle forme che la narrazione orale ha preso nel suo incontro con la
NOTE AZZURRE
scrittura. Finché continueremo a costruirla, questa dimensione potrà continuare a offrire spazio a tutte le aggiunte umane: e soprattutto, come in questo libro, alle loro reciproche traduzioni.
Proprio dalla dimensione storica che questa scrittura non ha mai cessato di produrre possiamo finalmente riprendere il racconto di Strabone che tanto aveva impressionato Frazer. Stavolta però, come risultato del nostro percorso, possiamo almeno immaginare una via d’uscita dalla serie ossessiva e incessante di sostituzioni che le scienze sembrano aver ereditato dal cruento rituale Nemorense, e che sembra curiosamente perseguire lo scopo che Eliade assegna a tutte le manifestazioni del sacro: fermare il tempo. Chissà invece che non sia venuto il momento di lasciare il tempo al suo corso, che è anch’esso, storicamente, un effetto di scrittura, e di mandare infine in pensione il sacerdote del bosco di Nemi, affidando il tempio di Diana alla tutela di tutti quegli officianti che ne sappiano prendere cura.
Ringrazio Carlo Dossi per le note, Annalisa Mazzeni per l’accoglienza e l’ascolto, Lucia Ciarpallini per i suggerimenti e David Bellatalla ‘Denn man muß dem Weisen seine Weisheit erst entreißen.’ 199