Bloom 2009 01

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EDITORIALE Alberto Cuomo

E’ solo il senso di un impegno assunto in anni non più revocabili, allorché la passione ci condusse sulla via della ricerca, ad inoltrarci verso la nuova avventura di una rivista on-line interna all’accademia. Lo stato di decadenza (e di indecenza) del mondo universitario è tale che spesso siamo indotti all’inerzia e a non creare occasioni di adesione da parte di giovani studiosi, ed anzi ad allontanare i migliori allievi che intendono dedicarsi allo studio e che sarebbero quasi certamente traditi dalle perverse logiche che regolano l’università italiana. L’inganno che ha condotto al fallimento delle recenti agitazioni degli studenti è in questo senso esemplare nel rendere la scarsa considerazione in cui sono tenute le giovani generazioni nella gestione e nell’organizzazione degli studi superiori. Strumentalizzato dai rettori in funzione antigovernativa, il movimento degli studenti è stato infatti del tutto abbandonato a se stesso in vista del compromesso ministeriale che ha condotto alla conversione in legge del decreto legislativo. Nessuno dei punti proposti dagli studenti e dai ricercatori precari, apparentemente assunti dalla Conferenza dei Rettori, è stato inserito nella legge: non la proposta della eliminazione dei crediti, attraverso i quali sono proliferati corsi ed esami per il parentado dei professori, né quella della soppressione di inutili lauree triennali, né il ritorno ai concorsi nazionali: l’intero documento degli studenti, nell’accordo tra rettori e ministro, è stato considerato carta straccia. Ma se quanto accade nell’università induce al pessimismo, il proprio della ricerca è nel rivolgere ottimistico allo sconosciuto, ed è quindi in questo spirito che i docenti e gli allievi del nostro Dottorato hanno inteso allestire un proprio organo di informazione scientifica che possa particolarmente costituire una palestra di esercitazione per i più giovani. E’ la stessa rivista cioè a proporsi, già nel titolo suggerito da Gianluigi Freda e riferito al disorientato quotidiano dell’eroe di Joyce, come strumento di ricerca, e non solo come diffusore degli studi svolti dai dottorandi. Un luogo aperto, attraverso il quale rinviare ad altri le discussioni interne al Dottorato sui diversi temi affrontati. Di qui, dal desiderio del confronto esterno, il tema posto all’attenzione in questo primo numero, l’architettura italiana, affacciatosi nei dibattiti del seminario annuale organizzato con docenti di altri atenei. Naturalmente, come accade ai neonati, la rivista prodotta appare ancora informe, sia nei contenuti che nell’allestimento complessivo. Siamo tuttavia certi che di ciò saremo perdonati dagli eventuali lettori, cui corrisponderemo con la nostra apertura all’intervento e con il vincolo della costante attenzione alle attese dei più giovani ricercatori.


EDITORIALE Franco Antonio Mariniello

Le Scuole di Dottorato sono state istituite con la buona intenzione di ristrutturare, riorganizzare e riordinare i percorsi di formazione di giovani motivati alla ricerca. Nel duplice tentativo: di esperire un indispensabile coordinamento delle numerose spinte alla frammentazione degli ambiti disciplinari di ricerca (prodotte dalla stessa riforma Berlinguer), e al tempo stesso di arginare la conseguente dissipazione di energie intellettuali e materiali, perseguendo così anche l’assoluta necessità di limitare gli sprechi, pure questi prodotti da una persistente difficoltà di programmazione, ma anche da cronica insufficienza di adeguati criteri di valutazione e di promozione di linee e settori di ricerca scientificamente e culturalmente “virtuosi”. Non ultimo è l’obiettivo di una operante internazionalizzazione delle attività, capace di favorire lo scambio culturale e la mobilità di docenti e dottorandi in un orizzonte globale, e di creare le condizioni per una competizione che sia governata e misurata da criteri di valutazione non solo burocratici e quantitativi. Malgrado la pronta ricezione di questa nuova struttura organizzativa da parte delle leadership accademiche, questo tentativo cade in una condizione di generale e grave sofferenza del nostro sistema universitario pubblico. Questo sistema non solo non riesce ad invertire un trend di progressiva e inesorabile riduzione delle risorse finanziarie da parte del governo centrale, ma sembra non trovare la determinazione necessaria per pretendere con forza dalle èlites del Paese un’attenzione per la ricerca architettonica (teorica e progettuale) scientificamente fondata, che non sia confinata nel serraglio dorato del mercato mediatico delle immagini e delle griffes ormai lontano dalla natura “costruttiva” (compositiva) e civile del pensiero e delle pratiche architettoniche e urbane. Tale clima rende ancora più incerta la riproduzione del sapere specifico e proprio dell’Architettura, considerando anche tendenze troppo superficiali alla liquidazione della ricerca progettuale nei territori più evanescenti del virtualismo “estetico“ contemporaneo (cfr. ultima Biennale veneziana). Ma la natura dell’attività intellettuale in architettura è anche speculativa e critica, e da tempo la pratica del Progetto, nelle sue migliori e più importanti declinazioni, si coniuga con una consapevole riflessione teorica per la ricostruzione di fondamenti disciplinari, per l’esplorazione avveduta di esperienze individuali e collettive radicate nei territori più resistenti all’omologazione linguistica, e, infine, della necessità stessa dell’Architettura come contributo non negoziabile alla trasformazione compatibile di un mondo di città e di territori in cui si dovrà ancora (liberamente e poeticamente) abitare. Con questo “numero zero”, dedicato all’architettura italiana, si avvia la rivista on-line del Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica consorziato con le sedi di Palermo e Reggio Calabria, nella Scuola di Dottorato di Architettura di Napoli Federico II, che in questo orizzonte problematico opera sin dalla sua costituzione. Questo nuovo strumento di comunicazione e partecipazione intende proporre nuove ipotesi di ricerca, diffondere più incisivamente il dibattito, aprendosi, come già avviene nei nostri convegni e seminari, ancor più al confronto tra i dottorandi, i docenti e le personalità più interessanti ed autorevoli del panorama scientifico e culturale internazionale, non solo accademico e non solo circoscritto all’ambito della disciplina architettonica. Ma, soprattutto, l’iniziativa tende a promuovere e a valorizzare l’impegno dei giovani studiosi, cui oggi tocca in sorte di ri-scoprire (come già fu per altri, in altri tempi difficili) il gusto e la necessità vitale della dialettica ideale e culturale, di “sentire” la serietà di una condizione anche generazionale, che comunque non intende abbandonare la lotta a un cinismo mercantile senza finalità che ridurrebbe la stessa ricerca scientifica a facile preda del più inquietante e accattivante nichilismo: quello che si annida nell’incapacità della visione, nel sonno del pensiero e nell’impossibilità del sogno, nel futuro negato (o già scritto) malgrado la potenza della Tecnica. Ma tutto ciò nonostante (è proprio nel recente pensiero di Severino, sorprendentemente allusivo) agli architetti sembra essere consegnato il compito di condurre questa contemporaneità a vedere l’inatteso e l’insperato, la Gioia e la Gloria di cui tutti siamo fatti inconsapevoli destinatari.



ALDO ROSSI: DISEGNO, ARCHITETTURA E COMPOSIZIONE Regina Bandiera

Lo scritto si propone di indagare la relazione tra architettura e composizione nell’opera di Aldo Rossi. Il disegno è il mezzo che ci guiderà nel percorso che intraprenderemo attraverso l’opera dell’architetto. Faremo riferimento a due atteggiamenti distinti dell’opera e del pensiero di Aldo Rossi, il primo legato alla sfera personale ed emotiva, il secondo caratterizzato da un approccio positivista1, posizioni rispettivamente rappresentate nei suoi scritti Autobiografia scientifica e L’architettura della città. A queste due modalità di pensiero corrispondono due modi diversi di concepire il disegno di architettura che, da un lato, incarna il tramite tra memoria, storia ed esperienza del mondo; dall’altro regola il rigoroso esercizio di esplorazione e traduzione del pensiero progettuale in architetture costruite. Il disegno interpreta, così, la corrispondenza tra segni grafici e sviluppo del progetto di architettura andando aldilà della semplice raffigurazione di un processo chiuso e volto alla sola realizzazione dell’oggetto architettonico. Esso rende visibile e palpabile il ragionamento in divenire, consistendo in un imprescindibile medium nell’operare dell’architetto. Nell’opera di Aldo Rossi esiste un forte legame tra disegno, architettura pensata ed architettura costruita, relazione che proveremo a descrivere di seguito. Il disegno rende tangibili i passaggi logici che attraversano la “costruzione” del progetto, mettendo in evidenza i punti più importanti e significativi della sua costituzione. “Ogni mio disegno o scritto mi sembrava definitivo in un doppio senso; nel senso che concludeva la mia esperienza e nel senso che poi non avrei avuto più nulla da dire.”2 Due sono quindi gli estremi che definiscono il campo entro il quale si articola la “forma” del disegno di Aldo Rossi. Il disegno di Aldo Rossi, soprattutto quello a mano libera, fa continuo riferimento all’opera di Sironi e di De Chirico. Analogamente, l’accostamento del disegno di Rossi alle figurazioni metafisiche di Edward Hopper è frutto di una voluta evocazione di atmosfere urbane rarefatte che appartengono al territorio della memoria, dove i processi di questa -profondamente legati alla produzione degli schizzi e dei disegni a mano libera- sono riconducibili ad una “scrittura automatica” di derivazione “surrealista”.3 Quello che consideriamo atteggiamento “positivista” del disegno di Aldo Rossi è esposto nel noto scritto di Ezio Bonfanti, Elementi e costruzione (1970)4, nel quale viene presentata l’opera di Aldo Rossi mettendo in evidenza il legame tra teoria e progetto che -tramite il disegno- si realizza fisicamente nell’architettura costruita. Partendo dalle asserzioni di Bonfanti, che definiscono il procedimento progettuale di Rossi analitico e additivo-compositivo, proveremo a descrivere più approfonditamente i meccanismi di traduzioneinterpretazione del progetto propri del disegno dell’architetto. Nel proporre la lettura di alcune opere di A. Rossi sono stati individuati dei criteri che chiarificano processi e operazioni attuati mediante il disegno/progetto; nella convinzione che il disegno possa non solo descrivere ma partecipare attivamente nella definizione del progetto, pensiamo che la complessità del processo progettuale possa essere esplicata mediante l’individuazione di temi e modalità di lavoro che ricorrono nell’operare dell’architetto: un filo conduttore all’interno della sua produzione. La definizione di questi criteri può essere sintetizzata nelle operazioni di selezione e di accostamento, nella definizione di analogie, nella stratificazione di informazioni e ci porta ad avere prodotti molto varî, non solo sul piano grafico ma anche su quello dei significati: da un lato avremo il massimo della complessità dato dalla sovrapposizione di disegni, immagini, colori, collage di immagini; dall’altro l’estrema semplificazione, pochi e chiari elementi misurati che definiscono i pezzi, i frammenti che sono essenziali per la definizione del

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R. Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Milano, 2005, p. 92. A. Rossi, Autobiografia scientifica, Milano 1999, p. 7. 3 Stefano Fera, Aldo Rossi: rielaborazioni, viaggio e palinsesto, in Lotus 68, ‘l’occhio dell’architetto’, Marzo, 1991, Milano. 4 E. Bonfanti, Elementi e costruzione, 1970, Controspazio n° 10. 2


progetto. Come il frutto di una distillazione «le cose da fissare sono poche ma non si devono sbagliare; esse sono il senso della costruzione».5 Per rendere più evidente il legame del quale abbiamo parlato (tra architettura e composizione) analizzeremo alcuni “testi” (disegni e modelli) elaborati da Aldo Rossi in diversi momenti della sua produzione di architetto. Nel descrivere le operazioni ricorrenti in parte dei progetti di Aldo Rossi si è ritenuto opportuno mettere a punto un vocabolario ad hoc per denominare gli aspetti peculiari dei diversi tipi di disegno che -pur comprendendo disegni tecnici convenzionali, schizzi e disegni a mano libera, collage e modelli- portano con sé significati che vanno oltre la semplice rappresentazione mostrando come si disfa e accresce il progetto. I temi individuati nei disegni presi in esame affrontano - nella loro costruzione - particolari aspetti sviluppati nel progetto: le ‘sovrapposizioni’, ad esempio, descrivono tutti gli esiti di una rappresentazione grafica dovuta all’utilizzo di materiali (diversi/omogenei), assemblati come in un collage ricomponendo nuove visioni del luogo e dell’oggetto progettato. Disegni caratterizzati dalla sovrapposizione sono sicuramente quelli realizzati per il progetto per il Cimitero di Modena (1971-78), e per il progetto della Casa dello studente a Chieti (1976). Così i disegni dalla figura da 1 alla figura 3 sono collage ottenuti sovrapponendo rappresentazioni di diverso tipo: proiezioni di Monge, assonometrie, vedute prospettiche. Questi disegni operano una ri-composizione degli elementi e delle parti che costituiscono i materiali manovrati dal progetto. In particolare nel primo disegno, relativo alla Casa dello studente a Chieti, si può osservare come la disposizione degli elementi in alzato degli edifici nella precisa posizione che questi occupano in pianta, pone l’attenzione sulle relazioni di posizione esistenti tra le parti che costituiscono tale sistema di edifici. Questo disegno mette inoltre in evidenza come la definizione degli spazi tra le ‘cose’ avviene - attraverso una ulteriore opera di astrazione dal contesto (di fatto non rappresentato) - utilizzando le relazioni interne al sistema di edifici che ne misurano l’ampiezza e il rapporto tra pianta e alzato, stabilendone forme e dimensioni. Il secondo disegno è un collage. Questo è costituito da vedute prospettiche con punti di vista differenti tra loro, sovrapposte dal basso verso l’alto, le prospettive hanno come sfondo le proiezioni dei fronti dell’edificio. Il valore illustrativo della prospettiva viene meno grazie alla ricostruzione, mediante le architetture, di un paesaggio non reale, metafisico. Anche nel terzo disegno, questa volta relativo la progetto per il Cimitero di Modena, la ricomposizione degli oggetti (parti) è effettuata attraverso il montaggio di prospettive dai punti di vista differenti che, sovrapposte dal basso verso l’alto sulle proiezioni dei fronti degli edifici, costruiscono un paesaggio non reale, metafisico. Le ‘scomposizioni’ che definiscono un disegno ridotto a parti o elementi, disposti alle volte sottoforma di elenco, ci riportano ad una dimensione analitica della realtà sviluppata da Rossi fino alle estreme conseguenze nella progettazione del Municipio di Scandicci (1968) in cui tutti i pezzi sono individuabili singolarmente per forma e posizione. Il disegno in figura 4 mostra come Rossi disegni gli elementi e le parti costitutive del Cimitero di Modena (1971-78) come nelle tavole di Durand, disponendoli secondo un catalogo. Stesso procedimento è adottato dall’architetto per rappresentare gli elementi e le parti che costituiscono la Casa dello studente a Chieti, 1976 (fig. 5). Entrambi i progetti sono presentati in una tavola di disegni dove il modo di ordinare le parti rappresentate rimanda alle tavole degli elementi di Durand (fig. 6). Nel progetto per il Municipio di Scandicci si può inoltre notare come le ‘selezioni’(disegni selettivi) operate dai disegni portano ad una grande riduzione della complessità reale: disegni che attraverso la semplificazione mettono in evidenza le strutture fisiche e concettuali di un determinato oggetto (semplificazione dell’oggetto rappresentato). Come abbiamo già accennato il sistema di produzione della “forma architettonica” in Rossi è regolato dal montaggio-giustapposizione di pezzi (riconducibili ad una logica compositiva classica “durandiana”) dove la rigida simmetria e la ripetizione organizzano la successione di oggetti e la configurazione degli spazi tra le cose. Non è raro, infatti, che le tavole dei Precis di Durand siano riportate tra gli scritti di Rossi. Come si può vedere questi principi sono esplicitati nei disegni prodotti per il progetto della Casa dello studente a Trieste (1971) e per il Municipio di Scandicci, (1968). In particolare, riguardo l’impianto planimetrico del complesso studentesco (fig. 7), sono raffigurate le parti che lo compongono estremamente semplificate: attraverso un’opera di astrazione dal contesto circostante, di fatto non rappresentato, sono rese più evidenti le relazioni di posizione che intercorrono tra gli edifici. Rossi disegna il progetto attraverso i suoi elementi costitutivi. Gli elementi e le parti sono riconoscibili, la composizione è organizzata secondo regole di simmetria che

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A. Rossi, op. cit., p. 16.


attingono al repertorio classico dell’architettura. Rossi costruisce l’edificio a partire da “pezzi”6 che, pur conservando la loro autonomia, sono tenuti assieme da una rigida composizione. Dopo che i “pezzi” sono diventati edificio, nei disegni è ancora visibile la conservazione dell’autonomia delle parti. Nel caso del Municipio di Scandicci (fig. 8) la riduzione della complessità è attuata attraverso la rappresentazione degli elementi che costituiscono il progetto astraendoli dal contesto. I volumi che compongono l’edificio sono rappresentati come elementi giustapposti, cosa che si ripropone con maggiore forza nella definizione del modello (fig. 9) anch’esso costituito da elementi giustapposti. Le ‘annotazioni/associazioni’, individuano disegni realizzati attraverso un tratto veloce, come schemi e schizzi che prendono nota di alcune idee, osservazioni, associazioni che divengono successivamente materiali del progetto. Alcuni tra i temi più cari ad A. Rossi sono esposti mirabilmente nei disegni a mano libera. Questi disegni attingono da una memoria collettiva appartenente al passato più remoto che riemerge, mediante ad una personalissima re-interpretazione, in figure attuali che hanno un grande potere evocativo. Tale re-interpretazione della realtà è trasferita anche per mezzo della copiosa sovrapposizione di segni grafici di differente natura e della loro immancabile evoluzione onirica; si vedano ad esempio i disegni Architetture con lo sfondo di Siviglia (1976-86), in figura 10. Il viaggio e la memoria, le suggestioni e gli accostamenti, riprodotti in questi disegni sono ottenuti mediante l’associazione di luoghi/architetture esistenti ad architetture pensate. Questi disegni costituiscono uno dei punti di partenza per la riflessione sul progetto da parte dell’architetto stabilendone i principi ordinatori: partendo dall’analogia e attraverso l’applicazione di una rigida grammatica compositiva di tipo classico, sono messi in atto quei processi che danno forma alle architetture di Rossi. Anche nel disegno in figura 11 - Composizione con la cupola di Novara e il cimitero di Modena, (1987) «Aldo Rossi procede esasperando le tecniche a lui proprie, ma qui è singolare come tecnica grafica e tecnica compositiva si corrispondano simmetricamente fin quasi a fondersi secondo un procedimento che ricorda la pratica surrealista della “scrittura automatica”, fondata, per l’appunto, sulla teoria dei “flussi di coscienza”. Il supporto di ogni immagine è dato dalla fotocopia di antichi disegni (...). Al tratto reso incerto dalla riproduzione fotomeccanica si sovrappongono grafia e calligrafia finché l’intreccio di originale e copia diventa indecifrabile. (...) il foglio fotocopiato si trasforma in palinsesto (...).»77 “Mi sono sempre vantato dell’adesione delle mie poche costruzioni ai primi segni grafici o alle prime annotazioni scritte, in cui fisso e cerco il mio rapporto con quella precisa costruzione” (A. Rossi).8 “… un genio sempre in bilico tra il rilievo di un mondo esistente esterno e la restituzione di un mondo proprio, intimo, interno ed in essi si affrontano analiticamente periodi e passioni della vicenda personale.”9

Fonti iconografiche figura 1, 3-7; 9-11 A. Ferlenga, a cura di, Aldo Rossi, Tutte le opere, Milano, 1999, pgg. 41-42. figura 2 G. Dorfles, A. Vattese, Storia dell’arte, vol. 4°, Bergamo 2009, pag. 223. figura 8 L. Benevolo, Storia dell’architettura, Roma-Bari, 1990, pag. 50-51. figura 11-13 Lotus n° 68, marzo 1991, pag. 114, pag. 119.

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Ezio Bonfanti, op cit.

Stefano Fera, op. cit. Aldo Rossi, Quaderni Azzurri, n. 24, “Alcuni dei miei progetti”, 6 Giugno 1979. 9 Cecilia Bolognesi, Alcuni disegni di Aldo Rossi, in “Il disegno di Architettura”, n. 23-24 Ottobre 2001 pp. 91-96. 8



GIUSEPPE DE FINETTI – ARCHITETTURA E PAESAGGIO Gaetana Laezza

In Italia l'architettura razionalista si è configurata come un movimento moderno, all'avanguardia, legato alle tendenze europee del funzionalismo. Razionalismo inteso come architettura funzionale, cioè come rapporto razionale tra le tecniche della produzione industriale e le esigenze della società moderna. Il razionalismo converge con il futurismo nell'intento di modernizzare l'architettura italiana. Le prime tendenze razionaliste si diffondono con il "Gruppo 7", operante a Milano negli anni 1926/27 con lo scopo di elaborare un linguaggio comune per rinnovare l’architettura. È opportuno evidenziare che le progettazioni razionaliste spesso non prevedevano solo il volume architettonico, ma anche l'architettura degli interni, in modo che ogni singolo particolare dell'edificio garantisse la massima funzionalità e migliorasse la società attraverso un'architettura più moderna e funzionale. In questo periodo in Italia, l'architettura fu al centro delle attenzioni dello Stato e dei cittadini per i suoi valori che proponeva per la vita quotidiana, e per la sua funzione rappresentativa. Ma il razionalismo ebbe i suoi punti deboli che si manifestarono attraverso i suoi maggiori esponenti. Per Pagano, ad esempio, che fu uno degli architetti più rappresentativi di questo movimento, l'architettura doveva caratterizzare l'ambiente urbano, attraverso la chiarezza e la semplicità della "produzione normale”, rinunciando ad obiettivi aulici. Su questo argomento Pagano e Persico furono d'accordo, anche se le loro posizioni politiche erano profondamente diverse: Persico non aveva fiducia nel fascismo, vedeva piuttosto un'architettura moderna al servizio di una società democratica; Pagano fu sostenitore del fascismo, che per lui costituiva un mezzo privilegiato per l'attuazione dei suoi principi. I migliori risultati si ebbero con l'edificazione di ville in zone isolate, dove alla fantasia dell'architetto erano concesse molte più possibilità di esprimersi. Difatti non sempre l'inserimento dei nuovi edifici nel contesto urbano preesistente dette risultati ottimali; spesso la nuova architettura risultò stridente con l’inserimento di questi edifici nella città consolidata. Il notevole incremento della popolazione urbana e la povertà in cui versava la stragrande maggioranza della classe operaia, in sede di programmazione urbanistica, condizionò gli obiettivi dei piani: bisognava consentire il maggior numero possibile di abitazioni, mediante un uso razionale dei suoli liberi. In questo scenario politico e culturale si inseriscono le vicende della scuola di architettura di Milano in cui l’opera di Giuseppe de Finetti ha rappresentato a più riprese, e con diversi valori, un riferimento decisivo. La sua opera ha contribuito alla definizione di un grande mosaico della tradizione italiana (ed in particolare milanese) coniugando principi di rigore linguistico, disegno di paesaggi e pulsioni di rinnovamento della compagine urbana. Una tradizione posta come “antecedente esemplare” per tracciare una linea di radicale trasformazione dell’architettura moderna in Italia. Giuseppe de Finetti rappresenta una figura di riferimento del XX secolo. Insieme ad altri fu protagonista del progetto urbanistico e architettonico italiano, assumendo una “nuova consapevolezza” del progetto, a seguito di un fare teorico – professionale. Sottolineando l’importanza del progetto che ritenne dovesse “essere a fondamento di ogni struttura urbana” e “sussistere alla ragione pratica, perché in assenza di essa non si sviluppa né progredisce”. Nel 1969 venne ripubblicato un suo libro ”Milano Risorge”, insieme alla maggior parte dei suoi scritti nel volume “Milano costruzione di una città”. Nel 1981, una mostra alla XVI Triennale di Milano e un catalogo, riportavano l’ampia raccolta di disegni, evidenziandone un diverso approfondimento nel tratto sulla carta, a volte neoclassico, a volte schematico e diretto, oppure nella sintesi dei raffinatissimi chiaroscuri, nei legni lucidi, nelle compatte murature.

VILLA CRESPI Villa Crespi è tra le realizzazioni più interessanti, perché sintetizza i principali temi della sua ricerca architettonica. È il periodo in cui de Finetti, membro del gruppo dei Novecentisti italiani, mostrò grande interesse per la tutela del verde a Milano. Villa Crespi conferiva un legame con il luogo attraverso il riferimento alla tradizione architettonica rurale, come testimonia l’uso del mattone, ma si arricchisce anche degli apporti della cultura urbana. Pur essendo realizzata al


di fuori del contesto cittadino, essa si lega alla città mediante il richiamo al classicismo; richiamo che caratterizza fortemente la composizione architettonica tanto da condizionarne sia l’impianto che la forma. Il tema della villa urbana, pertanto, rappresenta una costante della ricerca architettonica di de Finetti, come dimostrano anche i progetti residenziali elaborati durante la ricostruzione1. Lo spazio di Villa Crespi sembra voglia legarsi con il paesaggio attraverso l’ampia terrazza a sbalzo a forma di esedra. Nasce così una forte compenetrazione tra esterno ed interno. Il progetto viene pubblicato su una rivista di regime. Siamo negli anni in cui si risente dell’arretratezza economica e della scarsità di diffusione dei mezzi di modernizzazione del paese. A differenza delle sperimentazioni tedesche e di altri paesi europei, l’Italia in questo periodo è ancora legata al passato ed alla tradizione. Gli edifici italiani progettati tra gli anni ‘20 e ‘30 hanno una composizione statica, falsamente monumentale e l’apertura verso il Movimento Moderno viene condizionata dal regime fascista legato alla classicità, alla romanità, alla celebrazione del potere e del regime. E’ proprio in questo clima che una rivista dell’epoca pubblica una “villa” di Giuseppe de Finetti, opera che mostra chiari riferimenti ad alcune case del primo pensiero di F. L. Wright. Di contro le opere di de Finetti riflettono, anche se in ritardo, i canoni dell’architettura innovativa di quel periodo storico quando Wright alcuni anni prima aveva progettato e realizzato, la Robie house del 1908, la Fallingwater del ’37 e la Taliesin West del ’38. Purtroppo de Finetti giunse con quarant’anni di ritardo ad una ricerca già affermata in Europa di cui ne colse appena qualche carattere che ridusse in stile. Ciò forse fu dovuto al suo modo di pensare ancora accademico, indugiando sulla staticità della pianta, sulla monumentalità del basamento su una pesante trabeazione di chiusura, che creava così un elemento di isolamento dell’edificio. Ad inquadrare il paesaggio con cannocchiali visivi egli prevede dei “buchi” nel muro, rigorosamente allineati tra loro, e aggiunge, per essere celebrativo, un grande portale a doppia altezza chiuso con chiave di volta e inquadrato da lesene stilizzate.

IL GIARDINO DELL’ARCADIA Nel 1924 de Finetti acquista dalla famiglia milanese, la Melzi d'Eril, un terreno occupato all’epoca dal Giardino Arcadia posto nelle vicinanze di piazza Cardinal Ferrari, e decide di fondare una società immobiliare dal nome “Giardino Arcadia” che ebbe come obiettivo principale la realizzazione di diverse case d'abitazione signorili poste ai margini del vecchio giardino2. Nel 1912 il terreno era stato destinato dal piano regolatore a trasformarsi in una strada di collegamento tra l’incrocio di Corso di Porta Vigentina e Corso di Porta Romana con la piazza Cardinal Ferrari. Per tutelare il giardino storico de Finetti propose una variante al piano regolatore che prevedeva la sostituzione del tracciato rettilineo con una strada ad andamento curvilineo, evitando in tal modo che l’area verde fosse stravolta dall’incremento della nuova edilizia. In questi anni nacque in lui l’idea delle ville sovrapposte, una tipologia edilizia che unisce la tipologia dell'appartamento con la villa suburbana con giardino3. Un esempio è rappresentato dalla casa della Meridiana, edificio multipiano con una casa-villa ad ogni piano in cui ogni appartamento possiede un giardino pensile. Questo esperimento si basa sulla nuova tipologia residenziale: la villa sovrapposta, che è considerato uno degli edifici più interessanti della metà degli anni '20. Questa tipologia residenziale evidenzia la sua idea di città “che non imita né contempla la natura, ma cerca di valorizzarla mediante l’architettura”4. La Casa della Meridiana viene realizzata nel 1926 nel giardino5, detto "Erculeo", per la presenza di una statua di Ercole che troneggia all’interno di uno scenario di piante di alto fusto. De Finetti vive superficialmente le conquiste dell’architettura moderna, né può immaginare i progressi dell’architettura organica di Wright. Egli non percepì la possibilità di continuare la ricerca sul Raumplan attuata da Loos o di contribuire alle tesi del suo maestro viennese ignorando altresì alcune opere architettoniche quali la Ville Savoye di Le Corbusier, il padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe ed in generale il movimento De Stjil. 1

Mancini L. e Notari Vittorio, ivi. A. Burg, Novecento Milanese. I novecentisti ed il rinnovamento dell’architettura a Milano tra il 1920-1940, Federico Motta, Milano, 1991, p. 85. 3 A. Burg, ivi. 4 Mancini L. e Notari Vittorio, Giuseppe de Finetti. Villa Crespi, Alinea, Firenze, 2002, p. 5. 5 Nel perimetro esterno, per salvare i vecchi alberi. Il giardino era forse il più celebre di Milano. 2

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OGGI L’ARCHITETTURA ITALIANA Claudio Roseti

L’architettura digitale La ricerca di una possibile tematizzazione dell’architettura italiana oggi, intesa come insieme rappresentativo di architetture progettate e soprattutto realizzate che testimonino l’esistenza di una scuola o quantomeno di un orientamento sufficientemente delineato e diffuso da potersi collocare all’interno del dibattito architettonico internazionale, ne rivela viceversa la prevalente assenza. Assenza successiva a scuole ampiamente riconosciute come la “tendenza neorazionalista” (con le sue articolazioni) quali derivate dall’ancor più affermato e celebrato razionalismo italiano validamente espresso dall’opera di Libera e Terragni e poi di Figini e Pollini, Rogers, Persico, Pagani, ecc. Nell’attuale temperie la tendenza più avanzata ed accreditata in sede di dibattito internazionale appare orientata verso l’architettura digitale, con i suoi apparati, i suoi dispositivi e i suoi strumenti (il diagramma, i vettori, la geometria topologica, i software specifici, ecc.), attivati dall’accelerazione impressa dal mezzo elettronico che azzera i tempi di elaborazione dei grafici, unita alla massimizzazione del culto dell’immagine quale medium comunicativo che tende a identificarsi col progetto stesso. Perso ormai da decenni il riferimento di un bello universalmente riconosciuto al tempo stesso è andata lievitando la valutazione della bellezza come valore in sé fino a divenire l’obiettivo principale se non esclusivo dell’architettura; bellezza tutta da inventare d’altronde, possibilmente sempre diversa dove la qualità distintiva è data dal valore assoluto dell’immagine alla quale è subordinato qualunque rapporto, con la città, la storia, la funzione, l’utenza; l’obiettivo è quindi il gradimento estetico che viene per lo più ricercato seguendo la strada della spettacolarizzazione che si avvale di componenti evenemenziali, performative il cui riferimento è l’installazione dal carattere, per l’appunto, spettacolare dove la durata non conta; non è obiettivo di questa architettura che, al contrario, è destinata al ricambio secondo le leggi del consumo essendo piuttosto l’invenzione e la sua continua variabilità il vero obiettivo. In questa gara di dimensione globalizzante (nel senso che vi è una molteplicità di adesioni dove ciascuno cerca poi di emergere attraverso la sua interpretazione) sembrano primeggiare le nazioni che fino a poco tempo fa erano le meno dotate nel campo. Sul tema della globalizzazione scrive tuttavia Franco Purini: … “la globalizzazione, lungi dal produrre, come si temeva, l’omologazione delle singole culture, esalta al contrario la specificità, l’unicità, la singolarità del progetto in cui esse si identificano. Essa non costituirebbe dunque un fenomeno di livellamento di linguaggi diversi, uniformati e ridotti a un solo idioma che tutti li comprende e li supera, ma una competizione planetaria tra espressioni locali che tanto più possono affermare la propria egemonia quanto più confermano, e anzi incrementano, il carattere che le connota. Se questo è vero, l’architettura italiana avrebbe la possibilità di partecipare a quest’autentica gara dai toni duri e ultimativi, con strumenti migliori di quelli assai scarsi di cui dispone oggi, solo rafforzando la sua riconoscibilità, vale a dire recuperando quella capacità di conciliare permanenze e mutamenti che l’ha sostenuta nei suoi periodi migliori.”1 Afferma infine Purini, segnalando un evidente declino (ma non decadenza) dell’Europa, che “il centro del pianeta è già situato tra la Cina e il Giappone – l’Italia è sicuramente in ritardo. Un ritardo assai preoccupane ma comunque non definitivo.” In Italia vi sono solo poche sedi in cui l’architettura digitale è praticata come tema di insegnamento e di ricerca con produzione di pubblicazioni, ma manca di realizzazioni, carenza endemica del nostro paese, ancora più difficili da ottenere in questi casi e, in definitiva, non raggiunge un livello di approfondimento ed una diffusione tali da potersi collocare a livello del dibattito internazionale. Alla “Ludovico Quaroni” di Roma nel Dipartimento R.A.D.A.AR. Beniamino Saggio, tra i più impegnati nel campo, ha organizzato corsi di Progettazione Architettonica assistita; lo stesso Saggio è curatore di una sezione specifica della casa editrice Testo&Immagine (che fu diretta da Bruno Zevi) che ha prodotto un certo numero di libri significativi2 ma

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F. Purini, La misura italiana dell’architettura, Roma, Laterza, 2008, p. 70.

Della casa editrice Testo&Immagine i seguenti testi: M.Engeli, Storie digitali, 1999; M.Galofaro, Riscatto virtuale, 2000; P.Martegani, Design digitale, 2001; G.Ranaulo, Light architecture, 2001; D.De Kerckhove, L’architettura dell’intelligenza, 2001; B.Lindsey, Gehry digitale, 2002; V.Travi, Tecnologie avanzate, 2002; P.Gregory, Territori della complessità, 2003; P.Schumacher, Hadid digitale, 2004; Ian+, Odissea digitale, 2004; A.Marotta, Diller+Scofidio, 2005; A.Iacovoni, Gamezone, 2006; A.Ladaga, S. Manteiga, Strati mobili, 2006.


esistono anche altri studi. Sempre a Roma la Casa dell’Architettura, connessa all’Ordine professionale, ha organizzato mostre e manifestazioni sul tema, e la sezione laziale dell’INARCH ha tenuto un master sull’Architettura digitale. A Pescara Livio Sacchi che, a suo tempo, fu il primo ad occuparsi di decostruttivismo in Italia, ha organizzato un Dottorato di Ricerca sull’architettura digitale3 e la Facoltà del Design del Politecnico di Milano si è dotata di ambienti attrezzati per sperimentazioni sull’Architettura digitale che è oggetto di studio. Ma dopo queste tre università non pare vi siano altre sedi organicamente attrezzate e impegnate in questa direzione cui si possono solo aggiungere dei siti a partire da quello di Luigi Prestinenza Puglisi (www.prestinenza.it) con la sua attenta e tempestiva newsletter e la rivista “Arch’it” nel portale www.architettura.it diretto da Marco Brizzi, siti ambedue molto attivi e aggiornati ma, in linea di massima, non si può che confermare la limitatezza dello sviluppo di tale materia a scala nazionale. Quello che è certo invece è ciò che ormai da tempo si è impossessato di ogni attività umana ed è la mediatizzazione che attualmente presiede ogni azione, ogni aspetto della vita dell’uomo. Tutto è ormai comunicazione e funzione di questo medium che è anche trasmesso dall’immagine per cui ogni oggetto è visto come un’icona che vale per ciò che trasmette attraverso la sua configurazione esterna, il visibile, giacché quello che vi è dentro è posto in secondo piano. Da questa dipendenza è conseguita una rivalutazione e un’estensione dell’arte definita da Franco Purini “la nuova metafisica”, arte che però, a differenza dell’architettura, è connotata, com’è noto, da “sublime inutilità” e lo sconfinamento in tale ambito porta l’architettura su di un terreno di sperimentalismo continuo, di variabilità infinite, di imprevedibilità che sono appannaggio della pura invenzione divenuta prevalente nel progetto al di sopra di tutte quelle componenti che ne hanno sempre fatto parte sostanziale, giacché l’architettura è sempre stata composta di “arte e scienza”. Osservando più da vicino le componenti dell’architettura digitale prima citate si può rilevare tuttavia il positivo rinnovo di alcuni principi che hanno guidato finora la progettazione a favore di alcuni concetti che possono ritenersi vicini alla decostruzione derridiana nei suoi aspetti non meramente superficiali ma in quelli concettuali più profondi che riguardano quel “pensiero” che connota la vera architettura e la differenzia dalla mera edilizia. Tra gli strumenti principali della progettazione digitale è il diagramma, che guida l’uso degli specifici software e che di fatto è sempre esistito (la Maison Domino era un diagramma per Le Corbusier, Terragni lo era per Eisenman) come “ segno mentale” “utile per pensare”, afferma il filosofo americano Peirce, veicolo di trasmissione di ragionamenti e produzione di altri diagrammi “strumento per l’utopia” (e senza utopia non c’è progresso). Il diagramma si pone come mediazione tra la riflessione teorica e concettuale e la costruzione dell’oggetto architettonico e Eisenman lo definisce come “una superficie che riceve delle iscrizioni provenienti dalla memoria di ciò che ancora non esiste” quella cioè del potenziale oggetto architettonico. Così i vettori che, dotati di modulo, direzione e verso hanno sostituito le neutrali assialità per introdurvi le concettualizzazioni del progettista dove il computer diviene quasi un’estensione corporea che produce le forme dalla interazione delle forze interne ed esterne sostituendo al rigido determinismo e alla staticità della geometria euclidea e della prospettiva una controllata indeterminatezza, dove la forma è modificata continuamente da campi di forze ed è perciò al tempo stesso morphing e unform; è un processo, un evento, è architettura virtuale che andrà al impregnare il reale, dove tuttavia resta prevalente la deriva della forma verso la dilagante informazione. E’ chiaro che questi processi possono essere trattati privilegiando taluni aspetti a sfavore di altri esitando quindi caratterizzazioni e qualificazioni diversificate. La critica Questi argomenti sono il target nella critica più accreditata a partire dagli editoriali delle testate specialistiche più autorevoli. Francesco Dal Co dalle pagine di “Casabella”, già qualche anno fa, nel suo editoriale “Dell’architettura italiana”4 lamentava “l’arretratezza e l’asfiticità offerta dalla produzione architettonica del nostro paese” Analizzandone le cause Dal Co parte dalla committenza al cui proposito basti ricordare Mario Ridolfi che affermava che per fare un buon architetto ci vuole un buon committente, soggetto che in Italia ha sempre lasciato a desiderare specie se di tipo pubblico. Dal Co registra in generale un ritardo Di altre case editrici: G.Bettetini, B.Gasparini, N.Vittadini, Gli spazi dell’ipertesto, Milano, Bompiani, 1999; A.Caronia, Il cyborg, Milano, Shake, 2001; M.Unali, Pixel di architettura, Milano, Mimesis, 1999; P.Ferri, La rivoluzione digitale, Milano, Mimesis, 1999; G.O.Longo, Il nuovo Golem, Bari, Laterza, 1998; G. Boccia Artieri, G. Mazzoli, L’ambigua frontiera del virtuale, Milano, Franco Angeli, 1994. T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1997; A.Tursi, a cura di, Mediazioni, Milano, costa & nolan, 2005. 3 Cui collabora Maurizio Unali, autore de Lo spazio digitale dell’architettura italiana. Idee, ricerche, scuole, mappa, Roma, Edizioni Kappa, 2006, da cui sono stati tratti buona parte di questi dati. 4 F. Dal Co, “Dell’architettura italiana”, in “Casabella”, n. 717/718, p.4.

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venticinquennale nell’avanzamento della disciplina; denunzia inoltre la parzialità nell’assegnazione degli incarichi basati sul fatturato (che privilegia chi ha già lavoro), senza risparmiare neanche la mano d’opera e, ancora, rileva la debolezza dei finanziamenti nel sistema delle imprese. Non poteva mancare ciò che è a monte di tutto, cioè l’Università, di cui è annotato il recente incremento esponenziale delle sedi giunte al numero di ventitre con una produzione di laureati in esubero abnorme. Non vengono risparmiati neanche gli Ordini professionali, che sarebbero meglio deputati ad organizzare strutture di informazione sulle componenti di tipo più professionale anziché praticare il mero corporativismo. Ma l’interessamento di “Casabella” è proseguito sul piano della critica sull’Università ed è stato previsto di inserire, in sei degli ultimi numeri, un servizio sul tema “Insegnare architettura”; dopo i primi servizi, dal sapore rievocativo, che riportano gli scritti di alcuni maestri della modernità (Le Corbusier, Mies van der Rohe, Nervi), nell’ultimo numero è apparso lo scritto, molto attuale, di Eisenman5 che, com’è noto, oltre ad essere uno dei maggiori architetti a scala mondiale, è tra i più impegnati nel campo dell’architettura digitale. Eisenman denuncia la riduzione dell’architettura ad “icona costruita” (la “scultura abitata” come è stata già definita l’opera di Gehry) priva di significati e motivazioni se non la spettacolarizzazione finalizzata all’uso mediatico e al successo personale in competizione con la produzione diffusa in atto, dove a volte sono inserite forme illusorie di partecipazione. A ciò corrisponde una passività della popolazione studentesca che, indotta anche dalla disponibilità offerta dal computer, non reagisce (il ‘68 è ormai lontano …) anche se non viene loro fornito il perché delle scelte che è invece (come io stesso ho sempre sostenuto nei miei corsi) la base strutturale di ogni insegnamento, della trasmissione attiva del sapere che solo connesso con le sue motivazioni può essere sintetizzato in forma evolutiva e non attestarsi, come accade, entro una “ripetizione indifferente”, passivamente derivata proprio dall’immagine senza significato dell’architettura digitalizzata; con quest’architettura, susseguente alla revisione poststrutturalista, si sono persi invece i significati simbolici essendo puramente iconica, senza relazioni di significato e riferimenti culturali, derivando dagli “algoritmi informatici” anziché da un “pensiero notazionale”, e ciò non è sufficiente per assurgere a nuovo paradigma, afferma Eisenman che dell’architettura digitale rileva l’incompiutezza, la mancanza di una innovazione sostanziale profonda, paradigmatica, ponendosi piuttosto come “stile tardo” del periodo precedente ancora in atto; non vi è ancora il nuovo nel suo senso pieno giacché quest’architettura si attesta piuttosto sul piano della rappresentazione, seppure palesando il desiderio del nuovo; e a questo punto, calcando la mano sull’afflato conservatore che aleggia su tutto il suo testo, Eisenman si appella alla storia, all’architettura classica. “Mentre tutti vogliono essere all’avanguardia, indagare l’antico, guardare all’interno del vecchio, all’ambito specifico della propria disciplina e dentro la sua storia può essere un modo per occuparsi dell’oggi.”6 Richiamando il noto principio dell’Alberti “una casa è una piccola città, una città è una grande casa” Eisenman ne evidenzia l’attualità e la necessità di una relazione tra la parte e il tutto, quale dialettica partecipe del progetto metafisico, analogamente alle opposizione interno/esterno, figura/sfondo. Riprendendo la tesi poststrutturalista (ovvero il decostruzionismo derridiano) opposta alla metafisica della presenza Eisenman si chiede se è possibile smembrare visivamente queste coppie dialettiche rimettendole in discussione dall’interno in modo che, assegnando autonomamente all’architettura presente l’autenticità e la verità, e nella concezione che vede il formalismo come mezzo di autonomia dell’architettura, vi sia la possibilità di allontanare l’egemonia del visuale scindendone la relativa dialettica. Tutto ciò è molto importante alla luce del ruolo sociale dell’architettura che interagisce con la società attraverso la sua autonomia formalistica, attraverso cioè quelle qualità specificamente e autenticamente architettoniche che consentono di interagire e controbattere l’egemonia delle strutture sociali e politiche. E conclude Eisenman con un’enunciazione che sembra confermare l’atteggiamento conservatore di tutto il suo scritto “Questo è ciò che l’architettura è sempre stata e sempre sarà”. Una testimonianza Dopo questi importanti confronti esterni ritengo utile e opportuno (si parva licet…) concludere con un caso personale che attesti la coerenza e l’impegno di quanti lavorano nelle nostre università, perfettamente collocabile nell’ambito della querelle di “Casabella” versus la committenza, che (com’è qui dimostrato) peggiora molto quando è pubblica, e che osta notevolmente all’avanzamento della disciplina.

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Nel n. 769 uscito proprio mentre è stato procrastinata la consegna di questo saggio. P. Eisenman, “Insegnare architettura. Sei punti”, in “Casabella” , n. 769, sett. 2008, p. 5

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Sintetizzerò al massimo giacché l’opera in argomento è stata pubblicata in più sedi7. Si tratta di un incarico che fu affidato nell’ambito del “Decreto Reggio “ del 1989 con la Prof. S. Rossi (capogruppo) e l’Ing. V. Bellantoni (quali “esperti fuori Albo”) relativamente al complessivo parco archeologico della città. Ci si divise le otto aree componenti il parco ma delle tre affidatemi poté procedere solo il “Parco archeologico della Tomba ellenistica di via Tripepi con recupero verde attrezzato”. Il cambio nella società cui era stata affidata dal Comune la gestione dei progetti esitò il rifacimento (gratuito) del progetto, approvato il 27/12/89 nella versione di massima ma poi reso esecutivo, che abbandonai volentieri essendo tendenzialmente postmoderno, stile che andava ormai esaurendosi mentre il decostruttivismo avanzava prepotentemente e io avevo iniziato a scrivere il libro La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell’architettura che uscì nel ’97 e del quale potei quindi sperimentare sul campo le teorie. Nel centro ponderale e concettuale della composizione entro un lotto dalla geometria piuttosto irregolare ho posto un teatro all’aperto del tipo greco classico ma decostruito materialmente e concettualmente attraverso la smembratura e la rarefazione progressiva dei gradoni che, allontanandosi dalla scena centrale di forma circolare, assumono ondulazioni variegate. Alla tomba ho assicurato uno spazio di accesso e di visita privilegiata e la visibilità dalla strada facendola emergere dal muro ondulato rivestito in pietra di Trani rigata verticalmente (ora totalmente graffitato) che margina a valle l’insieme. Dall’ingresso di valle, in corrispondenza del quale è prevista la “memoria” del muro di contenimento preesistente (di cui sono state conservate le stesse pietre da reimpiegare) ricostruendo un diedro triangolare con inserita una seduta, sale con andamento di saetta (omaggio a Kandinskij) il percorso principale d’accesso con ai bordi due cascate di verde arbustivo fiorito dalle quali si emerge man mano giungendo alla piazza/palco. Un terzo ingresso posto a monte a forma di freccia giunge al centro del palco intorno al quale è raccordato il terreno, trattato a prato calpestabile e verde di varia grandezza, destinato al gioco libero dei bambini dove la pluralità delle funzioni incrementa, con la complessità d’usi, quella architettonica oltre ad accrescere l’economia di utilizzo dei poco più di tremila metri quadrati disponibili. Purtroppo alla tradizionale lentezza dell’ente appaltante si sono aggiunti ulteriori inconvenienti che hanno conseguito l’abbandono da parte della prima impresa a causa dei vari rallentamenti e quindi l’aggiunta dei tempi di un secondo appalto. La Soprintendenza archeologica, tra le altre cose, mi impose di cambiare il progetto a causa del reperimento, nel corso dei lavori, di una fornace per la cottura di mattoni (del 1920) per la quale feci ricorso al Ministero dei Beni Culturali e lo vinsi. Si riappaltò il lavoro e si giunse, ormai nel 2002, ad un buon punto (V. foto) ma altrettanto avanti era giunto intanto il ricorso di un espropriando (tra i centocinquanta proprietari dell’area che è molto vicina al centro) che si poteva controbattere e annullare, ma la lentezza dell’UTC ha permesso che fossero bloccati i lavori che sono fermi dal 2002. Di recente sono stato intervistato dal “Quotidiano della Calabria” che nel n. 221 del 12/8/08 ha dedicato un’intera pagina a quello che ha definito “il parco delle nebbie” spezzando una lancia in mio favore e in favore della città che resta priva di un salutare spazio verde nel centro urbano per l’incomprensibile trascuratezza della committenza8. E le lentezze degli enti pubblici, non consentendo il compimento delle tendenze architettoniche nei tempi canonici, inficiano il progresso verso le evoluzioni successive rallentate dalla mancanza di esperienze realizzate, di verifiche delle ipotesi progettuali sul terreno, com’è accaduto per questo progetto che però, mi sia consentito annotare, per l’originaria freschezza del linguaggio a suo tempo adottato ha retto bene il trascorrere degli oltre quindici anni di stasi pur perdendo la bruciante novità che avrebbe sortito con la debita ottemperanza dei tempi previsti. Immagini dello stato dei lavori all’interruzione del 2002.

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La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell’architettura, Roma, Gangemi, 1997. Lo spazio pubblico in Italia 19901999, a cura di P.C. Pellegrini, Firenze, Alinea, 1999, p.148-149. “Conservation active du patrimoine archéologique: le Parc de la Tombe hellénistique de la rue Tripepi à Reggio Calabria (Italie)”, in Atti del Seminario Euro-Mediterraneo, Forum Unesco-Università Lusìada, Lisbona, 2002, p. 47. “Un piccolo parco dai molti aspetti”, in “Laltrareggio”, n. 108, maggio 2002, p.10. “Un giardino con il ‘vincolo’”, in “Controspazio. Inserto”, n. 1, 2002, p.12-13. Nuovi paradigmi dell’architettura contemporanea, Reggio Calabria, Iiriti ed., 2003.

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Tra l’altro avevo abbozzato anche una soluzione priva di quel comparto di terreno ma tutto è fermo e le mie telefonate

non hanno avuto seguito. 4


UNGERS E ROSSI DUE ARCHITETTI ITALIANI? Francesco Sorrentino

Trovare la definizione di una certa “italianità” dell’architettura può sembrare un tentativo difficile, tuttavia è possibile o per lo meno si può accettare l’ipotesi dell’esistenza di un’area di influenza, di un sentire comune che, anche se a tratti e molto labilmente, unisce una serie di architetti. Tale “italianità ” può essere intesa come quella particolare inclinazione al confronto costante nel moderno con la tradizione classica, che ritorna e manifesta la sua presenza nel progetto d’architettura, sia in termini linguistici e stilistici (la ricerca della semplicità, delle proporzioni, l’uso della simmetria) o in termini più concettuali (l’assolutezza dello spazio, la monumentalità, il rapporto con la storia e con la città). Il nostro scopo non è tanto pervenire ad una esaustiva definizione di questa particolare condizione dell’architettura italiana (ammesso che sia possibile farlo), piuttosto, attraverso il confronto tra due architetti appartenenti a contesti geografici differenti come Ungers e Rossi, si avanza l’ipotesi che la continua presenza della tradizione classica, in qualunque modo essa si manifesti, sia una caratteristica universale dell’architettura, che, se da un lato sembra avere tendenze opposte e di matrice differente da quella della cultura classica, dall’altro continua ancora a riflettere su tale eredità e continua a farlo al di là di confini strettamente geografici. La scelta di questi due architetti è motivata dal fatto che Aldo Rossi è uno degli architetti che hanno maggiormente rappresentato ed influenzato il panorama architettonico italiano, lo stesso, per quel che riguarda il contesto tedesco, si può dire di Ungers, e il campo di affinità e di rimandi reciproci tra l’uno e l’altro è a dir poco suggestivo. Per entrambi il confronto con la tradizione passa attraverso la continuità, essi credono nella storia intesa come una mappa lungo la quale inserire e trovare la giusta collocazione di idee e cose: “Ogni architettura creativa è inserita in un continuum storico dal quale riceve la propria autentica destinazione. Nella consapevolezza di questa continuità storica risiede l’intuizione essenziale dell’umanesimo.” 1 La storia, pur nel suo aspetto fenomenologico, non manifesta la sua essenza di pura idea, principio metafisico, essa è dotata di una propria fisicità. Il confronto con la tradizione allora si tramuta in confronto con la storia nella maniera in cui essa si manifesta (potremmo dire si fenomenizza) nella città, che attraverso i suoi monumenti e le sue pietre, ne è testimonianza tangibile. La materia, il quid della storia diventa, quindi, il palinsesto della città: l’architettura della città. La consapevolezza che la comprensione dei fenomeni urbani, nel loro sedimentarsi attraverso il tempo di cui essi stessi sono traccia, diventi il progetto e ne costituisca la materia, è più che una convinzione per Aldo Rossi. In tal modo il progetto d’architettura appare come una matrice di lettura, un testo capace di accompagnare il lettore-osservatore attraverso la storia, che diviene identificazione e anima della città stessa. Le logiche che sottendono la dimensione urbana, costituenti l’architettura della città anche nei suoi aspetti sociali ed economici, vengono assorbite dalle logiche che sottendono l’elaborazione del progetto quale strumento di lettura attraverso cui l’intero processo di comprensione ed elaborazione emerge allo stato dell’essere. Nell’introduzione al progetto per la Südliche Friedrichstadt a Berlino Aldo Rossi così parla del suo progetto: “Il problema di costruire a Berlino e di costruire un isolato nel centro della Friedrichstadt è un problema di architettura della città. Questo significa che l’invenzione personale, l’architettura elevata ma a misura del privato, non vale per i problemi architettonici e urbani della grande città”2, e più avanti “Questa lettura dell’architettura di Berlino, per la sua impostazione, indica le principali caratteristiche del progetto. Si tratta principalmente, […], di una costruzione a scala urbana dove la comprensione della città costituisce la premessa o parte della progettazione.”3 Aldo Rossi in queste righe cerca di dare un fondamento al suo progetto, egli sostiene che lo spazio della libera invenzione personale va controllato e misurato se non messo da parte, perché è la lettura stessa della città e della sua architettura che guida il progetto oggettivandolo. Se è vero che la spinta alla costruzione di una teoria e di una metodologia progettuale, entrambe costruite su solide fondamenta scientifiche, come la storia, la morfologia urbana e la tipologia edilizia, è forte in entrambi, 1

O. M. Ungers, Five Lessons from Schinkel’s Work, in “Cornell Journal of Architecture”, 1981, pp. 118-119.

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Aldo Rossi, Progetto per la Südliche Friedrichstadt a Berlino, IBA, 1981, in “Alberto Ferlenga, Aldo Rossi Opera completa 19591987”, Electa Milano,1996, pp. 182 - 187. 3 Fr. Ibidem.

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è altrettanto vero che entrambi rivendichino audacemente in quanto componenti fondamentali del processo creativo elementi difficilmente oggettivabili come la fantasia e l’immaginazione. L’interesse per questi temi sorge molto precocemente per entrambi gli architetti, l’articolo pubblicato sul numero 244 di Casabella del 1960 ne è un chiaro esempio. Nell’articolo Aldo Rossi allora ventinovenne, a seguito di un’ intervista fatta ad Ungers, che era solo di cinque anni più vecchio, nel suo studio di Colonia, riporta questo passo del pensiero dell’architetto tedesco: “L’Europa non vive di una sola idea universale, è multiforme. E’ un terreno in cui esistono una vicina all’altra molte immagini e molte opinioni, è un paese in cui sono egualmente cresciuti illuminismo e misticismo. Nella tensione tra questi due estremi si sviluppa oggi una nuova vitalità”4. L’introduzione di questi elementi all’interno del processo creativo, che rimane comunque saldamente legato ad una solida base teorica, è una naturale conseguenza del processo di formazione delle idee e dei concetti di cui il progetto è il risultato. La dimensione apollinea e quella dionisiaca, per dirla alla Nietzsche, non generano alcun conflitto, Ungers e Rossi sembrano comprendere l’esistenza di un terzo ordine, quello del processo creativo, in grado di incorporare naturalmente le altre due dimensioni, che, in tal modo, risultano essere due facce di un unico piano. Rafael Moneo, uno dei principali critici di Aldo Rossi, ha intuito la presenza e la forza di un tale impianto teorico e metodologico dell’attività creativa, distribuendolo in un arco temporale in cui le tappe descrittive di tale evoluzione sono la pubblicazione del volume L’architettura della città nel 1966 e la pubblicazione di Autobiografia scientifica nel 1991. Il primo Aldo Rossi sembra un architetto molto attento allo studio della città e delle relazioni che essa instaura con l’architettura ed i suoi progetti seguono il calibro di tale impostazione, il secondo Rossi, quello di Autobiografia scientifica, si spinge su note molto più individuali e simboliche, i suoi progetti perdono quasi il rapporto dimensionale con la città, veri e propri elementi autoreferenziali che acquisiscono valore e significato nella loro individualità più che nella loro coerenza a quel mondo di connessioni fisiche e spirituali tra città e architettura. Un’altra ipotesi avanzata dalla critica contempla invece la dimensione tragica dell’architettura rossiana, secondo la quale l’atto creativo scaturisce dal conflitto tra razionalità oggettiva e istinto soggettivo. Forse il Rossi di Autobiografia scientifica trae in inganno, quest’ultimo volume, in realtà, giunge come sintesi di esperienze e pensieri già lungamente rielaborati da Rossi in numerosi scritti e progetti, come dimostrano le note con le quali egli accompagna la presentazione alla Biennale di Venezia de La città analoga: “Non esiste invenzione, complessità persino irrazionalità che non sia vista dalla parte della ragione, o, almeno dalla parte della dialettica del concreto. E io credo alla capacità dell’immaginazione come cosa concreta. […] In questo senso accentuavo il quadro del Canaletto dove, attraverso uno straordinario collage, si costruisce una Venezia immaginaria impiantata su quella vera. E la costruzione avviene mediante progetti e cose, inventate o reali, citate e messe insieme, proponendo un’alternativa nel reale.”5 Questo testo, scritto nel 1976, molto prima della pubblicazione di Autobiografia scientifica, ci mostra un Rossi che già intuisce la duplice presenza dell’immaginifico soggettivo e del razionale oggettivo nel processo creativo. Tale duplice presenza non viene risolta né in un’antitesi dualistica, né all’interno di un processo sintetico tra tesi ed antitesi, l’irrazionalità viene vista dalla parte della ragione, l’immaginazione diventa cosa concreta. Il paragone tra La città analoga di Aldo Rossi ed il volume di Ungers Morphologie. City Metaphors fornisce anche in questo caso suggestive assonanze, il pensiero analogico e metaforico è per Ungers non solo questione metodologica, ma incarna il processo stesso della conoscenza. La conoscenza del mondo che avviene mediante la costruzione di libere associazioni attuate attraverso la lente del rimando analogico, non è una conoscenza oggettivabile, utile cioè a descrivere in termini quantitativi il fenomeno, essa approda ad una soggettivazione fenomenica, che, nel non riferirsi ad elementi ripetitivi ed oggettivabili come sono quelli quantitativi, si predispone ad una forma di conoscenza che potremmo definire creativa. E’ chiaro che la natura delle strategie progettuali dei due maestri, per quanto differenti pur nella loro assimilabilità, li ha condotto inevitabilmente a ripercorrere sentieri già lungamente frequentati dalla tradizione dell’ architettura classica, basta pensare alle logiche interpretative dell’architettura romana di Palladio ed, in generale, di tutta l’architettura del rinascimento, o al contributo, carico di suggestioni e riferimenti, che le architetture di Ledoux e Boullèe hanno dato alla costruzione del loro immaginario formale. Inoltre, lo stesso contesto storico architettonico di Colonia, nella quale Ungers ha lavorato e vissuto, è rappresentato da una 4

5

Aldo Rossi, Un giovane architetto tedesco: Oswald Mathias Ungers, in “Casabella-continuità”, 244 (ottobre), 1960.

Aldo Rossi, La città Analoga, 1976, in “Alberto Ferlenga, Aldo Rossi Opera completa 1959-1987”, Electa Mi-

lano,1996, pp. 118 – 119. 2


città in cui, “attraverso gli stretti legami che la Chiesa cattolica e l’episcopato locale hanno saputo istituire nella storia passata e recente, un flusso ininterrotto di idee e suggestioni hanno trovato fertile terreno di cultura sulle rive del Reno. Romanità come tradizione e “italianità” come mito, convivono in un immaginario che trova riscontro nel fatto che, dopo Monaco di Baviera, Colonia risulta essere la più vivace comunità italiana in terra tedesca”6. Forse ai fini del discorso non risulta tanto importante stabilire quanto Ungers e Rossi si siano effettivamente confrontati con un’eredità culturale architettonica specificamente italiana, quanto rimarcare, attraverso il loro pensiero e loro opere, un tragitto, oggi purtroppo, sempre più percorso in solitudine. Se attualmente assistiamo alla omogeneizzazione dei linguaggi, ad una imposizione talvolta violenta nei tessuti urbani di immagini non più capaci di intrecciare relazioni chiare con la città ed esclusivamente rispondenti a logiche interne e autocitazioniste, allora forse è il caso di soffermarsi sulla lezione dei due maestri, sul loro sforzo creativo di un’identità mai particolare ne regionalistica, in quanto “identità analoga”, filtrata, cioè, da una concreta e reale immaginazione e fantasia.

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Andreina Maahsen-Milan, Ungers e Colonia, un paesaggio d’architettura. Idee e contraddizioni, in Annalisa

Trentin, a cura di, “Oswald Mathias Ungers: una scuola”, Electa, Milano, 2004, pp. 24-51. 3



PER UN’ARCHITETTURA DELL’ABITABILITÀ Felice Baione

“Un altro mondo è possibile solo se cambia il nostro rapporto col vicino di casa” (P.Barcellona)

Star di casa. In architettura come si sa l’esperienza del costruire, in vista e in quanto “star di casa” nel mondo, è “tutto” perché, a differenza per es. della scultura -le cui opere nello spazio sono oggetti da osservare, eventualmente da attraversare- le opere dell’architettura sono luoghi abitabili (“stanze” di casa e di città) per un periodo di tempo più o meno lungo, destinato a rimanere fra i ricordi meno labili del tempo vissuto sulla terra. Ma, se tutto è abitare -“una buona casa è quella in cui si abita bene” (Cornoldi)- e, allargando lo sguardo -“una buona città è quella in cui si vive bene”- allora, in perfetta analogia con il buon funzionamento dell’organismo umano, si può ragionevolmente affermare: “domus sana in urbe sana”. E qui si pone una domanda: che cosa influenza in maniera decisiva l’esperienza di quel “tutto” che è lo spazio costruito, perché possa essere anche “bello” vivere in esso? In altri termini, è possibile codificare un rapporto, una misura utile non solo a creare buone condizioni di salubrità (areazione, esposizione…) e di comodità (dimensione, distribuzione…), ma anche di “bellezza” (proporzione, modulazione…) -in quanto imprescindibile punto di sostegno del creato, o “pilastro di fabbrica del mondo”? (Così Erri De Luca su Il Mattino del 10 maggio 2008, commentando il verso biblico di Kohèlet:“Il tutto ha fatto bello in un suo punto”). Aumenta l’interesse per questa domanda, in un momento in cui la cultura moderna dell’abitare, originariamente intrisa di senso civile, tende a ritrovare anche senso estetico. Ora dopo tutta l’esperienza della “tradizione del nuovo” (la casa per tutti), e della sua revisione critica alla luce dell’aspirazione post-moderna per una casa che non ricerca altro che la sua natura più autentica -già in qualche modo annunciata nei versi di una poesia di Holderlin (“poeticamente abita l’uomo sulla terra”)- diventa possibile rivedere il (pre)giudizio moderno di matrice anglosassone, secondo il quale l’abitabilità della casa ha poco a che fare con la sua figuratività (l’immagine); essendo quest’ultima del tutto secondaria rispetto alla sua strumentalità (l’utensile). Emblematica in tal senso è l’ammonizione generale di Francesco Bacone che, all’inizio del saggio Del costruire (XVII sec.), suggerisce di lasciarsi guidare nel disegno delle architetture domestiche dal più sicuro principio di una “onesta” abitabilità, perché:“le case son fatte per essere abitate, non per essere guardate: perciò l’utilità sia preferita alla simmetria se non si possono avere entrambe…”. L’incremento di essere, che sempre l’esperienza autentica del sentirsi a casa sulla terra suscita in chi la fa, crea le condizioni per una (ri)definizione qualitativamente più adeguata del canone abitativo moderno: come dire che, aprendo con gli occhi la mente, entra in gioco l’estetico. La sua qualità preminente è la capacità di centrare due bersagli in successione: l’uso e la forma, l’utile e il bello. L’abitare non esclude più il guardare. Il luogo, costruito come paesaggio dell’essere, dello stare, sembra riconoscersi meglio nel nuovo messaggio: guardami e usami. Ciò consente di prendere la giusta distanza dalla stessa idea di “standard”, di “existenz minimum”, per verificare meglio gli stessi avanzamenti disciplinari, fatti o non fatti, sul tema dell’edilizia sociale; in seguito ai cambiamenti sempre più accelerati nel frattempo intervenuti, soprattutto nella fase di passaggio dal secondo al terzo millennio. Emergono infatti alcuni modi di vivere, che si pongono nella complessità del reale come tendenze urbane innovative, per quanto riguarda per es. l’uso di parti più o meno ristrette, da un lato, dello spazio privato (uso “allargato” alla comunità) e, dall’altro, di quello pubblico (uso “limitato” alla disponibilità individuale). Alcune di queste forme alternative di vita domestica e urbana -non tanto insolite, quanto soprattutto diversamente significative dello stesso rapporto privato-pubblico- sono: il cohousing domestico e gli orti urbani. Nel primo (il cohousing), prevalendo l’interesse privato nell’uso “allargato” agli altri abitanti (alcuni luoghi della casa utilizzati da tutti), si manifesta la voglia di far di necessità virtù comune -o, per così dire, di far città in casa (vicini diretti). Nel secondo invece (gli orti urbani), prevalendo l’interesse pubblico nell’uso “limitato” alla disponibilità individuale (alcuni luoghi della città (ri)utilizzati da singoli residenti), si manifesta invece la voglia di far di libertà ozio privato -o, per così dire, di far campagna in città (coltivatori indiretti). L’interesse nascente un po’ dovunque -non soltanto in Italia, e nonostante l’orientamento consumistico prevalente negli usi abitativiper questo tipo di sperimentazioni, con cui si rimettono in gioco la vita di casa e quella di città -partendo da una rinata voglia di qualità dell’abitare- è fuor di dubbio. L’obiettivo prevalente tende al recupero di forme di vita più autentiche di quelle dominanti; muovendosi sulla strada non facile di un ritorno all’essenza delle cose, riconoscibile nella vicinanza, e non nella lontananza, dello stare tra di esse, dentro e fuori casa: è il costruire infatti che ci fa abitare, che ci fa sentire a casa sulla terra.


“L’essenza di una buona casa sta nel modo in cui si entra e si esce” (J. Frank) Fare casa. In questa prospettiva, il “venirsi incontro” di realtà esistenziali diverse -attraverso cui l’abitare si invera nello spazio dell’essere, e viceversa- può essere la chiave per ripensare concretamente gli spazi domestici. A livello del blocco urbano o della schiera residenziale per es., “venirsi incontro” può significare capacità di rispondere meglio alle potenzialità aggregative dello stesso “tipo”: una risposta questa che parte dall’interno della struttura edilizia Un problema che qui si presenta, infatti, è quello di passare dalla sommatoria di elementi singoli -bloccati fra muri di confine regolarmente intervallati- alla combinazione di due o più unità, parzialmente “sbloccate” dall’alternanza di vuoti aperti fra i muri di confine. A livello invece delle aree libere, “venirsi incontro” può significare capacità di rispondere meglio alle potenzialità sinergiche dello stesso tipo insediativo: una risposta questa che parte dall’interno della struttura urbana. Un problema che qui si pone, infatti, è quello di passare dalla frammentazione del tessuto -svuotato da spazi residui in abbandono- alla sua “ricucitura” puntuale attraverso orti e giardini rigenerati dagli stessi abitanti, in quanto momento importante di (ri)qualificazione del modo di vivere e di fare casa e città per tutti. In particolare, la risposta al primo problema tende a superare, da un lato, la rigidità del blocco residenziale -in cui l’ordine delle divisioni convenzionali congela la realtà spaziale invece di liberarla- e, dall’altro, a individuare punti di “vulnerabilità” al suo interno e al suo intorno; punti in cui, con una semplice mossa “a sorpresa” per così dire, è possibile “fare spazio” all’incontro fra dimensioni abitative diverse. Una mossa forse banale, in grado però di dar luogo a reazioni positive fra realtà che, a volte, lo spessore di una parete fa sentire più a contatto che separate, ma che in ogni caso restano “tagliate fuori”, in assenza di confini “abitabili”. Si viene a delineare l’idea di un ordine più “elastico”, in cui prevalgono i vuoti intermedi (passaggi e cavità) fra le divisioni strutturali: veri e propri filtri spaziali, che fanno diventare “poroso” il blocco costruito, parzialmente sfondato di fuori e sprofondato di dentro. Questi filtri, dividendo senza necessariamente separare, finiscono col funzionare come “amplificatori spaziali” in profondità (davanti-dietro), in continuità (dentro-fuori) e in altezza (sotto-sopra): si mette così al centro del fare casa il confine, la linea di divisione e di contatto fra realtà diverse, che possono o meno “venirsi incontro” lungo di essa. Scarti, spostamenti, sdoppiamenti anche minimi degli allineamenti murari, possono dare origine a passaggi e ad affacci interni e/o esterni imprevisti, al piano terra e/o in quota. Fino alla possibilità di collegarsi, proiettandosi fuori, ad altri camminamenti esterni, all’interno di un unico sistema percorribile dall’ingresso all’uscita: insomma uno spazio continuo nell’unità del suo essere diviso tra luoghi privati, collettivi e pubblici. Senza che questa diversità implichi effetti di disgregazione tipologica delle aggregazioni canoniche, quanto piuttosto una loro disaggregazione morfologica, per una migliore riconoscibilità e abitabilità del tutto. Anzi, il passaggio dalla quantità di superficie necessaria al minimo di esistenza, alla qualità di esistenza perseguibile con un minimo di superficie in più, potrebbe segnare un passo avanti nella formulazione del tema tradizionalmente nuovo del progetto domestico. Perché il minimo di qualità ottenibile dal massimo incremento possibile (o misura del “superfluo”), implica la possibilità di un’esperienza essenziale (o di verità): com’è quella capace di trasformare il consumatore-abitante in cittadino sempre più consapevole delle possibilità di vivere meglio, al punto di coabitare a certe condizioni nella stessa casa. Una casa “degna” dell’uomo, in quanto espressione di un progetto di convivenza. L’appropriatezza delle sue forme alla rappresentazione di questo progetto la rende abitabile “a vista”: ne esalta la natura di casa collettiva senza alterarla, senza impedirle cioè di “aver luogo”- impedimento più volte presente nella costruzione di megaforme dell’abitare nel secondo ‘900. L’idea base è che le due dimensioni dell’abitare (quella privata e quella comune), più che contrapporsi soltanto negandosi a vicenda (se c’è l’una non c’è l’altra), in realtà si sostengono opponendosi. La tensione, di cui ognuna delle due è carica, si esercita “scaricandosi” gradualmente verso l’altra nell’intervallo che le unisce, fino ad annullarsi del tutto nel polo opposto -un po’ come succede fra “cariche” di segno contrario. In assenza della “scintilla”, che segna una modalità d’incontro fra gli estremi (privato-pubblico), in equilibrio solo nel punto centrale (collettivo), la qualità dell’abitare si spegne; salvo a ravvivarsi in quei punti del confine dove la tensione interiore (privata e non in vista) si fa esteriore (comune almeno alla vista), e viceversa -acquistando rispettivamente presenza pubblica sul fronte (scena visibile) e privata dietro le quinte (scena invisibile). Questo legame in/fuori scena, necessario alla rappresentazione della vita nel teatro domestico, impedisce per quanto possibile il formarsi di “vuoti d’abitabilità” -sempre da evitare come i “vuoti d’aria” in cielo. L’architettura dell’abitabilità, in quanto progetto di convivenza, è un tema che, soprattutto alla piccola scala, non è mai stato estraneo alla tradizione di ricerca dell’architettura italiana e, più in generale, mediterranea; una tradizione che trova nell’edificio “collettivo” (e segnatamente nel “peristilio”) il tipo che meglio ne rappresenta


l’ideale abitativo: “star di casa in città come in giardino”. Ma, sullo sfondo del mondo attuale, continua ad agitarsi una realtà sempre più complessa e difficile da decifrare, attraversata da contraddizioni crescenti nel territorio ormai scisso fra tempi e spazi diversi. Parti in conflitto, irriconoscibili e in continua trasformazione, galleggiano sul suolo in assenza di qualsiasi disegno: come “disiecta membra” di un tutto in frantumi, senza più grandezza conforme né armonica bellezza. Eppure non ci si può sottrarre all’impegno di “trasformare la realtà data in progetti per l’umanità” (Così Aldo Masullo su Il Mattino del 12 giugno 2008, commentando per gli architetti l’esortazione di Heidegger: “Abitare è avere a cuore il mondo”). Ma perché si possa veramente avere a cuore il mondo, cioè rispettarlo nel trasformarlo, bisogna soprattutto imparare ad abitarlo. Questo pensiero ha sempre guidato la “pratica senza incertezze” dei maestri, da cui per noi una lezione sempre attuale: “Chi non sa abitare non sa nemmeno progettare”. Nel quadro appena abbozzato la ricerca di una risposta, che rimetta in discussione la domanda posta all’inizio, parte da qui.



MA,….QUALE ARCHITETTURA ITALIANA!? Alberto Cuomo

E’ indubbio che, nel recente passato della cultura architettonica, in presenza degli iniziali annunci della “globalizzazione”, abbiano avuto una buona fortuna critica le analisi e le posizioni ispirate al cosiddetto “regionalismo critico”. Di fronte al rischio della perdita dei connotati propri alle diverse tradizioni, architetti e storiografi sembravano infatti intenti a rivendicare la specificità delle esperienze del progetto in ragione della geografia, la quale veniva posta quale depositaria di storia, conoscenze, aspirazioni, quasi che in ogni regione vi fosse un singolare spirito dei luoghi. Né faceva ombra a tale atteggiamento il fatto che vi fossero in aree di differente tradizione modi comuni di comporre, come era ed è, ad esempio, per le forme di minimalismo proprie alle giovani generazioni dell’architettura spagnola, presenti anche in esperienze svizzere o tedesche, o per la scuola-non-scuola portoghese, con rami in Sicilia ed in Grecia, o per il colorato frammentismo olandese imparentato al pop inglese ed americano: contro la globalizzazione, il “pensiero unico”, era necessario opporre i “valori” locali, senza rendersi neppure conto che è proprio il mercato globale a vivere di “valori” differenziati. Una rivendicazione più intensa circa la propria specificità viene così, ancora oggi, mossa da chi, come gli architetti italiani, per le scarse occasioni realizzative di idee e progetti e per la totale lateralità nella evoluzione dei metodi progettuali, sembra possedere la più flebile voce nel dibattito architettonico attuale. L’insistenza con cui da più parti viene sbandierata in Italia una specifica via nazionale all’architettura non può quindi non far chiedere sui termini di una tale specificità. In generale, forse, a voler identificare una italianità nell’esperienza del progetto moderno, senza rinviare al remoto passato classico e rinascimentale o alla sua crisi barocca, è possibile assumere, anche per l’architettura, l’interpretazione offerta da Giulio Carlo Argan all’arte italiana ottonovecentesca. Dalla assimilazione goethiana di Germania e Italia, entrambe Kulturnation invece che Staatnation, divise cioè in stati diversi ma unite in una stessa lingua ed una stessa cultura, Argan distingue infatti l’arte italiana in controluce rispetto a quella tedesca, sorretta la prima da un formbegriff e la seconda da un formgefühl. Vale a dire che, rispetto all’arte tedesca mossa da un istinto, un sentimento, rivolto alla forma, come è nel romanticismo o nell’espressionismo, nel frantumato linguaggio delle avanguardie, l’arte italiana appare sollecitata dalla vocazione a manifestare una idea, un concetto, un conoscere, anche nelle esperienze, come il futurismo o l’informale, che appaiono ispirate da impulsi interiori. Figura di storico molto composita, Giulio Carlo Argan si forma con Lionello Venturi sì da potersi riconoscere nel suo atteggiamento critico la traccia idealistico-crociana, l’idea del rapporto soggetto-mondo improntato dalla intenzione conoscitiva da cui si origina la prassi trasformativa. L’arte quindi, anticipazione della relazione teoretica e forma di teoresi è, con Croce, fondata sull’intuizione, offerta però, a differenza che nel filosofo idealista, non nella forma conclusa, quanto nel farsi dell’opera, manifestazione della apertura originaria del dasein, dell’esserci, dell’esistenza concreta degli esseri. Di qui l’attenzione per l’arte moderna, maggiormente prossima alla vita quotidiana, coltivata anche da Venturi, e non da Croce e dai ‘crociani’ di stretta osservanza. Oltre Lionello Venturi, Argan si conduce altresì alle fonti del suo maestro, Adolfo Venturi (di cui erano stati allievi anche Longhi e Toesca) il quale, fondando la lettura dell’opera su un metodo filologico, non storicistico, era stato sovente in polemica con Croce. Assistente di Toesca, Argan cura a propria volta lo studio iconologico, tanto da essere chiamato, nel 1947, a tenere corsi presso il Warburg Institute, e nella lettura iconologica, dove trasfonde il suo interesse per la psicoanalisi, egli scompone la “forma” ricercandone i diversi moventi costitutivi resi in elementi simbolici che ne restituiscono il fare. L’idea dell’arte come un fare «che mentre fa, inventa il modo di fare» è ripresa invece dal Pareyson, dalla sua teoria della formatività come un darsi in opera della coscienza che appronta da sé, nel confronto con i materiali, fisici, psichici, sociali, storico-esistenziali, i mezzi per giungere alla forma, alla manifestazione della sua relazione con le cose, mentre dalla diffusione in Italia del pensiero husserliano ad opera di Banfi, Paci, Anceschi, con l’interpretazione dell’arte quale luogo di ragione critica ed autocritica, dove vige un ordine interno che si confronta però con l’esistenza e la storia, è tratto il concetto dell’opera come aperta manifestazione dell’intuizione-intenzionalità. Se quindi si tiene conto del modo con cui Argan concepisce l’arte quale fare che sia forma del conoscere, analoga, e non più primitiva, come era per Hegel, alla teoresi filosofica o scientifica, e se è particolarmente l’arte italiana a muoversi lungo una vocazione conoscitiva, lungo idee e concetti storici, può ritenersi che la nostra architettura sia a sua volta caratterizzata dal forte timbro teoretico, dalla inclinazione ad interpretare in modo proprio, letterale, il mandato che le proviene dalla sua stessa definizione, arché-tekton, tessitura, testo, trama in cui svol-


gere l’arché, il principio, l’essere, l’abitare: muta arte, narrazione di pietra in cui si pone, come nella filosofia, l’interrogazione sull’abitare, attraverso cui manifestare altresì un impegno sociale, il rendere all’uomo il senso del proprio interrogarsi sull’essere. E che sia un tale impegno a caratterizzare le esperienze architettoniche nel dopoguerra in Italia è messo in luce anche da Manfredo Tafuri, il quale, rilevata nella sua Storia dell’architettura italiana 1944-1985 la “difficile dialettica fra il conoscere e l’agire” che si impone all’indomani della Liberazione agli architetti italiani, spiega come, pur nei differenti approcci, essi siano accomunati da una analoga “istanza morale”, intesa retaggio della tradizione recente e rivolta a rappresentare i valori della classi povere che la nuova democrazia fa avanzare protagoniste sullo scenario politico-sociale. Una “istanza morale” che si avvale della riduzione fenomenologica cui Enzo Paci, dalle pagine di “Casabella”, invita i Rogers, i Gregotti, i Gardella, quella della storia, del “grande museo” che è la città storica, su cui “fare epoca” onde trarre i segni elementari dell’abitare e la possibilità ancora di una casa, una “grande casa” che consoli le forme stesse che la interpretano del loro estraniamento, della loro inattualità, data la crisi del tutto verificata del modernismo, del loro arduo sogno di allestire condivisi discorsi abitativi. La lucida analisi di Tafuri, cioè, malgrado la condivisione dell’animus dell’architettura italiana che risorge dalla Resistenza, non può evitare di documentare come, pur nelle sue diverse forme, tutte improntate a trarre dalla storia i segni della adesione alla esistenza reale, essa finisca con il tradursi in volano per il proprio accerchiamento da parte della città speculativa, con cui aveva instaurato un “inutile compromesso”. Analogamente, sebbene la sua la critica, non sembra mancare di uno sguardo benevolo verso le esperienze italiane del dopoguerra, le quali, pur nel tentativo tutto ideologico di mettere in parentesi la storia costruttiva passata per ricavare le definizioni di un rinnovato abitare, almeno tentano di rivivere, con un segno del tutto opposto, storicistico e non nuovistico, l’eroismo delle avanguardie di inizio secolo, la loro vocazione conoscitiva e sociale, la sua analisi non può non sottacere come, a partire dagli anni ottanta, l’ipotesi di una specificità del contributo e del dibattito italiani sia “meno lineare”, e persa nella chiacchiera divisa tra specialismo e consumismo. Dopo i tentativi degli anni settanta di fondare almeno un ordine urbano, perduta ogni legge al costruire ed alla città, gli anni ottanta sembrano caratterizzati dalla necessità per gli architetti italiani di misurarsi con la grande scala in cui riaffermare la perduta potenza e recuperare l’identità dei luoghi. Ma a manifestare come l’orizzonte oltreurbano cui essi si rivolgono non sia che la “periferia” concettuale verso cui indirizzare la fuga, perduta l’illusione del grande sistema logico cui affidare il progetto, è il loro chiudersi in solipsistici atteggiamenti “poetici” messi involontariamente alla berlina, è sempre Tafuri a mostrarlo, dalla Biennale veneziana del 1980 allestita da Paolo Portoghesi nel fraintendimento di Nietzsche, la quale traduce in “canzone da organetto” la “gaia scienza” di quanti pure sembravano vivere la morte di Dio in nuove libertà compositive. Sarà anzi proprio il postmodernismo ed il suo frivolo e futile gioco con i frammenti della storia a mandare in frantumi quella “istanza morale” dell’architettura italiana del dopoguerra fondata invece proprio sulla assunzione, ideale quanto tragica, dei linguaggi storici. E sarà quella biennale a costituire la via italiana verso l’internazionale del “gioco puro” dell’architettura del “piacere”, rivolta ad intrattenere, in appositi cinémas d’essai, il pubblico selezionato degli intenditori, o anche, se si vuole, il pubblico di massa incantato dallo star system. Legato comunque alla cultura architettonica italiana, rilevandone quel carattere conoscitivo-morale che Argan riconosceva alla nostra arte, Manfredo Tafuri sembrava voler offrire alle proprie letture quella stessa istanza critica che nel fare degli architetti sembrava via via affievolirsi, sino a distanziare completamente il proprio “progetto storico” dall’attività del progetto architettonico. In una analoga distanza, con una ferocia priva della pietas tafuriana, un sociologo italiano, Franco La Cecla, annota oggi la partecipazione degli architetti, pure gli italiani Gregotti, Purini, Fuksas, Piano, al futile universo della moda, spesso marche minori del mercato delle archistar che con la propria griffe sanciscono le nuove speculazioni Real Estate, del tutto incuranti della vita che si svolge nelle nuove dimensioni urbane. E’ indubbio come, diversamente da Tafuri il quale, pure nel successo del progetto italiano, riusciva a svolgere la lucida diagnosi sul suo declino, il facile referto di La Cecla appaia beffardo e, quindi, fastidioso, da incurante avvoltoio che nutre il proprio volo, sul medesimo mercato culturale di sociologia e architettura, del cadavere di questa. E tuttavia sebbene facili, costruiti sul verso di Baudrillard, i rilievi di La Cecla riguardanti le due posizioni dell’odierno progettare appaiono sicuramente convincenti, sia a proposito di quella rappresentata primariamente da Rem Koolhas, che vedrebbe nella moda il necessario destino dell’architettura, non più rivolta a rifondare il mondo quanto solo ad affrontare le momentanee questioni che si pongono risolvendole in una buona fattura dell’abito costruttivo, sia per quella rappresentata in gran parte dagli architetti italiani i quali, divisi tra i “piagnistei” di Fuksas e “l’ipocrisia” di Gregotti e Purini, sarebbero arroccati nell’affermazione di una presunta importanza ideale e politica del proprio fare aspirando di fatto, essi pure postmoderni (e non erano in gran parte presenti forse alla Biennale del 1980), alla partecipazione ai giochi del Casino Capitalism dove comunque l’architettura è utilizzata come immagine, anche quando organizza presunti quartieri “di sinistra” come lo Zen.


Rispondendo, sulle pagine di un quotidiano, alle accuse mossegli, Gregotti non ha saputo fare altro che denunciare a sua volta, così come il suo critico, il carattere esornativo, di moda, dell’architettura attuale, attribuito però solo a quella delle archistar cui contrapporre, rispetto a La Cecla il quale nel suo libro sembra propendere per la definitiva sospensione dell’attività architettonica, l’impegno politico del progetto e, con Botta, il “lavoro sul territorio della memoria”. Appare singolare che, sebbene entrambi italiani, tanto La Cecla che Gregotti, dimentichino l’artisticità della nostra architettura passata e recente escludendola dall’orizzonte del suo fare: La Cecla, confondendo l’arte con la moda, Gregotti, aderendo allo snobismo di tanti architetti italiani di avvertirsi, poveretti, costruttori invece che artisti. Singolare anche che gli stessi architetti decostruttivisti, le archistar più performative, eletto Derrida a proprio mentore, avvertendo probabilmente la cattiva coscienza della filosofia derridiana, in cui la poesia è ricondotta a una tecnica, al gioco della scrittura tra espressione e senso, non si dicano artisti, preferendo ritenersi puri giocolieri della costruzione. Singolare perché, forse, ricercando quell’originario carattere dell’architettura, quella vocazione all’arte intesa forma di conoscenza, e non mero funambolismo formale, sarebbe possibile ritrovare non solo all’architettura italiana che lo ha coltivato sino agli anni recenti, ma a tutta l’architettura, un possibile ruolo, chissà, una identità.


IL CORPO DELL’ARCHITETTURA: L’ATTEGGIAMENTO DI ALCUNI ARCHITETTI CONTEMPORANEI E LA “LEZIONE” DI IGNAZIO GARDELLA Andrea Carbonara

Il processo di de-materializzazione dell’architettura rappresenta forse, al di là delle angolazioni differenti con le quali il tema viene affrontato, una delle questioni sulle quali con maggiore frequenza in questi ultimi anni critici ed architetti si sono soffermati, alcuni di essi arrivando a farne il nucleo principale della loro riflessione teorica. La consapevolezza che l’architettura sia coinvolta in un processo che conduce alla sua de-materializzazione solleva riflessioni ed interrogativi di natura ontologica sullo stesso statuto che essa può assumere nella contemporaneità; questo basta per comprendere come tale argomento si sottragga ad ogni tentativo di sintesi, tanto più a quelli consentiti dall’entità di questo scritto. Ciò che ci interessa, in questa sede, è provare a svolgere alcune considerazioni su una caratteristica che sembra accompagnare un certo modo di fare architettura a dispetto, ma forse proprio in ragione, dell’emergere di una coscienza sempre più chiara proprio di tale processo di de-materializzazione. Ci sembra, infatti, che la cognizione diffusa della perdita di importanza della materialità, dunque, della corporeità, quale attributo essenziale dell’opera di architettura, paradossalmente, abbia finito per determinare il bisogno di un suo recupero; l’esigenza di un suo ri-conoscimento. Ri-conoscimento nel senso più letterale del termine, come recupero, appunto, della sua conoscenza; in un momento nel quale tale conoscenza, intesa come la coscienza del ruolo che il “corpo” riveste nell’architettura, appare sempre più incerta. E’ evidente come in una civiltà che produce immagini (anche di architettura) in enormi quantità e pervasiva potenza, l’architettura stessa, considerata come sostanza corporea organizzata nella costruzione - intesa nella sua essenza materiale – abbia via via perduto l’evidenza del proprio ruolo comunicativo e rappresentativo all’interno della società. Come in questo essa sia stata soppiantata da altre “fonti” ben più efficaci per l’immediatezza con la quale riescono a comunicare sensazioni, a rappresentare dimensioni ideali, speranze, valori (o dis-valori) nei quali la società stessa possa riconoscersi ed identificarsi. Se, insomma, parafrasando Hugo, i libri dovevano determinare la fine dell’architettura delle cattedrali, allora come non vedere lo “scempio” che i mezzi di comunicazione contemporanei rischiano di fare dell’architettura del nostro tempo; almeno continuando ad intendere per architettura quella che abbiamo tradizionalmente individuato come tale. Tali considerazioni indurrebbero a pensare che “fare architettura” nella contemporaneità debba implicare la tensione verso un processo di progressiva marginalizzazione di quegli elementi che con maggiore evidenza si legano alla concezione della forma, alla realizzazione del corpo dell’opera. In realtà ci pare, per tornare alla considerazione dalla quale si era inteso partire, che in molte delle opere di architetti contemporanei si possa rilevare uno sforzo di segno opposto, teso invece ad esorcizzare il rischio di tale marginalizzazione: molti architetti sembrano impegnati in un tentativo faticoso verso quel ri-conoscimento della necessità, dell’importanza del “corpo”: del corpo inteso in un’accezione più ampia, come concretizzazione materiale di tutto quello che dell’opera si vuole far apparire; che esso sia la coerente espressione dell’unitarietà e della coerenza che mette in relazione la concezione strutturale, spaziale e materiale dell’opera o che, invece, sia la sovrastruttura necessaria all’opera stessa per assumere una forma indifferente a qualunque principio di coerenza. Se fare architettura ha sempre rappresentato un’ attività volta alla definizione di edifici fondati sulla propria consistenza materiale e spaziale e sulle valenze espressive che da tale consistenza derivano, il corpo dell’opera come manifestazione di quella consistenza, mendace o veritiera che sia, non può essere de-materializzato a meno di non ridurre nello stesso tempo il peso che l’architettura riveste tra le attività necessarie alla vita dell’uomo. L’ansia della sua perdita spinge gli architetti a “ricontrattare” il valore che, all’interno del progetto, deve assumere il corpo puntando - in modo più o meno consapevole - sull’intensità della sua manifestazione: si tratta di una strategia oppositiva che per restituire valore al corpo stesso mira ad attribuire all’esperienza della sua materialità un carattere di straordinarietà. Il corpo, come elemento fondativo ed anche principale elemento distintivo dell’architettura rispetto alle altre attività conformative, sembra, dunque, ridiventare per alcuni, con ancora maggiore impegno, l’oggetto della loro ricerca progettuale, perchè attraverso di esso si cerca di restituire certezza al ruolo che l’architettura riveste nella società. E allora capiamo come tante opere traggano il proprio senso dalla capacità di accentuare elementi idonei ad offrire in modo più forte e diretto l’esperienza corporea di se stesse, dalla capacità di rendere tale esperienza straordinaria. Non ci interessa capire in questo momento se tale attenzione verso la corporeità si traduca nell’esigenza di legare la forma dell’edificio alla sua autenticità costruttiva, nell’accentuazione di valori legati alla tettonica; o piutto-


sto si leghi alla volontà – consapevole o meno - di “rivestire”, di mascherare in modo più o meno evidente, più o meno onesto, la struttura dell’edificio con un apparato decorativo indifferente a qualsiasi coerenza con la logica costruttiva dell’edificio. Che tale corpo porti impressi i segni di una storia che racconta il modo in cui quell’architettura è “venuta su”, la logica della sua costruzione, o che quei segni siano nascosti per far apparire un corpo cristallizzato nell’immediatezza dell’immagine con cui manifesta solo ciò che l’architettura è in quel preciso istante, senza tenere conto di ciò che ha significato la sua costruzione, quello che emerge con maggiore evidenza è la preoccupazione che tale corpo sia esposto, aperto a rendere manifesta l’esperienza di sé - qualunque sia il segno di tale esperienza - nel modo più esplicito possibile. In modo che tutti possano entrare in un rapporto di comunicazione con esso; in modo che possano vedere rappresentato il proprio desiderio di essere stupefatti da forme inconsuete, o appagato il proprio bisogno di “normalizzazione” e di pacificazione all’interno di regole consolidate, o ancora di essere rassicurati attraverso il recupero del proprio bagaglio iconografico. Ciò che a questo punto ci sembra interessante rilevare, quale conseguenza di tale atteggiamento, è la tendenza a risolvere il progetto concentrandosi sulla risposta ad un unico tema in grado di assorbire tutti gli altri: un tema che gli architetti si pongono immediatamente, fin dall’inizio del progetto: capire quale debba essere l’aspetto che quel corpo deve assumere al fine di coinvolgere i fruitori dell’architettura, puntando sull’unica esperienza che l’architettura stessa nella sua specificità è in grado di offrire loro: quella di trovarsi di fronte all’esperienza della propria corporeità, autentica o meno che sia, la sola che le è peculiare rispetto a quelle che altri mezzi possono offrire. Un aspetto la cui fisionomia non sembra più poter essere in alcun modo condizionata da scelte - operate su piani ed in momenti diversi della riflessione progettuale - alle quali, pure nella sua autonomia, l’identità formale di un’opera d’architettura dovrebbe relazionarsi. Le scelte riferite - ad esempio - al programma funzionale, al contesto, alla tecnologia etc., elementi del progetto di cui l’opera, da sempre, ha dovuto registrare, anche nel “corpo”, i segni di una presenza ineludibile, divengono ora quasi ininfluenti: quegli stessi elementi non sembrano più in grado di condizionare realmente l’opera; essi, in nome di un obiettivo più importante, non debbono più pesare sullo sviluppo del processo che conduce alla determinazione della forma finale, perché il punto di coagulo del progetto è tutto fissato in anticipo - fin dal principio di quel processo - nell’intenzione di dare all’esperienza di tale forma i connotati della straordinarietà. In alcuni casi aspetti strutturali, tecnologici, distributivi possono essere riconosciuti come importanti nel determinare la configurazione dell’opera, ma ciò avviene soltanto ex-post, quando – quasi per una coincidenza fortuita – sono identificati ed immessi nel progetto solo in ragione della loro coerenza di elementi funzionali alla concretizzazione dell’esperienza che si è scelto - fin dall’inizio, quasi a priori - di offrire ai fruitori dell’opera: attraverso la sua forma visibile, per mezzo della sua sostanza corporea. Solo, dunque, quando essi possono rappresentare i fortunati “punti d’appoggio” a sostegno dell’esigenza primaria di individuare l’aspetto più “seduttivo”. Non si tratta ovviamente di riscontrare che le funzioni, i programmi, le risorse tecnologiche, l’esame del contesto urbano e sociale, non possono condizionare, secondo un nesso ingenuamente deterministico, le scelte formali. Si tratta, invece, di capire che, alla consapevolezza ormai ampiamente raggiunta della complessa relazione che lega tali elementi rispetto alla definizione della forma architettonica, si è sostituito un approccio che - quasi seguendo un determinismo di segno opposto - fa discendere dall’intenzione di confezionare per il pubblico un’esperienza tutta fondata sul corpo - quindi dal preventivo problema della definizione del suo aspetto - tutte le altre scelte. Ci pare interessante, per concludere queste riflessioni, provare a ragionare sull’approccio al progetto che abbiamo descritto, alla luce della posizione critica che un maestro dell’architettura italiana come Gardella ha assunto in relazione alla natura degli elementi che confluiscono nel processo progettuale, e delle relazioni che tra essi si stabiliscono nel determinare lo svolgimento di tale processo. In particolare è importante osservare come egli pensasse alla compresenza, nel progetto, di elementi “sostanziali” e di elementi “essenziali”. I primi rappresentano ciò che letteralmente “sta sotto” il progetto; costituiscono – in termini ad esempio di aderenza al programma funzionale stabilito, di capacità di mediare felicemente con l’intorno urbano, di rappresentare le esigenze simbolico-rappresentative in un particolare contesto socio-culturale etc. - l’insieme degli elementi deducibili dall’osservazione della realtà, ai quali bisogna che l’architettura dia risposta: sono quegli elementi in qualche modo riscontrabili e quantificabili in base a categorie eteronome, rispetto al progetto, cioè, esistenti indipendentemente dal suo compimento. I secondi, gli elementi “essenziali”, sono quelli che attengono, al valore della forma architettonica; valore, in quanto essa opera d’arte, il cui riconoscimento va oltre la capacità dell’opera di riassumere in sé ed interpretare quegli elementi sostanziali di cui s’è detto. L’ “essenzialità” da ricercare nell’architettura è, secondo Gardella, la qualità autonoma che la forma possiede, e che, nella forma stessa e non in aspetti che pure ne condizionano il processo di definizione (gli elementi sostanziali), trova la propria misura.


Ma allo stesso tempo Gardella ritiene che nella ricerca della forma si debbano utilizzare quegli elementi eteronomi, tratti dalla realtà contingente - gli elementi sostanziali - come materiali, attraverso i quali l’architettura possa giungere a definirsi: l’architetto alla luce della propria “intenzione formativa” deve, infatti, riuscire ad interpretarli come risorse da assumere all’interno del progetto in vista di una finalità rispetto ad essi autonoma: la forma conclusiva dell’opera. Nella posizione di Gardella si manifesta una forte distanza rispetto al tentativo di impostare su basi scientifiche il progetto architettonico; vi è infatti il rifiuto di una logica che ha provato a ridurre ad una relazione di causaeffetto la complessità del rapporto che lega gli elementi “sostanziali”, preesistenti alla forma, a quelli essenziali che nella forma stessa si esprimono. Per tornare ad esempio al rapporto tra forma e funzione, tra utilità e bellezza - anche in riferimento alla posizione critica che Gardella assume nei confronti del movimento moderno - si può dire che egli inverta il nesso ipotizzato dai funzionalisti più ortodossi: crede che sia la “bellezza” a dover essere “utile”; che il progetto debba, cioè, saper interpretare – per esempio - la funzionalità - aspetto sostanziale – come uno degli elementi che definiscono la materia a disposizione del progettista, uno dei limiti concreti che – assieme ad altri – contribuisce a definire l’ambito all’interno del quale egli può sviluppare in totale autonomia la propria azione creativa, orientare, senza dispersioni e vaneggiamenti, il proprio cammino verso la forma “essenziale”. Anche per Gardella, dunque, la forma corporea dell’architettura rappresenta il fine principale del progetto; ma nella sua visione, a differenza di quanto mi pare possa dirsi per molti architetti contemporanei, non vi è il rifiuto di confrontarsi con il complesso delle tematiche sociali alle quali l’architettura deve offrire risposta. Al contrario tali tematiche, invece di essere subordinate allo svolgimento di un processo di ricerca della forma, rispetto ad esse scollegato, vengono incluse in questo processo attraverso un lavoro di ricerca creativa che, passo dopo passo, in ragione del modo in cui di volta, in volta, entra in relazione dialettica con esse, conduce alla “scoperta” della sintesi conclusiva dell’opera. In Gardella nessun problema di linguaggio può essere presupposto allo svolgimento del procedimento progettuale: le soluzioni formali sempre diverse di caso in caso devono essere trovate all’interno di un alveo i cui confini sono accettati come necessari allo stesso sviluppo della forma; questi confini sono definiti da quegli elementi sostanziali di cui abbiamo parlato, pertanto da elementi che in alcun modo possono pre-determinare obiettivi riferibili alle caratteristiche formali che l’opera dovrà avere. L’atteggiamento, invece, che sembra essere al fondo di molte ricerche portate avanti in questi ultimi anni è essenzialmente caratterizzato dalla considerazione che quella forma, quel corpo di cui s’è detto, costituisca, fin dall’inizio una finalità così “assorbente” da imporsi talmente in anticipo all’interno del processo di progettazione, da determinare - parafrasando un ‘espressione di Gregotti - una specie di “corto circuito”: dal tipo di esperienza che si vuole offrire attraverso la forma, si passa direttamente al corpo più idoneo a concretizzarla. Ma in tal modo l’ambito in cui agisce l’azione creativa si restringe all’aspetto che tale “corpo” deve avere; in definitiva, ad un problema di scelta del linguaggio - originale o convenzionale, sbalorditivo o rassicurante che sia - più idoneo a dare corso all’unica esperienza ancora significativa che l’architettura, intesa nel suo statuto ontologico tradizionale, può ancora offrire di sé: quella – appunto - del proprio “corpo”. A differenza di quanto rappresentato attraverso la descrizione della posizione di Gardella, siamo, cioè, di fronte ad un atteggiamento che considera la forma totalmente slegata da quegli “elementi sostanziali” di cui egli parla: invece di definirsi in relazione a questi, l’architettura è costretta a muoversi negli ambiti ristretti cui la costringe un obiettivo pre-costituito all’azione creativa che dovrebbe condurre alla sua ideazione. Gli architetti riproducono una continua riflessione invece che sulla forma che un dato edificio deve assumere, sul modo in cui una forma determinata possa costituire un edificio, possa prendere corpo: meccanicamente si ripropone quello stesso “corto circuito”. Dalla forma immaginata, alla speranza che tale forma possa trovare modo di essere costruita: la ricerca della forma si tramuta, così, in un processo che cancella il principio dell’autonomia della forma stessa perché arriva ad espellere gli elementi rispetto ai quali tale autonomia andrebbe esercitata, fino a giungere alla limitata prospettiva della sua totale autoreferenzialità.


DANTEUM: IDENTITA’ E CRISI DELL’ARCHITETTURA ITALIANA. Daniela Conte

L’identità dell’architettura italiana non si può più definire in modo semplice e chiaro dall’età moderna in poi, cioè da quando oscilla in un eterno dualismo tra la tendenza espressionista e quella razionalista, e nelle sue forme memori della tradizione classicita cela l’anelito recondito di di-svelare l’origine dell’architettura stessa. Come ha affermato recentemente Massimo Cacciari, la Bibbia ha influenzato la nostra forma mentis di occidentali, perché sulla sua lettura si sono formati autori diversi, con linguaggi forme e stili diversi, a volte tra loro opposti. Nella Bibbia infatti ci sono le radici della nostra formazione che è esegesi, ermeneutica, contraddizione; perché i testi della Bibbia esigono interpretazione e ci interrogano continuamente; ma è proprio questa forma mentis che ci permette di assumere la tradizione per trasformarla, e a volte anche sovvertirla. Emblematica di questa condizione è l’arte di uno dei protagonisti della cultura architettonica italiana della prima metà del secolo scorso, Giuseppe Terragni, il quale, come ha evidenziato anzitempo ed in modo originale Alberto Cuomo nel suo libro “Terragni Ultimo”, nelle sue opere racconta il senso della “crisi dell’abitare”, anticipando di mezzo secolo il messaggio dell’architetto moderno e contemporaneo. Nel progetto per il Danteum Terragni vuole ritrovare il principio del linguaggio costruttivo architettonico ed in questo viaggio scopre la distruzione di tali linguaggi, i quali devono assoggettarsi alla creazione di un nuovo linguaggio comune, che tuttavia ancora oggi non sembra essere stato definito (A. Cuomo). Il Danteum ricerca quel luogo da cui scaturisce ogni forma dell’abitare e che si dona ad ogni località; infatti interloquisce con la città intorno interponendo un muro pieno che l’autore stesso definisce ‹‹lavagna su cui tracciare la rispondenza spirituale tra l’area e l’edificio›› (G. Terragni). Il suo desiderio è di attraversare la memoria del costruire e coglierne il principio; è di costruire un tempio del ricordo che riporti all’architettura il valore di opera totale, è di ritrovare l’ombra perduta dell’architettura moderna, cioè quella della sua tradizione e quella mancante alla luce della sua razionalità. Mentre il monumento accoglie in sé il fluire del tempo, il progetto di Terragni è senza tempo, nelle sue opere irrompono frammentazioni, spaccature, enjambment, gesti puri che mostrano l’ambiguità di un linguaggio incompiuto. Terragni intende ritrovare una “misura assoluta”, la sospensione senza tempo del classico. Infatti Manfredo Tafuri paragona questi gesti dell’artista alle maschere nude di Pirandello, sostenendo che Terragni artista e poeta, è un personaggio pirandelliano, per il quale realtà ed apparenza sono equivalenti e attraverso le maschere, l’artista racconta il suo mondo interiore rivelando il fine delle sue composizioni: ‹‹costruire case che raccontino l’impossibilità di avere dimora.›› (M. Tafuri). Il Danteum segna un’esperienza architettonica nuova nel periodo in cui si realizza, non è auto celebrativa o eroica, bensì è una figura labirintica duale e tortuosa , è un’esperienza che manifesta i meccanismi del farsi del progetto, dei materiali, delle forme, degli spazi, così come si sono trasformati nell’arco della storia. Come sostiene nella sua ricerca il Bontempelli, l’intento del XX secolo è di ricostruire Tempo e Spazio, ormai soggetti ad infinite manipolazioni. Per ridare una solidità al reale bisogna fare di spazio e tempo degli ostacoli alla volontà di trasformazione dell’artista, e limiti alla capacità inventiva dell’artista di andare oltre il reale, creando quello che Bontempelli chiama “realismo magico”. Il motivo fondamentale del Danteum perciò è il rapporto tra fantasia e ragione, che nella metafora individuata dal Bontempelli è tra il femminile e il maschile, dove l’abbraccio maschile /femminile è raffigurato nell’elevarsi e nello sprofondarsi spiraliforme dell’Inferno e del Paradiso. Lo stesso progettista dice: ‹‹nel Danteum si tratta di ottenere il massimo di espressione con il minimo di retorica, il massimo di commozione col minimo di aggettivazione decorativistica o simbolistica. E’ una grande sinfonia da realizzare con strumenti primordiali.›› Il Danteum è una passeggiata tra le cantiche della Divina Commedia, un viaggio senza tempo che inizia da un recinto ed un muro, che conducono rapidamente in un cortile vuoto, simbolo della vita perduta di Dante prima della Divina Commedia, poi alla sala quadrata delle cento colonne simbolo della selva oscura in cui il poeta si ritrova nel “mezzo del cammin della sua vita”, che attraverso un piccolo varco nel muro, fa accedere alla sala dell’inferno, composta da sette quadrati di altezze diverse i cui centri evidenziati da sette colonne, disegnano una figura spiraliforme ascensionale, matrice dinamica del progetto. Risalendo si arriva nella sala del Purgatorio che specchia e ribalta la sala dell’inferno in un gioco di bucature quadrate del soffitto aperte sul cielo, ed infine salendo alcuni gradini, si raggiunge la sala del Paradiso in cui le cento colonne scure della sala sottostante si trasformano nelle trentatré colonne trasparenti che sorreggono una copertura diafana. Da questo punto Terragni conclu-


de il viaggio o nella spina centrale della galleria dell’Impero, o verso un angusto passaggio tra due alte mura che conduce direttamente all’esterno. Nel Danteum Terragni unisce “ ricordo ed estraneazione”, costruisce un’opera in cui gli elementi primari della costruzione, muri, colonne, spazi, subiscono delle trasformazioni. Tutto il progetto è giocato su relazioni numeriche e geometriche, sulla ricorrenza del numero tre, sulle proporzioni auree dei tre rettangoli delle sale di Inferno, Purgatorio, Paradiso, sale a loro volta disposte in uno schema altimetrico su tre livelli e sulla spina centrale a sua volta costituita da tre muri ora pieni, ora traforati. Il pretesto dell’ispirazione alla Divina Commedia serve per esporre il gioco, il susseguirsi dei materiali con la loro consistenza o evanescenza, e la contrapposizione tra la densità della materia ed il vuoto infinito: alle cento colonne in granito dell’Inferno, corrispondono le trentatré colonne di cristallo che sostengono a loro volta una copertura trasparente. Osservando le due sale di Inferno e Purgatorio, percepiamo che si riflettono l’una nell’altra, la prima con il pieno dei piani che sprofondano verso il basso e le colonne che segnano questo percorso spiraliforme, la seconda sostituisce ai pieni i vuoti delle bucature delle coperture dei piani sfalsati verso l’alto. ‹‹Terragni mette in scena un gioco tragico e ambiguo: maschere e simulazioni si affollano intorno a nuclei concettuali resistenti…l’atonalità e la concezione prima dell’infinito mutarsi del gioco, è vero è solo il succedersi illimitato degli accadimenti che esso permette›› (M. Tafuri). Il Danteum conclude ogni possibilità dell’architettura moderna, da quella razionalista, a quella futurista o espressionista, poiché la modernità non dà luminose certezze, ma Terragni non si abbandona neanche alle affascinanti e nuove creatività, egli piuttosto ascolta il silenzio con cui l’invenzione si manifesta. Nei suoi progetti Terragni è sempre in bilico tra le lucide regole del razionalismo, la lirica della tradizione classicista italiana, l’influenza dell’arte plastica ed espressionista michelangiolesca. Il viaggio in cui ci conduce Terragni nel Danteum è un lungo ponte verso il futuro, nostro presente, in cui si sono perse le certezze del moderno ed emerge il dubbio, e la ricerca di una possibilità di verità e di identità dell’architettura avviene lungo la debole linea d’ombra al confine tra luce ed oscurità.


LUIGI MORETTI NELLA FORMA DELL’ARCHITETTURA ITALIANA Rosario Di Petta Un'architettura come scultura in una materia che,assorbendo alla fine ogni articolazione e commessura tettonica, diventa omogenea, cristallizzata. (L. Moretti) Il contributo fornito da Luigi Moretti allo sviluppo della ricerca sulla progettazione architettonica è originale e di fondamentale importanza proprio perché riesce con grande lucidità ad anticipare una serie di nuclei concettuali che ancora oggi occupano un posto di rilievo nell’ambito delle tematiche compositive. Moretti si mostra subito come un personaggio “difficile”, isolato, osteggiato da tanti, che si muove nell’ambito della ricerca sulla forma, rifiutando con fermezza di creare semplici “macchine per abitare” o di lasciarsi irretire dalle poetiche della memoria. Egli è interessato a studiare forme che, così come accade nella tradizione della migliore architettura italiana, non corrispondono mai ad una pura operazione di design, ma lasciano sempre emergere in modo netto il senso dello spazio che conforma gli ambienti, congiunto in maniera indissolubile ad un uso sapiente dei materiali. Questo studio formale perviene ad esiti architettonici che possono a prima vista sembrare diversi e persino divergenti in alcune occasioni, ma ad uno sguardo più attento non è difficile cogliere l’essenza plastica che conforma e connota ogni sua opera, riuscendo a dar vita a spazi ben calibrati e sempre pervasi da una metrica vibrante, in cui è palese la volontà di non perdere il legame profondo con la classicità, pur lavorando contemporaneamente sul linguaggio moderno. Tale componente plastica è forse l’elemento che maggiormente ancora la ricerca morettiana a forme identitarie dell’architettura italiana. Una identità molteplice che, nel caso dell’architetto romano, nasce da uno studio approfondito e personalissimo del Barocco, risolvendosi in una costante indagine tesa a recepirne gli insegnamenti formali e la tensione materica che connota gli organismi edilizi, per poi giungere ad elaborare una personalissima teoria “parametrica” che conduce, attraverso formule matematiche, alla elaborazione di nuove forme. I parametri per Moretti definiscono la struttura con “rigore matematico...divengono così l'espressione, il codice, del nuovo linguaggio architettonico, la struttura, nel senso originario e rigoroso del vocabolo, definente le forme e i loro legamenti, rispondenti a date funzioni” (L. Moretti). Tale volontà riesce ad emergere e a contrassegnare persino l’impaginato della rivista da lui fondata, diventandone così quel tratto dominante in grado di farle acquisire ben presto una meritata celebrità. Moretti vede quindi la forma sempre in rapporto alla percezione, e ciò lo porterà ad intuire le possibilità linguistiche dei fianchi degli edifici. Gli esiti di una tale ricerca si manifestano nelle case albergo realizzate a Milano, dove inizia a svelarsi una certa enfasi formalistica, fatta di tagli netti delle superfici e di profonde incisioni, che apparirà con maggior vigore espressivo nelle successive opere romane. Ciò che è importante sottolineare è che nell’architettura italiana di Moretti è sempre presente una palese tensione tra l’idea e la materia, che in definitiva rappresenta il tentativo di consentire alla materia di reagire al peso ed ai vincoli naturali, per vivere di una logica autonoma. A tal proposito è sufficiente pensare all’impegno con cui l’architetto romano segue le numerose prove di cantiere, facendo montare e smontare cornici, infissi e lastre di rivestimento che, come si può osservare nella Casa del Girasole, vengono sagomate secondo un progetto preciso. Questa opera rappresenta un momento importante nella evoluzione della ricerca architettonica del secondo dopoguerra, riprendendo temi già esibiti dall’architetto romano negli edifici milanesi, come il taglio verticale sul prospetto principale che divide la palazzina in due sottili lamine, staccate dal corpo dell’edificio, che trovano la loro conclusione in una sorta di timpano diversamente inclinato sui due lati. Il blocco centrale è poi caratterizzato da un grande vuoto a tutta altezza, lungo il quale vengono predisposti i collegamenti verticali, che visivamente riesce a bilanciare l’intera composizione. Si tratta evidentemente anche di una delle applicazioni più innovative e sperimentali della classica scansione basamento, fusto, coronamento. La facciata principale, quella su viale Buozzi, presenta il piano basamentale caratterizzato da una consistenza grezza che rinvia alla tematica del rapporto tra architettura e natura. In definitiva, l’architettura che Moretti mette in scena instaura sempre un dialogo profondo con il paesaggio contiguo, intriso di contrasti volutamente marcati che spesso si traducono in una chiusura ermetica di una parte dell’edificio in se stesso, quasi si trattasse di un corpo scultoreo che vive di una logica autonoma, per poi aprirsi in maniera totale sul fronte opposto, incontrando la natura circostante. Esempio emblematico di una simile dinamica compositiva è senz’altro la villa Saracena a Santa Marinella, posta sullo sfondo di un recinto murario scabroso che pare renderla su un versante impenetrabile, per poi aprirsi completamente sull’altro lato verso la distesa marina. Ciò risponde evidentemente anche a ragioni distributive, e rappresenta lo spunto per la realizzazione della suggestiva galleria vetrata che collega le due


parti, affacciandosi su un piccolo giardino interno. Questo percorso continuo connette tutti gli spazi della casa e conduce dalla strada sino all'acqua. I tagli netti emergono sulle superfici trattate a grana grossa, definendo marcati chiaroscuri. Anche Moretti, come tanti architetti dell’epoca, lavora sullo schema della proporzione aurea e del “numero d'oro”. L’accademia di scherma al Foro Italico è emblematica di una simile modalità progettuale; l'opera è il risultato dell’incontro di due volumi ortogonali tra loro, congiunti dal nucleo dei percorsi. La sua essenza plastica diviene evidente grazie alla geometria ed al materiale utilizzato, il marmo statuario di Carrara, manifestandosi anche negli interni, in particolare nella grande sala d’armi contrassegnata da un bianco reso ancora più intenso da una calibrata diffusione della luce diurna, ottenuta grazie alla brillante soluzione strutturale utilizzata per la copertura, con due mensole a sbalzo di diversa altezza legate da un grande infisso occultato dall’interno, che diventa l'elemento indispensabile per ottenere quell'effetto di continuità ricercato. La qualità formale delle palazzine romane realizzate da Moretti si arricchisce continuamente di elementi dissonanti tesi a negare banali simmetrie e volti ad introdurre un effetto di straniamento, con l’uso di escrescenze oblique sulle pareti o, come accade nella Casa della cooperativa Astrea, con lo scollamento della facciata dal resto dell’edificio. Qui il progettista deve fare i conti con un lotto dalla forma irregolare alquanto complessa e caratterizzato da una posizione piuttosto infelice rispetto all’esposizione. La soluzione finale viene quindi condizionata da tali fattori, ma ciò non si traduce affatto in un abbassamento della qualità formale dell’edificio, ma diviene lo spunto per dar vita ad una ipotesi plastica di straordinaria intensità, con la creazione di una membrana scollata dal corpo dell’edificio nei punti di flesso dove si trovano le finestre, che delimita le scale ed illumina lateralmente gli ambienti cucina. Una simile soluzione avrà vasta eco nelle proposte progettuali di tantissimi architetti di fama mondiale che assumeranno la logica dell’autonomia della membrana muraria come tema linguistico preminente del loro operare. Nell’ arco di esperienze morettiane sembra così trovare conferma quanto ha acutamente osservato Franco Purini, cioè che nella misura italiana non c’è mai staticità o freddezza, né autocompiacimento formalistico, ma piuttosto vi è la costante presenza di un sottile disequilibrio, di una destabilizzazione dei processi con i quali la forma viene alla luce evocando sempre, anche nella condizione della più estesa diffusione, il sogno della finitezza.



“nulla dies sine linea” Recensione a due testi del Prof. Claudio Roseti Michele Condò

Le due ultime fatiche editoriali di Claudio Roseti del dicembre 2007 confermano la considerevole produttività, dove lo scrivere è, anche e comunque, un modo di ottimizzare, rafforzare lo status di docente universitario non solamente con l’azione “in trincea” sviluppata con lezioni, convegni, seminari, revisioni e uno splendido rapporto con gli studenti per i quali nutre un profondo rispetto al punto di dedicar loro uno dei due libri che mi accingo a presentare. Nel proseguire con ordine questo approfondimento è bene puntualizzare che stiamo parlando nel caso specifico, rispettivamente di due opere: La decostruzione e il decostruttivismo vent’anni dopo, bilancio critico e prospettive, Waterfront, Spazi liquidi e architetture d’acqua, Il libro sulla Decostruzione completa e si aggiunge, ma soprattutto fa il punto vent’anni dopo la Mostra al MOMA del 1988 sulla Deconstruction Architecture da come derivato il precedente libro La decostruzione e il decostruttivismo, pensiero e forma dell’architettura e, come afferma il Rettore dell’Unirc Prof. Massimo Giovannini che ne ha curato la prefazione, pone Roseti come “il maggiore studioso ed esperto o comunque tra i maggiori in Italia, su tale argomento”. Aggiungerei, senza alcun dubbio, al pari di Livio Sacchi e altri (Guido Nardi, Maria Bottèro) che di tali temi si sono interessati per primi in Italia, molti anni or sono, ma non in maniera così sistematica, organica e approfondita. Il libro è per un terzo circa, la seconda edizione del primo, riveduta e corretta, approfondita per certi versi; vengono, infatti, mantenuti i primi capitoli, quelli più ostici, quelli più complessi sulla filosofia decostruzionista, sull’architettura e filosofia e sulle differenze tra decostruzionismo e decostruttivismo, essendo il primo quello legato alla filosofia di Derrida e il secondo, invece, quello venuto fuori dalla mostra del MOMA che si appoggia maggiormente al Costruttivismo Russo, dove il “De” è la preposizione che indica una deformazione dello stesso Costruttivismo. Le due tendenze, tutto sommato, si assomigliano perché mettono in crisi, sia l’architettura classica che la classicità modernista; in pratica, tutto viene rimesso in discussione e reinterpretato. L’elemento novità della pubblicazione - chiaramente espresso nel titolo – è fare il punto, tracciare un resoconto, tirare le somme sulla Decostruzione, a 20 anni dalla mostra di New York del Deconstruction Architecture, a 4 anni dalla prematura morte di Derrida; tendenza che secondo l’autore “…esiste ancora e continua ad essere un fatto abbastanza importante”. Questa viene esplorata al fine di comprendere se ha prodotto degli effetti (positivi , negativi, ecc…) e verificata alla luce delle nuove tecniche di progettazione attraverso un esauriente abaco comparativo, molto chiaro, che spiega in che cosa consiste la Decostruzione e in che cosa consiste il Decostruttivismo e dove vengono ad esercitarsi sull’architettura; cosa che, credo, sia difficile trovare in molta pubblicistica nazionale ed internazionale. “… I due termini - afferma l’autore - possono, anche, essere usati come sinonimi, nel senso che non si dà Decostruttivismo senza Decostruzione,… ma dà fastidio leggere di persone accreditate che lavorano nell’ambito della critica e usano il termine in maniera scambievole … l’aggiunta di questo abaco precisa molto le cose…”. La seconda parte, invece, riprende il lavoro di Peter Eisenman, che è il primo architetto della decostruzione, ne analizza la produzione successiva che è entrata nel campo digitale (cioè la famosa svolta dal paradigma meccanico a paradigma elettronico), dove Derrida non è più la sua unica sponda teorica, ma si interessa alla filosofia di Gilles Deleuze, fondata sulla piega, sullo spazio affettivo, piuttosto che effettivo e vengono analizzati una decina di progetti dopo di che verifica la produzione degli altri architetti della Decostruzione (gli altri sei espositori del Moma: Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind, Coop Himmelb(l)au, Bernard Tschumi, Frank Ghery) …”dei quali – dice Roseti – Koolhaas e Libeskind sono balzati un po’ in avanti mentre in arretramento pare stare Tschumi; Zaha Hadid, Coop Himmelb(l)au e F. Ghery restano sulle loro posizioni…”.


Infine molto sinteticamente, Roseti, analizza le nuove tecniche legate al metodo digitale sempre nel confronto con la decostruzione per verificarne lo stato dell’arte, l’attualità che esiste, tenendo conto soprattutto, che, come dice Derrida, “la decostruzione accade, non attende la determinazione del soggetto” Di altra natura ma, a mio personale giudizio, collegato da un sottile filo (che cercherò in seguito di ben specificare), è il secondo libro, qui proposto: Waterfront, Spazi liquidi e architetture d’acqua. Descrizione questa, per certi versi complementare al primo: è la dimostrazione di come il pensiero si traduce in architettura; ritroviamo infatti alcuni temi già esposti nel precedente libro, quali: il folding, la superposition, ecc…. applicati e ben evidenti nelle diverse tesi di laurea e lavori dei corsi pubblicati. Qui la teoria decostruzionista è messa in pratica. Direi che è una sorta di applicazione di buone pratiche di composizione, nonché la conferma che per Roseti le teorie decostruzioniste sono un principio di base dell’architettura e una filosofia di vita, una sorta di sfondo/sottofondo dalle quali, nel libro, dimostra di essersi liberato e quindi di non essere solo un teorico. Credo anche sia l’intelligente risposta al desiderio del Rettore che nella citata presentazione del precedente libro dice: “… pur apprezzando la profondità della ricerca, spero che Roseti dopo questa seconda fatica sia appagato quanto a sofisticati studi architettonico/filosofici …e possa dedicarsi con uguale impegno alla mediterraneità che è il tema di fondo dell’AACM, divenuta la nuova struttura cui il nostro, da poco afferisce…” Questo, contiene alcuni contributi (cosa rara, come si è già detto, nei libri di Roseti in genere totalmente autografi) attua e concretizza in forma di scambio ospitando nelle sue pagine degli esempi di Waterfront fatti a Palermo, a Napoli, nella stessa Reggio Calabria, tra i quali si instaura un parallelo, un confronto. Emergono quelli del Prof. Renato Collovà, Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo; di una nutrita rappresentanza di lavori di diversi Corsi della Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli : dal Prof. Alberto Cuomo e Paola Scala alla Prof.ssa Vanna Fraticelli e Alessandra Forino; da Gioia Seminario a Fabio Iannotta; della Prof.ssa Daniela Colafranceschi, Università di Reggio Calabria ed infine riporta due concorsi: il primo con capogruppo Francesca Fatta e l’altro con i primi progetti classificati al concorso per il lungomare di Reggio Calabria tra i quali, naturalmente, quello vincitore di Zaha Hadid, che a nostro parere non ha maggior pregio di quello classificatosi al secondo posto del gruppo della Università Mediterranea, guidato dal Prof. Massimo Giovannini. Vi sono compresi, anche, una serie di progetti di lungomare sviluppati nell’ambito della Facoltà di Architettura di Reggio Calabria, principalmente in forma di Tesi di Lauree ed altri progetti didattici che riguardano Reggio Calabria e la sua Provincia tra i quali la Tesi (di chi scrive) inerente il Porto di Gioia Tauro, di cui è proposta l’infrastrutturazione ai fini del raggiungimento di una qualità urbana di questa grande struttura, quale prolungamento e supplemento di servizi nei confronti degli abitati di Gioia Tauro e San Ferdinando. Da evidenziare, anche, l’abaco delle essenze, in ambiente mediterraneo, curato per i Corsi di Roseti, dal giovane agronomo Michelangelo Rizzo. Il libro affronta una delle tematiche che da qualche anno è divenuta attuale nella progettazione complessiva della città e nel mondo dell’architettura: quella della riqualificazione, della riprogettazione dei fronti urbani a mare, dei waterfront, dei lungo fiume, abbandonati per molti anni a se stessi; limes considerati aree di margine, non luoghi, “riscoperti” invece, - afferma lo stesso Roseti - come “neo luoghi che postulano nuove strategie di analisi e d’intervento”. Temi, questi, che, per una regione come la Calabria con uno sviluppo costiero inferiore solo alle due regioni insulari, costituisce un argomento di notevole importanza e significatività . Mentre il volume sulla Decostruzione è stato presentato dal Prof. Massimo Giovannini, il libro sui Waterfront si avvale della presentazione della Preside della Facoltà Prof.ssa Francesca Fatta. Il primo è in edizione bianco e nero, mentre quest’ultimo presenta un gradevole editing con numerose immagini a colori e consta di 130 pagine ed è stato presentato in aula magna per gli Incontri in Biblioteca il 29 ottobre 2008 e sarà oggetto di ulteriore presentazione il 23 gennaio 2009 nella Città di Siderno (RC) a cura dell’Urban Center di Locri nell’ambito della quale il sottoscritto curerà un intervento dal tema “Porti come città. Il mare come natura unificante”- Un progetto di laurea per il porto di Gioia Tauro.


BIENNALE DI ARCHITETTURA 2008 OUT THERE – ARCHITECTURE BEYOND BUILDING Tomaso Garigliano

Il titolo della 52° Biennale di Venezia 2008 sembra suggerire che l’architettura oggi debba occuparsi oltre che di ciò che è costruito, anche di ciò che non è solo tangibile e materiale, della sua apparenza, della sua rappresentazione e della sua diffusione mediatica. Oppure, di ciò che a noi è invisibile, a causa dei nostri limiti percettivi, ma ha un influsso innegabile sulla materia, o intangibile ma ha un influsso innegabile sulla percezione visibile. Con la speranza che fossero sostanzialmente queste ultime due le definizioni di ciò che è “out there”, ma beyond buiding, sono arrivato a Venezia, incoraggiato dalla vista del nuovo ponte di Calatrava, sul quale ho potuto fugare le forti perplessità riguardo alla sua reale utilità e sulla capacità di integrarsi armonicamente con l’esistente. In questa ultima biennale sembra invece che si tralasci il ruolo fisico-meccanico della materia invisibile, al centro di ricerche scientifiche che gradualmente stanno tracimando in quella architettonica a favore dell’esposizione del processo progettuale come risultato stesso della progettazione. In poche parole: viene definito un modo di fare architettura, che, in virtù della crescente necessità di interattività e riconfigurazione, rinuncia al suo momento di critica, per rimanere in uno stato di indeterminatezza che viene venduta per flessibilità. I curatori Aaron Betsky, nella parte Installations e Manifestoes, e Emiliano Gandolfi, nella parte Experimental Architecture, nel Padiglione Italia ai giardini, sembra vogliano dirci questo. Che il fare architettura fosse un processo che andasse oltre il semplice costruire, non è esattamente un fatto inedito, esso esiste dal momento in cui si è cominciato a dare intenzionalmente un ruolo iconico/rappresentativo al costruito, oltre al fatto che il processo d’indagine dell’ambiente è parte costitutiva del fare il progetto. Il risultato in questo caso è dunque la spettacolarizzazione del processo, l’esposizione dei meccanismi interni del pensiero dell’architetto e di tutti i passi del suo ragionamento, avvalendosi degli ultimi ritrovati della tecnologia per dare un’aura di scientificità al risultato e alle sue non-scelte. L’architetto-oltre-gli-edifici o il transarchitetto, quindi, va di là della funzione classica del progetto, e della teoria come li abbiamo sempre conosciuti: strumenti questi che erano in grado di mantenere una distanza dal reale, e che svolgevano la funzione di pietra di paragone e misura critica del risultato. Questo dualismo oggi non sembra più attuale. La pervasività della comunicazione, il voyeurismo e il grande fratello s’insinuano all’interno del processo progettuale per fare del processo stesso una produzione iconica che rappresenta se stessa. La rappresentazione del progetto non è più l’elemento con cui si misura il risultato, ma è il risultato stesso, pertanto non è necessario costruirlo. In un’intervista proiettata su uno schermo all’interno delle Corderie, l’immagine di Aaron Betsky, ci chiarisce un concetto che è il risultato di una volontà di ribellione: l’architettura di oggi è talmente codificata da manuali che ne dimensionano tutto in funzione di necessità economiche, ergonomiche, di sicurezza e risparmio energetico, che in fondo non ci resta che occuparci della pelle dell’architettura, o dell’oltre, e quindi della rappresentazione di ciò che sarà, se sarà. Proseguendo lungo la navata delle Corderie, l’impressione è che i gruppi di architetti presenti in questa sezione, sembrano condividere e adattarsi a queste affermazioni, ponendo l’accento, con diverse declinazioni, su un tratto comune: il fatto che il “processo” progettuale, con le sue ascendenze da ragionamenti scientifici o pseudo-scientifici, è sempre di più generatore di forma. Talvolta il messaggio passa meglio perché, come nel caso dell’istallazione di Vicente Guallart o quella del padiglione svizzero, si evidenzia come i processi costruttivi di oggi, grazie ai software e alle macchine a controllo numerico, raggiungono una maggiore differenziazione e personalizzazione che può avere risvolti formali interessanti senza intaccare l’economia globale del progetto. L’architettura diventa la comunicazione del processo del suo “farsi”, e nel rappresentarsi produce un’ulteriore comunicazione che conferma l’intuizione che ebbe 40 anni fa Marshall McLuhan: il medium è il messaggio. I limiti si presentano quando, vista la necessità di rappresentare questo concetto in maniera intelligibile, attraverso un manifesto (o un’allegoria?) avviene un fenomeno di per sé contraddittorio: si vuole rappresentare un processo tipicamente dinamico attraverso un’istantanea di esso. Se ne fotografa un istante 1


senza veramente lasciare intuire o rappresentare il resto del suo fluire: l’enunciato necessario alla comprensione del processo non ne svela chiaramente le capacità adattive e flessibili che gli si attribuiscono. In Experimental Architecture, la sezione allestita nel Padiglione Italia del Giardini, il curatore Emiliano Gandolfi non contraddice Aaron Betsky: anche qui la comunicazione del processo si tinge di spettacolarità occupandosi soprattutto di stati di emergenza: dalla sovrappopolazione all’ambiente, allo sprawling urbano, tutto viene rappresentato con un linguaggio estremo che distoglie dalla ordinarietà e poca originalità delle soluzioni proposte (quando ve ne sono), che spesso ricalcano linguaggi tipici delle avanguardie degli anni sessanta: collage, sit-in, fumetti e cartoni animati, sono oggi rappresentati con tecnologie più aggiornate, ma non senza una palpabile nostalgia di quei tempi in cui, oltre al messaggio di denuncia, si credeva nel formulare delle proposte, nel frattempo disattese; per cui oggi, ci si ferma all’atto di denuncia, purché sia di livello globale. Molti degli architetti in mostra, come Koolhaas e Coop Himmelb(l)au, hanno una storia di sperimentazione vera, che li ha resi celebri e che ha contribuito alla loro ascesa, li ha trasformati in archistar, e oggi forse, oberati dalle commesse in Cina o a Dubai, questi non hanno più tempo per produrre materiale di ricerca nuovo per cui si limitano a ripresentare gli stessi temi in chiave new technologies. La riproposta di concetti che erano rivoluzionari quaranta anni fa, come il Monumento Continuo di Superstudio, oppure il Green Design di SITE, oggi vengono riproposti, senza fare capire che questi concetti oggi sono mutati, se non, diventati obsoleti. Anche l’acclamatissimo “pallone gonfiato” di Coop Himmelb(l)au, è la versione moderna del loro esperimento degli anni sessanta, una versione pittoresca alla Jules Verne di concetti che oggi trovano campi di sperimentazione più legati all’utilità comune come l’hyperbody di Kas Oosterhuis. Questa mancanza di sviluppo dei concetti enunciati è il leitmotiv di molti delle istallazioni esposte. La necessità di esposizione delle informazioni spettacolarizzate è seguita dalla rapida sostituzione, in una società afflitta da un bulimico consumismo. Ciò spinge i partecipanti della mostra a fuoriuscire dall’architettura per abbracciare arti più consone alla produzione di immagini, slogan, dichiarazioni di così rapido consumo. In parte, questa incompletezza dell’informazione è autodenunciata, è presentata come stimolo alla riflessione e alla capacità visionaria di chi osserva, ma, in molti casi le immagini sono sterili, autoconclusive, di nuovo allegorie di concetti utopici o distopici che ci mettano in guardia dai rischi della contemporaneità, sui quali ancora l’architettura non riesce, apparentemente, a elaborare delle risposte adeguate e realistiche. Certo qualcuno potrebbe ricordarci di quando i fratelli Otis presentarono per la prima volta l’ascensore all’expo universale del 1854, suscitando perplessità perché ancora non si poteva immaginare la proliferazione dei grattacieli che sarebbe iniziata di lì a poco, ma almeno l’utilità era evidente: serve per salire, serve per scendere. Direi che il climax di questa comunicazione criptica si ha quando ci viene chiesto di rimanere affascinati davanti al video della signora delle pulizie della casa di Koolhaas a Bordeaux: architecture beyond building! Tra i padiglioni nazionali, com’è tradizione, la relativa libertà dei singoli curatori produce risultati che talvolta interpretano il filo conduttore più opportunamente dei curatori principali. Alcuni, come il Padiglione belga o quello portoghese, decidono che per parlare di architettura oltre il costruire non è appunto necessaria la costruzione di un oggetto per trasmetterne il significato. I belgi creano una seconda pelle attorno al loro padiglione storico ribaltando così il significato interno/esterno. I portoghesi invece incaricano Souto de Moura, che trasforma una sala di un palazzo sul Canal Grande in una vasta sala degli specchi, ricalcando una tradizione di sperimentazione spaziale con le riflessioni che ha una storia plurisecolare di creazione di spazi percepibili grazie alle caratteristiche intrinseche dei materiali, e oggi è chiamata realtà virtuale. Il padiglione giapponese indaga la città sostenibile con un’istallazione di Junya Hishigami: Extreme Nature, in maniera originale, fuoriesce dal padiglione creando delle graziose piccole serre di natura da piazzare ipoteticamente in ambienti urbani. Molto interessante si presenta anche il padiglione ungherese, che, a nostro avviso interpreta in maniera migliore degli altri il tema dell’architettura oltre il costruito: un gruppo di architetti giapponesi e ungheresi, raccolti sotto il nome di DoubleNegatives Architecture, hanno creato attorno al padiglione, una sovrastruttura virtuale generata dai flussi di informazioni che può essere vista grazie alla augmented reality, tecnologia che sta vivendo una rapido sviluppo, e si presenta come un flessibile rivestimento virtuale del padiglione. Fuori tema, ma molto interessante e rassicurante il padiglione dei paesi nordici, che hanno dedicato una retrospettiva all’architetto Sverre Fehn, mentre è scioccante ed evidente il fenomeno che denuncia Betsky (gli edifici sono la tomba dell’architettura), all’interno del padiglione russo: l’impressionante consumismo e totalitarismo raccolto in modo confuso all’interno di questo padiglione rende evidente come l’architettura 2


costruita o costruenda di oggi abbia abbandonato la ricerca intellettuale e sociale. Torri a forma di stella, alte un chilometro, megastrutture a forma di colosseo con tanto di capitelli corinzi, centri commerciali a metà tra Hundertwasser e Dysneyland mortificano la cultura di una grande nazione, che sembra aver perso la bussola. In questi edifici l’architettura muore veramente, mentre gli architetti si occupano di ciò che è beyond.

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ACCOSTARE, SERIALIZZARE, RIPETERE. L’ORGANIZZAZIONE INTERMEDIA TRA RESIDENZA E CITTÀ ED IL PROGETTO DELL’ORDINARIO Luca Romano

Come sostiene Paola Viganò, nel tentativo di opporre resistenza alla polverizzazione dei tessuti, alla casualità degli accostamenti di villette, fabbriche, depositi…, ossia a tutte quelle pratiche di appropriazione dello spazio che caratterizzano i territori più destrutturati della città contemporanea, i manuali di town design da sempre hanno proposto il tema del raduno di edifici per garantire l’unitarietà della composizione. La finalità del progetto è tendere ad un’unità formale di ordine superiore perché la dimensione di alcuni elementi, innanzitutto la casa isolata con giardino, o la regola del semplice accostamento, sono considerati insufficienti ed inappropriati ad una soddisfacente caratterizzazione dello spazio. Percorsi progettuali differenti interpretano il carattere frammentario, ma ripetitivo, del paesaggio contemporaneo come una successione di oggetti disposti secondo alcuni deboli criteri d’ordine e individuano possibili variazioni, ritmi, slittamenti, deformazioni entro composizioni aperte e seriali. Il centro tematico del progetto della città contemporanea è allora la costruzione di ritmi, ricorrenze e sequenze, di un processo costituito di numerose azioni decentrate e governato da regole che agiscono a differenti livelli. 1 Una posizione progettuale, quella che precede, legittimata dalla considerazione che di per sé la casa isolata su lotto impoverisce il paesaggio urbano, perché riduce il rapporto uno/molteplice a sommatoria di individualità senza mediazioni.2 Il problema compositivo è allora la comprensione dell’esatta scala e misura degli oggetti edilizi e delle peculiarità della loro composizione, capire cioè le differenze che intercorrono tra il comporre edifici continui, come in un ambito urbano tradizionale, ed invece edifici singoli. Che è poi la distinzione sostanziale tra una concezione confomativa dello spazio (ovvero il vuoto contenuto, circoscritto dal pieno) ed una di segno contrario. Questa è quella che prevale nell’organizzazione più o meno spontanea del paesaggio urbano, prima nord-americano, poi globale. Quello europeo ed italiano in particolare non fanno eccezione. Le forme intermedie di unità tra residenza e città ovvero i tentativi di sviluppare relazioni spaziali più complesse di quelle legate al quotidiano, partorite dalla scena architettonica recente (e quella italiana ne è parte integrante), sono perseguite con progetti che applicano la tecnica compositiva fondata sull’accostare, ripetere (non per costruire una figura speculare; qui ci riferiamo alla ripetizione per traslazione dell’elemento), serializzare, evidenziando un modus operandi fondato sulla costruzione di una relazione, una regola, agli antipodi di una concezione strutturalista, gerarchica, del comporre. Per quella, come nel 1

P. Viganò, La città elementare, Skira, Milano, 1999, p. 152. Tanto più oggi, se guardiamo alla rarefazione incontrollata di un paesaggio che si sviluppa per residui, dove è facile constatare

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“quanto forte e intenso possa essere l’uso dello spazio individuale, familiare, privato. Spesso si sostiene che la dispersione è consumo di suolo. Meno spesso si rileva come il consumo sia intensissimo in alcuni punti, nullo in altri e come esso irraggi un alone chiaro attorno al lotto, attraverso l’occupazione più o meno abusiva dello spazio immediatamente circoscritto per depositarvi materiali, parcheggiare la macchina, coltivare qualcosa. Serre di plastica, legnaie, pile ordinate di lamiere, piccoli capanni per gli attrezzi sono indizi di questo dilatarsi delle pratiche oltre il lotto. Di nuovo si tratta di spazio appropriato, spazio al quale si estende, senza troppi diritti, una volontà di controllo non mediata e personale. Per il resto, al di fuori di questi punti e dei loro aloni, è il disinteresse. Questo è un territorio che ha il passo sintattico breve: è fatto di frasi corte, di luoghi circoscritti entro un campo vasto. [il corsivo è nostro, NdA] L’alternanza tra cura e indifferenza (tra vicino e lontano) disegna pratiche che si coagulano per punti, un paesaggio a bolle […] Ma l’attenzione alle pratiche mostra anche altri comportamenti oppositivi. Il non finito che si coniuga con il degrado, ad esempio.” C. Bianchetti, Abitare la città contemporanea, Skira, Milano, 2003, pp. 49-50.


corpo umano, l’amputazione di un arto, o di un elemento, compromette la figura intera, la sua compiutezza formale, una totalità non riducibile alla semplice somma delle sue componenti. Nei progetti che invece si rifanno all’idea di composizione qui esaminata (si pensi al Pilotengarten a Vienna, realizzato da Herzog & de Meuron, o ad alcuni interventi a scala urbana degli MVRDV, per limitarci ad alcuni) non si può parlare di inizio e di fine dell’opera: spesso i limiti, come denuncia la scomparsa della cornice da un quadro di Mondrian, sono lasciati aperti e questa potrebbe teoricamente estendersi all’infinito. Proprio come in un quadro del celebre artista, ricorrere alla geometria cartesiana non significa gerarchizzare, qui gli assi cartesiani Hanno poco a che fare con gli assi prospettici del barocco, […] sono più facili da mettere in relazione con quelli che troviamo nei quadri di Mondrian, atti a definire campi e superfici, ma non a gerarchizzare tracciati. L’idea di disegno come programma virtuale di attività, come occasione per stabilire la disponibilità di un spazio –e non come definizione statica della forma- [trova esemplare applicazione nell’esempio riportato più avanti, NdA].3 Questi complessi residenziali così concepiti si fanno carico della specificità dei luoghi nei quali intervengono andando a scovare tracce anche minime cui appigliare il progetto, quando ci sono. Evitano che il tipo edilizio divenga segno morfologico: le banali e note lottizzazioni di case alte, in linea o a torre, fondano la loro assenza di qualità architettonica proprio sull’equivalenza del costruito e del vuoto (cosa diversa dalla complementarità), ovvero sull’intercambiabilità di ‘positivo’ e ‘negativo’, sulla ripetibilità teoricamente infinita dello stesso edificio. Questo appare quindi formalmente e funzionalmente compiuto in sé, è parte urbana conclusa, autosufficiente, non elemento che dia origine ad un tessuto, questo sì fondato sulla complementarità di costruito e non costruito (e qui non si allude affatto alla riproposizione della città storica). Infatti, in queste esperienze assistiamo ad un tipo di razionalità diversa.4 In continuità con la tradizione moderna del quartiere unitariamente progettato, cioè a livello edilizio, di costruito, e di spazi aperti, anche qui l’unità architettonica coincide con l’intera dimensione dell’intervento ovvero con il tipo insediativo che va a supplire alla scarsa resa, articolazione spaziale esterna. Tuttavia se nell’ambito del territorio della dispersione si determina solitamente opposizione o indifferenza tra edificio ed edificio contigui, invece la realizzazione di questi aggregati suggerisce, intravede, la possibilità di un’addizione, pur mantenendo singolarmente un forte livello di autonomia formale dall’intorno esistente o futuribile (esprimendo così un giudizio). Quella che viene paventata (senza farsi neppure troppe illusioni ma cercando forse soprattutto una propria visibilità, distinzione dal resto), è una possibilità aggregativa ‘orizzontale’ (cioè per accostamento) che presuppone e determina la sostituibilità, non più a livello di singolo capannone, singola casa isolata o singola torre, ma a livello di questi complessi più ampi, parti formalmente compiute (fig. 1). La ‘porosità’ del limite al contorno è condizione necessaria per l’eventuale additività. La strada non è quella corridoio ma è quella di grande traffico salvo poi alleggerirsi d’impatto in prossimità di queste isole, tali alla nascita ma non geneticamente condannate in eterno a questa condizione (si presta fiducia al tempo); lo spazio collettivo è presente all’interno, costituendo, insieme alla specificità figurativa complessiva, fattore di riconoscibilità e identità collettiva: la casa coincide non più col singolo alloggio ma con qualcosa di più ampio (si può dire ‘urbano’?), tanto più che l’automobile è tenuta fuori dallo spazio aperto, per la gran parte riservato all’uomo e non più frammentato per farle posto. Quello che si prova a fare è innalzare la qualità di questo arricchendo il sistema di movimenti ovvero offrendo più di un’alternativa per spostarsi da un punto all’altro, da un alloggio all’altro del complesso (nella ordinaria periferia contemporanea è invece tutto semplificato). La giusta privacy è garantita dalla conformazione dei volumi e non dall’erezione di muri e recinzioni varie, il che riflette anche l’attitudine alla trasformabilità. Infatti, l’eventuale addizione è facilitata sicuramente da un vuoto, un distacco, tra due edifici che vengono improvvisamente a fronteggiarsi più che da una recinzione che esprime pur sempre il rifiuto dell’altro (non previsto), l’esclusione a priori. In sintesi, almeno quattro sono le mosse intraprese e l’una si completa nell’altra:

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R. Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Electa, Milano, 2005, p. 269. Si veda il numero monografico: Urban housing, Lotus international 120, 2004.


 Delimitare una porzione di territorio, sottratta così all’indefinitezza spaziale; primo atto di fondazione. Delimitazione non conclusa, con possibilità di dialogo, continuità, con la campagna.  Perimetrare lo spazio, producendo una distinzione netta tra il dentro e il fuori, pur riprendendo il tema della palazzina (nobilitata talora dalla riscoperta del modello storico della villa urbana).  Transitare nello spazio ovvero attraverso l’elisione evocare un’estensione, una possibilità, teoricamente infinita ma nei fatti limitata, sottaciuta.  Possibilità combinatoria suggerita, attesa. La relazione evocata è comunque per accostamento non per incastro (come accade invece nella città storica).

Un caso italiano: Lottizzazione a Gorle-Bergamo (figg. 2-4) Il terreno è un lotto quasi quadrato, ritagliato tra una roggia ed una strada che porta nei pressi del cimitero, ormai parte integrante di un tessuto di case a schiera che nel tempo lo hanno circondato. Lo scenario è quello tipico ed anonimo della dispersione (caratterizzante non solo la pianura padana), fondato sull’accostamento casuale di brandelli di spazi aperti, case unifamiliari, campagna etc. In questo appezzamento sono raccolti, secondo un piano generale elaborato negli anni novanta da Adolfo Natalini e Attilio Pizzigoni, alcuni gruppi di case a schiera, unifamiliari e binate, affidate a diversi architetti (tra gli altri, Pierluigi Nicolin, Umberto Riva, Adolfo Natalini etc.). La geometria d’impianto è quella tipica delle lottizzazioni: ortogonale. Un percorso carrabile attraversa l’insediamento, ad una quota inferiore al piano-campagna, e conduce ai garage sotterranei (da cui si può risalire alle singole abitazioni), spazio collettivo di tutto l’intervento; a quota zero, percorsi pedonali tessono l’orditura secondaria configurando la lottizzazione come un unico isolato. Già la separazione dei flussi evoca intenzioni compositive affatto concilianti con i luoghi comuni legati all’immaginario della casa con giardino. L’asse centrale costituisce la porta d’ingresso del complesso: “cosicché quella privacy, così attentamente perseguita al di sopra della quota di campagna, lascia il posto, nel piano interrato, a una inaspettata occasione di incontri.” 5 Allo stesso tempo, la disposizione generale fa sì che scompaia dal paesaggio il motore di tutto l’insediamento, l’automobile, cancellando in un sol colpo elementi e figure del mondo suburbano padano-prealpino come il garage esterno, la montagnola di terriccio a suo mascheramento, […]. I parcheggi comuni sotterranei rendono puramente simbolico l’ingresso pedonale al piano terreno delle abitazioni, ma nello stesso tempo offrono agli architetti la possibilità di operare su una dimensione “domestica” depurata dall’accidente automobile. 6 Gli stereotipi dell’abitare suburbano vengono decostruiti e reinventati, nella consapevolezza di trovarsi in una ‘terra di mezzo’, né città né vera campagna: primo tra tutti il culto della privacy, mediato con lo spazio collettivo e la ricerca sugli spazi intermedi di vicinato. Infatti, per sfuggire ai vincoli dell’orientamento nord-sud e delle distanze, e garantire l’isolamento, le abitazioni slittano avanti e indietro, avvicinandosi o allontanandosi dai percorsi pedonali; ma la gran parte di queste sono binate e così i punti di contatto diventano l’occasione per creare degli spazi aperti comuni (come negli interventi di Riva e Nicolin) a lato dei percorsi, dando luogo ad una variazione morfologico-spaziale inconsueta in questo tipo di realizzazioni. Che ne rappresenta l’autentico salto di qualità.

(*) Brano tratto, ed adattato, dalla tesi di dottorato in Progettazione Architettonica ed Urbana dal titolo: “L’architettura dell’isolato urbano in Europa. Permanenza, modificazione, innovazione nell’organizzazione intermedia tra residenza e città”

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M. Zardini, “Abitare il Nord-Est italiano”, Lotus 100, 1999, pp. 76. Zardini, op. cit., pp. 76-77.


Figura 1 No complementarietà degli elementi bensì accostamento (dall’isolato, parte di un tutto omogeneo, si passa all’isola; da elemento diventa materiale).

Figura 2

Figura 3 Accostare, serializzare, ripetere. Grouping of buildings: lottizzazione a Gorle-Bergamo. In evidenza, la ricerca sul tema dell’ingresso alla residenza come momento d’incontro. Fonti iconografiche Fig. 1Disegno originale dell’autore (Luca Romano) Figg. 2-4 Lotus 100, 1999



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