EDITORIALE Giunta al suo terzo numero, la nostra rivista sembra essere pervenuta ad una meglio definita fisionomia, con la rubrica “Argomenti” dedicata ai saggi, e la rubrica “Testi” dedicata alle letture di precisate architetture o architetti. Anche la linea editoriale sembra emergere con chiarezza, nel senso che, essendo BLOOM la rivista di un Dottorato il quale nella sua tradizione non ha mai sposato univocamente una tendenza del progetto, per mantenere vivo il confronto tra le diverse visioni del progettare, anch’essa tiene alla libertà di analisi e di giudizio dei singoli collaboratori, sì che possa persino accadere, come accade in questo numero, che su un analogo tema si esprimano opinioni differenti. Per questo BLOOM è aperta ad ogni collaborazione, a quella stessa dei lettori, nel ritenere come solo la comparazione tra modi di vedere differenti possa offrire qualche indicazione negli intricati cammini del nostro tempo.
DASEIN O DESIGN? Luigina De Santis
«Essere o essere-disegnati?» L’interrogativo amletico, nella versione ‘aggiornata’ di Jean Baudrillard, con grande efficacia ci restituisce perplessità e dubbi dell’architettura attuale, chiamata a dar conto del conformismo estetico, figlio dei mercati e della corsa alla spettacolarizzazione, in un momento di crisi finanziaria e di recessione globale. Torri infinite o girevoli, capsule e astronavi, nidi e rocce, grovigli, faglie, fusi, serpentine, saette… sono il frutto di un'invenzione sfrenata, sempre incline a stupirci. E, su tutto, il vetro, a celebrare l’evanescenza e l’intermittenza di un’epoca impantanata nella precarietà del suo presente. Ridotta a competizione tra professionisti del glamour, tutta concentrata sull'immagine e sul marketing e disattenta ai contesti, alle risorse e alle necessità reali, volta, insomma, ad assolutizzare la dimensione segnica dell’oggetto e dimentica, invece, di quanto concorre a connotarlo ontologicamente, l’architettura torna ora a interrogarsi sulla “superfluità” delle proprie superfici, in un’istanza di essenzialità, che è pragmatica riduzione di costi e più teorica ridefinizione di obiettivi e di ambiti, in funzione di una piena responsabilità del proprio ruolo estetico (e pertanto etico e sociale) e di una piena consapevolezza dei propri limiti e dei limiti delle proprie risorse. Collassano le borse e crollano i consumi: l’economia globale si scopre un gigante d’argilla e l’architettura ‘griffata’ che ne incarna tutto l’anelito simbolico, specie quella dei grattacieli che direttamente traducono in immagine l’idea di una crescita infinita, conosce una battuta d’arresto. Molti cantieri internazionali sono fermi: le Falk di RPBW e Santa Giulia di Foster & Associati, in Italia, la New York Public Library di Foster e la torre del MOMA di Nouvel, negli Stati Uniti… finanche l’inaugurazione della Bury Dubaj Tower, il grattacielo più alto del mondo voluto a marcare nei suoi 818 m di altezza il rampantismo della Las Vegas degli Emirati, programmata per settembre, potrebbe essere in forse! Non va poi molto meglio ai musei, luoghi simbolo dell’intrattenimento sociale che contrassegnano le nuove mappature creative delle città. Le recenti inaugurazioni del Lincol Center di Didler, Scofidio e Renfro, a New York, del Neues Museum di Chippefield, a Berlino, dell’Art Institute di Piano, a Chicago, del Museo dell’Acropoli di Tschumi, ad Atene… non riescono a mutare la sensazione di una stagnante situazione di stallo. Episodio emblematico: i 4 progetti previsti ad Abu Dhabi, dove, tra isole a forma di palma e piste da sci a 50°, il gotha dell’architettura internazionale (Gery, Ando, Nouvel, Hadid) è stato convocato a siglare con uno spolvero di glam occidentale la febbre da museo di un impero finanziario deciso a investire sull'arte, rimangono per ora sulla carta. E molti contenitori griffati arrancano a tenere il passo, dopo impietosi tagli di budget. Il passato, incapace a dar forma al presente, perchè privo di una forma narrativa sua propria e piuttosto continuamente riletto secondo le numerose e spesso contraddittorie ansie attuali, assume la leggerezza della chiacchiera e, senza memoria e senza tradizione, non può aiutarci a dar nome a quell'oltre che ci si prospetta, al futuro che tanto ci inquieta. Sono molti gli economisti che ora denunciano la mercificazione integrale, l'uniformità dei comportamenti e la visione dell'uomo come semplice produttore e consumatore, che hanno connotato gli eccessi della speculazione e del feudalesimo finanziario della nostra elite, e invocano una rinnovata normalità, che è necessità di regole e ricerca di equilibri, questione, insomma, di misura, perché la critica all’economia globale non è rifiuto, essendo mossa proprio in nome delle promesse che fa e che non mantiene. Ridefinire i confini del necessario e del superfluo, nelle scelte di economia come negli stili di vita, è l'imperativo etico dominante in tempo di crisi. In questo contesto, Rem Koolhaas, guru olandese dell’iperarchitettura del supercapitalismo e profeta dello shopping urbanism, che ci ha insegnato a guardare con disincanto al Manhattism e al Junk Space, adducendo il realismo come facile alibi per assecondare il mondo così com’è e fornircene patinate descrizioni, con un’ardita torsione ideologica, scopre la necessità della Generic Architecture. Come i farmaci omologhi basati sulla funzionalità semplice della molecola di base priva di marchio, anche quella di Koolhaas rispolvera la funzione e il buon senso, per ritrovarsi «architettura delle differenze» capace di ascoltare il passato e di dialogare con il luogo, contro le stravaganze della moda e le esasperazioni del mercato globale. Il realismo, che è accettazione di quanto sfugge al nostro controllo e pone limiti alle nostre azioni l’imprevedibilità della vita, ma anche la tradizione e la storia, la cultura e il luogo -, riscopre le verità deterministiche della geografia, intesa come interpretazione ambientale degli eventi. Del resto non è stata proprio
la globalizzazione che, accentuando per reazione le identità locali, ha messo a nudo la realtà di un mondo che lotta non per le idee ma per il controllo del territorio e delle sue risorse? Contrordine, dunque: non più la logo-architettura, ma un’edilizia dignitosa, capace di rispondere singolarmente a bisogni precisi e a esigenze locali e di nuovo responsabile del proprio ruolo civile. Siamo allora al «costruisci come meglio puoi» che Adolph Loos consigliava ai giovani studenti di architettura all’inizio del secolo scorso? «Lavoriamo meglio che possiamo, senza soffermerci un solo istante sulla forma. La forma migliore è sempre già pronta. Basta con i geni dell’originalità!» proclamava in una conferenza, a Vienna, il 10 novembre del 1912. L’ipermodernità fluida e leggera del XXI secolo riscopre dunque gli stessi disincantati tormenti della sua difficile gestazione nella versione solida e pesante del secolo scorso? Se gli strali di Loos sono indirizzati contro la superfluità di incrostazioni ornamentali traboccanti che invadono e mascherano la superficie di qualsiasi oggetto, nell’equivoco di un’architettura che si vuole arte, le critiche attuali mettono in luce le aporie di un’archiettura divenuta packaging, tutta volta all’effimero della pubblicità e della moda, fatta di strati e di performances e dimentica di spazi e di durate. “Sotto il vestito niente?” è ora il sospetto che agita l’architettura che guarda alla moda, lavora per la moda (emblematiche le realizzazioni di Koolhaas e di Herzog & de Meuron per Prada), diventa moda essa stessa. Ma non era stata proprio la moda – il frac per Loos, la «camicia bianca» per Le Corbusier – il paradigma di una civiltà che insegue il comodo e non teme il banale e proprio nell’abbigliamento vede più direttamente applicate queste istanze? In perfetta sintonia con Schelling che, nella Filosofia dell’arte, esalta le potenzialità della sartoria, superiore all’architettura perché in grado di «produrre qualcosa di esteriore che sia in rapporto con l’uomo e le sue necessità e … tuttavia indipendente da esso, … bello in sè», anche per il tramite dell’interpretazione tissurale dell’architettura fornita da Gottfried Semper, ne “Il principio del rivestimento” Loos enfatizza il ruolo della superficie nella delimitazione formale e nelle tessiture materiche che la connotano percettivamente. Un inevitabile “accessorio” – né struttura né decorazione – chiamato, proprio in virtù del suo statuto intermedio, a definire lo stile di una condizione “altra” sempre vagheggiata: la modernità della civiltà occidentale. Ma l’accento sull’espressività del materiale e sulla texture del rivestimento non impedisce di «pensare in tre dimensioni, (di) pensare al cubo». Orgoglioso che i suoi interni «non facciano alcun effetto in fotografia», Loos concepisce lo spazio in maniera irriducibile al piano. La dimensione tissurale del rivestimento non si contrappone alla corporeità della forma, piuttosto la dispiega e la avvolge nelle sue pieghe e, lontana dall’astratta aderenza all’uso, la rende “questione di stile” – luogo di un’interrogazione continua – “esponendo” l’ornamento alla complessità estetica del suo statuto piuttosto che «esponendolo dappertutto». Analoghe le tesi di Le Corbusier e comune la condanna della decorazione: “strato rappresentativo”, traveste la modernità e la sua funzionalità senza eccessi. La 'messa in forma' dell’architettura non deriva semplicemente dalla funzione: è questione estetica che, nel bianco dell’intonaco, chiama in gioco l’occhio e la purezza della visione, privilegiando l’astrazione ideale dello spazio sulla sensualità materica della decorazione. L’intonaco, strato sottile ma oltremodo significativo, fissa sulla superficie la differenza tra necessario e accessorio, razionale e sensuale, funzionale e superfluo. Come la «camicia bianca», traduce il corpo in forma, lo veste con un «abito di ottima fattura» incarnando il paradosso di un “superfluo essenziale”: né tutto visivo (l’esteriorità della superficie), né tutto sensuale (l’opacità del corpo), è la linea di confine che separa e lega i due elementi. L’abbigliamento e la moda sono dunque invocati non per il carattere bizzarro e stupefacente della novità ma per il paradosso dell’implicazione reciproca di comodità essenziale e di esteriorità superficiale, di originalità e di conformismo, di mutamento e di stabilità. Connesso etimologicamente alla moda, il moderno, che è maniera, modo, forma (sostantivo modus) e testé, or ora, appena adesso (avverbio modo), ci dice la fragranza della forma, il qui e ora del suo accadere; è un profumo di futuro che già svapora nel passato, costitutivamente in anticipo su se stesso e proprio per questo anche sempre in ritardo. Ha la forma di una soglia inafferrabile tra un non-ancora e un non-più. Può citare il passato, rievocare e rivitalizzare forme trascorse, ma anche presentare il futuro, anticipare lo spirito del tempo. Le sue invenzioni, perciò, non sono stupefacenti ricerche di soluzioni spettacolari venate di glamour, ma ‘scoperte’: disvelamenti di quanto da sempre si nasconde o produzioni di una techné capace di riconfigurare elementi esistenti e disponibili. Provengono non dall’amnesia, ma dalla memoria e dalla ripetizione. Il moderno ci consegna il viatico di una linea nomade, posta ogni volta a segnare un confine: tra sostanziale e superfluo, tra effettivo e bello, tra ripetizione e invenzione, tra tradizione e futuro. Ci rammenta che l’esteriorità l’ornamento del XX secolo o l’immagine del XXI – è soglia aporetica e mutevole. Abita una strana regione liminare, spuria e ambigua, luogo di ‘marginale centralità’, dove il confine è anche linea di fuga, sui cui punti il registro dell’esornativo e del gratuito interseca quello del necessario e dell’essenziale.
POVERTÀ E SPAZZATURA: BENJAMIN E KOOLHAAS Dario Gentili
In una lettera del 1989 destinata a Peter Eisenman1, Jacques Derrida, per svincolare la propria concezione della “decostruzione” dalla sua messa in opera da parte dello stesso Eisenman nel progetto per il Parco pubblico de La Villette a Parigi – ma si rivolge anche a Daniel Libeskind, all’epoca fresco vincitore del concorso per lo Jüdische Museum di Berlino –, propone la lettura di un lungo brano di Esperienza e povertà, breve testo di Walter Benjamin. L’intenzione di Derrida è almeno duplice: da un verso, non riconoscere una sua paternità filosofica all’architettura più “concettuale” che si richiama alla “decostruzione” e al “postmoderno” in generale; dall’altro, rivolgendosi piuttosto ai filosofi, marcare la differenza tra la “decostruzione” e la Destruktion di Walter Benjamin, che di lì a poco tematizzerà e articolerà compiutamente in Force de loi (1994). Approfittando dello spunto che fornisce Derrida, m’interessa in questo contesto verificare l’eredità benjaminiana spesso evocata da diversi e celebri architetti del “postmoderno” e non solo; inoltre, seppur per sommi capi, cercherò di trarre da Benjamin gli elementi essenziali per delineare la sua idea di spazio urbano e architettonico. In effetti, come suggerisce Derrida, Esperienza e povertà, testo del 1933, può offrire al riguardo quantomeno delle indicazioni di massima. Scrive Benjamin: «Barbarie? Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo; a farcela con il Poco: a costruire a partire dal Poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra. Tra i grandi creatori ci sono sempre stati gli implacabili, che per prima cosa facevano tabula rasa (reinen Tisch). Essi volevano avere un tavolo per disegnare; sono stati dei costruttori».2 La tabula rasa, il “tavolo da disegno” dei “nuovi barbari”, rappresenta per Benjamin lo spazio liberato dal potere dalla topografia che lo ordina. Tale spazio libero, pertanto, non è – come Derrida sostiene polemicamente a proposito di Eisenman e Libeskind e, indirettamente, di Benjamin – il Nulla e il Vuoto, il rovescio speculare di Dio e dell’Essere, un ultimo e ancora potente bastione della metafisica e di una concezione del vuoto come quella che determina lo spazio, in fondo indecostruibile, dell’“assenza incolmabile” dello Jüdische Museum. Lo spazio della Destruktion benjaminiana è piuttosto definito dagli scarti e dai rifiuti: è lo spazio della “povertà”, in cui è il Poco che resta tutto ciò di cui si ha bisogno per costruire il Nuovo. È sorprendente come gli stessi termini della Destruktion benjaminiana ricorrano nelle più radicali teorie dell’architettura contemporanea. In particolare, la concezione della Bigness di Rem Koolhaas presenta apparentemente la medesima costellazione di senso della Destruktion: «La Bigness distrugge, ma è anche un nuovo inizio. Può ricomporre ciò che spezza». E ancora: «La Bigness, per la sua totale indipendenza dal contesto, è la sola architettura che può sopravvivere, che può addirittura sfruttare la condizione di tabula rasa ormai globale: essa non trae ispirazione da dati troppo spesso spremuti fino all’ultima goccia di significato; essa gravita opportunisticamente verso le aree più promettenti dal punto di vista infrastrutturale; essa è, in definitiva, la sua stessa ragion d’essere. A dispetto delle sue dimensioni, è modesta».3 Ogni nuova “grandezza” in architettura deve rifiutare il monumentale e il simbolico, deve piuttosto far “grande” il Poco che le resta. Corrisponde la sua “modestia” alla “povertà d’esperienza”, che per Benjamin definisce la condizione dell’uomo in un 1933 non così lontano dal nostro presente? Non credo. La “modestia” della Bigness di Koolhaas è tutt’altro rispetto alla “povertà” benjaminiana: «Povertà di esperienza: questo non lo si deve intendere come se gli uomini andassero a una nuova esperienza. No, essi desiderano essere esonerati dalle esperienze, desiderano un ambiente in cui possano far risaltare la propria povertà, quella esteriore e in definitiva anche quella interiore, in modo così netto e chiaro che ne venga fuori qualcosa di decente»4. La trasparenza del vetro, nessun muro e nessun confine tra interno ed esterno; l’impossibilità di nascondere da fuori la povertà dell’interno: ecco come la “povertà d’esperienza” si traduce in architettura, mediante il vetro, «un materiale così duro e liscio, a cui niente si attacca. Ma anche un materiale freddo e sobrio. Le cose di vetro non hanno “aura”. Il vetro è soprattutto il nemico del segreto. È anche il nemico del possesso»5. La presupposta ric1
J. Derrida, Lettera a Peter Eisenman, in Adesso l’architettura, a cura di F. Vitale, Scheiwiller, Milano 2008, pp. 201-217. W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete: V. Scritti 1932-1933, Einaudi, Torino 2003, p. 540 (trad. it. mod.). 3 R. Koolhaas, Bigness, ovvero il problema della Grande Dimensione, in Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di G. Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 20 e 24. 4 W. Benjamin, Esperienza e povertà, cit., p. 543. 5 Ivi, p. 542. 2
chezza interiore, portata in superficie, si svela per quello che oggi è: povertà; tale mancanza d’illusioni è il Poco a partire da cui diventa possibile “qualcosa di decente”; la povertà significa, prima di tutto, condivisione, parità di condizioni di partenza per chiunque. Il vetro svela che il segreto non nasconde nulla di profondo, ma è esclusivamente la condizione del “possesso” privato; l’architettura di vetro determina quindi uno spazio fondamentalmente pubblico. La “grandezza” degli edifici postmoderni, invece, non rende pubblicamente disponibile lo spazio liberato, serve piuttosto a espandere il vuoto dell’interno, a dilatarlo all’esterno. È significativo che la Città Generica, il prototipo della città postmoderna di Koolhaas, si caratterizzi per gli specchi. Come ben sapeva Benjamin, che ai passages di Parigi ha dedicato vent’anni di riflessioni, a differenza del vetro, lo specchio rappresenta la ricchezza della ridondanza, il rifrangersi all’infinito del vuoto e del nulla: «Un aspetto dell’ambiguità dei passages: l’abbondanza di specchi che amplia fiabescamente gli spazi e rende più difficile l’orientamento. Per quanto quest’universo speculare possa anche significare molte, anzi infinite cose – esso resta tuttavia ambiguo. Esso ammicca: è sempre quest’uno e mai nulla, da cui sbuca improvvisamente un altro. Lo spazio, che si trasforma, lo fa nel grembo del nulla»6. Lo specchio non toglie il confine, anzi è ancor più ambivalente, dia-bolico: illude che l’interno sia a immagine e somiglianza dell’esterno, ma in realtà definisce un confine ancor più impenetrabile del muro. Allo stesso Koolhaas, lo specchio ricorda lo strumento più elementare del dominio: «C’è un collegamento tra la predominanza dello specchio nella Città Generica (serve a celebrare il nulla tramite la sua moltiplicazione o è uno sforzo disperato di catturare l’essenza delle cose che sta evaporando?) e i “doni” che, per secoli, sono stati ritenuti l’omaggio più popolare e più efficace per i selvaggi?»7. I “nuovi barbari” di Benjamin possono diventare facilmente come i selvaggi più primitivi, se la povertà di esperienza diventa povertà di storia e se, in quel Poco a partire da cui bisogna costruire, non è compreso il ricordo del dominio e dell’oppressione. Se il nulla dello spazio corrisponde all’assenza di storia e di memoria, se si fa tabula rasa anche della storia, non resta altro che la Città Generica di Koolhaas: «Tutte le Città Generiche nascono da una tabula rasa: se non c’era nulla, ora ci sono loro; se c’era qualcosa, l’hanno rimpiazzato. Devono essere così, altrimenti avrebbero un carattere storico»8. Ecco, dunque, per contrasto, emergere chiaramente una peculiarità della Destruktion benjaminiana: l’origine. Nella Destruktion, si dà origine; il Poco che resta permette di “iniziare dal Nuovo”. In Benjamin, queste sono condizioni del tutto storiche, che si danno già adesso, nel presente. L’origine è sempre la conquista di un nuovo punto di vista storico sul passato e, a differenza di Koolhaas, non implica la possibilità di una “città del tutto nuova”. Distruggere i muri di confine dà origine all’architettura di vetro, eppure le rovine e le macerie non sono lasciate allo stato di rifiuto e scarto, ma possono essere utilizzate per nuove costruzioni in uno spazio non più saturato da un unico e solo contesto di senso. Questo è il significato da attribuire alla tabula rasa: “spazio piano, livellato e rasente la superficie”, senza verticalità, altezza, gerarchia e superiorità alcuna – senza Sovranità. Lo spazio della Destruktion benjaminiana non è lo “spazio spazzatura” (Junkspace) di Koolhaas, quello spazio che, da periferico che era, deve adesso occupare il Centro lasciato vacante; non si tratta semplicemente dell’inversione della gerarchia metafisica del Moderno, la Spazzatura in quanto Sovrano: quella di Benjamin è piuttosto la messa in crisi radicale della topografia tradizionale del potere. È la nuova origine che potrebbero rappresentare a conferire senso ai rifiuti e non la loro celebrazione al centro di una scenografia rimasta la stessa. L’origine è semmai il contrario della ripetizione del medesimo stato di fatto e, seppure a ruoli invertiti, è il contrario della “ri-petizione” che definisce il Junkspace. Nel descrivere il Junkspace, coerente fino alle estreme conseguenze, Koolhaas ha ormai superato anche l’ottimismo postmoderno: «Il Junkspace è post-esistenziale; ti rende incerto su dove sei, rende poco chiaro dove stai andando, distrugge il luogo dove eri. Chi pensi di essere? Chi vorresti essere? […] La JunkSignature è la nuova architettura: è l’antica megalomania della professione ricondotta a una dimensione maneggevole, il Junkspace senza la sua volgarità redentrice. Tutto ciò che viene allungato – le limousine, le parti del corpo, gli aerei – si trasforma in Junkspace, con una violenza nei confronti del suo concetto originario. Ripristinare, riarrangiare, riassemblare, rimettere a nuovo, rinnovare, rivedere, ricuperare, riprogettare, riconsegnare – i marmi del Partenone – ripetere, riaffittare, rispettare: i verbi che cominciano con ri- producono Junkspace… Il Junkspace sarà la nostra tomba».9 L’assenza di un principio di potere, di un Centro, di una Sovranità, è quanto distingue lo spazio della Destruktion di Benjamin da quello del Junkspace di Koolhaas. “Chi pensi di essere? Chi vorresti essere?” sono domande che, nel testo di Koolhaas, risuonano nel vuoto per far rimbombare nel Junkspace l’assenza di decisione degli stessi architetti, comprese le cosiddette archistar; tuttavia, il potere e la sua topografia tradizionale sono più che mai confermati. La Destruktion consiste invece nell’impedire che il privato e i suoi confini saturino lo spazio urbano, affinché ne sia salvaguardata la pubblicità e la trasparenza. Di tutt’altro genere è lo Spazio pubblico senza vita pubblica, senza cittadinanza attiva, del Junkspace: «Invece della vita pubblica, lo Spazio pubblico: ciò che 6
W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Opere complete, IX, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, p. 605. R. Koolhaas, La Città Generica (1995), in Junkspace, cit., p. 54. 8 Ivi, p. 39. 9 R. Koolhaas, Junkspace (2001), in Junkspace, cit., p. 82. 7
resta della città dopo la rimozione dell’imprevedibile […]. Inevitabilmente, la morte di Dio (e dell’autore) ha generato uno spazio orfano; il Junkspace è senza autore, e tuttavia sorprendentemente autoritario… Nel momento della sua più grande emancipazione, il genere umano è soggetto alle trame più dittatoriali»10. Lo spazio della fine della storia non comporta soltanto la fine di ogni principio selettivo, ma finisce anche per raccogliere tutte le scorie della storia trascorsa, come una grande pattumiera di raccolta non differenziata. Il Junkspace del mondo globalizzato non è orfano di Dio o dell’autore o del Sovrano, bensì di una politica in grado di salvaguardare e promuovere quella pubblicità dello spazio urbano che, come sosteneva Benjamin, è la condizione perché la “povertà d’esperienza” sveli le sue potenzialità inedite. Recidere il vincolo tra spazio e politica, tra spazio e storia, produce uno spazio in cui, tra tanta spazzatura generica, possono risalire in superficie anche i vecchi autoritarismi, che si pensava infognati per sempre, per ripetersi e rifrangersi ovunque negli specchi della Città Generica. «Un fascismo senza il dittatore»11, scrive ancora Koolhaas – ma non suona affatto consolatorio, anzi la dittatura “senza volto” della spazzatura rischia di essere ancor più inquietante.
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Ivi, p. 88. Ivi, p. 80.
LIBESKIND E I FRAMMENTI DELLA DISARMONIA Rosario Di Petta
La fama mondiale dell'architetto polacco Daniel Libeskind arriva nel 1988, con la sua partecipazione alla grande mostra dal titolo “Deconstructivist Architecture” organizzata al MOMA di New York, e si consolida due anni più tardi in seguito alla vittoria riportata nel concorso per l'ampliamento del Museo ebraico di Berlino. E' una stagione in cui il virus dell'instabilità decostruzionista sembra propagarsi a dismisura, annunciando profetiche palingenesi, fondate molto spesso su una superficiale traduzione in ambito architettonico della complessa teoria di Jacques Derrida. Lo stesso filosofo, del resto, ha più volte espresso le sue perplessità nel concepire la decostruzione semplicemente come un metodo d'interpretazione. E' abbastanza agevole notare come, in ogni tempo, i progetti dei maggiori protagonosti dell'architettura contengano al loro interno, quale fattore imprescindibile della composizione, elementi destrutturanti e concettuali che, in maniera intelligente, non si pongono affatto come protagonisti, ma si limitano ad introdurre nell’opera una calcolata cifra di necessario disequilibrio. Ciò dimostra come i grandi sovvertitori degli ordini precedenti che hanno segnato le vicende architettoniche si siano posti il problema di una de-costruzione di quelle convenzioni in cui il linguaggio architettonico troppo spesso si è cristallizzato. Franco Purini ha parlato, a tal proposito, di una decostruzione endemica dell'architettura italiana derivante dalla differenza che il testo vitruviano produce tra scrittura e interpretazione. Giulio Romano, Terragni, Moretti possono considerarsi, a tal proposito, dei veri e propri precursori delle tematiche decostruzioniste. Vale la pena di ricordare come, in ambito sovranazionale, Adolf Loos fece del suo giornale “Das andere” un vero e proprio manifesto dell'alterità; e Theo van Doesburg caratterizzò le sue ricerche con una innovativa scomposizione dei piani. La profondità di tali ricerche sembra essere tuttavia molto distante dalle insensate e spesso banali obliquità che la stagione del decostruttivismo ha propagandato come ancora di salvezza del pensiero compositivo. Nel caso di Libeskind la scelta della molteplicità passa attraverso l'idea di frattura; egli stesso afferma che «è come avere un milione di pezzi di mosaico che non compongono la stessa figura, che non potranno mai essere assemblati e costituire un'unità, poiché non provengono da un insieme unitario».1 L’oggetto viene rotto e deformato, producendo una sorta di perdita delle strutture sintattiche dell’opera, e quindi di quei legami interni che, come amava ripetere Georg Simmel, sono gli autentici responsabili della bellezza dell’opera d’arte. Il paradigma dell’architettura decostruttivista risiede nelle pieghe irregolari della geometria frattale, secondo la quale il cosmo non è riducibile alle forme primarie della geometria euclidea, ma piuttosto alle dinamiche non lineari, interne alla materia degli oggetti, con il flusso di vari fattori provenienti dall’esterno. Tali ragionamenti sono sicuramente alla base del progetto per la nuova sede del museo ebraico di Berlino, un edificio che sembra scagliarsi con la forma di un fulmine nel cuore della città barocca, con lo scintillio dei suoi pannelli metallici e con le sue fenditure di forme e dimensioni sempre diverse, nate da una 'fin troppo cerebrale' decostruzione dell'esagono della stella di David. Una tale presenza appariscente farebbe presagire ad un rapporto di totale apertura e trasparenza verso l’esterno, e invece il museo non presenta accessi né altri sistemi di comunicazione con l’esterno. L’unico accesso è alla quota del piano sotterraneo tramite una galleria interrata che connette il museo ebraico con il vicino museo storico di Berlino. L'approccio razionale alla progettazione è stato così sostituito da un landform frattale, esito di una presunta convergenza di forze fisiche e sociali. Lo spazio urbano che ne deriva non è tanto il frutto di uno studio di composizione urbana, ma piuttosto il risultato di un’operazione concettuale tutta interna al tema dell’edificio progettato. L'Imperial War Museum North è invece un museo di guerra, realizzato da Libeskind a Manchester, che presenta una complessa geometria di piani inclinati appositamente utilizzata per favorire un disorientamente simile a quello causato da una guerra. E' quindi dichiaratamente una sorta di 'giocattolo artistico' che dimentica programmaticamente uno dei dettami dell'architettura di ogni tempo, più volte citato da Louis Kahn, ovvero che l'architettura deve favorire l'orientamento dell'essere umano, producendo forma nell'ordine. I tre frammenti della struttura progettata dall'architetto polacco alludono rispettivamente alla guerra su mare, cielo e terra: sono quindi denominati water shard, air shard e earth shard. La loro giustapposizione, pur carica di intenti e significati altamente simbolici, produce il risultato di una massa concitata di materiali assemblati casualmente secondo direttrici ed inclinazioni diverse, senza raggiungere il risultato dell'opera unitaria, in grado di rappresentare sinteticamente il potere astratto della forma architettonica, nella sua eterna valenza evocativa dei bisogni e delle aspirazioni dell'umanità.
Tali modalità compositive vengono poi ulteriormente esasperate nel progetto di espansione del Museo di Denver, in Colorado, che consiste in una nuova piazza pedonale su cui giacciono frammenti di vetro, titanio e granito disseminati con una casualità sconcertante, quale esito di un sommovimento tellurico simulato che intacca e compromette definitivamente la sobria consistenza volumetrica del preesistente museo disegnato da Gio Ponti. Gli edifici progettati da Libeskind sono oramai sparsi in tutto il mondo ed anche se, a prima vista, appaiono l'uno diverso dall'altro, contengono tutti lo stesso germe di una disarmonia quasi agognata, che aspira a farsi vettore profetico di una nuova architettura. Non è difficile notare come i piani sghembi, i materiali accostati con stupefacente disinvoltura, l'occupazione talvolta insensata del suolo urbano e le geometrie inabitabili prodotte da questa archistar, celebre a livello planetario, appaiano molto spesso come l'esito di una opportunistica capacità di intercettare un bisogno di cambiamento che la nostra disciplina da tempo sta attraversando. Questa totale identificazione dell'architettura con l'arte, seppure ricca di stimoli e di aperture innovative sul fronte disciplinare, sembra tuttavia condurre l'architettura su un piano puramente concettuale, come di fatto avviene nella colta progettualità dell'architetto polacco, nell'illusione di risolvere nell'esclusività del gesto artistico le complesse problematiche dello spazio urbano.
1
D. Libeskind, Tra metodo, idea e desiderio, in Domus n. 731, 1991, p. 17.
SOLISTI O MAESTRI ? Felice Baione “Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta” “Ciò che non rassomiglia a nulla non esiste” (Paul Valery)
Desiderio di novità per la novità. L’attuale bombardamento di immagini, prevalentemente centrato sulle architetture più spettacolari del momento -ripetute sempre e dovunque grazie alle moderne tecnologie della comunicazione- produce nell’immaginario collettivo “globale”, dove si stratificano incessantemente visioni stravaganti e mai sperimentate prima, l’effetto di una progressiva assuefazione al desiderio di “novità per la novità” che in queste immagini si manifesta. Riducendo il campo di interesse a quelle che fanno più “rumore” sulla scena mediatica, si ha l’impressione che queste architetture siano prevalenti anche sul piano quantitativo, semplicemente perché le altre -ancorché dignitose e di buona qualità, ma più “silenziose”- non hanno lo stesso spazio sui mezzi di comunicazione dove, non suscitando uguale “clamore”, passano quasi inosservate. Insomma sembrano esistere solo come fenomeni di “retroguardia”, lontani dalla creatività sempre più leggera e diffusa in ogni forma di vita attuale: mondo della “finanza” incluso. Ma non è così. Le architetture dai “toni bassi”, eloquenti attraverso il “silenzio”, sono incompatibili con lo “stupore” che sempre più si richiede oggi all’arte del costruire. Attraverso effetti sensazionali, infatti, l’economia di mercato tende ad affermare nel mondo l’idea di un luogo unico di “meraviglie individuali”, piuttosto che l’idea della “magnificenza civile” in una molteplicità di luoghi. In tal senso, l’architettura “globale” diventando come il mercato sempre meno “locale”, è costretta ad alzare continuamente i toni e, non solo metaforicamente, il volume: perché solo così si può essere all’altezza delle immagini-simbolo della nostra vita in corsa verso il futuro. Quel futuro inquieto e tutt’altro che rassicurante con le sue ombre incombenti che si cerca di fugare, immaginandolo in piena luce sotto i riflettori della scena virtuale del nostro mondo fittiziamente “pacificato”: lo stupore dell’architettura in realtà maschera la ferocia del mercato indipendente. In questo modo si nasconde la complessità delle trasformazioni e, soprattutto, delle manifestazioni che coinvolgono l’architettura attuale dietro una rappresentazione “ad arte”, che usa l’arte per trasmettere un’immagine falsificata del fare architettura; immagine “sponsorizzata” dal mercato globale con le sue “stelle” fisse di riferimento –una sorta di “empireo” per architetti ispirati, cui si accede solo per grazia e/o genio ricevuti. Questa rappresentazione interessata ignora per es. condizioni e risultati di altre esperienze di ricerca, faticosamente portate avanti dalle e nelle scuole locali, nonostante le difficoltà fisse di un mestiere senza più certezze e i problemi costanti di una formazione ormai destrutturata fra debiti e crediti, contenuti e risorse sempre più spezzettati. Solo partendo da una consapevolezza simile, questa si “globale” nel senso che tiene conto del quadro complessivo delle condizioni dell’operare, e non soltanto dell’architettura di successo, si può vedere meglio la realtà, al di là di bisogni e desideri indotti nell’immaginario collettivo dalla spettacolarità più che dalla necessità della competizione continua, scatenata dal processo di “globalizzazione”. Un processo largamente fuori controllo, come dimostra infatti la volontà di imporre sempre nuovi cambiamenti di scena, per altrettante “recite a soggetto” con cui si riesce meglio a nascondere ciò che accade realmente dietro le quinte del gran teatro del mondo globale. Come in una gara infatti, non solo d’appalto in questo caso, ogni occasione d’intervento, spinta al massimo grado della risonanza mediatica, è buona per poter assistere a un nuovo atteso confronto fra prestazioni di alto livello “agonistico”, per così dire, offerte generalmente dagli stessi campioni: si diffonde in sostanza un’ idea “sportiva” di architettura, quasi di “primato” da superare nelle diverse “specialità” costruttive. Quest’idea sembra imporsi non solo tra i protagonisti della scena professionale “globalizzata”, ma anche con il “tifo” che si fa per l’uno o per l’altro di questi “atleti-profeti” del nuovo verbo costruttivo. Un verbo distante anni luce da quello tradizionalmente trasmesso attraverso la scuola, ormai “in dismissione” con gli attuali moduli d’insegnamento delle discipline del progetto, che sembrano sopravvivere come su “banchi di ghiaccio” progressivamente in frantumi e alla deriva, in questo tempo di crisi dello stare, dell’abitare la terra sempre più calda. In qualche modo forse si ripropone oggi, mutatis mutandis, una contrapposizione analoga a quella fra “sperimentatori” (progressisti) e “custodi” della disciplina (conservatori), già sperimentata nel corso della tradizione moderna. Solo che adesso la posta in gioco è di estrema importanza, decisiva per la sopravvivenza stessa dell’architettura come disciplina mai messa in discussione prima, con tutto ciò che questo significa sul piano del mestiere del progettare -profondamente diviso fra orientamenti destinati probabilmente a rimanere a lungo inconciliabili, dopo millenni di indiscussa autorità vitruviana. In genere, la mancanza di riferimenti disciplinari crea confusione di ruoli fra schieramenti diversi, che non sempre sono facilmente riconoscibili senza il terreno comune rappresentato da regole condivise: l’unico che consente
di delineare una tipologia di posizioni, ossia una descrizione chiara di un quadro d’insieme ordinato nelle sue relazioni interne. Senza il “metro” di un corpus disciplinare condiviso infatti si possono ribaltare, del tutto o in parte, i ruoli tradizionalmente assegnati agli architetti impegnati su fronti diversi; al punto che “gli sperimentatori”, che dovrebbero essere l’avanguardia, possono oggettivamente trovarsi a svolgere un ruolo di retroguardia nelle nuove condizioni, fino a diventare in realtà “conservatori” –per es. quando, consapevolmente o meno, sono strumenti di propaganda di un sistema che tende a permanere ideologicamente e non a trasformarsi strutturalmente. E viceversa. Al punto che i “custodi” della tradizione disciplinare, che dovrebbero essere la retroguardia, possono oggettivamente trovarsi a svolgere un ruolo di avanguardia nelle nuove condizioni, fino a diventare nei fatti “progressisti” –per es. quando demistificando il ruolo dell’”avanguardia” odierna al servizio di interessi ben individuati nel sistema di potere dominante, riportano in primo piano la necessità di trasformare lo spazio reale rendendolo “più” abitabile, non per pochi ma per tutti. E questo in nome di un’idea di progresso profondamente intrinseca a quella “magnificenza civile” che connota da sempre l’idea, non ancora realizzata, di un’architettura “degna” dell’uomo. In tal senso, l’individuazione di “minimi disciplinari” per la sopravvivenza in architettura di riferimenti riconoscibili, evitando di tradire in pratica le intenzioni teoriche o di giocare ruoli diversi da quelli dichiarati, potrebbe limitarsi al riconoscimento di alcune costanti da sempre riconoscibili nel procedimento tecnico di costruzione della città nel tempo (dall’antico al moderno) e nello spazio (da Neapolis a La nuova Francoforte, per es.): come dire da Vitruvio al movimento moderno. Tradizione del nuovo (rattoppo). Queste costanti corrispondono ai due punti che da sempre qualificano l’architettura come conoscenza, come modo di leggere e di fare non “ad arbitrio” ma “a ragion veduta”: insomma un modo di esercitare il mestiere non per stupire ma per servire, non per sorvolare ma per indugiare sulle cose. A tal proposito va ricordato che, fino a non molto tempo fa, la parola architettura definiva l’arte della lentezza e che, come diceva Mies van der Rohe, “costruire è andare piano”. Ora, come si sa, questi due punti qualificanti la tradizione disciplinare del fare architettura sono: la scelta tipologica e il rapporto con la città. La loro omissione nella progettazione rende impossibile qualsiasi confronto sui contenuti, riducendosi il discorso architettonico all’esaltazione di immagini “spiazzanti”, fuori luogo e fuori misura, come nelle attuali architetture più alla moda. Vere e proprie icone del tempo sempre più accelerato dei nostri giorni, queste immagini eclatanti, ridisegnando “dal nulla” la scena del luogo che suo malgrado le accoglie nella loro estraneità, intendono rappresentare plasticamente, come altrettante sculture imprevedibili, le “magnifiche sorti e progressive” del mondo globale. Essendo poi quelle più viste sui “media” -perché più “in vista” sono gli elementi di novità che pervadono non solo il loro aspetto esteriore- sono anche le più attese dai più, rientrando fra le occasioni da non perdere o fra le mete da inserire negli itinerari turistici. Ma, l’insieme formato dai singoli pezzi d’autore fa solo bella mostra di sé oscurando, da un lato, lo “spazio reale” che li accoglie -in rapporto al quale soltanto è possibile esprimere un giudizio fondato sulla loro architettura- e illuminando, dall’altro, lo “spazio vetrina” che li espone -in rapporto al quale soltanto si può scegliere con lo sguardo che cosa “comprare”, più o meno stregati dalla loro “eccentricità” -proprio come accade nelle strategie di acquisto della merce. In queste condizioni il giudizio sull’architettura, in quanto ricerca di componibilità dello spazio in termini di migliore abitabilità, è sospeso; rimane solo la preferenza accordata a un pezzo o all’altro fra quelli in “vendita” per così dire, in quanto ricerca di figurabilità dello spazio in termini di mera visibilità, quasi di dissolvenza della forma architettonica nell’esteriorità dell’immagine più originale, per figura plastica e/o per materiali utilizzati. Ci si abitua così all’attesa di qualcosa di “straordinario” che sempre di più “incanta”, al di fuori del quotidiano che tutto sommato “stanca”. Attraverso la “fascinazione” continua delle forme a tal fine progettate, avanza un processo largamente inconsapevole di passiva o cattiva abitudine al gusto della “spettacolarità frivola”, dei continui e non necessari cambiamenti di “pelle” aggiunta dall’esterno, proprio come con le confezioni di carta sudiate per rendere più gradevole il “regalo”. Una superficie avvolgente come un involucro, insolita ma attraente, utilizzata per nascondere qualcosa che si manifesta nel “dono” di un’emozione che spesso non c’è nello spazio scoperto; ecco perché a volte è meglio lasciarlo “incartato”. Intervenendo infatti solo sulla superficie dell’involucro anziché sulla sua profondità, dove soltanto la “pelle” ritrova sé stessa in tutto il suo spessore di confine “abitabile”, scompare il gioco sottile degli spazi intermedi o “di scena”, al limite fra il dentro e il fuori, il sotto e il sopra: in altre parole scompare il luogo propriamente architettonico della rappresentazione “in cornice”, dove si riconosce una cultura dell’abitare. Nel quadro attuale, caratterizzato dalla competizione in atto fra le parti più ricche del mondo occidentale e orientale, i nuovi manufatti vengono realizzati come altrettante esecuzioni di opere “prime”, firmate dai più prestigiosi “solisti” di professione dei nostri giorni, o archistar: una sorta di “marchio” di serie, o garanzia di qualità al punto che le architetture costruite in quei luoghi e con quelle sigle diventano automaticamente, attraverso
un’orchestrata opera di propaganda che li “mette in rete”, opere d’arte. Rispetto alla tradizione disciplinare dell’architettura si assiste a qualcosa di insolito, per lo meno nei modi in cui ora accade. Le opere “prime” di una serie non sono quasi mai aperte al dialogo con quelle di serie siglate da altri e, meno che mai, dialogano con quelle che le precedono agli inizi del novecento sulla strada della innovazione. Vale a dire con quelle realizzate dalle “avanguardie storiche” che, ormai è un secolo, rivoluzionano profondamente i diversi campi dell’operare artistico: una rivoluzione che inaugura la cosiddetta “tradizione del nuovo”. Il suo svolgimento però, come dimostra l’esperienza degli ultimi decenni, rimane largamente incompiuto di fronte all’accavallarsi, tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, di eventi e processi ancora sconosciuti, mai visti prima e, perciò, non facilmente governabili nella loro dimensione mondiale. Insomma all’inizio e dopo la metà del novecento, prende corpo e sostanza lo sviluppo contrastato ma positivo dell’architettura moderna e la necessità di una sua revisione critica, prima del suo “eclissarsi” alla fine del secolo. Un’eclisse dell’abitare e del costruire che diventa ben presto totale, finendo lentamente con l’oscurare il progetto di rinnovamento urbano e di abitabilità per tutti alla base dell’architettura moderna. In altri termini non si riesce più a vedere la ragione profondamente umana e perciò stesso attuale del suo progetto ideale: quella ragione per cui, come si sa, non si consuma mai del tutto individualmente il sogno di una cosa. Un residuo importante, come una vera e propria “sapienza del vivere”, ci fa sognare cose così belle e a portata di mano da farci dimenticare il sogno nell’atto di cercarle; ma non la consapevolezza comune di un diritto quasi naturale che ci dà la certezza, prima o poi, insieme di trovarle. Proprio come quel sogno ad occhi aperti, che è la “casa abitabile” per tutti: l’esatto contrario della “casa dei sogni” ad occhi chiusi di ciascuno dove, alla ricerca collettiva di una nuova antichissima bellezza nella “realtà” più avanzata del moderno si sostituisce, per così dire, la ricerca individuale di una vecchia nuovissima illusione nella “virtualità” più sofisticata del post- moderno. La permanenza ai nostri giorni di una crisi economico-sociale e la recessione nel frattempo intervenuta – depressione che colpisce in misura maggiore o minore l’attività produttiva anche nel settore edilizio, in occidente come in oriente- rallentando la competizione sfrenata e la crescita spesso casuale che ne deriva, può diventare l’occasione per interrogarsi meglio sulla “tradizione del nuovo” come tradizione interrotta dell’architettura moderna, nella speranza di riannodarne i fili per altre possibili rotte nel futuro, al di fuori dell’eclisse perdurante nel presente. Una tradizione di ricerca interrotta che però, nel periodo fra le due guerre del secolo scorso, apre il fronte disciplinare più avanzato della battaglia culturale per l’affermazione in Europa di una “nuova architettura”. E nuova architettura moderna (non post-moderna), è quella di cui in realtà siamo ancora in attesa, dopo la sua “rifondazione” avviata nel secondo dopoguerra. Rifondazione critica, che non ha nulla a che vedere con lo “strappo” disciplinare ormai di moda in architettura, grazie anche e soprattutto alla sempre più larga diffusione di un modo di pensare e di fare insofferente alle regole -come insegnano alcuni dei più noti “architetti globali” dei nostri giorni. Per la maggioranza di essi, infatti, lo strappo operato è definitivo perché, con l’esaurimento del moderno, non rimane più nulla della sua spinta rivoluzionaria nel mondo profondamente cambiato dopo la stagione dei maestri. Come dire che un ciclo del tempo in architettura si compie senza lasciare eredità utilizzabili e, quindi, non rimane altro da fare che liberarsi di un corpo disciplinare appesantito, del tutto inadeguato a rappresentare i nuovi tempi e, perciò, inservibile nella sua veste tradizionale. Ma, la certezza che per pensare il “villaggio globale” del futuro, ancora senza forma definita, non si possa più (ri)partire dal principio permanente nella realtà degli insediamenti storicamente consolidati, messo in luce negli studi teoricamente più avvertiti, come quelli per es. di Marc Bloch (la veste del villaggio è antichissima ma è stata rattoppata più volte) -anche solo per verificarne la pretesa assurdità non soltanto a parole, ma nei fatti -non è di un’evidenza assoluta. Basta guardare la “veste” millenaria della disciplina che, “rattoppata” più volte, dimostra proprio il contrario: quasi una strada maestra da ritrovare, per un cammino da riprendere insieme a un tenore di vita più sobrio e senza sprechi da riaffermare, guardandosi dal cedere ad altri interessi comunque camuffati. Viene in mente la pratica artigiana di una volta, per la quale un vestito con riserva di stoffa si rattoppa più volte, così come si può allargare o stringere a seconda dei casi, con l’intento di farlo ancora durare intervenendo su di esso in modo appropriato a rimetterlo “in forma”. Un cambiamento di stile responsabile, che diventa indispensabile di fronte alla crisi in cui ci troviamo per eccesso di consumi irresponsabili: un antidoto insomma alla “globalizzazione” malata, che può mettere a rischio la sopravvivenza stessa del mondo. Non si tratta allora di procedere “a strappi” ma “per rattoppi” parziali, necessari a rimettere a nuovo il vestito dell’architettura per le grandi occasioni di trasformazione del territorio, dove in realtà preesiste la trama antichissima di un tessuto resistentissimo, quasi sempre ancora utilizzabile. Eppure, la nuova architettura di successo fa di tutto per non partecipare alla “festa” indossando l’abito migliore: quello più “naturale” che utilizza, adattandoli di volta in volta alle circostanze, quei materiali di riserva di cui è intessuta l’esperienza del “rattoppo”, in quanto rinnovamento continuo dell’architettura che (ri)veste l’anima dei luoghi. Con il gesto arbitrario dello “strappo” invece si sceglie di cambiare strada e, quindi, vestito da indossare
per l’occasione. E’ la strada individuale dell’arte, della creazione del tutto libera senz’altro vincolo che quello di muoversi in sintonia coi tempi da “magnificare” e “trasfigurare” in immagini emblematiche della condizione presente; queste poi, per un motivo o per un altro, devono fare impressione alla vista. Lo strappo dei segni autoreferenziali. I solisti di professione (neoavanguardia odierna) rivendicano una completa libertà d’espressione, al di fuori di qualsiasi vincolo contestuale considerato insopportabile per un artista “totale”, quale i solisti vogliono essere. E, in nome di questa libertà creativa, sembrano disposti a rinunciare a quella libertà intellettuale indispensabile all’esercizio positivo della critica a tutto campo; esercizio in cui si manifesta la responsabilità collettiva dell’architetto-artista e la possibilità di crescita, per questa via, anche della propria arte. Ma, esercitare positivamente la critica a tutto campo, non significa ritirarsi nelle “riserve di caccia” della bellezza, ritagliate dal sistema di potere dominante per archistar di successo, quasi “razza da salvaguardare” entro i confini di una riserva dorata a misura del loro “genio”. Significa, invece, uscire dall’equivoco estetico della riserva sicura, dove dare libero sfogo alle fantasie di cui si è capaci per incantare lo sguardo, e navigare nel mare aperto della realtà senza “riserve”; soltanto qui infatti la scoperta della libertà, connessa alla responsabilità intellettuale, si può tradurre in immagini formalmente riconoscibili per la mente, e non essere semplicemente stupefacenti per l’occhio. Ma, in queste condizioni di libertà vigilata, l’unica possibilità che le opere dei riservisti-esteti hanno di comunicare è nel migliore dei casi, e non sempre, fra di loro, nell’unica lingua che le raggruppa in ogni serie firmata: la lingua dell’architetto-artista che le crea. Alla via dell’approfondimento analitico, che non può prescindere dalla “comunicabilità” parziale delle esperienze progettuali -indispensabile a far progredire la stessa lingua o tecnica del progettare spazi più vivibili in ogni senso- sembra sostituirsi, nella situazione odierna di monopolio arbitrario della dimensione creativa da parte delle cosiddette superstar, la via artistica dell’incomunicabilità totale -se si prescinde da quell’effetto sorpresa che lascia senza parola. “Incomunicabilità” quindi fra mondi chiusi in sé, paghi della propria individualità linguistica il cui estro creativo, nella condizione di “solitudine dei numeri uno” in cui oggi si trova, è destinato prima o poi a ripetersi, appannandosi così anche l’effetto di originalità ricercata al di sopra di tutto. Qualche sintomo del genere, come un vago ritorno del già visto che attenua il fragore delle “prime” (opere) -per cui è ipotizzabile che nelle “ultime”, in mancanza di altre geniali trovate, dell’originalità iniziale rimanga solo l’eco- già comincia ad avvertirsi; pur se all’interno di una “babele” di parole gridate sempre più forte ma inutilmente, perché incomprensibili non solo agli altri abitanti della “torre” ma, forse, anche a chi le pronuncia. Parole vuote di significato riconoscibile ai più, creano soltanto un vuoto di riconoscibilità dell’architettura che, ridotta allo stato di pura immagine fruibile, si trasforma passando dalle più sostanziali parole nel vuoto alle più accidentali parole del vuoto. Al contrario delle prime queste ultime, pur se potrebbe sembrare l’opposto, non servono affatto a riempire un vuoto, come invece si tende a far credere da parte dei manipolatori di professione i quali, attraverso la moltiplicazione “mediatica” delle immagini, arrivano a falsificare i dati reali al punto da trasferire la realtà nell’irrealtà, il “vuoto” di un testo reale nel “pieno” di un contesto virtuale di segni autoreferenziali. Questi segni, operando l’ultimo “strappo” sul corpo ancora vivo dell’arte del costruire, ne forzano i caratteri propri in funzione di altre strategie linguistiche, operanti soprattutto nel campo dell’arte della pubblicità. Si viene a creare così una frattura insanabile con queste opere, programmaticamente risolte in una distanza in-colmabile che rende impossibile qualsiasi confronto, qualsiasi tentativo di stabilire un rapporto, una misura per mettersi alla “giusta distanza” -ravvicinata o lontana che sia- rispetto ad altre architetture del presente o del passato più e meno recente. Ma una distanza in-colmabile, al di fuori cioè di ogni spazio discorsivo, non è una distanza propriamente critica. Infatti al di fuori di ogni rapporto, di ogni misura necessaria, diventa una distanza impossibile da prendere su base certa, che non sia cioè del tutto arbitraria: una sorta di vuoto immaginifico e infondato dove non c’è spazio per gli altri, ma solo per l’ultima strepitosa stravaganza di turno che mette tutti fuori gioco. Fino al momento di prendersi la rivincita, in una sfida senza esclusione di colpi di “genio” che serve a mettere tutti contro tutti, nel desiderio ultimo dell’affermazione di sé sulla scena globale. L’occasione d’intervento diventa, allora, il luogo di un’esplosione inventiva possibile unicamente nella distanza incolmabile in cui si realizza. Anche se la brutalità di questa sfida non appare sulla superficie luminosa o patinata dei mezzi di comunicazione che, facendo pubblicità a tutti, soddisfano il desiderio “narcisistico” di ognuno. Così, ogni residuo di animosità latente si stempera nello spettacolo delle archifollie in passerella; spettacolo che non ha nulla da invidiare a quello delle sfilate di gala nel campo della moda, con cui non a caso le archistar, chi prima chi dopo, finiscono con lo stringere buoni legami. Una distanza giusta o critica, invece, è quella che per es. consente di stabilire un rapporto fra esecuzioni molteplici di “spartiti” architettonici e urbani fatte in tempi e spazi diversi; arrivando per questa via ad un utile con-
fronto che non lascia mai muti, nell’impossibilità di stabilire analogie e differenze -come quando ci si trova di fronte ad oggetti inconfrontabili tra loro di cui, in mancanza di qualsiasi somiglianza, nulla si può dire. Questa impossibilità rende le “prime” dei solisti opere eseguite al di fuori di ogni schema riconoscibile, “prove d’autore” possibili anche, e soprattutto, grazie ai programmi e sistemi operativi sempre più potenti di grafica al computer. Una strumentazione tecnica poderosa, mai vista prima, capace di rispondere ai problemi di innovazione continua posti dai nuovi processi di globalizzazione, che lasciano però alla progettazione architettonica tempi e spazi d’intervento sempre più ristretti, nel quadro della ferrea logica economica del mercato globale. Una logica dominante che vuole soprattutto sculture da abitare piuttosto che architetture abitabili, ossia nuovi involucrisimbolo capaci di impressionare con la loro sconcertante presenza o inquietante assenza, e non più vecchi spazicornice, capaci di rassicurare evocando adeguatezza: adeguatezza, come sempre, della forma all’uso. In definitiva le opere dei “solisti” non sono eseguite - come quelle dei “maestri” che parlano a tutti - dal punto di vista dell’esperienza razionale che soltanto può fondarne una riconoscibilità collettiva, ma unicamente da quello della ricerca di novità a tutti i costi. Un canone arbitrario, che rappresenta però anche la “dannazione” del solista costretto, nelle condizioni date dal consumo di immagini in continuo divenire, a far esplodere ogni volta nell’esecuzione “improvvisata” per l’ennesima occasione, tutta l’energia creativa rimasta sul “fondo del barile”, se non ancora vuoto, della fantasia -dopo averne già raschiato le ultime riserve nell’invenzione precedente. Ma, come dice Siza, è incolto e superficiale operare avendo l’ossessione dell’originalità perché, possiamo aggiungere, è come se nel progettare al primo posto non ci fosse l’esigenza della verità ma solo quella della vanità: in una gara continua a chi per primo riesce a costruire l’ ottava meraviglia del mondo. E, a “pellegrinaggio” ancora in corso per vedere l’ultima “meraviglia delle meraviglie”, si prepara già il bando per la realizzazione della nona; e, mentre risuonano ancora le sue “note”, si passa alla decima, in un consumo sempre più frenetico di energia creativa che lascia esausti -col rischio calcolato, da parte dei soliti ignoti partecipanti alla gara, di rimanere per strada. Forse, a questo punto, è arrivato il momento di porsi qualche domanda sul senso di questo “meraviglioso” lavoro individuale che in nome dell’architettura appaga tutti, tranne i giovani architetti: per essi infatti le circostanze attuali sembrano escludere anche la possibilità di fare soltanto i “ragazzi di bottega”. Appunti bibliografici. I tre libri indicati, scritti nel 2008, offrono una efficace sintesi delle questioni implicate dal dibattito attuale sul tema trattato. Si tratta di tre punti di vista diversi, scelti fra quelli più rappresentativi delle principali posizioni critiche nei confronti delle superstar, chiamate a portare l’arte al servizio della messa in scena dei nuovi consumi nel mondo dei ricchi. La scelta e la successione dei testi segue un ordine logico: contro l’architettura (1), per l’architettura in generale (2), per la ricognizione in particolare di un’architettura di Tendenza (3). 1. Franco La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino, 2008 2. Vittorio Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Giulio Einaudi editore, Torino, 2008 3. Federica Visconti, Renato Capozzi (a cura di), Architettura razionale 1973-2008, CLEAN, Napoli, 2008
CITTA’ ARCHITETTURA ARTE E BELLEZZA Alberto Cuomo
In un testo di qualche anno fa, Jean-Luc Nancy ha messo in luce come l’attuale espansione, su scala globale, che vive la città, più che invogliare la sua dissoluzione, lascia emergere il carattere contraddittorio che la fonda e che determina la sua continua criticità, il suo essere luogo cioè in cui si sfugge ogni localizzazione. Se per l’uomo attuale, fuggiti gli dei, è più viva la coscienza di abitare solo en passant, tra le diverse configurazioni che traducono i dualismi territoriali tradizionali e recenti, città-campagna, centro-periferia, luogo-nonluogo, dove erano offerti delimitati confini allo stare, all’urbano e, quindi, al non-urbano, nei quali riconoscere un principio, un valore, positivo o negativo, una metafisica (lo spirito del luogo o il libero muoversi del soggetto nella mobilità dei nonluoghi) è la stessa città a vivere in termini più espliciti la propria originaria dicotomia tra localizzazione ed erramento, delimitazione di confini, materiali ed immateriali, e loro effrazione, il suo essere «luogo in cui ha luogo qualcosa di diverso dal luogo», essendo il suo proprio, sin dall’origine, la vocazione all’espansione, alla fuoriuscita dai limiti determinati in cui si conchiude1. E di tale vocazione che conduce l’urbs ad estendersi all’intera orbis, a fare dell’orbis una urbs, ha scritto anche Massimo Cacciari, indicando come la mobilità, più che la stanzialità, sia il carattere della città. Roma mobilis è l’appellativo nel quale si riconosceva la città per eccellenza urbs, cui si associava l’idea della civitas augescens, la città in crescita. A differenza della polis greca, il cui nome, secondo Cacciari, non alludendo al molteplice, quanto alla rocca, al luogo fortificato, il cui culmine è del resto l’acropolis, ne mostra il fondarsi sul genos, sulla unità della stirpe che unisce i polites, l’urbs latina si fonda sulla convergenza dei diversi e l’accoglienza dell’altro. Retta dal Nomos, la legge terranea derivata dalla divisione dei pascoli tra i consanguinei, è quindi la polis; convenzionata sulla lex e regolata dal directum, accettato e condiviso dai molteplici, è invece Roma. Ed è quindi Roma il modello dell’espansione urbana occidentale che, estendendosi all’intero globo ha determinato l’attuale territorializzazione della città, un territorializzazione de-territorializzata, dove non vi è più alcuna riconoscibilità dell’urbano, dei luoghi, dello stare, e dove lo spazio indifferenziato non appare neppure più misurabile secondo metri, ma temporalizzato, in una tendenza alla sparizione persino2. Jean-Luc Nancy, nel suo saggio, non si sofferma su una possibile estetica dell’urbano, sebbene in Los Angeles, la città tra tutte la più «lontana», egli rinvenga la presenza della bellezza nella stessa dispersione, nel suo «essere capricciosamente dispersa nello spazio», ovvero nella variegata compresenza del candore delle chiese spagnole, delle ricostituzioni di colonnati greci o di bastioni sumeri, che offrono la freschezza e la dolcezza «di una nostalgia liberata dalla nostalgia e di un kitsch che non si riconosce come kitsch», delle pietose imitazioni di Michelangelo, dei monumenti pure esistenti, dei luoghi e delle piazze che tuttavia non formano quartieri, essendo quartiere l’intera città che vuole ricostituirsi e ripiegarsi all’interno di sé, offrendo insieme «una vita dello spazio immediato…e una lontananza della città dalla città»3. Diversamente Massimo Cacciari, nel testo su La città, in chiusura, dopo aver offerto una propria «indicazione» ai progettisti per l’intervento nella nuova realtà territoriale della città, quella di costruire edifici polivalenti che manifestino la sua attuale territorializzazione deterritoriale, non solo nelle funzioni, quanto anche nelle conformazioni, in grado cioè di aderire alla “relatività generale” dello spazioterritorio attuale, alla “mobilitazione universale” postmetropolitana, con una bassa valenza simbolica, sì da accogliere le diverse dinamiche dei nostri modi e sensi d’abitare, si interroga sulla esigenza della bellezza «che sembra avere da sempre caratterizzato l’idea e la pratica dell’abitare». Tra la bellezza soggettiva, la quale sembra maggiormente caratterizzare il nostro tempo, connessa alla gradevolezza ed al piacere estetico, e la bellezza oggettiva dei greci, per i quali kalόn indicava l’essere costruito in modo da essere forte, ben radicato, saldamente eretto, in base a definiti metri e canoni, a Cacciari appare meglio adeguata, nelle nostre città divenute territorio, quella che nella classicità rinascimentale si lega alla varietas: non possiamo più inventare per le nostre città e per le nostre architetture, per il nostro abitare, metri, norme, misure canoniche, nella consapevolezza che i nostri lόgoi sono necessariamente artificiali, convenzionali e, quindi, vari, ma possiamo, secondo l’indicazione dell’Alberti, condurre la varietas alla concinnitas (cum cano: canto insieme) in una sinfonia di voci diverse tale da non disperdere la varietà nell’insignificanza4. La lettura dei saggi di Nancy e Cacciari non può non indurre a riflettere sulle due linee che hanno caratterizzato, si direbbe, tutta la storia dell’architettura, e che, per le recenti posizioni poetiche, possono sintetizzarsi, da un la1
J. L. Nancy, La città lontana, trad. it. di P. Di Vittorio, Ombre Corte, Verona 2002 M. Cacciari, La città, Pazzini, Villa Verrucchio 2004 3 J. L. Nancy, cit. pp. 13-30 4 M. Cacciari, op. cit. 2
to, nel cosiddetto “progetto urbano” e, dall’altro, nel progetto antiurbano, “organicista”, fondato sulla “naturale” libertà inventiva delle forme costruttive o, se si vuole “decostruttive”. E’ noto come, reagendo all’organicismo antiurbano postbellico, che si era tradotto nelle varie forme di neoavanguardismo e che pure aveva guidato la ricostruzione e l’espansione di tante città, negli anni settanta, particolarmente in Italia, viene posta l’esigenza di legare il progetto architettonico alla costruzione urbana, secondo determinate regole compositive. L’architettura della città è il testo di Aldo Rossi del 1966 nel quale, analizzato l’evolversi della città attraverso la sua intrinseca, autonoma, progettualità, la sua capacità di autoformazione, strettamente connessa all’architettura, alla sua costruttività, l’urbano viene altresì inteso in termini geografici, quasi una configurazione naturale, e, in termini culturali, come un’opera d’arte collettiva5. Sarà Ezio Bonfanti a porre nel saggio introduttivo della rivista «Controspazio» l’autonomia dell’architettura quale carattere connesso ad un sistema convenzionale di norme, per così dire ideal-tettoniche, utile a governare metodo e conformazione del progetto, anche in riferimento ai valori comunicativi, quell’aspetto politico pure rilevato da Rossi, legati alla sua comprensibilità presso il pubblico ed al suo insegnamento/apprendimento6. E sarà proprio il risvolto politico delle indicazioni di Rossi e Bonfanti a far guardare alla cultura architettonica italiana, in un momento storico caratterizzato da forti rinnovamenti sociali, quale possibile riferimento nella riflessione sul progetto, non solo nell’Europa caratterizzata dalla presenza storica della città, ma anche nell’America antiurbana dove «Opposition», la rivista del nuovo Institute for Architecture and Urban Studies (si noti: l’urbano, non il planning) di New York, diretta da Peter Eisenmann, Kenneth Frampton e Mario Gandelsonas, pubblicherà, nel pieno degli anni settanta, scritti di Rossi e su Rossi insieme ai saggi di Manfredo Tafuri. La tensione politica presente nella ricerca dei primari, fondativi, elementi comunicazionali del costruire fa altresì individuare una continuità tra le intenzioni poetiche di Rossi e Bonfanti e l’analisi storiografica di Tafuri e, sebbene questa sia del tutto distante dalle esperienze progettuali, applicando la critica dell’ideologia alle stesse idee rossiane, il prestigio internazionale del più profondo e raffinato studioso dell’architettura contemporanea sicuramente giova al diffondersi della cultura architettonica italiana e dei postulati del “progetto urbano”. Nel 1966 compare un altro volume che pure conosce una significativa diffusione contribuendo ad affermare la via italiana al progetto: Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti. Ad una prima analisi il testo di Rossi e quello di Gregotti, nell’insistenza sull’autonomia o sull’identità dell’architettura che propongono l’analogo primato della “forma” (rispetto alla “funzione” ancora caratterizzante il postrazionalismo e l’organicismo derivato da Sullivan), appaiono simili, e tuttavia, mentre il primo assume l’architettura a partire dalle sue potenzialità urbane, essendo la città il riferimento necessario del costruire, nel secondo è l’architettura come “cosa” ad essere, per così dire, “territorio”, a sintetizzare in sé, tra i diversi materiali che la informano, la complessità dell’ambiente, anche urbano. Gregotti nel 1958 aveva partecipato al convegno fiorentino sull’espressionismo, caratterizzato dalla presenza di numerosi studiosi ispirati alla fenomenologia husserliana, da Argan a Rognoni, e in tale occasione aveva offerto un duro giudizio sui sogni romantici espressionisti, particolarmente quelli di Taut, intesi anticipatori del nazismo e disponibili al compromesso. Dichiarando, nell’introduzione, il suo debito nei confronti della fenomenologia, il suo testo del 1966, contradditorio ed asistematico, come egli stesso lo definisce, da un lato, sembra quindi nutrire una diffidenza nei confronti della creatività artistica nella costruzione, da condurre dalla irrazionalità ad una razionalità differente dove, nel rivoluzionario sempre agente nell’arte, ricercare un ordine nuovo e diverso, dall’altro, nella citazione di Heidegger, riconosce che l’architettura sia la risposta poetica al problema dell’abitare, anche se il suo «luogo simbolico», secondo la definizione ripresa da Susanne Langer per l’elemento artistico della costruzione, si determina come polisenso mediante il paziente lavoro di formalizzazione svolto con i diversi materiali storici disponibili7. Come è evidente, più che il pensiero di Heidegger, nella concezione di Gregotti entra in gioco lo strutturalismo semiologico e la ricerca dei modi profondi dell’abitare che informano i diversi significati offerti all’architettura nel suo concreto prodursi, sebbene dietro il kantismo strutturalista sia il metodo husserliano a potersi leggere, attraverso il quale Gregotti passa in rassegna gli elementi fenomenici che caratterizzano il costruire, vale a dire il riferimento all’ambiente-paesaggio, naturale ed urbano, letto come in Rossi attraverso gli studi geografici, ma anche i valori immaginali, il necessario confronto con la storia mediante il quale, oltre la creatività artistica singolare, si colgono le più generali trasformazioni fisiche e sociali prodotte nel tempo e nell’attuale, ed infine il tipo, l’uso, il significato linguistico, quali strumenti, «utilizzabili», propri all’attività progettuale, per indicare all’architetto il compito, interno ai suoi sempre più ineffettuali mezzi, di portare alla luce l’inautenticità dei tanti progetti i quali, attraverso la sociologia, l’economia, le stesse poetiche costruttive, si soffermano su significati rivolti solo alla 5
Nel testo di Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966, sono frequenti i richiami alla città come opera d’arte, come è nella citazione di Camillo Sitte a p. 29 o nel parallelo tra il «mistero» delle città e quello dell’arte, in chiusura, a p. 190. 6 E. Bonfanti, Autonomia dell’architettura, in «Controspazio» n. 1, 1969, pp. 24-29. 7 V. Gregotti, Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1966 pp. 20-53. Qui, a p. 44 è citato l’Heidegger di Costruire Abitare Pensare e, successivamente, a p. 108 quello di Essere e tempo, in una chiave, che intende l’opera luogo degli utilizzabili, per così dire molto “gregottiana”.
quotidianità ed al consumo, e scoprire il senso dello spazio del vivere dall’uomo sin dentro il suo più intimo desiderio8. L’idea del progetto che, così come il proprio testo, trova la propria conformazione attraverso il suo farsi nei materiali offerti dalla storia, depurati verso una autentica coscienza dell’abitare, risente certamente dell’estetica della formatività del Pareyson, mentre quella della ‘sublimazione’ degli stessi materiali verso un riposto senso è sicuramente tributaria dell’estetica crociana, anche se nel saggio l’elemento artistico dell’architettura su cui Gregotti pure riflette, assume maggiormente un valore linguistico-comunicativo che non estetico. Ed invero, l’intuizione assegnata da Croce all’arte nel suo cogliere, attraverso i materiali utilizzati, meri mezzi, lo spirito, in Gregotti sembra virare verso il reciproco irraggiarsi di io e cosa attribuito da Husserl all’intenzionalità9, tanto più che, se l’intuizione artistica rinvia ad una eccezionalità dell’opera, la nozione husserliana si riferisce ad una proprietà della coscienza, del soggetto trascendentale non singolare nè impersonale, fondo di ogni soggettività attiva, poliego, «Ego a più teste», o nelle parole del filosofo una transzendentale-soziale Subjektivitat10, attraverso la quale l’architetto, negli autonomi mezzi della propria disciplina, intercetta il desiderio d’abitare del proprio tempo facendosi, più che artista, agente sociale e, si direbbe, politico. La complessità e la problematicità dei testi di Rossi, Bonfanti, Gregotti trova una semplificazione, e un impoverimento, nell’analisi, ovvero nella teoria analitico-razionale dell’architettura, proposta da Giorgio Grassi nel 1967 con La costruzione logica dell’architettura11. Nella banalizzazione del razionalismo cartesiano, assunto per l’esercizio del dubbio metodico che relativizzerebbe le acquisizioni razionali della conoscenza, Grassi si propone di tradurre l’architettura in una disciplina scientifica fondata su leggi logico-sistematiche convenzionali, relative, ma utili ad articolare il progetto come procedimento conoscitivo. Con riferimento all’epistemologo Hans Reichembach egli ritiene possa essere costruita una teoria scientifica dell’architettura, come è per ogni scienza, mediante concetti «descrittivi» o «osservativi» e concetti propriamente logici12 e, potendosi questi ultimi riferire solo all’aspetto sintattico-costruttivo, propone una interpretazione dell’architettura esclusivamente quale costruzione. La rimozione dell’artisticità, della bellezza, si manifesta nell’intenzione di ritrovare anche nei testi, trattati ed opere, ispirati all’artistico gli elementi che ne costituiscono il fondo razionale-costruttivo, ed in quella di dedicarsi, più che all’architettura, all’abitazione, ritenendo come proprio l’indagine che scelga di condursi metodicamente, fuori da distinzioni qualitative, sulle opere «che si sono poste in termini più schematici e convenzionali la questione dell’abitazione» possa riscontrare in queste «il contributo più aperto e adeguato al problema dell’architettura»13. Fedele alla linea epistemologica scelta, vengono quindi svolte nel testo alcune analisi descrittive, mediante comparazione, di manuali e teorie di architetti appartenenti ad epoche e ‘stili’ differenti, Viollet Le Duc, Garnier, Klein, per giungere a riconoscere nel «tipo» il concetto logico, posto al di qua dell’«immagine», per essi sintetico, fondativo, del progetto. Dedicandosi quindi allo studio dell’esperienza tedesca, dove accantona i maggiori architetti del modernismo, Grassi mostra come la città, anche quella proposta dal razionalismo, pur nelle diverse tipologie dell’abitazione, a blocco, per siedlung e persino nell’eccezionalità del grattacielo, si evolva attraverso disegni i quali, secondo la tradizione della città gotica, si pongono di pervenire ad una «unità formale», per affrettarsi a chiarire, avvertendo la possibile ambiguità del concetto di «forma», interpretabile anche in termini di bellezza artistica, che «la ricerca formale può sembrare a prima vista una forzatura. Possiamo invece renderci conto della sua legittimità proprio prendendo in considerazione quelle indagini che sembrano anche le più avanzate sul piano di una definizione strattamente funzionalista della casa, del quartiere della città, come sono appunto gli studi di un Klein o di un Hilberseimer»14. Come dire: se persino il funzionalismo è “formale”, la “forma” non ha alcun carattere artistico, ma prevede solo una organicità logica. Stendendo un velo pietoso 8
Ibidem, v. tutti i tre capitoli che costituiscono la parte restante del libro. Husserl si sofferma spesso sulla reciproca «orientazione» tra io e mondo. Nelle Ideen – Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica – trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, vol. II § 22, p. 103 a proposito dell’intenzionalità scrive: «In un certo senso, molto generale, l’io si dirige sempre verso l’oggetto, ma in un senso particolare, dall’io puro procedono raggi egologici che tendono verso l’oggetto, e nello stesso tempo dall’oggetto emanano raggi in direzione contraria», essendo i diversi raggi i vari modi di avere coscienza e dell’essere coscienza. Intenzionalità ed intuizione presentano il medesimo etimo, éntasis, il rigonfiamento della colonna che accoglie e restituisce lo sforzo dei carichi, e questo può far pensare forse a motivi comuni in Croce ed Husserl, tanto più che entrambi ricostruiscono la filosofia sulle ceneri che ne avevano determinato Marx e Nietzsche. 10 Secondo Stefano Catucci, Le cose stesse: appunti su un’autocritica trascendentale della fenomenologia, «Leitmotiv 3/2003 http://www.ledonline.it/leitmotiv/» il sovente rinvio di Husserl al «noi» non intende un gesto filosofico condiviso da una comunità di pensiero, quanto una soggettività trascendentale la quale, più che precedere aprioristicamente i singoli soggetti è per così dire polisoggettiva, emergente nella riduzione fenomenologica rivolta al sé ed a tutte le forme di interiorità cui si ha accesso tramite Einfühlung, un «Ego a piu teste» o una transzendentale-soziale Subjektivitat. Oltre il manoscritto FI29 letto dal Catucci, Husserl dedica, già nelle Ricerche Logiche, op. cit. pp. 135-155, parte della Quinta Ricerca all’io puro, ad una pura coscienzialità, un «terzo concetto di coscienza», come soggetto del vissuto puro del cogito, un io trascendentale emergente dalla epoché di tale vissuto . 11 G. Grassi, La costruzione logica dell’architettura, Marsilio, Padova 1967. 12 Ibidem p.29 e H. Reichembach, L’analisi filosofica della conoscenza scientifica, trad.it. di M.Giacometti, Marsilio, Padova, 1968 13 Ibidem p.33. 14 Ibidem, in particolare i capitoli quinto e sesto. 9
sull’appropriazione dell’opera di Mies, Loos, Oud, nel proprio discorso “logico” con la rimozione delle loro propensioni estetiche, è indubbio come sia questo testo ad espungere dall’architettura della città la disposizione all’artistico, ad elidere all’urbano la bellezza, come è del resto anche nelle opere, le quali, se in Rossi muovono l’analogia e l’analitico, razionali, verso la metafora e il sogno, l’autobiografia e il gioco, propri all’arte, se in Gregotti si avvalgono di una combinatorietà di tipi e forme che tende a sfuggire ogni conclusa normatività, e se nella scrittura di Bonfanti incontrano lo studio iconologico applicato all’architettura15, essa pure quindi fenomeno simbolico-artistico, in Grassi si determinano in banali ed anonimi monumenti allo squallore delle periferie metropolitane. La facilitazione della complessità progettuale, ridotta in poche determinate regole relative ai diversi livelli di intervento, operata da Grassi, trova quindi molti proseliti diffondendosi non solo in Italia, tanto che l’elisione della bellezza, della artisticità, dalla forma diviene un luogo comune per gli architetti/costruttori, e persino per chi, come Ungers, aveva individuato la città come opera d’arte, o come Moneo, aveva inteso nel progettare un agire estetico16. Naturalmente non è il lavoro, teorico ed operativo, di Grassi ad influenzare l’architettura europea, ma è in esso che si manifesta in termini espliciti ed estremi la stretta connessione di architettura e città in una logica da cui è espunto ogni valore artistico-estetico, e, se la stessa vicinanza dei maestri moderni all’arte viene definita «patetica»17, è ad esso che si può convenire di far risalire l’idea ancora oggi in parte persistente di una costruzione esclusivamente logica della città, di un progetto urbano senza bellezza o, anche quando si riconosce all’architettura una essenza artistica, quella di ritrovare la sua identità disciplinare liberandola dall’arte stessa18. Più difficile appare nella, forse eccessiva, sintesi semplificativa di questa esposizione, per la singolarità delle posizioni caratterizzante la tendenza opposta, rintracciare in questa motivi comuni, personalità esemplari. Quanto contraddistingue comunque i movimenti architettonici che si oppongono al “progetto urbano” è l’idea che la ragione, con le sue regole, sia insufficiente a spiegare il reale e tanto più a determinare in esso l’agire, che la realtà non si esaurisce in raziocinanti logiche d’apprensione e che la relazione tra soggetto e mondo, oltre che razionale, è empatica, tale da determinare un più autentico rapporto con le cose improntato alla libertà, se si vuole al desiderio, o in termini politici, all’eros che, secondo l’analisi marcusiana degli stessi anni sessanta19 del “progetto urbano”, può sprigionarsi attraverso le conquiste della macchina. Più che contro il malinteso Cartesio di Grassi in favore del banale organicismo fondato sulla mimesi naturalistica propugnato in forme diverse da Zevi e Portoghesi, è contro Hegel che si riscopre Schelling, la natura come luogo concreto della presenza dello spirito, essa stessa principio, e se «il supremo atto d’astrazione compiuto dalla vita teoretica dell’intelligenza é....un libero e assoluto atto della volontà e, quindi, un atto dell’attività pratica», a sua volta la realtà materiale possiede in se stessa una «forza.....che si annuncia al sentire», sì che riconoscendosi nell’anima, rivolta all’esterno e disposta a registrare in sé gli effetti dell’incontro con il reale, la sede dell’autocoscienza e dell’autodeterminarsi dello spirito, questo si manifesta nella confluenza tra pensare ed agire, attività teoretica ed attività pratica resa nella «suprema azione» dell’arte 20. E per gli avversari del “progetto urbano” è infatti l’arte il modello attraverso il quale non solo produrre il progetto architettonico quanto promuovere con esso atteggiamenti di vita, sociali e politici. La natura, non nei suoi aspetti figurali “organici”, quanto nello “spirito” che muove il suo riprodursi tra necessità e libertà, se si vuole nella sua disposizione ecologica fondata sulla compensazione degli squilibri, contro la ragione; la tecnica futuribile, capace di affrancare l’uomo dal lavoro e di consegnarlo alla soddisfazione dei desideri, contro la “costruzione” che ingabbia l’agire umano; il villaggio-metropoli contro la città: questi i motivi che muovono l’artisticizzazione dell’architettura oggi più che mai presente. Si può quindi legittimamente ritenere che, se appare difficile indicare 15
Ormai appare acquisito che l’architettura di Rossi non possa essere ridotta a “costruzione logica”, ricca come è di sensi “artistici”. Mi sia consentito circa i motivi, si direbbe surrealisti, invece che realistici, in Rossi, rinviare al mio L’analogia e il sogno, in «Art Dimension Art», n. 4 ottobre 1975, p. 42-45. Sull’interesse di Bonfanti per l’estetica, l’arte e l’iconologia v. Rapporti tra ricerca estetica e scientifica in «Lineastruttura», n. 1, 1966, pp.12-17, ora in E. Bonfanti, Nuovo e moderno in architettura, Paravia/Mondadori, Milano 2001, p. 95 in cui è riportato, a p. 23, anche il saggio inedito Freud e l’arte. 16 Oswald M. Ungers, rispetto alla appropriazione che ne attua la cosiddetta “tendenza”, appare invero interessato all’artisticità dell’architettura, come testimonia il suo saggio del 1963, Die Stadt als Kunstwerk, in «Das Werk», n. 7. Quanto a Moneo, pure rivendicato architetto “razionale”, è noto il suo interesse in Italia per Zevi, Argan, Pareyson, invece che per Muratori, riscontrabile nell’idea che La solitudine dell’edificio, trad. it. di A Casiraghi e D. Vitale, Allemandi, Torino 2004, si determini nel suo essere testimone di un fare materiale, oltre il tipo e qualsivoglia ragione, che lo impone nell’effimero del mondo attuale dei segni. 17 G. Grassi, Avant-garde and continuity, in «Opposition» n. 21, 1980. La frase completa recita: «It is actually pathetic to see the architects of that “heroic” period, and the best among them, tryng difficulty to accomodate themselves to these “isms”; experimenting in a perplexed manner because of their fascination with the new doctrines, measuring themselves against them, only later to realize their ineffectuality» 18 V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008, v. l’ultima frase del testo, p. 133. 19 Il testo di Herbert Marcuse è Eros e civiltà , trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino 1964. 20 Cfr. F.W.J Schelling, Filosofia dell'arte, trad. it. di A Klein, Politecnica, Napoli 1986, e gli scritti sull’arte nell'antologia curata da Luigi Pareyson, Schelling, Marzorati, Milano 1975, pp. 261-284, nonchè T. Griffero, L’estetica di Schelling, Laterza, Bari 1996.
per tale tendenza emblematici rappresentanti, il suo precursore può essere individuato, invece che in un architetto, in uno storico, Reyner Banham, il quale a tali motivi impronta la sua lettura dell’«architettura della prima età della macchina». Scritto nella «seconda età della macchina» il testo di Banham, in presenza delle grandi trasformazioni introdotte dalle più eteree tecniche della seconda fase industriale, rivolte ad un pubblico di massa, non solo per soddisfarne i bisogni quanto anche per condizionarne gli atteggiamenti, manifesta più viva, rispetto alle letture “classiche” del modernismo, la consapevolezza circa l’influenza sul costruire delle nuove acquisizioni tecniche. La sua lettura si snoda quindi lungo le diverse tendenze moderniste per verificarne la relazione con le nuove disposizioni dell’industrializzazione e concludere con Buckminster Fuller che, in definitiva, gli atteggiamenti progettuali i quali pure, a partire dal “dimenticare Ruskin” del 1912, si improntano ad un più stringente confronto con l’universo meccanico, non fanno che proporre solo un nuovo stile, allusivo, «ispirato capricciosamente» alle rinnovate modalità tecniche, come è anche per lo «Stile Internazionale», propositore di una moda, ma non fondati su una vera conoscenza e sulla applicazione delle acquisizioni tecnico-scientifiche. Di qui la maggiore considerazione delle correnti artistiche, l’espressionismo, De Stjil e, particolarmente, il futurismo, che non quella delle tendenze architettoniche pure novatrici, dal momento che è il mondo dell’arte, più che quello dell’architettura, maggiormente gravata dal peso della storia e dalle necessità d’uso, a manifestare, sia pure intuitivamente, le cognizioni circa le innovative relazioni con lo spazio, il tempo, il mondo della vita, scoperte dalla scienza e introdotte dalla tecnica. Significativa è a questo proposito l’analisi riguardante Gropius e la Bauhaus, dove, dopo il ridimensionamento delle valenze pionieristiche del progetto per le officine Fagus, vengono messe in luce le contraddizioni dell’impianto formativo interno alla scuola, tra il legame con l’artigianato, il misticismo del Vorkurs e la vocazione alla standardizzazione mediante le composizioni per volumi puri, nel manifestato interesse nel confronti del corso di Klee e la sua «estetica pratica», nel quale l’esercizio della dinamizzazione degli elementi primari della composizione, il punto, la linea, la superficie, gli stessi di Kandinskji, e l’indicazione, attraverso i propri quadri e disegni, di un concetto di spazio trasparente, in sé stesso mobile, a più dimensioni nel tempo, meglio educa l’intenzione progettuale a relazionarsi ai concetti del conoscere e del fare della scienza contemporanea. Lo stesso giudizio positivo sul progetto della scuola di Dessau viene reso del resto per le sue «determinazioni estetiche» più che tecniche, tanto più che il ponte tra la Fachschule e la Bauhaus vera e propria, non giustificato dalla presenza della strada, progettata a posteriori, rivela ancora il retrivo legame avvertito da Gropius con l’artigianato21. Nell’introduzione al volume Banham appare consapevole di come le trasformazioni della scienza e della tecnica oltre che influenzare la nostra vita possano mutarne il destino trasformando il nostro pianeta in un luogo inabitabile, ma tale nota critica si stempera nell’ottimistico rilievo della possibilità offerta delle nuove conquiste spaziali di farci «mettere radici altrove». D’altro canto se, come afferma in conclusione, i nuovi modi produttivi siano o no un bene per la razza umana non riguarda lo storico, l’indicazione dei progettisti della prima età della macchina è di seguire il corso della tecnologia, che essi interpretarono solo in forma simbolica, e nella eventualità che tecnologia ed architettura siano persino incompatibili, appare necessario comunque per l’architetto mantenersi alla pari con il progresso tecnologico onde non scoprire che «la cultura tecnologica ha già deciso di procedere senza di lui». Per Banham la vera rivoluzione moderna non si realizza nella cultura o nella politica, quanto nei mezzi di produzione, e la storiografia, onde restituire lo svolgersi delle cose in cui si cala il presente, secondo un metodo derivato dalla consolidata scuola di Edward Gibbon, non restio alla diffusione di massa delle narrazioni storiche, legge in termini distaccati gli eventi per ricostruirne le trame in cui essi si collocano, nel caso dell’architettura, il grado di adeguamento agli assetti, anche sociali, promossi dal progresso tecnico. Del tutto aderente al credo liberal, il «progetto storico» di Banham interpreta quindi l’attività della storicizzazione dall’interno di una autonoma analisi dei fatti che, agente nella più generale dialettica progressiva, sebbene non coinvolta direttamente nella operatività, attraverso il tratteggio del complesso affresco storiografico di un’epoca, sappia rilevare coerenze e contraddizioni, valori e disvalori, nella specifica pratica dell’architettura posta in esame, in modo tale, malgrado la vocazione a smitizzare gli “eroismi” passati e presenti dell’esperienza architettonica, da offrire comunque indicazioni al progetto22. A differenza della lettura di Bruno Zevi che lega l’evoluzione dell’architettura a quella dell’arte manifestando una esplicita adesione ai suoi valori, l’analisi di Banham, distante da vocazioni operative, misura il costruire contemporaneo sulle acquisizioni della tecnica, per rivelare altresì una estetica secondo cui, in una distorta interpretazione del pensiero di Walter Benjamin, la perdita dell’aura dell’architettura e dell’arte “bel21 R. Banham, Architettura della prima età della macchina, trad. it. di E. Labò, Calderoni, Bologna 1970. Sulla Bauhaus, Klee e Gropius v. pp. 315-318, mentre le considerazioni riprese dal Fuller sono nell’ultimo capitolo. 22 Marco Biraghi in Storia dell’architettura contemporanea II, Einaudi, Torino 2008, p. 13, rileva il parallelo tra Banham e Tafuri nella lettura dell’architettura contemporanea. Un parallelo del tutto irriverente per l’incomparabile superiorità del metodo, della cultura e della ricchezza delle analisi tafuriane rispetto al più modesto cronachismo di Banham, sì che non si ritiene, in questo scritto sulle attuali tendenze, neppure citare oltre il Tafuri che meriterebbe ben altra esegesi, tanto più che lo stesso studioso ha messo in luce il volo da mosca dei rappresentanti delle odierne correnti dell’architettura, divise solo per spettatori di chiusi cinema d’essais.
la”, determinata dalla tecnologia industriale e dalla riproducibilità di massa, apre a nuove possibilità creative, nuovi esercizi della fantasia, nuove disposizioni dello stare, che promuovono assetti sociali progressivi e, generalmente, un ambiente maggiormente aderente ai bisogni dell’uomo. Si spiega quindi la sua critica nei confronti della «ritirata italiana» dal moderno, individuata nel neoliberty, reo di riscoprire modi costruttivi storici abbandonando l’indicazione all’uso delle innovazioni tecniche nei maestri, o, anche, la partecipazione attiva a movimenti, esposizioni, eventi artistici, la continuità culturale cioè con le esperienze dell’architettura inglese le quali, dalla crisi dei Ciam, tentano di ritrovare un rapporto tra le forme costruttive e l’accresciuta vitalità dello sviluppo metropolitano, accolto non senza inquietudini dall’angry generation ed affrontato in approcci ed esiti progettuali eterogenei, i quali, per il disincantato, lo spregiudicato, “brutale” uso di materiali, forme, modi costruttivi, estranei ad ogni regola canonica, passata o “moderna”, si riconoscono nel “Brutalismo”, la corrente che nella applicazione futuribile della tecnologia, spesso risolta solo nella magniloquenza delle immagini, produce, come è negli architetti Smithson, Fuller, Stirling, nel gruppo Archigram, un doppio atteggiamento di accettazione e timore nei suoi confronti, nell’amplificazione del gioco creativo consentito dai suoi mezzi e nella critica ironica alle sue promesse. Il confronto con l’espansione metropolitana, particolarmente londinese, non controllabile con alcuna forma, cui le new towns neppure riescono ad offrire nuove centralità, conduce cioè gli architetti, da un lato, a misurarsi con la grande scala mediante l’uso delle tecnologie, e, dall’altro, ad esorcizzare la tecnica, fautrice delle nuove spersonalizzanti quantità e dimensioni, con festose e dissacranti invenzioni immaginative vicine al fumetto, alla pubblicità ed all’arte23. C’è altresì da dire che lo stesso Banham è partecipe dell’Institute of Contemporary Arts ed è segretario dell’Indipendent Group formatosi al suo interno e costituito tra gli altri, oltre che dagli Smithson e dagli Archigram, dal critico d’arte Lawrence Alloway e da William Turnbull (cui si dovranno le scene del film Blade Runner), Edoardo Paolozzi e Richard Hamilton, il pittore il quale, proponendo nella mostra this is tomorrow, organizzata nel 1956 alla Withechapel Gallery di Londra, il collage Just What Was it That Made Yesterday’s Homes So Different, so Appealing, inaugura la Pop-Art. L’opera di Hamilton ricostruisce, attraverso un collage di immagini pubblicitarie, un interno borghese dove sono messi in scena tutti gli elementi del comfort domestico ed i miti del benessere fisico e sociale che caratterizzano l’Inghilterra del dopoguerra interessata da una forte crescita economica. Il quadro, che assume tali miti esponendoli in una irreale fissità, sembra così da un lato aderire giocosamente alla promessa di felicità prodotta dalla pubblicità e, dall’altro, manifestare la perturbante atmosfera che pure vive il mondo in quegli anni, esposti alla guerra fredda, al rischio nucleare e, se si vuole, alla espansione metropolitana che minaccia ogni interieur. Conoscitore profondo di Duchamp, seguendo le indicazioni di Alloway, secondo il quale vi è continuità fra arte bassa ed alta – e nella casa illustrata, su una parete, convivono un quadro seicentesco con quello ricavato da un fumetto – nel dualismo tra la divertita accettazione della realtà di massa e la ironia critica nei suoi confronti, Hamilton manifesta nel collage una modalità diversa di approccio all’arte rispetto al dadaismo, dal momento che lo spostamento straniante delle immagini di comune uso pubblicitario nella cornice del quadro, non aspira a valorizzare il quotidiano attraverso il gesto artistico, come è nell’atto sacrale dell’artista dadaista al quale è dato eleggere anche il più banale oggetto d’uso ad oggetto d’arte, quanto piuttosto, tra lo scanzonato ed il beffardo, a riportare la sacralità dell’arte al quotidiano, svalorizzando così l’intero mondo artistico. Come queste idee si riverberino in America, anche attraverso la direzione del Guggnheim di Allowen, sviluppandosi nella Pop-art americana e, particolarmente, in Andy Warhol è noto, così come sono note le vicende che conducono il movimento interno all’ICA ed all’IG ad egemonizzare la scuola dell’Architectural Association, con la direzione di Alvin Boyarsky, dove si impone proprio il modello didattico desunto dal tanto criticato Gropius, quell’imparare facendo ritrovato da Banham, oltre la criticata Montessori, nel Dewey che impronta Harward, sostenuto altresì nella didattica artistica desunta da Klee, con i giochi di movimentazione delle geometrie elementari, riconoscibili tanto nelle prime composizioni di Eisenmann, il quale riscopre in Chomsky il kantismo kleeano, che nelle successive più assorte ed inconsapevoli elaborazioni computerizzate di Zaha Hadid. Anche la diaspora che segue alla presa di possesso della scuola, data l’eteroneità dei punti di vista ad essa interni, sebbene fondati su un comune, vago, estetismo, unito al più avanzato tecnologismo, si tramuta in una ulteriore diffusione delle idee pop in essa coltivate, particolarmente a New York, nell’ospitalità offerta da Eisenmann, presso l’Institute for Architecture and Urban Studies e la rivista «Opposition», agli “allievi” Tschumi e Koolhaas, il quale vi svolge la tesi su Delirious New York, e persino in Italia, dove il movimento “artistico” scopre valenze politiche abbandonandosi, da un lato, alla più becera delle ideologie esaltatrice del sottoproletariato urbano e dell’infanzia quali depositari dell’anima vergine della creatività rivoluzionaria, e dall’altro, all’occupazione dei centri pubblicistici e pubblicitari del potere produttivo nel campo dell’industrial design, quella cioè delle due più prestigiose riviste di architettura italiana, «Domus» e «Casabella», ridotte a gazzettini illustrativi di performances “corporali” – il corpo è il nuovo fronte dell’arte comportamentale che fa seguito alla pop-art – onde vendere i prodotti dei mobilieri 23
M. Biraghi, ibidem, pp. 102-104
Italian Style, per i quali i vari Mendini, Branzi, Dalisi progettano sgabelli e caffettiere, tentando disperatamente, e senza alcun successo, di inventarsi architetti. Anche Reyner Banham prende la via dell’America e, dopo aver insegnato arte e architettura a New York, che deve avvertire ancora troppo legata ai modelli urbani europei, preferisce dirottarsi verso l’università suburbana di Buffalo e, successivamente, l’Università della California a Santa Cruz, dove pone il suo osservatorio su Los Angeles. E la città degli angeli per il critico inglese è avvertita come una vera seconda patria. Los Angeles è un caso unico, «a unic city», per le modalità e le occasioni storiche che l’hanno costruita, eppure è l’analogon di Londra, come questa «città-villaggio», policentrica e polimorfa. Anzi, Los Angeles non è che una Londra solare, in surfing, la quale, liberatasi delle nebbie, mette a nudo i propri fermenti, fa rilucere il proprio carattere vitalistico, creativo, in maniera estroversa, e, abbattuti i diversi involucri che la racchiudono, i recinti che la sezionano e la dividono, lascia vivere, se anche a town is not a city, la città fuori dall’urbano. L’analisi della struttura della città24, quindi, non può che sfuggire le classificazioni tipiche degli studi urbani e la stessa scrittura di cui si avvale non è né quella legata alle formule dello studio scientifico, né quella del viaggiatore colto, distaccato osservatore «attento soprattutto a mettere a freno i propri pregiudizi e a comportarsi in modo illuminato, aperto, capace di comprensione»25, e neppure quella fluente del cronista curioso, quanto, come la Los Angeles che descrive, plurale, persino frammentaria, rivolta a superare le scansioni in cui si dispone, per così dire “artistica”, costruita per fotogrammi alla Warhol virati in acidi di diversi colori, tale da illustrare le sue «quattro ecologie», al modo delle quattro, o infinite, Marilyn diverse eppure uguali, mimandone il trasparente sovrapporsi, estranee come sono anche ad un possibile ordine geografico, e determinate in senso topologico, quali giustapposti layers che inducono un testo dalle letture sghembe e accavallate, dove il deserto diventa mare, la collina pianura, l’automobile strada e casa. Non solo, ma, come la città, apparentemente orizzontale negli infiniti transiti, e pure ricca di spessori, ambienti riposti o lussureggianti efflorescenze, anche la scrittura apre stratigraficamente, nelle quattro sezioni che descrive, agli infiniti, diversi, possibili modi dell’architettura – ma il termine è del tutto inadatto – che le interpretano. Anticipando la lettura di Nancy, il testo di Banham mostra una Los Angeles che si realizza città e si sa città nel suo farsi «lontana» e, forse, perdersi, nell’assenza di ogni ordine urbano, così come l’architettura che è tale, per così dire, inconsapevolmente, senza l’«angoscia» degli eroismi europei. Una città unita e unica nella sua frammentarietà, dove la necessità di distinzione nell’anonimato della sua grande scala induce a gesti eccentrici, ad ulteriori frammenti, privi però della drammaticità di sapersi “parte”, per così dire gioiosi, partecipi del variopinto insieme in quanto solo densi di sé. Los Angeles assume allora le sembianze della Roma piranesiana fatta di “frantumi”, ed è indicativo del deciso ritorno della cultura architettonica al “pittoresco”, dell’affermarsi della logica del frammento, manifestazione di una crisi vitale capace di offrire nuove opportunità, luogo della creatività sprigionata dalle sempre più rapidi innovazioni tecniche, monade di un diverso possibile comporsi della cittàmetropoli verso l’espansione globale, che, nell’epilogo del 1982 aggiunto per l’edizione italiana, il testo di Banham si concluda nel richiamo alla casa di Gehry ed al Centre Pompidou, antimonumentale brandello angeleno, nell’opera prestata dal Chrysalis Group a Piano e Rogers, innestato al centro della città moderna per eccellenza, Parigi, quali opere cui è ancora affidata la promessa di poter «parlare al superlativo, a vivere fuori dalle mura di casa, a spararle grosse, a trattare beni immobili, a credere in ciò che non è vero, a buttare il decoro fuori dalla finestra, a vestirsi in modo teatrale, e ultimo, ma non meno importante, ad affrontare l’impossibile»26. Se i testi di Banham manifestano la consapevolezza critica circa un atteggiamento progettuale rivolto ad esaltare la fiducia nella tecnologia, foriera del dilatarsi della creatività, nella dilatazione dell’ambiente di vita oltre l’urbano, il Beauborg e casa-Gehry a Santa Monica sono pertanto i due esempi che danno origine alla “terza età della macchina”, là dove l’house sembra trasferirsi in una immateriale home (ma anche la home scompare nella casa) nella evaporazione, chissà, anche del nostro involucro corporeo, sostituito da fili, tubi, valvole, tentacoli, cui alludono, non senza inquietudine, nell’ultimo scorcio del secolo, i romanzi di Ballard ed i film di Cronenberg. E’ singolare comunque che, a proposito del Beaubourg, Banham si soffermi solo sul rilievo delle diverse difficoltà compositive riguardanti l’innesto tra i nodi tecnologici e strutturali delle pareti del volume senza soffermarsi, sui costi economici. E non appartiene forse al moderno, quel moderno, cui allude proprio il critico inglese, rivolto a depurare l’architettura dei suoi orpelli decorativi per porne in trasparenza i funzionamenti, anche tecnici e statici, la lezione circa l’economicità dell’architettura? Non era, per tutti i maestri, il basso costo dell’edilizia a verificarne la qualità? “Costa meno e la bellezza è gratis!” questo più o meno la frase che circolava tra i più diversi architetti modernisti. Al Beaubourg invece, complice la tradizionale grandeur parigina, viene messo in scena, da due rampolli della più aristocratica borghesia europea, il dispendio, l’eccessivo, forse il «superlativo» di Lee Shippey, il più alto grado di rarefazione materiale con il più alto grado di diseconomia, secondo lo schema della finanza facile che ha indotto agli attuali crolli monetari e borsistici (tutti gli edifici delle superstar sono caratteriz24
R. Banham, Los Angeles. L’architettura delle quattro ecologie, (1971) trad. it. di A. Castellano, Costa e Nolan, Genova 1983. L’annotazione è nella Presentazione di Vittorio Gregotti al testo di Banham, ibidem, p. III. 26 R. Banham, ibidem, p. 36. 25
zati dall’altissimo costo di costruzione e manutenzione, un esempio per tutti l’edificio per la CCTV cinese di Koolhaas costato circa cinquemila dollari per metroquadro). E, anche se la metafora economica, che lega la volatile trasparenza dei titoli finanziari alla implosione delle Borse e quindi al disvalore, non è tra quelle utilizzate da Baudrillard nella sua analisi sull’edificio parigino, è questa a rivelare la contraddizione, dell’edificio e di tutta l’estetica, banhamiana, che lo sostiene. Confessando di non poter neppure definire la cosa Beaubourg, macchina o effetto, enigma, «carcassa di flussi e di segni, di reti e circuiti…» Baudrillard legge tutto il senso della giocosa aspirazione “rivoluzionaria” del contenitore-opera-d’arte e dell’arte contenuta che, volendosi determinare come alternativo – si direbbe in maniera pop se Banham paragona l’edificio allo Yellow Submarine – ai dispositivi istituzionali di produzione e consumo della cultura, di fatto ne conferma il potere facendolo implodere e fluire nei suoi circuiti. Antimonumentale, Per Baudrillard esso proclama con esuberanza che il nostro tempo non sarà più quello della durata, ma quello del ciclo accelerato, del riciclaggio, del transito, del circuito, di idee, informazioni, eventi, che in ciò stesso perdono ogni senso creativo e rivoluzionario. Del resto il Beaubourg continua ad essere un museo e, in quanto tale, nasconde il suo senso di inceneritore culturale, mentre è la carcassa-Beauborg a proclamarlo! Rispetto a quanto manifesta l’esterno, l’uso, in definitiva tradizionale, dell’interno è un fallimento, ma a guardar bene, ancora secondo Baudrillard, non vi è contraddizione tra la «carcassa» esterna e la disponibilità interna, essendo il Beabourg una scatola di «trasmutazione della cultura tradizionale del senso, nell’ordine aleatorio dei segni, in un’ordine dei simulacri (il terzo) del tutto omogeneo a quello dei flussi e dei tubi della facciata. E le masse sono invitate qui proprio per essere innalzate a questo ordine demiurgico – mentre il pretesto è quello di acculturarle al senso e alla profondità». Per questo, altro che esito e luogo di creatività, «Beaubourg è un monumento alla dissuasione culturale. Dietro uno scenario da museo, che serve solo a salvare la finzione umanistica della cultura, vi si compie, in realtà, un vero e proprio lavoro di morte della cultura; e le masse sono gioiosamente invitate a un vero e proprio lavoro di lutto culturale», nel senso che proprio il loro afflusso le rende esecutrici di una tale morte, sì che, ironicamente, Baudrillard finisce per augurarsi che, essendo il lato debole dell’edificio la capacità di sostegno delle grandi folle per cui pure è stato costruito, una vera opera antidissuasiva, creativa – ah fosse stato nell’intenzione degli autori – sarebbe da parte dei visitatori entrare in tanti da far crollare ogni cosa, o, anche, abbandonarsi, nel senso stesso voluto dall’edificio, alla appropriazione vera dei suoi dispositivi artistici, un bullone, un tubo, un filo, tanto da determinarne la rovina27. Al funerale della cultura, della profondità e del senso, o anche della dissuasione creativa, messo in scena nel e dal Beaubourg, nel suo spazio vuoto e dalla sua traduzione della costruzione materiale in eterei flussi e colorate linee di forza, fa eco la desertica iperrealtà americana, la distesa funebre che è la maggiore metropoli, Los Angeles, con la fascinosa attrazione del suo non senso. Anche per Baudrillard, come per Banham, a Los Angeles si giunge da Londra, ma è il volo stesso che passa per l’astrazione stratosferica del polo, il giorno e la notte divisi dallo spazio reso tempo, a rendere la deterritorializzazione, la sideralità, della California e del suo maggiore agglomerato di vita, il taglio, quindi, e non la continuità tra le due città. Tutti i sensi, i desideri, le attese, le utopie, i sogni, europei, infatti in America si sono compiuti oltre la progettualità che caratterizza il vecchio continente, e quindi in una realtà che si dà immediatamente a sé, una iperrealtà, che è infine una sorta di ibernazione dei valori europei e l’aprirsi del piacere altro dell’insensato. Tutte le «ecologie» di Banham sono presenti naturalmente nel viaggio di Baudrillard, ma questi non vi scopre alcuna gioiosa inventività, quanto un atteggiamento trasognato emergente dalla fine dell’orgia, inventiva, sessuale, mobilitativa. Sulle colline profumate di Santa Barbara le ville, che hanno a disposizione ogni cosa, fiori, animali, stereotipi, sesso, hanno tutte l’aria di funeral homes. Il corpo come la mente sono oggetto di una narcisistica solitudine, il corpo coltivato non per essere sede di piacere, la mente riflessa sullo schermo del pc. Sulle freeways la mobilità non è rivolta alla espulsione come nelle autostrade europee, quanto alla integrazione, si direbbe ad una stanzialità, quella delle mobil-home che sono le automobili in perenne movimento, giorno e notte lungo i flussi di traffico. Gli stessi intrecci delle freeways non snaturano il paesaggio, ma lo articolano, ritrovando quella libertà di circolazione propria al deserto di cui Los Angeles non è che un frammento abitato. La città ha preceduto il suo sistema autostradale ma è come se fosse venuta fuori intorno alla sua rete di arterie, così come la realtà americana ha preceduto lo schermo cinematografico ma è come se gli angeleni si siano tutti adeguati ad una immensa fiction, tanto che a Los Angeles il vero cinema non è ad Hollywood, morta distesa di studios pieni di impolverate scene, ma è nella sua stessa vita. Anche Baudrillard si sofferma nel Campus di Santa Cruz, dove Banham insegna, e tuttavia le belle architetture che pure individua non sembrano contribuire a creare l’osmosi quartieremetropoli che questi vi riconosce, per disegnare un territorio che invece è simile al «Triangolo delle Bermuda: tutto vi sparisce, assorbito, inghiottito. Decentramento totale, comunità totale. Dopo la città ideale, la nicchia ideale». Santa Cruz è la summa di tutte le bellezze, naturali e artificiali, incarnando la convivialità del futuro, ed è la libertà protetta dal comfort vegetale e dal privilegio universitario a determinare una attrazione verso il suo offrire protezione, sì che la stessa libertà diviene prigioniera di sé, come è nel racconto di fantascienza, forse di Scheer27
J. Baudrillard, L’effetto Beaubourg, in Simulacri e impostura, trad. it. di P. Lalli, Cappelli, Bologna 1980
bart, che narra di alcuni privilegiati di lusso i quali si risvegliano al mattino circondati da una muraglia di vetro venuta fuori nella notte sì da poter vedere dall’interno del loro lusso il mondo esterno da cui sono tagliati fuori e che ridiventa l’universo ideale, essendo destinati a morire come pesci rossi nel loro acquario28. Su un punto Banham e Baudrillard sembrano in accordo: Los Angeles è il luogo dell’assenza di una architettura «angosciata» d’essere tale! Ma mentre per lo storico inglese la quieta piattezza della città, oltre l’anonimato, è il risultato di una creatività eccessiva che offra in essa gli elementi della distinzione i quali, come frammenti differenziati, compongono il suo magico caleidoscopio in cui i colori sono sempre diversi e sempre simili, per il filosofo è la stessa assenza di vocazioni estetiche ad essere bella, rendendo la città calda e intima. Alla seduzione superlativa avvertita da Banham in Los Angeles, fa riscontro per Baudrillard il fascino cui apre l’eccessivo essere in atto in lei di ogni sogno, il fascino cioè come fac-simile, falso, che è il limite estremo e il riverso, nel suo puro gioco di segni fasulli, della se-duzione ancora illusa da un possibile autentico sé. Il fascino della dispersione orizzontale del deserto che è la stessa città, senza alcuna profondità, né di grattacieli né di underground, neppure nell’oceano, dove si affaccia Long Beach a Santa Monica, dove Los angeles finisce in spiazzi balneari abbandonati, di periferia, dove si conclude l’Occidente, in una riva insignificante e nebbiosa, che possiede la stessa indolenza del deserto. Ed a Santa Monica, alla fine dell’Occidente, O’ Gehry costruisce, o meglio, decostruisce la propria abitazione «coi resti esplosi, perforati e, potremmo quasi dire “destrutturati” di un cottage suburbano molto convenzionale a due piani, di epoca imprecisata e senza grandi ambizioni stilistiche», sì che, mediante l’eliminazione di tompagni e parti di solaio, tale da aprire il volume verso l’esterno e l’introduzione di maglie di ferro, lamiere ondulate e materiali solitamente non utilizzati nell’edilizia residenziale, il risultato appaia del tutto «inatteso e imprevedibile, come un “poema riscoperto”, o come un luogo di scavi archeologici», creando, rispetto alla concezione comune della casa come “rifugio” «uno shock profondo nel pubblico, un’intima soddisfazione e un grande imbarazzo». La casa secondo Banham corrisponde alla filosofia metropolitana angelena esposta nella citata frase di Lee Shippey, risultato e dispositivo di azione della fantasia propria alla vita della metropoli che le merita il riconoscimento di «uno dei monumenti principali delle attuali tendenze post moderniste in tutto il mondo, come una costruzione spettacolare che sovverte il linguaggio vernacolare» ma che interpreta lo spirito metropolitano incarnato in Los Angeles e ormai proprio al mondo, non essendo «un monumento pubblico, ma solo una casa privata…che ha inaugurato… una nuova stagione artistica» per la stessa architettura29. E’ probabile che sull’interpretazione del dispositivo compositivo di casa Gehry, si possa ritenere Baudrillard concorde con Banham: una costruzione fatta di frammenti, vecchi e nuovi, parti per così dire ‘riciclate’ che si inseriscono con luccicante fantasia nel panorama banalmente piatto di Los Angeles, contribuendo a riconfermare l’antimonumentalità della città. E tuttavia, proprio il valore artistico della casa riconosciuto da Banham sarebbe, probabilmente, per il filosofo francese, luogo di un disvalore, nel senso che, come nel Beaubourg, la «fantasia» costruttiva messa in scena non induce né ad una “profondita” del senso, né alla comprensione del gioco superficiale tra i segni che caratterizza la post modernità, determinando semmai proprio una dissuasione alla creatività, bastando ai visitatori che ‘turisticamente’ visitano in processione da miracolo l’edificio di Gehry, ogni suo edificio, il poter dire «I did it!», «ecco, anche io l’ho fatto: l’ho visto», in un autistico appagamento che sostituisce l’estasi, la commozione, l’invito all’interrogazione, propri all’arte che fu. Frammento in una città fatta di frammenti, manifestazione del frammentismo che caratterizza l’espansione planetaria urbana, è indubbio che la casa di Gehry, tutta la sua architettura, e con essa anche quella dei cosiddetti “decostruttivisti”, interpreti il nostro tempo, privo di linearistici fini o di un felice disorientamento. Gehry è sicuramente il più inventivo tra i “decostruttivisti”, rispetto al più colto Eisenmann ed al più cinico Koolhaas, e si direbbe che la sua architettura abbia assunto i dispositivi propri del cinema di Hollywood – sicuramente l’aver affidato al regista Pollack l’illustrazione del suo metodo compositivo è un significativo indizio – con l’esecuzione di pezzi “girati” in tempi e modi diversi, in vista di una narrazione, ma suscettibili di montaggi anche differenti. Del resto, se vale l’assimilazione tra Los Angeles e la Roma piranesiana, proprio per Piranesi Eisenstein ha mostrato la congruità delle tavole incise con il montaggio cinematografico, in un parallelo che, proposto ancora in «Opposition», viene ripreso da Tafuri per considerare l’angosciosa condanna dell’architettura paventata nel suo dispositivo combinatorio30. Una fiction architecture, quella di Gerhy allora? Un puro gioco di segni di celluloide, senza spessore, con un tempo racchiuso in sé? Certamente vi è in essa l’inclinazione al gioco ed alla artisticizzazione pura, priva persino dell’uso, tant’è che in definitiva un museo ben potrebbe avere la stessa forma che un inceneritore. Del resto quale l’uso dell’enorme binocolo costruito con Oldemburg a Venice o del grande pesce di Barcellona? Il giocoso av28
Nel testo di Jean Baudrillard, L’America, trad. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1987, molte pagine si dedicano a Los Angeles R. Banham, op. cit. p. 232. 30 In «Opposition» n. 11, 1977, compaiono sia il saggio di Sergej Eisenstein, Piranesi or the Fluidità of Forms, che quello di Manfredo Tafuri, Dialectics of the Avant-Garde, già sviluppato in Progetto e utopia, Laterza, Bari 1973 29
vento, forse accettabile nella sua straniata parusia, dell’architettura come gesto artistico in Gehry, appare però del tutto indisponente in Koolhaas, per il quale, come è noto, alla maniera di Warhol, l’arte, e quindi la costruzionearte, non può non avere complici amplessi con il consumo, il loisir superficiale del possesso dell’oggetto di moda, più che il piacere. E invero, se il newdada di Warhol agisce con consapevolezza sui dispositivi di senso dell’arte tentando di giocare ed infrangere, nello svisamento tra unicità e riproducibilità di consumo dell’opera, il sistema di circolazione del valore artistico, in modo da auspicarne lo scacco e restituire al gesto dell’artista il senso originario della ricreatività della cosa, non sembra che gli architetti, e particolarmente Koolhaas, ponendo monoliti estraniati – Baudrillard riconosce nel Beaubourg il nero monolito di 2001 «convenzione insensata di tutti i contenuti, che qui si sono materialmente assorbiti e annientati» – nel contesto urbano si rendano conto che il loro atto non apre, come è nell’arte, interrogazioni, non invita a riflettere sull’abitare, come dovrebbe essere per un’opera d’architettura, ma si adegua semplicemente ad un unico senso profondo, quello economico-speculativo: cinicamente e consapevolmente gran parte delle archistar, nella teorizzazione di Koolhaas circa la fine degli eroismi delle avanguardie e il necessario adeguarsi alle logiche del mercato, pongono oggetti eccentrici in suoli di scarso valore per incontrare di fatto le vocazioni speculative che, in ragione della curiosità suscitata, il battage pubblicitario, le operazioni politiche e di marketing, si indirizzano nelle aree del loro intervento. Nel discorso di premiazione per il Leone d’Oro della Biennale di Venezia a Frank Gehry (ancora un evento prossimo alla fiction) Massimo Cacciari ha esaltato la continuità tra l’architetto e Venezia, il comune antipalladianesimo, nella condivisa antitesi alle “regole dell’ordine” in favore di un “ordine del caos”, giocando anche sulla simbologia delle sculture-frammento proposte da Gehry (un parallelo tra Los Angeles e Venezia che conferma a tali città il loro ‘essere per la fine’). E proprio al Cacciari si deve la lucida analisi sul senso del frammento con riferimento al motto ripreso da Mies ad Aby Warburg e posto nel proprio necrologio, «God is in the details». La frase, attribuibile a Flaubert nella versione in lingua francese, «Le bon Dieu est dans le détail», assunta nella lingua tedesca da Aby Warburg e dalla sua scuola, «Der liebe Gott steckt im Detail»31, è rintracciabile esplicitamente nell’intestazione del ciclo di conferenze che questi tiene, nel 1925 presso l’Università di Amburgo, all’uscita della clinica psichiatrica di Kreuzlinger, su «Il significato dell’antichità per il mutamento stilistico dell’arte italiana», e circolerà nell’intera Europa ad indicare non la possibile perfezione divina del «dettaglio», quanto il suo essere elemento intermedio, «intervallo», nodo, Zwischeraum, tra malattia e salute, reazione istintiva e ragione, inconscio e coscienza, regressione e razionalizzazione o, anche, tradizione e vita attiva, essere e divenire (nulla), se si vuole, in Mies, nesso costruttivo per conchiudere logicamente, strutturalmente, ed insieme aprire, forma e spazio32. Infatti, paradossalmente, l’importanza offerta da Warburg al dettaglio, ai singoli elementi presenti nelle immagini etnografiche ed artistiche prodotte storicamente, è tale che, intenzionato ad offrire un affresco complessivo ma dinamico dei motivi che percorrono l’arte del quattrocento fiorentino, egli coglie con la sua opera una possibile sintesi solo mantenendo in vita il gioco dei rimandi del senso che quelle stesse immagini generano, sì da renderla, secondo il riconoscimento della sua più stretta collaboratrice, Gertrud Bing, come un grande dettaglio, un «frammento» di frammenti, compiuto eppure aperto a diverse interpretazioni33. In Warburg, secondo la testimonianza di Saxl34, lo studio dei dettagli, quindi, non vuole condurre affatto ad una perfetta, divina, conclusa interpretazione dell’arte e delle sue immagini nella storia, quanto, come rivela l’interesse per l’antropologia, per la correlazione tra opere artistiche ed iconografia pagana, al rilevamento degli «archetipi», ai nuclei dei rinvii simbolici in esse presenti i quali, sebbene composti in una circolare decodificazione, mantengono in vita la compresenza di mistero, «intangibile», inconscio, ed intelligibilità, controllo cosciente, se si vuole il loro diviso mante31 Gershom Scholem dice il motto, pure di Benjamin, ad individuarne l’attrazione per il minuscolo, in Walter Benjamin e il suo angelo, trad. it. di M. T. Mandatari, Adelphi, Milano 1978, p. 78 ascrivibile a Aby Warburg, nella conferma di Ernst H. Gombrich, Aby Warburg, trad. it. di A Dal Lago e P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983, p. 19, 199 e 243, che lo ritiene ripreso a Flaubert. 32 La relazione tra metodo di studio e malattia è analizzata da G. Agamben in Aby Warburg e la scienza senza nome in «Aut Aut» cit. Medico e paziente, L. Binswinger A. Warburg, scrivono poi La guarigione infinita, a cura di D. Stimino, Neri Pozza, Vicenza 2005. La frase di Warburg è nota in Europa come prova l’interesse di Benedetto Croce che, nel 1948, in una conferenza presso l’Istituto di Studi Storici di Napoli, la riporta parzialmente. La vicenda crociana ha interessato molti studiosi, da Ginzburg a Settis ed è stata ricostruito da Rosario V. Cristaldi, Gott ist im Detail, in «Rivista di Studi Crociani» XVII (1980) p. 202 e segg., secondo il quale il motto sintetizza un metodo appreso attraverso Usener, Fontane, Spinoza. Cfr anche G. Mastroianni, Il buon Dio di Aby Warburg, in «Belfagor», n. 55, 2000, pp. 413-442 e Croce e Warburg in «Giornale critico della filosofia italiana» LXXXII-IV, 2003 p.355 e segg. Il motto è fatto apporre da Ernst Cassirer sulla tomba di Warburg morto nel 1929. 33 L’opera, con immagini riprese a storie e geografie diverse, cui collaborano Fritz Saxl e Gertrud Bing, è Mnemosyne, ed. italiana a cura di M. Ghelardi, Aragno, Marene 2002. Il Gombrich, op. cit. p. 240 e segg. riferisce della poca fiducia di Warburg nel linguaggio verbale, non consono a rendere la ricchezza dei sensi connessa al percorso della memoria dei motivi antichi nell’arte. Di qui il ricorso alle immagini, nel vario rinvio dell’una all’altra cui riferire il discorso. Emerge come la singola immagine, il singolo dettaglio in sé concluso, si apra a diverse combinazioni e sequenze associative di motivi stilistici e sensi, persino opposti, secondo la polarità, razionale-passionale, della Pathosformel di cui sono espressione, e come l’opera, aperta ad altre annessioni, sia a sua volta frammento. 34 F. Saxl, La visita di Warburg nel Nuovo Messico, in «Aut Aut» n. 199-200 Gennaio-Aprile 1984 è il testo sul viaggio di Warburg in America riassunto in A. Warburg, Il rituale del serpente, trad. it. di G. Carchia e F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1998.
nersi nel mezzo di ragione e pulsione. Il buon Dio abita nei dettagli non rinvia perciò ad alcuna armonia divina cui la parte si adegua, ma vuole indicare come sia il particolare, il frammento, nel suo essere denso di vita in quanto orientato a disporre diversi possibili intrecci storici e simbolici, ad essere in sé divino, foriero di sensi, ed anche, se si intende nel motto l’eco dell’originario proverbio tedesco «Der Teufel steckt in Detail», il diavolo si annida nel dettaglio, diabolico, scisso, duale, plurale35, proprio al modo dei nodi costruttivi di Mies, del tutto logici, e pure rivolti ad una molteplice componibilità, nuovi nella loro tecnologia, e pure densi della memoria delle tessiture costruttive della storia, fortemente materici ed insieme disposti alla rarefazione della forma. Il Cacciari dunque, a partire dalla frase warburgiana-miesiana, mostra come alla ‘parte’, quale elemento dell’intero, hόlos, intero essa stessa, onde essere partecipe del Tutto, la cultura contemporanea tra Hegel e Nietzsche, sino a Dilthey, Simmel, Cassirer e Warburg, abbia conferito sempre più un senso autonomo, mandando il Tutto in frantumi e sostituendo alla sua antica signoria «il pόlemos delle parti, finalmente “integre” in sé, che è il processo storico formato da esse, anche se per esse imprevedibili». Oltre tale significato che vuole il «buon Dio» manifestarsi nella parzialità della parte, per Cacciari, proprio nella cultura artistica contemporanea, attraverso lo stesso Nietzsche, si presenta una diversa interpretazione della frase, secondo cui è nel frantumare anche l’integrità della parte non più connessa al tutto e rifiutando ad essa ogni significato, che, nei suoi lacerti, si lascia manifestare, miracolosamente, un indicibile strappato dio. «Il buon Dio sta nel particolare» è allora un motto di spirito, che indica come il divino si dia nella casualità del frammento, nel puro lapsus che precipita dall’orizzonte del senso, nel nihilum, il grano di fava da cui niente si ricava, sì che torni l’idea di un Uno tuttavia estraneo, sottratto, alla dicibilità, silenzioso: «l’ultimo dettaglio del particolare è abitato dal Dio ignoto, dal perfettamente Altro – l’estremo lembo della “concretezza” del particolare ci è altrettanto estraneo del Tutto»36. Se si considera come Warburg inseguendo i frammenti etnografici ed artistici alla ricerca dei segni elementari connotati di senso universale abbia scoperto come non si esca da essi, dal loro essere divisi, tanto da disporre la sua opera più imponente in un puzzle diversamente compibile di frantumati dettagli, se si legge in Mies come l’allestimento di composti particolari che si danno in una intoccabile integrità sfugga sempre la forma la quale, apparentemente raggiunta, evolve in una rarefazione facendosi essa stessa niente, un «meno», da proseguire all’infinito, in un perturbante ripetersi, appare possibile rilevare in entrambi il significato del motto mostrato da Cacciari, dove il dettaglio, proprio conchiudendosi in sé, nelle tavole warburghiane o nelle definite architetture miesiane, non esaltando cioè il suo frammentismo onde porsi esso stesso divino, si fa specchio di un dio indicibile, forse per sempre fuggito. A meno di non considerare il gioco dei frammenti proprio all’architettura “decostruttivista” di Gehry, Libeskind, Eisenmann o l’elevazione dei monolitici brandelli urbani di Koolhaas e Hadid, in continuità con il silenzio miesiano, modo “logico-philosophicus” attraverso cui mostrare nel dicibile il non-detto, l’in-dicibile, il nascosto del dio celato, emerge, a seguire le considerazioni del Cacciari, come l’attuale architettura artisticizzata, fissata dal gesto inventivo, estemporaneo, possa essere interpretata, proprio per il suo farsi “parte” densa di sé, segno autoconcluso, mimetico della frantumata dimensione metropolitana sebbene evidenziato sul confuso sfondo oltreurbano, luogo di rinvii di senso falsamente creativi nella accettata logica della dépense consumistica del proprio evenire, più che pausa critica nell’uniforme/differente universo metropolitano, immagine omologata alla logica della metropoli, ai suoi disorientamenti, alla fluidità della sua conformazione ed alla relatività dei suoi valori, in definitiva effetto del nichilismo contemporaneo che rende ogni parte, ogni dettaglio, figura del Nulla, icona di un dio affatto nascosto, un Dioniso lacerato che ci vive accanto, distolto oltretutto da ogni ebbrezza e funzionalizzato al consumo di massa. E tuttavia Banham tenta di mettere in relazione Gehry e Mies attraverso Doesburg, a proposito della casa-studio per Lou Danzinger in Melrose Avenue, ricordando come il suo puro volume con le pareti sfalsate, per ammissione del medesimo progettista, sia tributario dei modi compositivi dell’architetto olandese, sebbene, oltre le possibili assonanze, appare del tutto palese che l’intendere il progetto al «superlativo» non possa essere assimilato alla rinuncia miesiana quanto al motto di Venturi: «il meno è noia». Certo, anche in Mies vi è, malgrado le sue composte architetture, avversione alla forma, a «progettare la forma come télos», e tuttavia i diversi dettagli costruttivi, a propria volta frammenti, “parti”, non inclinano neppure all’informe connesso ad una loro libera disponibilità, per l’architetto tedesco ancora luogo di un formalismo, onde essere assorti nodi di attesa, grani di un ascolto da cui trarre materiali, contesto, usi, all’evento della disposizione finale, compiuta e pure aperta, densamente presente ed insieme eterea, rivolta ad un perduto dio. Ed è la dimensione dell’attesa, dell’ascolto di un senso posto nelle cose e tuttavia oltre il loro darsi, che, rivelando in Mies il platonismo, lo rende estraneo ad ogni intenzione d’autore, ogni libera manifestazione di artista, sia questo mosso da una irrazionale mania, estremo esito della “cultura estetica” romantica, del «suo vagabondare senza verità eretto a nuova dimora», della «sua Ertfreheit tra35 Alessandro Dal Lago, in L’arcaico e il suo doppio, in «Aut Aut» cit., ricostruisce l’antihegelismo di Warburg con i riferimenti a Ludwig Klages e rileva come questi non voglia affatto ricondurre il simbolico dell’arte ad una spiegazione razionale, secondo un percorso dal simbolico alla ragione, quanto mostrare, attraverso Mnemosyne, come nel dettaglio, mistero e ragione siano compresenti. 36 M. Cacciari, I frantumi del tutto, in «Casabella» n. 684/685, Dic. 2000-Gen. 2001, pp. 5-7.
sformata in nuova Legge decretante la necessaria fine di ogni Valore», così come sembra essere per gli architetti pop-decostruttivi, sia esso rivolto al perfetto adeguarsi nella formalizzazione tecnico-economica, razionale, dei contemporanei rapporti sociali, tale quindi da non aprire alla unbedingte Wahraftgkeit, alla incondizionata verità delle cose, cui il soggetto tende ad accedere, e tradire di fatto l’abitare, Das Wesen des Bauens37. Comune a Mies e Gehry è comunque la presenza straniata delle proprie architetture sullo sfondo urbano, ma, mentre nel primo il gioco spiazzante dei particolari e delle forme, uguali ed estranei insieme a se stessi, come non sa intendere Venturi, aspira, oltre ogni finalismo, estetico, funzionale, sociale, ad offrire senso al molteplice, al frammentario, di impulsi e ragioni, proprio alla metropoli, offrire senso al “contesto”, nel secondo esso con le sue frammentate volumetrie all’inverso tende a rispecchiare il contesto annullandolo in sé, ad assorbirlo attraverso le proprie composizioni, stegati filtri, abracadabra per incantesimi trasformativi mossi da un demiurgo che si è fatto mago. Analogamente, natura differente ha il “luccichio” dell’architettura cui entrambi si dedicano, dal momento che se per Mies il «riflesso» si inscrive in un concetto di bellezza che da Agostino è Ordnung, modo di stare dell’opera al servizio di ciò che è fisso nel suo movimentum, oltre il novum e le mode, sì che il balenio luminoso dei vetri mostri «der Glanz des Wahren» lo splendere di ciò che dura38, per Gehry l’abbagliante luminosità dei rivestimenti in titanio sembra voler offrire preziosità all’effimero, quello del transeunte andirivieni dei visitatori calamitati dai sofisticati bagliori o della stessa architettura la cui conformazione appare del tutto aleatoria, tale da richiedere una sfavillante brillantezza quale maschera di un agognato eterno. E l’urbano? E’ indubbio che la città sia topos proprio all’Occidente, e, come è per tutta la cultura occidentale che si è imposta sull’intero globo compiendo il suo progetto di dominio iniziato già con l’essere parmenideo, anche essa si è compiuta nella urbanizzazione dell’intero pianeta. L’urbano ha travolto deserti, montagne, villaggi, foreste, tutto, e anche il luogo più intoccato non può non essere riferito ai convenzionali modi dell’urbs, sebbene ormai del tutto scomposti e perduti. Infatti: dove tutto è urbano niente è urbano. E così è per la metropoli globale che realizza la città negandola, o nei termini di Nancy, ponendola in una inarrivabile lontananza. Ma è indubbio che non c’è architettura, urbana o antiurbana, casa, baracca, tenda, caverna, giaciglio per homless che non sia interna ad un sistema abitativo in cui riconoscersi. Vale a dire che sia il cosiddetto “progetto urbano” sia l’architettura “decostruttiva” non sono che varianti di un unico disegno complessivo del nostro abitare dove non vale né richiamare al primato, nostalgicamente, le antiche misure della città, né ritenere maggiormente valido nella costruzione del nostro ambiente il riflettere l’infranto metropolitano in ulteriori infrazioni, essendo entrambi gli atteggiamenti modi del nichilismo se «figurato è il mondo in breve carta…e discoprendo, solo il nulla s’accresce»39. Semmai, così come sembra accettare il medesimo Gregotti, il quale invoca una architettura del realismo, le architetture che assumono realisticamente il mondo attuale appaiono essere proprio quelle decostruttiviste, con le loro liquide forme, non solo per l’uso spinto del mezzo compositivo del nostro tempo, il computer, quanto per il «rispecchiamento», nel proprio frammentismo come nella propria fluidità o nella propria singolarità, sia della realtà metropolitana cui si offrono, sia del relativismo odierno soggetto alle mobili logiche del mercato40. E del resto non è forse la pop-art traduzione americana del realismo europeo? Se secondo Gregotti nel progettare bisogna porsi di fronte «i materiali disponibili nelle condizioni date che il progetto deve scegliere e organizzare, ma che solo il giudizio intorno a cosa sia struttura della realtà è in grado di selezionare in funzione della costruzione dell’opera»41, non è questo proprio l’atteggiamento dei cosiddetti decostruttivisti? E all’inverso, i «cinque casi» che egli mostra quali esempi di realismo critico non manifestano forse, alla maniera delle architetture decostruttiviste tutto il loro essere estraniati frammenti nelle realtà territoriali in cui sorgono, come è, tra gli altri, per la città di Pujiang progettata nel territorio di Shanghai quale nuovo sconcertato Zen in una ingigantita Palermo? In definitiva, oltre l’apparenza esteriore, architettura “urbana” ed architettura “decostruttiva” sono analoghe nel loro eleggere il «corpo» costruttivo, materiale, ovvero, oltre l’analisi di Frampton, la tettonica, a fondamento dell’architettura, essendo oltretutto, anche nel metodo compositivo, progettisti urbani e decostruttivisti, tutti rimescolatori di modi e forme del passato, se si vuole, in una accezione non volgare come quella di Portoghesi e Jencks, “postmoderni” esploratori della verwindung. D’altra parte, il corpo è il fronte ultimo del senso, sia per il Nancy caro a Gregotti che per il Derrida cui si ispirano i decostruttivisti (ma lo stesso Nancy si richiama esplicitamente a Levinas e Derrida) per cui può dirsi che gli strali gregottiani «contro la fine dell’architettura», contro la 37
M. Cacciari, Res aedificatoria. Il classico di Mies van der Rohe, op. cit. p. 3. M. Cacciari, Res aedificatoria, op. cit. p. 5, ha rilevato come il produrre di Mies non sia Zwecksetzung quanto Sinngebung, un offrire senso al “contesto”, la città moderna con il suo molteplice da cui pure si sottrae appartato, come mostra il Seagram. 39 I versi sono di Giacomo Leopardi in Ad Angelo Mai, in Canti, Mondadori, Milano 1978, ma sono ripresi in riferimento a M. Cacciari, Magis Amicus Leopardi, Saletta dell’Uva, Caserta 2008. 40 Vittorio Gregotti in L’architettura del realismo critico, Laterza, Bari 2004, a p. 13 sottolinea come tutta l’arte odierna, e quindi l’architettura artisticizzata sia «incollata» alla realtà nel senso più zadanovista del termine, mentre in Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008, a p. 93 utilizza, proprio per l’architettura di maggiore successo mediatico il termine lucaksiano di «rispecchiamento», mostrando come questa rappresenti la condizione della globalizzazione. 41 V. Gregotti, L’architettura del realismo critico, cit. p. 112. 38
«liquefazione» delle differenze tra i territori delle arti, i loro strumenti specifici e l’identità della disciplina, appuntandosi su architetture ed architetti rei di adeguarsi al mercato, di svolgere su se stessi operazioni di marketing, non sembrano centrare il bersaglio se, anche l’architettura supposta «critica», come mostra La Cecla, partecipa in definitiva del Barnum mondiale, multilinguistico, della costruzione come merce42. Né potrebbe il rilievo di Gregotti circa la liquefazione e la sparizione dell’architettura essere attribuito, seguendo il filo delle analisi di Baudrillard e Perniola, che oltretutto egli nei suoi testi mai cita, alla rarefazione delle architetture pure liquide del decostruttivismo. Naturalmente è indubbio che, nel colloquio con Jean Nouvel, Baudrillard abbia mostrato come l’architettura, conclusa ogni aspirazione alla monumentalità, non possa non rendere la simulatività della stessa realtà attuale, così come accade nell’edificio della fondazione Cartier, proporsi cioè come «oggetto singolare» estraneo alla riproducibilità e posto in un punto di fuga, mediano tra il suo essere concreto e lo sfuggire dal luogo e da se stesso. Allo stesso modo Mario Perniola, nel leggere le architetture di Libeskind e della Hadid omogenee alla plasticizzazione dell’intero paesaggio, non più stabile oggetto di fronte alla perduta stabilità del soggetto, ne ha descritto il loro abolire ogni «distinzione tra oggetto tecnico e corpo vivente, tra natura inorganica e conglomerato urbano», essendo l’intero pianeta, montagne, città, mari, come ricoperto da una veste che fa di ciascun luogo una piega, del tutto provvisoria, priva di fondazione, la cui conformazione è destinata a disciogliersi, a perire e a rinascere, tale cioè da instaurare il rapporto tra uomo e cose, uomo e mondo, e, quindi, tra uomo e architettura, su una sessualità neutra, una dislocazione del sentire che induce il visitatore ad essere egli stesso parte dell’edificio, corpo vuoto, mancante, vampirizzato, che sente in uno con l’edificio stesso, si direbbe macchina, cosa senziente in «un modo di sentire che s’impone a lui con assolutezza, che egli non può né sfuggire, né dominare, né sollecitare»43. E tuttavia se il giudizio di Gregotti sulla liquefazione dell’architettura determinata dal decostruttivismo sembra incontrare tali analisi, in realtà il processo di derealizzazione, di trasmutazione del reale nel simbolico e nel senziente, è attribuito, particolarmente da Baudrillard, all’intero pianeta ed alla vita che vi si svolge, sì che, in altre forme, anche quanto proclama una propria vocazione al reale più reale del reale, iperreale appunto, fatalmente è attratto nel circolo dello scambio simbolico, e quindi, della fantasmizzazione, o seguendo Virilio, della sparizione44. Anche a voler seguire tali letture, secondo cui ogni relazione vira nella sessualità e sensitività neutra del simbolico, dove ogni corpo è sottratto a sé, non è elisa in esse la possibilità, secondo quanto enuncia il medesimo Perniola, di pervenire ad un sentire per così dire autentico, non alienato, surdeterminato da un occulto sistema autoreferente, oltre l’estremo punto di rottura, la morte di cui dice Baudrillard, si direbbe un sentire il sentire. E forse, il modo, anche per l’architettura, di manifestare la sua realtà, non quella postulata da Gregotti, quanto quella che si manifesta nel viraggio nel simbolico, in cui pure si rivela il suo tratto originario, fondativo e s-fondativo insieme, è nel riconoscersi come arte, non liberandosi dall’arte, ma agendo esplicitamente la propria artisticizzazione. Ed a proposito del senso dell’arte, e, quindi della stessa artisticizzazione dell’architettura, non può non ricorrersi al filosofo, il quale lungi dal fondare un’estetica45, ha più di altri riflettuto sull’abitare e sul costruire, Martin Heidegger. Tra i suoi saggi, forse, quello in cui meglio si precisa la riflessione sull’arte è tratto dalla conferenza su L’origine dell’opera d’arte, dove l’arte è analizzata in relazione all’attività linguistica dell’uomo, non solo quella verbale, ma anche quella connessa ad altri modi di comunicare e significare. Per Heidegger il linguaggio è l’ambito del «colloquio» che siamo «dal tempo in cui “vi è tempo”», in cui «gli dei vengono alla parola e un mondo appare», essendo la poesia che l’adopera «istituzione in una parola dell’essere», nel senso che essa non trae dalle cose l’essenza, non scopre il fondamento del mondo nel suo abisso, non deriva essere ed essenza da ciò che è presente, ma li crea, li dona, appunto li istituisce. Essendo la sua materia il linguaggio, qui, non solo nella chiacchiera, quanto nello stesso poetare, vige però il pericolo di rendere l’essere, mediante le immagini poetiche, solo un ente. Poesia autentica è quindi quella che manifesta «il linguaggio originario di un popolo», il sopravvenire stesso del linguaggio da cui si determinerà il procedere storico, quella che possiede la fragranza e l’innocenza dei primi nomi, quella che nel linguaggio si distanzia dal proprio stesso dire per essere pura apertura dell’essere in cui gli enti appaiono verso la nominazione, quella che si accorda al silenzio del principio, Grundstimmung. Luogo dell’Aperto, in cui si mostra l’insorgenza dei nomi, la poesia quindi non è interpretabile per il suo contenuto, quasi fosse l’acqua del bicchiere o il frutto del ramo, né per il sentimento e le emozioni che promuove o quale sostegno del concetto, di una filosofia, ponendosi, nell’accogliere il senza nome, quale fenditura 42
L’ipotesi è condotta da Franco La Cecla in Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008. M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994, in particolare pp. 105-116. 44 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 1979 e P. Virilio, Estetica della sparizione, trad. it. di G. Principe, Liguori, Napoli 1992. 45 Sull’analisi dell’arte in Heidegger, non una estetica, dal momento che, se nell’arte si rivela nascondendosi l’essere, o insieme essere e non essere, una disciplina estetica ridurrebbe, come la metafisica, l’essere presente nell’opera a mero motivo di rappresentazione o di affettività, cfr. S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Bari, 1988, p. 159-163 o anche M. Perniola, L’estetica del novecento, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 161-168. 43
del linguaggio, commessura, entro cui il movimento oscillante delle parole, Schwingungsgefüge, tra contenuti, ritmi, immagini, rende l’altra oscillazione tra senso e non senso intrinseca al primo schiudersi del linguaggio. Per questo Heidegger preferisce al termine Poesie, con cui il senso comune designa il poetare, il termine Dichtung il quale, dal latino dicere-dictare, indica il dettare e, nella derivazione dal greco deiknymi, «il mostrare, il rendere visibile, manifesto qualcosa sul cammino che gli è proprio», essendo il poetico non esclusivo dell’arte quanto proprio all’abitare, all’essere, reso nel dire che sa porsi ed apre al suo ascolto46. Nella sua conferenza Heidegger accenna alla follia di Hölderlin per soffermarsi anche sulla derivazione filosofica del poeta, e se la sua poesia non è da intendere strumento del pensiero, pur richiedendo il pensiero, se il pensare sul poetico può esercitarsi solo alleggerendosi tanto da sciogliersi come la neve su una campana onde non mutarne il suono, a sua volta l’irrazionalità del poeta non si risolve nel libero suono efflorescente di immagini, ponendosi in una lontananza quale «protezione della notte», si direbbe un notturno aprirsi del pensare, del dire. E’ indicativo che la poesia di Hölderlin sia richiamata in sequenza con l’analisi dell’arte di un altro folle, van Gogh, ovvero di un dipinto raffigurante un paio di scarpe contadine dove il filosofo mostra come l’usabilità delle scarpe, il loro essere mezzo, in cui si presenta la totalità del «mondo», quello contadino, la sua «fidatezza» stabile nel costante afflusso della libertà della terra, non si renda nella loro utilizzazione materiale, né nei procedimenti della loro fabbricazione, né in una eventuale loro descrizione, quanto proprio nell’opera del pittore la quale, rivelando l’esser-mezzo del mezzo e quel «mondo» in cui è mezzo, apre al suo originarsi, a ciò che il paio di scarpe è in verità. L’arte, più che con la bellezza, quindi, ha a che fare con la verità, non raffigurata però nella evidenza della realtà, ma messa in opera, agita cioè in un produrre il quale pur su-ponendo un mondo, pur costituendosi in una storicità, lascia balenare, nella cosa, nell’ente che pure l’oggetto d’arte è, l’Aperto che pone ogni storia, l’origine, essa proprio poetica, presso cui si pone. L’arte, la poesia, perciò «non significa escogitazione sbrigliata e arbitraria o abbandono all’irreale della semplice rappresentazione fantastica. Ciò che la Poesia, come progetto illuminante, dispiega nel non-esser-nascosto e progetta nel tratto della figura, è l’Aperto che essa fa sì che si storicizzi, e precisamente in modo tale che l’Aperto, nel seno dell’ente, porti l’ente stesso a risplendere e a risuonare»47. E’ indubbio come la riflessione heideggeriana sulla poesia, sulla differenza tra cosa ed opera, sul fondarsi dell’opera nel mondo per additare l’Aperto, la «lotta» tra Mondo e Terra, invogli i temi di Essere e Tempo, gli assunti sull’utilizzabilità delle cose mondane nell’esistenza quotidiana e il suo aprirsi verso l’apertura dell’aletheia, la lichtung presente nella mondità ed insieme fuori della mondità. Temi che a propria volta inoltrano la metafora naturalistica di bosco e radura verso la lettura dell’arte in cui più si manifesta un utile, l’architettura, quella del tempio la quale, disposta dalla necessità e dall’utilizzabilità, sia dei modi costruttivi che simbolici, si apre, dal suo uso, dal suo esporre un Mondo, al luogo/non luogo, all’apertura, occlusa da quel Mondo che da essa «si ritira», ravvisabile nella Terra, «l’assidua-infaticabile-non-costretta» su cui si fonda ogni Mondo essendone altresì lo s-fondo, il sempre-aperto della s-fondatezza48. Emerge come sia le spericolate e fantasiose avventure formali dei decostruttivisti, sia le antiartistiche ed anonime performances del cosiddetto progetto urbano, non sembra manifestino quella prossimità all’Origine, non metafisica quanto luogo istitutivo del linguaggio e della comunicabilità, di cui parla Heidegger, perdute come sono nei “superficiali”, e si direbbe meccanici, giochi combinatori di forme che, anche quando sono riprese dalla storia, o specialmente quando sono tratte dalle geometrie computerizzate, appaiono fuori del tempo, pezzi di un puro catalogo variamente associate, figure manifeste del nichilismo contemporaneo. E pure, forse, senza voler prendere parte ad una disputa stantia tra tendenze, un merito i cosiddetti decostruttivisti sembrano averlo: quello di aver tentato di ricondurre l’architettura all’arte, sì che, forse, sia possibile, riscoprendo al costruire una autentica intenzione estetica, condurre, dal singolo edificio, la stessa città ad essere, come in passato, opera d’arte49, chissà, “bella”.
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M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Città di Castello 1984 pp. 5660. Sulla relazione del pensiero di Heidegger con i poeti e particolarmente con la poesia di Holderlin che illumina il filosofo sul mondo greco iniziale antecedente l’inizio della cultura occidentale cfr. F. De Alessi, Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg e Sellier, Torino 1991. 47 Ibidem, sul quadro di van Gogh p. 18 e segg. richiamato nei capitoli successivi Opera e verità e Verità e arte. 48 L’analisi sull’architettura attraverso l’ergersi del tempio in M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., p. 27 e segg. è molto nota ed introduce la riflessione sulla «lotta» tra Mondo e Terra che è messa in opera nell’arte di cui scrive Gianni Vattimo in La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, V. Ornamento Monumento, pp. 87-97. 49 Sulla bellezza della città cfr. i lavori di Marco Romano. Qui si fa riferimento a La città come opera d’arte, Einaudi, Torino 2008.
L’ARCHITETTURA NON È UNO SPECCHIO. NOTE SU PETER EISENMAN. Hosea Scelza
Peter Eisenman ama essere considerato come un architetto al di fuori degli schemi. Non imparziale nè neutrale, ma sorprendente, proprio come la sua architettura. Peter Eisenman non è amato da chi non è disposto a mettere in dubbio le proprie convinzioni, perchè il confronto con la sua architettura, comunque la si giudichi, è sempre anche un’occasione per ripensare l’investimento di ognuno nei problemi di architettura. In gioco ci sono i principi e gli elementi essenziali che la individuano. L’architettura di Eisenman è spesso il risultato di operazioni che hanno l’esplicito obiettivo di destabilizzare lo spettatore, sorprendere la sua abitudine alla visione e alla fruizione dello spazio. L’uomo per cui quest’architettura è pensata non è un entità integra, non è il soggetto padrone di se stesso, ma un essere che è inscindibile dalle proprie contraddizioni e finanche dalle proprie fobie. Si direbbe che ogni sua opera sia corredata da una didascalia che pure l’autore si dà cura di cancellare indefinitamente, una didascalia il cui enunciato sarebbe: “L’architettura non è uno specchio”. Se l’architettura potesse non essere più vista come specchio, essa non restituirebbe più l’immagine pietrificata del desiderio dell’uomo di essere intero, perfetto, eterno. Il funzionamento di un’architettura che abbandonasse il paradigma dello specchio desiderante sarebbe quello di una macchina che trasforma chi la vede e la utilizza e che nello stesso tempo, nel corso di questi processi, si trasforma a sua volta. (L’osservazione di un fenomeno trasforma l’osservatore e lo stesso fenomeno osservato). Uomo e architettura non sono due entità distinte e separate che si contrappongono senza comunicazione, ma elementi costituenti di una relazione che si alimenta del loro continuo interscambio. Riconoscere questo aspetto è una condizione indispensabile per entrare in contatto con il lavoro di Peter Eisenman. Tale lavoro suscita da sempre giudizi contrastanti, tanto che sembra non vi siano vie alternative all’entusiastica approvazione o alla condanna senza appello, mentre, con più equilibrio, bisognerebbe semplicemente tenerne conto e non sottrarsi agli stimoli che fornisce. Una delle critiche che con più frequenza viene rivolta all’architettura di Eisenman è quella di essere troppo concettuale, frutto di una contorsione intellettualistica. Questa critica contrasta fortemente con il fatto che essa venga considerata, da qualche anno a questa parte, tanto fashionable e a la page. Lo stesso Eisenman non ci ha fornito una spiegazione esauriente in merito, così come non ha discusso con la profondità che alcuni avrebbero desiderato il perverso fenomeno di committenti alla costante ricerca di architetture “firmate”. Fenomeno che si giustifica solo alla luce di ragioni di pubblicità e di marketing territoriale, le stesse ragioni che hanno fatto delle nostre città dei centri la cui economia è alimentata dal flusso turistico e non dallo scambio di beni prodotti dal lavoro. L’architettura di Eisenman non dà risposta a questi pur sostanziali problemi. Almeno non direttamente. Resta il fatto che lo spessore della sua ricerca teorica pone la sua architettura su di un piano diverso da quella degli enormi studi che producono opere frutto esclusivo della virtuosistica manipolazione formale. Qui spettacolo ed esibizionismo strutturale hanno già dato vita ad una nuova versione dell’espressionismo architettonico, questa volta un espressionismo non solo tollerato, ma addirittura stimolato dal potere. L’architettura moderna aveva fatto della funzione un valore assoluto, talvolta addirittura un totem. Operazione che possedeva senza dubbio una necessità storica. Quando fu chiaro che la riforma urbana implicita nelle formulazioni di gran parte dell’architettura degli anni venti e trenta non sarebbe stata realizzata, la parte più avanzata della cultura architettonica internazionale si assunse il compito di interrogarne criticamente gli assunti. In questa prospettiva il lavoro di Eisenman prese il carattere di una ricerca sperimentale sul nesso tra forma e contenuto1. Al contrario di quella portata avanti da Aldo Rossi, quella di Eisenman è una ricerca che non mira a isolare metodologie ripetibili e definire risposte operative, ma è un’esplorazione delle possibilità semantiche degli elementi dell’architettura. È formalistica nel senso che indaga il modo specifico di significare delle forme architettoniche una volta che i significati non le sono più imposti dall’esterno (come quelli religiosi o politici) o comandati da un valore univoco (come nel caso della funzione). Allo stesso modo di Aldo Rossi egli crede nella valenza critica della forma, che resiste alla volontà del potere economico dominante di trasformare l’architettura in infrastruttura. Con il ciclo delle Houses Eisenman teorizza un’architettura in cui la funzione non è più tematizzata, non esiste più in quanto simbolismo2. «Questo nuovo fondamento teorico trasforma l’equilibrio umanista di forma-funzione 1
A partire dalla tesi di dottorato discussa all’Università di Cambridge nel 1963, ora ristampata in fac-simile: Peter Eisenman, The formal basis of modern architecture, Baden, Müller, 2006. 2
Cfr. Id., Houses of cards, New York, Oxford University Press, 1987. Cfr. nello stesso volume il saggio di Manfredo Tafuri su Eisenman.
in una relazione dialettica all’interno dell’evoluzione della forma stessa. Tale dialettica si può descrivere come la coesistenza potenziale all’interno di qualsiasi forma di due tendenze non corroboranti e non conseguenti. Una tendenza è quella che presume che la forma architettonica sia la riconoscibile trasformazione di qualche solido platonico preesistente. (…) A questa si aggiunge una seconda tendenza che vede la forma architettonica in modo atemporale e decomposizionale, come qualcosa che è la semplificazione di certe serie preesistenti di entità spaziali non specifiche (…) e assume una condizione fondamentale di frammentazione e molteplicità»3. Un originale rapporto tra pianta ed alzato (ambedue non sono più specchi, ricordiamolo) e un uso ‘decorativo’ della struttura sono tra gli esiti più interessanti di questa ricerca. Non inutizzabili né inabitabili, ma utilizzabili e abitabili differentemente, le houses spingono il fruitore ad occupare lo spazio in maniera non convenzionale. Egli non è più la misura assoluta dell’architettura, e questa non è più a misura assoluta dell’uomo. Nel liberare l’architettura dall’antropocentrismo insito necessariamente in ogni funzionalismo, Eisenman cerca di trovare nuove possibilità per l’architettura, possibilità che sono occultate dal trattamento tematico della funzione, o che sono represse dalla misura umana eletta a canone assoluto. È a questa tematica che è riferibile la pratica progettuale dello scaling, che consiste nel continuo e repentino cambio di scala cui sono sottoposti gli elementi architettonici: «Per tradizione l’architettura è stata associata alla scala umana; per cinque secoli le proporzioni del corpo umano ne sono state il dato. (…) La grande astrazione dell’uomo come misura di tutte le cose – come condizione unitaria e presenza totale – non può essere più mantenuta. È possibile avere un’architettura senza attuare il fatto dell’architettura, cioè l’attuazione del rifugio dell’uomo, scopo dell’architettura?»4. Tradizionalmente si ritiene che l’architettura sia il prodotto di un’Idea formatasi nella mente dell’autore e che questi tenti di realizzarla incarnandola in un materiale attraverso le operazioni definite da un gruppo di elaborati chiamato “progetto”. Secondo questo punto di vista l’architettura costruita è sempre subordinata all’Idea e meno autentica di quest’ultima (si pensi alla funzione dei disegni in Palladio, che volutamente segnalavano la differenza tra la purezza dell’Idea rispetto alla necessaria e contingente imperfezione delle realizzazioni). L’Idea è l’origine. Una delle costanti della prassi progettuale di Eisenman è l’uso dei diagrammi generativi nella composizione architettonica. La manipolazione successiva dei diagrammi sostituisce la tipica sequenza idea-disegnomessa in opera con un processo trasformazionale di sviluppo della forma. Molto ci sarebbe da dire sull’efficacia di tale processualità. Si potrebbe sempre sospettare, per esempio, che il diagramma iniziale sia il prodotto di un’idea altrettanto iniziale, o che questi diagrammi riproducano, in rapporto all’opera da realizzare, la stessa relazione gerarchica in atto nel rapporto tra Idea e forma realizzata. Nonostante l’introduzione di un eventuale elemento casuale nel processo di modificazione dei diagrammi, questo modo di operare apre la strada, paradossalmente, ad un metodo di progettazione iper-razionale, in cui le singole azioni di trasformazioni vengono iscritte, come tracce, nello sviluppo della forma. Eisenman è un architetto che crede che la teoria abbia una funzione fondamentale nel fare architettura. La teoria è un elemento dell’architettura, e allo stesso tempo l’architettura è sempre anche teoria dell’architettura. Così come non ha rilevanza una teoria dell’architettura elaborata unicamente nella forma del discorso, non è compiuta un’architettura che non si manifesta anche nella forma tradizionale delle preoccupazioni teoriche. Teoria e architettura sono quindi entrambe incomplete. Ma sono entrambi testi. Questa concezione del testo è strutturalmente polisemica, a differenza di quella tradizionale: «Il testo non corrisponde mai a un solo significato; ogni singolo elemento che vi appare ha più di un significato»5. Eisenman definisce questi testi come “critici”, e in virtù di quella incompletezza la definizione di testo critico non è data soltanto attraverso il medium del discorso ma anche nella notazione che sarebbe propria all’architettura, nei disegni. Nel solco di questa convinzione Eisenman ha potuto elaborare un sistema di analisi dell’architettura che mette sullo stesso piano disegno e discorso, tratto e parola scritta6. Il discorso non spiega il contenuto del disegno, e il disegno non supporta il discorso nelle sue argomentazioni. Nessuna gerarchia. Essi si dispongono come strati diversi di una stessa attività: quella della scrittura architettonica, scrittura che non è l’incarnazione di un pensiero, ma pensiero essa stessa7. Scrivere architettura: pro3
Id., Post-Functionalism (1976), trad. it. in Id., La fine del classico, a cura di R. Rizzi, Venezia, Cluva, 1987, p. 34. Id., The Beginning, The End and The Beginning Again: Some Notes on the Idea of Scaling (1986), trad. it. in «Casabella», 520-521 (1986), pp. 44-46. 5 Id., Architecture as second language: the text of between, in Deconstruction. Omnibus Volume, a cura di A. Papadakis, C. Cooke, A. Benjamin, New York, Rizzoli international, 1989, p. 206. 6 Cfr. Id., Giuseppe Terragni: transformations, decompositions, critiques, New York, The Monacelli Press, 2003 (trad. it. Macerata, Quodlibet, 2004). 7 Gli scritti di Jacques Derrida, la cui opera ha senza dubbio avuto grande influenza su Eisenman, hanno tematizzato molto chiaramente la produzione di pensiero nelle opere architettoniche. Cfr. per esempio questo passo:«(…) poniamo la questione di un pensiero che sarebbe proprio all’architettura, di un pensiero architetturale, se si vuole. Con ciò non vorrei compiere un gesto che consisterebbe nel considerare l’architettura come una cosa, come una tecnica estranea al pensiero (…), un’incarnazione del pensiero in certo qual modo, ma vorrei invece sollevare una questione che si riferisce all’architettura come a una possibilità del pensiero, non riducibile allo status di rappresentazione 4
duzione di testi discorsivi, messa a punto di elaborati grafici, costruzione. Leggere l’architettura, di conseguenza, è un’operazione che deve prendere in considerazione tutti e tre gli strati testuali di cui si compone la scrittura architettonica. Si diceva che l’architettura non è più uno specchio, lo specchio deformato dai nostri desideri e dalle nostre intenzioni. Con ciò si potrebbe aggiungere che l’architettura non è più mimetica, nel senso di mimesis dell’aspirazione dell’uomo all’ordine, alla perfezione, alla trasparenza. Dire che l’architettura non deve essere più mimetica significa anche resistere alla tentazione di renderla specchio della mutata condizione umana: sostituire caos a ordine, opacità a trasparenza, ecc.. Significa piuttosto interrogare con radicalità questa condizione e i meccanismi che connettono rapprentazione a stati di fatto da rappresentare. È su questo punto che si interrompe la collaborazione tra Eisenman e Jacques Derrida8. Eisenman considera la decostruzione una metafora e così l’abbandona9, mentre Derrida contesta fortemente l’osservazione eisenmaniana10, lasciando intendere che il cosidetto decostruzionismo architettonico, che pure è stato un passaggio necessario, è cosa ben diversa da un lavoro decostruttivo sull’architettura, lavoro ancora quasi tutto da fare. Con il dire che la decostruzione non è una metafora, Derrida, tra le altre cose, mette in guardia gli architetti che cercano di utilizzarla come pretesto per opporre disordine ad armonia, frammento a totalità, complessità a semplicità. Un lavoro decostruttivo sull’architettura inizia con il mettere in questione gli assiomi e gli assunti non interrogati che si sono cristallizzati al fondo e intorno all’architettura, incrostati su di essa al punto di essere diventati delle verità autoevidenti. E nonostante tutto, non si può non ammettere che un tale lavoro è stato portato avanti anche dall’architettura di Eisenamn. Derrida, nella lettera pubblica indirizzata ad Eisenman, ad un certo punto lo spinge a dichiarare la sua opinione su Dio11. Non se egli creda o meno in un qualche dio, ma cosa ne pensi di Dio un architetto che è impegnato nell’investigazione dei principi basilari della propria disciplina. Cosa ne pensi una persona che per professione costruisce non solo le case per le divinità, ma anche per gli uomini che le abitano per fare la volontà delle divinità. Una persona che con il suo lavoro riproduce l’opera delle divinità. Cosa ne pensa di Dio un architetto? Sarebbe una domanda da porsi continuamente. Parallelamente alla domanda su Dio andrebbe posta quella sulla teologia. Allora la domanda assumerebbe la forma di un quesito sulla questionabilità delle verità architettoniche. Interrogare o meno i presupposti essenziali dell’architettura, accettare o meno di chiedere ragione dei postulati che la governano. C’è teologia quando si è in presenza di una serie di assiomi che si impongono senza fornire una motivazione razionale e dialogica del loro contenuto. In questa visione (che ovviamente non attiene alle convinzioni e credenze personali di ognuno) un architetto fedele ad un assegnamento teologico non è disposto ad alcuna revisione critica di ciò che è dato. È molto più difficile tenere una posizione non teologica in architettura di quanto sia possibile in altre sfere delle cultura quali l’arte, la politica, l’economia, ecc. E ciò a causa della posizione stessa dell’architettura all’interno della cultura umana, che è quella di rappresentare e presentare la realtà, fino ad un punto in cui, paradossalmente, essa viene ad essere identificata con la realtà stessa. Una decostruzione degli assunti teologici in architettura, quindi, non può non iniziare con la decostruzione di questa condizione, di questa relazione che da sempre lega e impegna l’architettura alla realtà. Eisenman ne è consapevole, così come è consapevole della difficoltà estrema insita in questo tipo di operazione: «Credo sia più difficile in architettura perché, come ho già detto in molte occasioni, l’architettura è così radicata nella presenza e nella rappresentazione di se stessa come riparo e istituzione, casa e focolare[house and home]. Essa è la guardiana della realtà. E’ l’ultimo bastione della localizzazione [location]. Credo che questo sia il vero problema. L’architettura reprime la dislocazione [dislocation] a causa della paradossale posizione che mantiene»12. Assumere una posizione non teologica in architettura si configurerebbe come una distillazione razionale dei problemi che la circoscrivono e la individuano. Oltre le ambiguità che hanno segnato il fenomeno del decostruzionismo in architettura, oltre e forse addirittura contro le stesse posizioni eisenmaniane, in opposizione – soprattutto - al crescente tentativo di ridurre l’architettura a veicolo pubblicitario, questo genere di lavoro finirebbe per annunciare un nuovo illuminismo architettonico.
del pensiero», J. Derrida, Labyrinth und Architextur (1984), ed. it. Id., Labirinto e architestura, in Id., Adesso l’architettura, a cura di F. Vitale, trad. di H. Scelza, Milano, Libri Scheiwiller, 2008, pp. 81-103. 8 La collaborazione era iniziata con il progetto per un giardino tematico al Parc de la Villette di Parigi. Il resoconto di questo lavoro, unitamente ai disegni di progetto e a saggi dei due autori, è registrato in Chora L Works. Jacques Derrida and Peter Eisenman, a cura di J. Kipnis e T. Leeser, New York, The Monacelli Press, 1997. 9 Cfr. P. Eisenman, Post/El card: A reply to Jacques Derrida, in «Assemblage», 12 (1990), pp. 14-17. 10 Cfr. J. Derrida, A Letter to Peter Eisenman, in «Assemblage», 12 (1990), pp. 6-13. 11 Ivi, p. 8. 12 cfr. P. Eisenman, An Architectural Design Interview by Charles Jencks, in «Architectural Design», 3-4 (1988), p. 52.
GEHRY. SOLO DI FRONTE ALLA SUA LIBERTA’ Andrea Carbonara
In un’intervista nella quale parla del film-documentario sketchs of Frank Gehry, da lui diretto, Sidney Pollack individua una delle condizioni che maggiormente differenziano il lavoro di Gehry rispetto al proprio, nella possibilità di manipolare la materia con la quale si produce l’opera, nel tempo stesso nel quale si attua il processo creativo che conduce alla definizione della sua forma. Una condizione di contemporaneità che Pollack non ritrova nella regia cinematografica: dove non è possibile costringere gli attori ad assecondare - così come Gehry fa con la materia specifica del suo lavoro - l’estemporaneità di un percorso completamente ignoto nel quale solo alla fine appare possibile giungere alla forma definitiva. Questa contemporaneità è ciò che mi pare caratterizzi maggiormente il modo in cui Gehry progetta. L’obiezione che, come per un film, anche in un edificio il processo di definizione dell’opera precede la sua esecuzione concreta; che Gehry, sul tavolo del suo studio, manipola una materia diversa da quella impiegata nella costruzione reale, non ha molto senso. Come molti critici hanno osservato, e come lo stesso Pollack ci ha mostrato nel film che ha diretto sull’architetto canadese, le operazioni che egli compie manipolando il cartoncino con cui sono fatti i modelli dei suoi edifici, sembrano potersi dispiegare liberamente, ignorando ogni distanza tra la definizione della forma e la sua traduzione nell’architettura costruita. O meglio, nel modo di progettare di Gehry, quella stessa distanza che gli architetti sono impegnati ad assottigliare modificando progressivamente il progetto fino al punto in cui la forma inizialmente escogitata si trasforma nella forma costruibile dell’edificio, viene percorsa in senso opposto: è la forma costruita che va nella direzione di quella escogitata; o, comunque i passi che quest’ultima deve compiere sono davvero pochi rispetto a quelli ai quali è costretta nei progetti degli ‘altri architetti’. Gli sforzi che essi dispiegano per portare a termine quel processo di mutuo aggiustamento che vede adeguare progressivamente i loro ‘desideri’ alla realtà determinata dalla costruzione, sembrano potere essere dimenticati, o comunque sublimati in quell’atto di manipolazione sul modello, che reclama prepotentemente l’intervento della realtà a dare concretezza al desiderio di forma dell’ “archistar”, Frank Gehry. Come ormai noto, lo strumento operativo che permette tutto questo è il computer. Una specie di “scatola magica” che consente il controllo costruttivo, tecnologico, economico dell’opera progettata: che ‘regala’ a Gehry, finalmente, il potere di ricercare liberamente la forma. Altrove, però, non attraverso l’uso dei sofisticati software che ha a disposizione, bensì sul modello. Nella certezza che con il computer essa possa essere semplicemente ‘tradotta’ - scalata e convertita in un materiale meno deperibile – e con la sicurezza che tale traduzione sia fedele al massimo livello possibile. In questo senso il computer non è affatto uno strumento con il quale si progetta, che orienta la costruzione della forma, la condiziona. Va inteso, invece, come tecnologia edilizia: responsabile della forma dell’edificio – verrebbe da dire della definizione della sua tipologia – allo stresso modo in cui, ad esempio, lo era stato l’uso del sistema muratura-solai in legno nel determinare le matrici geometrico-costruttive degli edifici antichi. Non è vero cioè che Gehry non penserebbe quelle forme se non avesse il computer: le penserebbe - ed infatti è andata proprio così - senza avere la certezza di poterle realizzare. Le ha pensate nel Vitra affidando ad altri il compito di costruirle perché all’interno dello studio non disponeva delle risorse umane e tecniche per farlo. Le ha pensate di nuovo nella enorme scultura a forma di pesce della villa olimpica a Barcellona scoprendo finalmente di poterle realizzare sfruttando le potenzialità offerte da un software come Catia. Il ‘regalo’ gli è stato fatto: Gehry è finalmente libero, ma lo è, prima di tutto, dallo strumento che lo ha reso tale. Non deve interrogare nient’altro che la propria sensibilità estetica nella composizione di elementi sinuosi, frammentati o regolari, nient’altro che le potenzialità espressive offerte dallo scintillio del titanio, dialetticamente rapportate all’opacità ed alla solidità della pietra. Questo non deve ovviamente far sottovalutare il lavoro che per ogni progetto vede lo studio impegnato a dotare gli spazi della capacità di accogliere funzioni anche molto specifiche come accade – ad esempio - nel caso della grande sala per la Walt Disney Concert Hall; ma l’esperienza acquisita da Gehry sulla possibilità . - come osserva Rafael Moneo - di “architetturizzare” qualunque forma, anche quella del binocolo rovesciato che segna l’ingresso agli uffici della Chiat/Day, consente a Gehry di lasciare che sia di natura esclusivamente plastica la ricerca della strada che il progetto dovrà percorrere. Per Gehry cioè l’architettura è ancora un’arte visuale, e lo è diventata, nel senso più ortodosso che si può attribuire a tale locuzione, proprio grazie allo strumento che avrebbe invece potuto maggiormente surrogare la capacità immaginativa dell’artista, le percezioni sensoriali in grado di esercitare un’azione di controllo sulla forma.
In questa prospettiva si potrebbe dire che Gehry lavora “all’antica maniera”, seguendo una tradizione le cui origini possono, ad esempio, essere riferite al metodo seguito dagli artisti della Bauhaus: lavora sul modello, scoprendo nell’atto del suo farsi quale sia il modo nel quale l’opera deve essere fatta. E’ in questa azione formativa che si produce il processo creativo: le azioni di spostamento, piegatura, taglio, conducono di volta, in volta, ad una conoscenza sempre più precisa di ciò che avvicina o, invece, allontana da quello che si vuole che sia l’opera architettonica, la cui configurazione definitiva rimane nascosta fino al momento in cui l’artista non la riconosce come tale. E’ certamente vero che la fortuna mediatica di Gehry è fondata sulla definizione di un linguaggio personale e sulla riconoscibilità delle componenti espressive che lo caratterizzano. Ma è altrettanto vero che il suo modo di procedere sembra caratterizzato dalla continua necessità di riscoprirne la validità; da un certo grado di aleatorietà che impedisce – almeno nei casi più fortunati - al processo di progettazione di essere meccanico, di assumere il senso e, dunque, la sterilità di un esercizio di variazione indotto dalla volontà di replicare una stessa modalità compositiva in ragione del successo che ad essa viene attribuito. L’impiego del computer, come strumento che rende possibile la realizzazione concreta della forma e non già l’invenzione della stessa, gioca un ruolo determinante nel ricondurre sempre ad un obiettivo di natura eminentemente plastica, l’operazione progettuale. Impedisce che l’opera sia condizionata da qualsiasi procedimento che consista nel controllo delle dinamiche attraverso le quali può essere generata la forma: nessun diagramma - come nei procedimenti di Eisenman - nessun conzept, nessuna sovrapposizione di meccanismi che anticipano la logica geometrica, strutturale, etc. attraverso la quale verrà, successivamente, determinata la forma dell’opera. Gehry è libero di fronte alle enormi potenzialità che gli si dispiegano dinanzi, proprio grazie allo sviluppo dei software; ma rimane anche indifeso di fronte ad una libertà che lo conduce ad essere il solo responsabile della forma. Quella stessa forma che può plasmare nelle sue mani sentendo il cartone dei modelli piegarsi sotto le proprie dita, si trasformerà, però, in qualcosa su cui non sarà possibile intervenire mai più; lo costringerà il ad assumere su di sé – da solo - il peso derivante dalla responsabilità che da tale libertà assoluta deriva. E’ un “peso” che Gehry ha deciso di poter portare su di sé, consapevole del fatto che esso è ben più gravoso di quanto non sia quello dei modelli in scala che con tanta passione ed una certa dose di ‘incoscienza’ manipola: è un atto di coraggio che egli ha compiuto – pionieristicamente rispetto ad altre “archistar” - anche in momenti nei quali non era scontato l’esito al quale il suo modo di procedere lo avrebbe condotto. A prescindere da ogni giudizio sul suo lavoro, questo non si può non riconoscerglielo. II. Ma c’è un’altra riflessione che può essere interessante fare per avvicinarsi a ciò che forse sta al fondo dell’atteggiamento con il quale Gehry si rapporta al progetto. In tal senso, leggere le sue parole può essere molto significativo: «come si può costruire un edificio per farlo sembrare come se fosse in costruzione? Questo mi ha portato ad ‘aprire’ la struttura, ad usare il legno grezzo, a progettare edifici che sembrino “accaduti”, come se nel costruirli qualcuno si fosse fermato»1. Gehry vuole che i suoi edifici “accadano”, in modo che su di essi il giudizio possa rimanere sospeso: affinché nel loro accadere, nel loro farsi piuttosto che nel loro concludersi, si dia pure l’impossibilità di una loro definizione precisa, si rendano quasi inattingibili le convinzioni disciplinari, le intenzioni razionali, gli assunti ideologici, eccetera, da cui muove il processo progettuale che conduce ad ognuno di essi. Vuole quasi liberarli da se stesso: sembra rifiutare, cioè, che tale processo e quindi l’opera che ne rappresenta il prodotto, sia condizionato da fattori razionali che limitino il libero dispiegarsi delle intuizioni plastiche che stanno dietro la nascita, lo sviluppo e la definizione della forma. Quasi un tentativo di recidere le relazioni alla luce delle quali si viene a determinare il senso delle decisioni progettuali. Di evitare che l’opera assuma un senso più ampio proprio nelle relazioni che viene a determinare rispetto ad elementi che si potrebbe dire sono fuori ma anche e, soprattutto, dentro di sé: dentro il proprio modo di pensare; di essere, ma conseguentemente dentro il modo di essere degli altri, dentro i modi nei quali la società prova a definirsi. Anzi, il desiderio sembra proprio essere quello di destrutturare ogni relazione sedimentatasi non, però, per ricostruirne altre differenti: non per rivitalizzarle su nuove basi. Al contrario: l’atteggiamento di Gehry sembra caratterizzato dalla volontà di emancipare la propria architettura da queste relazioni; nel tentativo di sottrazione anche di quei contenuti specificamente riconducibili ad essa (assunti teorici, scelte linguistiche, etc.) in base ai quali diventa possibile stabilire un rapporto – sia pure dialettico rispetto ad altri modi di progettare - condotti per parte propria da altri in vista dell’affermazione di visioni alternative ed indipendenti le une dalle altre. Ma anche nella convinzione più generale, di dover affermare che non sia data alcuna idea totalizzante, alcun sistema che pre-ordina ed informa di senso ogni singola dimensione del fare umano, quindi anche del fare architettura – nell’affermazione, cioè, di una visione chiaramente contrastante con quella sulla quale si fonda una certa interpretazione del detto “il buon Dio abita nel particolare”: nel rifiuto che 1
F.O Gehry, La realtà è più dura di una torta alla cioccolata, in «Casabella» 776, aprile 2009, p.4).
l’opera nella sua particolarità trovi la propria ragion d’essere nel contributo che –in quanto parte – dà al riconoscimento di un’integrità superiore – Dio – e nella relazione che ad essa la lega. In tal senso, può essere interessante fare riferimento - come cornice di questo discorso - alle argomentazioni che Cacciari utilizza nel descrivere in un suo articolo le origini e le possibili interpretazioni di quel detto2. Riflettere sul fatto che anche in relazione a quelle argomentazioni e a queste interpretazioni appare possibile – forse - intuire alcuni spunti per comprendere meglio l’atteggiamento progettuale di Gehry. In questo scritto Cacciari, nel definire i termini della questione, disquisisce delle diverse interpretazioni che si sono date del concetto filosofico di “parte”, meros: del suo definirsi - o del suo esserne disgiunto - in relazione al concetto di “intero”. A quell’ holos, che, se dotato della capacità di essere «presupposto» alle parti stesse, rappresenta il “Tutto”, Dio. La prima lettura del detto - di cui dimostra l’origine filosofica - nel non riconoscere che «Dio sta per il Tutto, il cui ordine pre-esiste e pre-ordina il gioco delle parti», sarebbe quella secondo la quale «il particolare in quanto individualità universale è il buon Dio - e non vi è altro Dio»3. Le “parti”, liberate dalla loro dipendenza da un “Tutto” –Dio – «il cui ordine pre-esiste e pre-ordina» il loro rapporto, diventano finalmente libere, in quanto esse stesse capaci - in ragione delle proprie virtù - di determinarsi come integre: «la parte frantuma il Tutto per sussistere sola: per riporre su sé stessa il proprio destino»4. Quello che prima abbiamo considerato in Gehry, come un rifiuto - più o meno consapevole - di determinare l’identità dell’opera attraverso la relazione che essa stabilisce con qualcosa che è altro dall’opera stessa, può essere letto attraverso il filtro interpretativo fornito da questa lettura, come risultato della consapevolezza che non vi sia un Dio, un Tutto, in relazione al quale il suo operare come architetto possa o debba trovare ragione: della consapevolezza che l’opera non prenda parte ad un’integrità ad essa superiore, e che, quindi, nessun ordine - nel quale tale integrità si esprime, e rispetto al quale l’opera assume un significato – essa è chiamata a rappresentare. L’interpretazione del detto che Cacciari propone, potrebbe offrire – dunque - un primo spunto, per delineare il fondo culturale da cui muove Gehry: nel non riconoscere la presenza di un ‘Tutto’ in relazione al quale ogni parte assume la propria ragion d’essere, si potrebbe individuare quella stessa tensione alla auto-determinazione dell’architettura come parte in grado di potenziare se stessa al punto di rendersi indipendente, da qualsiasi Principio che, nel darle un senso, finirebbe pure per impedire la piena affermazione della sua integrità. Ma quella stessa integrità ‘raggiunta’ dalla parte, divenuta così holos, non avrebbe luogo senza che il complesso delle parti da cui è formata- piuttosto che una caotica molteplicità - costituisca «un insieme di elementi dotati a loro volta di forma5». Quell’holos - pur nella sua concretezza, non essendo il Tutto di cui non è possibile l’esperienza - tuttavia rimanda inevitabilmente , da un lato, a quelle parti che - a loro volta - traggono un senso solo dal loro essere in relazione con esso; dall’altro - a sua volta - ad un integrità ad esso stesso superiore che, se pure non esperibile, non è possibile non concepire. Si finisce, così, per riproporre quella «circolarità parti-tutto»6, sostituendo, però, «all’antica signoria del Tutto … il polemòs delle parti»7; dialetticamente impegnate ad affermare sé stesse le une sulle altre, nella legittima aspirazione a diventare un intero. Si è rivelato però come - a mio avviso – Gehry, piuttosto che impegnato in uno sforzo di auto-determinazione del proprio modo di fare architettura, tenda a sottrarre se stesso dal terreno sul quale può avvenire quel ‘confronto tra le parti’: ad impedirsi, facendo prevalere la componente intuitiva all’interno del processo creativo, di riferire l’identità dell’ ‘accadimento-edificio’ ad un’intenzionalità più ampia, ad un progetto complessivo che stabilisca l’orizzonte di senso nel quale la singola opera si riconosce. Gehry non sceglie di usare un rivestimento piuttosto che un altro, una forma piuttosto che un’altra, perché preoccupato di essere coerente con il linguaggio che in quella determinata opera ha scelto di usare. Tenta, anzi, di espellere la coerenza stessa dalla propria architettura; per provare ad impedire – forse in primis a se stesso – che le forme progettate assumano senso proprio in relazione ad un linguaggio di cui sono la specifica e particolare manifestazione: utilizzando lamiere, reti metalliche – in alcune delle sue case – così come forme ingigantite – il binocolo nella Chiat/Day, la scala sovradimensionata nella facoltà di legge della Loyola University. - o comunque altri elementi dislocati rispetto ai loro abituali contesti di utilizzo, certamente finisce per codificare un nuovo ‘linguaggio dell’incoerenza’; ma mi pare che il primo impulso sia quello di ‘rompere’ per non ri-comporre, se non momentaneamente - e quasi fortuitamente – nel risultato concreto della singola opera. In quella che diviene, nel suo accadimento, ritratto - accidentale - di tale rottura: immagine tangibile di quella “parte” che, dopo il “Tutto”, è andata anche essa in frantumi. 2
M.Cacciari, I frantumi del tutto, in «Casabella» 684-85, dicembre 2000-gennaio 2001, pp.5-7 Ivi, p.7 4 Ivi, p.6 5 Ib. 6 Ib. 7 Ivi, p.7 3
Ed allora diviene interessante riflettere sull’altra lettura del detto, della quale Cacciari argomenta in quello scritto: il buon Dio abiterebbe solo in quei particolari – quelle parti - dei quali non sappiamo dare una definizione e, pertanto, trovare per essi alcuna relazione rispetto ad altri elementi. Dio si rivelerebbe, dunque, in ciò che non è riferibile, perché la eccede, alla dialettica tra il tutto e le parti che lo compongono; si darebbe solo in ciò che sfugge dall’essere individuabile nella propria integrità. «Né il Tutto, né la parte come holos, né il polemos tra le parti che lottano per la propria integrità e cioè per la propria significazione universale»8: il particolare nel quale Dio abiterebbe sarebbe, invece, quel «qualcosa di eccezionale, meraviglioso o tremendo che eccede qualsiasi forma, positiva o negativa, di dialettica … ma anche l’assolutamente insignificante … qualcosa di così “abbandonato” o “gettato” da non poter essere colto in nessuna rete, afferrato da alcun concetto»9 Dunque anche in ciò che è mutilo, tanto da rendere inattingibile il proprio significato. Anche forse, allora, in ciò che Gehry vuole che appaia come lasciato lì; prima che la costruzione ne faccia emergere quell’integrità in virtù della quale l’edificio assume il proprio senso, prima, cioè che esso possa «essere colto in [qualche] rete, afferrato» da [un qualche] concetto. Alla luce di questa nuova lettura può essere suggestivo interpretare, dunque, quell’auspicio che l’edificio “accada”, come speranza che esso non sia rappresentazione tanto di un Tutto più grande, quanto, paradossalmente, di una propria specifica integrità: come tentativo - davvero improbo - di recidere le relazioni – anche di opposizione dialettica - rispetto alle quali tale integrità può essere definita. In ultima analisi, come l’aspirazione più o meno consapevole che anche l’edificio possa manifestarsi come la parte che non è in grado di assumere alcuna relazione, perché spezzata: frantumata al punto da non consentire a nessuno di ricondurre quella condizione frammentaria ad un’integrità. Se Dio - come argomenta Cacciari nel suo scritto – abita nel particolare «irrappresentabile … troppo fine per la nostra storia o la nostra filologia – nel particolare sola mente intuibile»10, quali sono i modi nei quali potremmo «tentare di farci un’immagine di questo particolare assolutamente singolo di questa pura singolarità?» Un modo è quello di mandare «in frantumi la parte»11; rifiutando ogni volontà di ricomporre i frantumi stessi secondo un ordine che li metta nuovamente in relazione: verrebbe da pensare che quei frantumi possano essere pure le lamiere, le reti metalliche e i tronchi d’albero messi insieme – come detto - negli edifici di Gehry, senza alcun riguardo nei confronti dell’ utilizzo originario che di essi era fatto; cancellando ogni legame con gli altri elementi con i quali erano in relazione, nella costruzione di oggetti, di cose: di quelle parti, cioè. che nell’edificio si sono dissolte per non essere più identificabili. Il secondo sarebbe quello di produrre artificialmente qualcosa che sia in sé frammento, in quanto qualcosa di non riconducibile a nulla di conosciuto, «straniero rispetto ad ogni intenzionalità e ad ogni progetto»12. Compito certamente ‘inattuabile’ per chiunque, certo anche per Gehry; ma non è forse possibile interpretare in tal senso la sua volontà di creare con il titanio forme la cui dinamica fluidità rimanda, per altra via, ancora al non definito, a qualcosa che è stato intrappolato a metà del suo movimento: aborto sublime di una creatività che ambisce a non avere padri, anzi, ad averne solo uno: nel «sola mente intuibile»? Non è nel ‘solo intuibile’ che si dà il senso della presenza di una Totalità la cui conoscenza rimane preclusa per altre vie? E non si può dire, continuando su questa strada, che Gehry, nel rifiuto di fare della propria opera l’espressione di una Totalità unificante, così come di una parte che lotta per essere riconosciuta nella sua integrità, abbia finito tuttavia per riconfermare l’architettura, ancora una volta, come il luogo in cui l’uomo può entrare in contatto con qualcosa di irriducibile? La cui presenza si fa sentire - anche - nell’inspiegabilità del senso che le forme che abbiamo di fronte manifestano?
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Ib. Ib. 10 Ib. 11 Ib. 12 Ib. 9
ZAHA HADID: QUALE AVANGUARDIA, QUALE UTOPIA? Rossana Noviello
«Fin dall’inizio ho pensato all’architettura in una forma differente. Sapevo quello che dovevo fare e cosa dovevo insegnare, ma non potevo farlo nel modo convenzionale, cosi ho ricercato un nuovo modo di progettare per provare a vedere le cose da un diverso punto di vista»1. Zaha Hadid afferma in questi termini l’originalità del suo metodo progettuale, e nel 2004 Karen Stein, componente della giuria del Pritzker Prize, sostenendo che di fatto la progettista iraniana «ha costruito la sua carriera disobbedendo alle convenzioni – all’idea convenzionale dello spazio architettonico, della pratica architettonica, della rappresentazione e della costruzione», ribadisce in lei l’atteggiamento rivolto a rompere gli schemi, a rivoluzionare il mondo, a fare da nuova avanguardia! Ma quale avanguardia? E’ noto il richiamo dell’architettura della Hadid a Malevich ed all’arte dei Suprematisti, dove «preleva dai contesti linguistici originari parti, brani, frammenti….li manipola con forza, li riplasma trasformandoli in altro»2, ed è, particolarmente nella produzione degli anni ’80, nel Peak di Hong Kong (1982), che la dinamica di forma e spazio, una delle costanti dell’architettura del novecento, appare essere al centro della sua poetica. Successivamente la sua ricerca sembra essersi orientata verso conformazioni organiche, fluide, in cui la distorsione delle superfici opera assecondando un’idea monista della forma e della materia, in disposizioni si direbbe suadenti - «Negli anni ‘80 Hadid è la protagonista nel campo di una ricerca radicale sull’architettura sia in termini concettuali che formali… negli anni ’90 …l’architettura di Hadid da concettuale si fa costruzione materiale senza compromettere le sue spinte innovative: fluidità tettonica, e articolazione plastica»3 - che, molto prossime a quelle espressioniste e, particolarmente, a quelle visionarie di Finsterlin, inoltrano gli stimoli avanguardistici verso una vocazione più concretamente realizzativa. Appare singolare che un medesimo itinerario sia seguito da diversi architetti espressionisti, da Taut, passato dai primi sogni espressivi al progetto dei quartieri operai, allo stesso Finsterlin il quale, a proposito della propria produzione degli anni ’20, nel 1963, sottolineando come lo spirito rivoluzionario da cui era sollecitato aveva trovato la via di una più pacata volontà costruttiva scrive: «Non sono né cieco né abbastanza presuntuoso per asserire di aver avuto solo io 1’idea rivoluzionaria dell’architettura organica, della gigantesca plastica concava astratta. Sebbene la mia idea fosse forse la più radicale, la più pura da compromessi, la più incomparabile, sebbene il mio disco del lampo d’ingegno fosse stato gettato più lontano degli altri e si fosse di conseguenza maggiormente avvicinato alle straordinarie e alle geniali idee della storia, come alla prima ruota, al primo telaio, al primo motore, alla prima polvere, alla disintegrazione degli atomi — tuttavia essa era nell’aria — non era possibile sottrarvisi. Questa conoscenza non diminuisce affatto il valore della creazione, al contrario, la consolida. II seguire questa inesorabile causalità la giustifica e indica le vie, perché possa venir accettata e attuata»4. Antonino Terranova, accennando ad una possibile interpretazione dell’architettura attuale decostruzionista in chiave di nuova avanguardia riconduce «le differenti pieghe scagliose di Alvaro Siza, le scaglie paesaggistiche di Zaha Hadid, la curvilineità stirata e piegosità decostruita di Peter Eisenman» a metafora della natura nel suo versante minerale roccioso, tellurico, ctonio, «anima più che corpo». Ed è qui, certamente, se vale questa lettura, l’ulteriore somiglianza con l’idea espressionistica di comporre una architettura proveniente dall’intimità dell’es, emergente dal magma senza luce, dal seno della madre terra intessuto di spirito. Se poi si segue la profezia di Finsterlin, per il quale l’umanità, giunta ai tropici di Prometeo, avrebbe realizzato architetture come «pelle, con la filigrana delle sue molteplici membra, rilievi di prospettive estatiche, piani frastagliati» nelle cui radure il respiro della terra in corso avrebbe intonato «suoni d’organo, eco delle sinfonie celesti »5, sembra veramente che, oltre i propri disegni, l’architetto espressionista illustri le future architetture della 1
N. Sala, G. Cappellato, Architettura della complessità, Franco Angeli, Milano 2004. «La Hadid…preleva dai contesti linguistici originari parti, brani, frammenti….li manipola con forza, li riplasma trasformandoli in altro», cfr. C. de Sessa, Zaha Hadid, Eleganze dissonanti, Testo e Immagine, Torino 1996. 3 P. Schumaker, Hadid Digitale.Paesaggi in movimento Testo e Immagine, Torino 2004. 4 Hermann Finsterlin è nato a Monaco il 18 agosto 1887. Studia Fisica e Chimica all’Università di Monaco. Insoddisfatto della metodica analitica del lavoro scientifico, si dedica alla Filosofia e alla Mitologia. E’ noto per i disegni espressionistici di architetture fantastiche, elaborati tra il 1917 e il 1925. Membro della Glasserne Kette berlinese, trascorre la propria esistenza lontano dalle grandi città, nella casa in campagna di Berchtesgaten e nella contemplazione del paesaggio offerto dalle alpi bavaresi. Cfr. Borsi F., Konig G. K., Architettura dell’espressionismo , Genova, 1968. 5 ibidem 2
Hadid. In tale esplicita analogia, non può pertanto non venire da chiedere se il senso della libertà compositiva di Finsterlin sia il medesimo della Hadid, e se anche l’aspirazione a rompere le convenzioni, riconoscibile nelle opere di entrambi, trovi veramente un analogo esito. Viene cioè da chiedere quali siano veramente le innovazioni, rilevate anche dai critici, sottese alle espressionistiche elaborazioni, mosse si direbbe da un impulso interiore, dell’architetto iraniano, quali i modi «non convenzionali» attivi nei fasci di moto ripetuti ossessivamente nella fissità del suo sguardo magnetico; quale l’asserito senso di libertà suscitato dalle sue architetture realizzate anche a costo di incerti e confusi intrecci strutturali. Zaha Hadid, ricollegandosi all’esperienza delle avanguardie rivendica spesso un’autonomia dello stile da richieste astratte, e, si direbbe come gli espressionisti, attribuisce alla propria architettura una creatività ed una capacità immaginative nuove. Nei suoi testi però, oltre la professione di una esibita vocazione avanguardistica, in realtà non appare per niente rintracciabile né lo spirito dell’utopia, riconosciuto dal Bloch proprio all’avanguardia espressionista, né quella protensione rivolta a rompere la forma data onde misurare l’opera con lo sconosciuto che Simmel rivela nell’arte con l’esempio dell’ansa del vaso. Ma pur a voler riconoscere nei suoi progetti un rinato anelito espressivo che ritrovi, come per l’avan- guardia espressionista, nell’anima, il fondo su cui innalzare un nuovo mondo, lo spazio ritrovato dell’utopia, quale luogo ‘altro’ emerge dal suo progettare? (si ricordi che la Hadid è stata protagonista della mostra The great Utopia, Gugenheim, N. Y. 1992. Latent utopia, 2002). Nei progetti della Hadid, in realtà, più che mondi futuri di comunità felici fondati sulla creatività espressiva promossa dall’anima sembrano vivere concreti presenti alienati nelle fantasmatiche immagini virtuali promosse dal computer e originate da una ricerca compositiva che evolve in rapporto strettissimo con l’evolversi dei programmi di modellazione plastica. La “digital architecture” sarebbe allora la nuova architettura utopica? E la trasparenza dei layer e dei plastici in plexiglass una rinata Glasarchitektur?! Che le prospettive impossibili della Hadid possano essere lette come visioni di un espressionistico “occhio interiore”? In realtà se l’utopia iconoclasta dell’espressionismo storico conteneva la visionaria aspirazione di realizzare l’eu-topia come ou-topia, il mondo felice della società democratica perseguita da Taut, in cieli stellati di terra, sogni a pena inverati nella Philarmonie di Scharoun, o nell’Ossevatorio di Mendelshon, Zaha Hadid sembra muoversi in un campo del tutto privo di vaghezze o speranze ed invece completamente risolto nelle fantasmagorie dell’elaboratore che appiattiscono il tempo, persino quello che intercorre tra il progetto e la sua realizzazione, in un presente privo di differimenti. Intervistata a proposito della sua preferenza per lo spazio virtuale l’architetto iraniano ha infatti affermato: «vedere contemporaneamente la pianta, le sezioni, il 3d in movimento su 15 o 20 monitor affiancati …non so se indebolisce o rinforza la visione, io dico solo che induce ad un modo diverso di vedere»6. E’ l’atteggiamento di chi immerso nel presente sembra voler negare ogni possibile senso che provenga da un presupposto, metafisico, storico, sociale, che non sia tutto immedesimato nell’autore, autonomo demiurgo totalmente versato nello spazio dell’assoluta conoscenza e conoscibilità della scienza e della tecnica contemporanee. La stessa utopia appare quindi realizzata. La magmatica libertà della chora inverata nel luogo senza confini della città contemporanea, e se lo star system internazionale, di cui Hadid è parte, «sembra lavorare in sintonia creativa con il disarmonico, il vago, il disordinato, il proliferante della nuova metropoli contemporanea»7, viene da chiedere, è l’Underworld, lo spazio “altro” delle Nurbs, la nuova utopia del nostro abitare? (Underworld è un nome dato allo spazio parametrico UV delle superfici NURBS). Nell’arte attuale «il lavoro sul corpo…, ancorché deformante lacerante in modi simili a quello della body art, …è un’ulteriore elaborazione nel verso di una “mutazione antropologica” che è criticata si, ma anche affrontata positivamente nelle protesi nel morphing e nel cyberspace»8: che con l’architettura della Hadid, la quale pure tende a dilatare gli orizzonti della nostra corporeità, stiamo forse per entrare nel nucleo germinale di una possibile mutazione evolutiva? Si è detto della fluidità suadente delle forme della Hadid. Ed infatti, nonostante l’apparente aspetto sovversivo delle sue opere rispetto ai luoghi, che lascia ipotizzare la volontà utopica, esse agiscono di fatto nel contesto in termini conciliatori. La complessità della vita e della struttura della città non appaiono mai in conflitto con i fasci dinamici di piani che fluiscono, si deformano, si intergrano, si sovrappongono e trovano accordi, in un’impalpabile osmosi, con il tessuto urbano, realizzando quella superficie continua che lo stesso architetto ha definito “tappeto urbano”. Analogamente, le forme deformate della monade architetturale si riconciliano in una definizione della superficie ricca e voluttuosa, secondo un’idea estetica intesa a infondere piacere, a regalare a tutti «la spiaggia di Copacabana, il lusso a grande scala» senza prezzo. 6
P. Schumaker, op. cit. A. Terranova, Mostri metropolitani, Meltemi, 2001 8 ibidem 7
Tecnicamente il procedimento progettuale dello studio Hadid consiste nel deformare una superficie non dal di dentro, ma agendo sui punti di una griglia ad essa associata. La deformazione avviene grazie ad una serie di operazioni eseguite al computer: il lattice, “morfhing”, il “blend surface”, il "loft” ecc. La forza che deforma i punti della griglia è sempre applicata al di fuori della stessa, in ideali vertici di controllo delle curve. Lo spazio della deformazione è uno spazio virtuale, astratto, la forza deformante pure, sì che l’opera stessa che deriva, sebbene immersa nel contesto, assume un aspetto astrattamente assorto, quello di un presente eternizzato, sottratto alla quotidianità dell’intorno e dei visitatori, immagine della sola creatività dell’autrice, ovvero del computer. Del resto, come è stato osservato «le immagini prodotte dallo studio Hadid non descrivono una scala comprensibile del disegno perché generalmente non vi sono persone presenti e, se ci sono, esse sono solo silhouettes. I disegni non ci sono familiari, perché impiegano viste prospettiche radicali che nessuno, senza un elicottero, sarebbe in grado di ricreare »9. E’ facile osservare come, sia nelle immagini che nelle opere concrete, le forme si susseguono libere, senza attriti, e le deformazioni della forma assecondano i mutamenti di forze virtuali: non c’è massa, non c’è campo gravitazionale. Sembrerebbe che la forza vitale, propria al corpo, di cui parlava Semper onde trarre le proprie categorie costruttive, e su cui le avanguardie hanno costruito i propri sogni, nel fare della Hadid sia del tutto espunta. Nei suoi spazi, se è ancora ravvisabile l’utopico, questo è nella infinita libertà della mente che finalmente sembra essersi scrollata di dosso il suo corpo, che può finalmente fluire nelle forme più svariate in un movimento senza centro, senza respiro. Siamo persino oltre ogni mutazione, dal momento che le evoluzioni spaziali della Hadid non sembrano avere riferimenti, né madre né padre, né terra né spirito, né grembo materno né respiro cosmico, sì che il corpo che le abita, più che mutare, sembra invogliato piuttosto a svanire, esalare. Che le sue architetture siano effigi di ultimi soffi di vita? Che il “tappeto urbano” sia un sudario? Il pietoso manto disteso sulla morta città? Che l’intera vita sia consegnata a liberi automatismi? Niente di uguale in tali tecnologiche astrazioni, quindi, alle utopie del passato che, ancora per bocca di Hermann Finsterlin, additavano all’inverso il realizzarsi dell’anima come corpo felice: «Allora gli organi vengono acuiti fino al miracolo, ogni occhio abbraccia e penetra senza ostacoli la materia di questi sogni formali che recuperano l’uomo puro della sintesi, la creatura senza peccato, senza vergogna, senza maschera…. E voi, fratelli più nuovi, voi non siete più schiavi dello spirito ortoclito, creazione primordiale di un genere umano cristallizzato; no, voi siete dei soffiatori di vetro, dei consolidatori divini e giganti del vostro stesso respiro, che la divinità gonfia in tutte le cadenze dell'anima del mondo - a questa materia duttile dedicate il vostro amore, la vostra gioia e la passione»10.
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P.E. Vermaas, P. Kroes, Philosophy and Design, Springer, 2007 E. Finsterlin, L’ottavo giorno, in Frühlicht 1920-1922, gli anni dell’avanguardia architettonica in Germania, a cura di G. Samonà, Mazzotta, Milano, 1974. 10
I MAESTRI E LE ARCHISTAR: DALLA VENUSTAS ALLA RARA BELLEZZA ALLA ARCHITETTURA COME SPETTACOLO Claudio Roseti
Un modo per analizzare il fenomeno delle archistar può essere quello di partire da un confronto con i maestri intesi sia come riferimenti originari, caposaldi di un movimento, di una fase storica, senza essere necessariamente docenti istituzionali come ad esempio Le Corbusier, sia anche autentici docenti come Mies Van der Rohe. Questo studio si basa cioè sull’analisi del rapporto che i maestri avevano con l’architettura,i suoi principi e la sua trasmissione e il tipo di rapporto praticato invece dalle archistar. Un vero maestro come Mies Van der Rohe distingueva nella vita dell’ uomo, con cui l’architettura doveva correlarsi, gli aspetti pratici da quei «valori» che «hanno le radici nella vita spirituale dell’uomo» e nella sua cultura. «L’esistenza degli uomini si svolge in due sfere connesse. I nostri fini garantiscono la vita materiale, i nostri valori rendono possibile la vita spirituale. Se questo è vero in relazione a ogni aspetto dell’attività umana anche quando la questione dei valori vi è coinvolta in minima parte, è davvero straordinariamente vero nella sfera dell’architettura. Nella sua forma più semplice l’architettura affonda le sue radici in considerazioni esclusivamente funzionali, ma attraversando tutti i livelli dei valori può sollevarsi sino alla sfera dell’esistenza spirituale, nel regno dell’arte pura». Mies ricorda inoltre che tali valori dipendono dallo «spirito del tempo» che va tenuto in considerazione, va accettato «se così non accade nessuna operazione è possibile». E questa affermazione è da tenere presente proprio a proposito delle archistar. E conclude Mies Van der Rohe con le parole di SantAgostino «la Bellezza è il risplendere del vero»1. Àlvaro Siza, maestro contemporaneo e primo rappresentante del «regionalismo critico» parlando della pedagogia afferma: «l’ architettura arte collettiva è nemica dell’arroganza e della mancanza di ambizione…… delle supposte ragioni sociali della mediocrità. Il desiderio collettivo si manifesta in ogni pietra e in ogni poro e rivelarlo è l’unica maniera di non essere ‘elitista’ . Il perseguimento del sublime si identifica con la funzione sociale dell’architetto, perché il desiderio del sublime non è invenzione dell’architetto». E conclude infine Siza «L’architettura è arte o non è architettura»2. Andando adesso a verificare il prodotto, cioè l’architettura realizzata in corrispondenza dei vari periodi in cui si è andato evolvendo e trasformando il Movimento Moderno, e con questo i comportamenti dei suoi protagonisti, si riconoscono delle fasi che corrispondono a quanto elencato nella seconda parte dell’intitolazione di questo scritto. Per quanto drasticamente rivoluzionario nel linguaggio, nelle forme, nei rapporti funzionali e contestuali, il Movimento Moderno ha prodotto, nei primi decenni, opere che in linea di massima conservavano un rapporto per lo più equilibrato tra le ben note componenti della triade vitruviana. L’adozione poi diffusa ovunque degli stilemi forniti dai maestri e adottati a tutte le latitudini, ha portato il più abile e astuto operatore di politica culturale della storia dell’Architettura Philip Johnson a celebrare, nel 1932 con una mostra al MOMA di New York, quello che era divenuto ormai l’ International Style, dove l’intitolazione conferma l’ecumenismo raggiunto all’epoca dal Movimento Moderno. Ma tale condivisione non poteva durare con l’indifferenza ai contesti fisici, storici, culturali per cui man mano sono andate delineandosi delle poetiche individuali che hanno specializzato ed estremizzato alcuni aspetti del Movimento Moderno ortodosso, e che talvolta da caratteristica personale sono diventate tendenza. Vedi ad esempio la stessa tendenza neorazionalista della «scuola romana», vedi anche il brutalismo giapponese sviluppato da Kenzo Tange ma riconoscibile, con variazioni nei dettagli, nel nostro migliore esponente l’Architetto Leonardo Savioli3, apprezzatissimo docente presso l’Università di Firenze negli anni ’60-’70. Il passo successivo avviene ormai a scala planetaria. Il Modernismo viene messo in crisi da un ritorno all’antico, il movimento PostModerno, una parentesi decennale ( dall’ ‘80 al ‘90 ) di nostalgia e ripensamento sull’architettura classica che viene parzialmente riesumata e mixata con il modernismo praticato attraverso la citazione e/o la modernizzazione degli stilemi classici. Il kitsch era sempre in agguato; la disinvoltura e l’insistenza con cui molti progettisti collocavano timpani e timpanetti e co1
“We must learn what a building can be what it should be, and also what it must not be” Ludwing Mies Van der Rohe. Sull’insegnamento dell’Architettura. Casabella 767 giugno 2008. 2 À. Siza Insegnare architettura. Sulla pedagogia. Casabella 770, ottobre 2008. 3 Con cui lo scrivente si è laureato il 28 febbraio 1969 con una tesi sul progetto per la nuova Università di Firenze.
lonne ovunque ritenendo in tal modo di essere à la page che ha portato ad uno spargimento incoerente, indiscriminato perlopiù di citazioni gratuite e scorrelate dal rimanente contesto, fa decadere il Post Modern che, dalla entusiastica, istantanea adesione che aveva suscitato, con la stessa velocità viene accantonato. Ciò coincide con l’inizio di altri movimenti che non avevano atteso la fine del PM, che cominciava ad approssimarsi, e infatti già nel 1988, per la terza volta,(avendo pilotato anche il PM) Philip Johnson si mette alla guida della nuova tendenza nascente e lancia il «decostruttivismo» con la mostra al Museum of Modern Art di New York cui partecipa Peter Eisenman, dal titolo Deconstructivist Architecture che qualifica formalmente il decostruzionismo derridiano. L’ importante movimento filosofico creato da Jacques Derridan detiene rapporti costituzionali con l’architettura le cui prime significative realizzazioni si devono a Peter Eisenman e Bernard Tschumi, con rispettivamente il Wexner Center a Columbus e il Parco de La Villette a Parigi. Eisenman, realizzatore del decostruzionismo, per il quale viene adottata una veste formale derivata dal costruttivismo russo deformato. Il decostruzionismo derridiano si può ritenere collocabile nel «concettualismo» ( vedi Purini, Eiseman, ecc.) cui si può affiancare quel «valore», quella spiritualità traducibile in un «pensiero», inteso nel senso filosofico del termine, che lo stesso Mies aveva dichiarato essere indispensabile all’Architettura mentre assume come linguaggio preminente il primo costruttivismo russo deformato4. Ma intanto andava prendendo sempre più piede una ricerca estetica di tipo elitario, personalizzata, ma fortemente orientata verso le mode del momento, quindi mutevole, plurale, tendente ad accrescere notevolmente il gradiente della venustas che acquista un peso smisurato nella ricerca della «rara bellezza» che diventa poi il sublime posto nella forma della «Architettura come spettacolo», spettacolarizzazione variabile secondo la moda del momento e consequenzialmente legata ai consumi con tutti i meccanismi economici positivi e negativi che governano fashion e marketing e relativi performer. La mediatizzazione e la globalizzazione, poste alla base del consumismo e del marketing, tendono perciò a ridurre l’architettura a pura immagine ed a porla sul piano riduttivo del design. Vittorio Gregotti, in un suo recentissimo libro, parla di perdita del rapporto col contesto e della riduzione al «design» in quanto «form follows the market»e prosegue citando Jameson che pone come riferimento comune a questo «campo sublime e isterico del surrealismo senza inconscio e dell’iperspazio disorientante», ma anche dal nuovo diventato «novità incessante» e, nello stesso tempo, dal processo di colonizzazione che dilaga come globalizzazione in quanto ideologia del mercato finanziario e del consumo5. Scattano poi una serie di meccanismi e di apparati tipici del mondo della moda anche se in forma parametrata all’ambiente dell’architettura. I protagonisti del momento vengono pubblicizzati, ricevono premi letterari (v. il Pritzker) , sono chiamati come testimonial di ditte a scala mondiale come Norman Foster per la Rolex, e Massimiliano Fuksas per la Renault. Ad un bilancio il più possibile oggettivo e imparziale ritengo di poter affermare che tutto questo dipende come sempre, dall’uomo, da come si comporta ciascun soggetto in tali ambiti giacché si può spettacolarizzare l’architettura e assecondare la mediatizzazione senza penalizzare nè l’Architettura nè i suoi principi e i suoi obiettivi storici. Le star fanno, tutto sommato, una ricerca estrema che non può che essere utile in generale se non è limitata solo ad aspetti molto parziali. Il superamento della concorrenza e poi di se stessi è proprio delle persone di qualità; il problema sorge quando siamo in presenza di architetti non eccelsi ma ambiziosi al tempo stesso che fanno leva su fattori di scarso livello culturale e puntano su invenzioni spettacolari ma di scarso o nullo contenuto ideologico concettuale; fini a se stesse, superficiali anziché di tipo intellettuale profondo e altresì prive di quel «pensiero» che correla l’architettura al contesto, alla sua storia e alla sua cultura. C’è chi infatti gioca su facili e spesso banali metafore biomorfe o zoomorfe la cui ingenuità le accantona in un ambito subculturale. Un esponente di questo genere di archistar è Massimiliano Fuksas con, ad esempio, la trovata della nuvola per il Centro dei congressi dell’EUR di Roma e, ancora, con un altro esempio antesignano di questo genere di architettura pubblicitaria, attuato nel 1985 nell’ ampliamento del municipio di Cassino, dove all’ultimo livello, nel coronamento, Fuksas realizza una facciata artatamente e platealmente pericolante che sembra sul punto di cadere. Ma all’assolutamente insolita drammaticità della scenografia e alla corrispondente onerosità e complessità di costruzione e gestione non corrisponde una motivazione concettuale né scientifica né poetico-culturale rapportata al contesto e alla sua storia e alla sua cultura. Sono ispirazioni estemporanee e contingenti mirate alla spettacolarità perché il prodotto meglio vendibile. Fuksas da questa spiegazione nella biografia redatta da Ruggero Lenci6 nel 1996, dove afferma che: «Il sopra è luogo della sorpresa, tutta da scoprire perché poco visibile e quindi discreto 4
Questa complessa tematica è ampliamente trattata nei miei due libri: La decostruzione e decostruttivismo. Pensiero e forma dell’Architettura. Roma, Gangemi 1998; La decostruzione e il decostruttivismo vent’anni dopo. Bilancio critico e prospettive. Centro Stampa d’Ateneo, Reggio Calabria 2007. 5 V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura ,Torino, Einaudi, 2008. 6 Da Ruggero Lenci, Massimiliano Fuksas oscillazioni e sconfinamenti, Torino Testo e Immagine
turbamento della pace cittadina. Questa parte del progetto rappresenta la città vera brulicante, costruita sopra i tetti degli edifici, ma anche la città dell’immaginario, la città in trasformazione in cui, sotto i raggi diretti del sole, le facciate si staccano dagli edifici e si intarsiano come la zucca di Halloween». E tale parallelo, con un gioco per bambini per di più importato, ignoto al luogo appare scarsamente giustificabile se non incomprensibile. E c’è da aggiungere che, oltre ad essere irriconoscibile, tale invenzione così dirompente ( e il caso di dirlo) è priva di ulteriori motivazioni e risulta inoltre maggiormente impropria per una sede simbolicamente importante e rappresentativa come il municipio di una città che ha poi una storia antica7. In un libro recentissimo scritto a due mani con Paolo Conti8 Fuksas intitola un capitolo «Quanto è pericoloso ‘voler stupire’ massacrando un tessuto urbanistico antico». E dove pare che voglia mettere in dubbio la volontà di stupire che invece sembra essere di fatto il suo manifesto programmatico. E analogamente l’intitolazione del paragrafo a pagina 69 recita: “ IMPORRE È DISTRUGGERE. Contro le soluzioni militari. Contro la mitologia dell’orribile termine ‘archi-star’ (e contro chi l’ha inventato).” Ma Fuksas fa la star, fa il testimonial, fa la copertina con la sua immagine ( con una sua architettura sarebbe stata più bella) che è tipico delle archistar. Ma se si legge l’apertura del testo sopracitato si nota come l’autore abbia delle idee personali su cosa sia l’architettura9 che per noi tutti è sempre stata arte e scienza. Passando quindi ad Eisenman, papillon, camicie e bretelle a parte,( il discorso sul vestiario è più gossip che altro) si parla di un vero maestro contemporaneo che ha svolto ricerche importantissime ed ha realizzato selettivamente delle ottime architetture. Ha svolto il dottorato di ricerca in Italia con Colin Rowe. Ha fatto parte, quale mente teoretica, dei Five Architects commentati dal grande Manfredo Tafuri nel famoso “Le bijoux indiscrets”, ed esposti al MOMA di New York. Fonda quindi lo IAUS (Institute for Architechture of Urban Studies) che negli anni ’60- ’70 accoglierà le figure più importanti dell’architettura e dell’arte, da Philip Johnson a Rafael Moneo, a Rem Koolhaas, ad Arata Isozaki, Richard Meier, Frank O. Gehry, e altri. Nell’82 Eisenman lascia la direzione dello IAUS e cessa la pubblicazione di Oppositions per ampliare lo studio e dedicarsi a progetti in coerenza con le sue ricerche. Si citano per tutti i progetti per il castello di Romeo e Giulietta e per l’Università di Long beach dove Eisenman sperimenta il procedimento dello scaling, e la realizzazione del Wexner Center a Columbus che è stato definito il primo monumento decostruzionista del XX secolo. Nel ’98 passa dal paradigma meccanico a quello elettronico e allo studio del folding ( piegatura) fatta derivare dallo spazio anticartesiano (affettivo) del filosofo Gilles Deleuze caratterizzato dalla «piega» (originata da Leibniz) e dello «spazio affettivo», e passa quindi all’Architettura digitale, alla prassi del diagramma e della geometria topologica, in base alla quale ha realizzato (parzialmente i lavori sono in corso) a Santiago de Compostela “La Città della Cultura”. La quantità degli interventi è volutamente contenuta in quanto Eisenman non realizza l’Architettura se non è attuata unitamente e congruentemente con quel pensiero che la sostanzia, la motiva, la significa. Di fronte a tale curriculum, che corrisponde ad una immensa quantità di pubblicazioni, cui e da aggiungere quanti hanno scritto su Eisenman interi libri10, l’essere stato annoverato tra le archistar non sposta nulla e l’atteggiamento comportamentale esteriore è innocuo e ininfluente. Ciò che importa è quanto questo architetto ha dato per l’avanzamento della disciplina ed è un contributo notevolissimo che lo pone ai primissimi posti in una ipotesi di graduatoria mondiale, altro non ci riguarda; Non è da dimenticare inoltre l’ammonimento di Mies Van der Rohe di accettare lo «spirito del tempo» giacché i «valori» dipendono anche da questo e senza tale adesione, ha ribadito Mies, nessuna operazione è possibile.
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Di origine volsca, poi colonia romana, periodo di cui è rimasto un anfiteatro è famosa per l’abbazia posta sul colle di MonteCassino eretta nel 529 d.C. ma poi più volte distrutta e ricostruita. Ultima distruzione quella del 1944 quando, caposaldo dei tedeschi fù bombardata dagli alleati. 8 Massimiliano Fuksas Caos Sublime, Milano, Rizzoli, 2009. Da notare tra le altre cose, la contrarietà alle soluzioni militari ma poi dichiara guerra a chi ha inventato il termine archistar. 9 Il testo Fuksas – Conti (op. cit) inizia ne più ne meno così: tentativo di definizione ( per negazione) dell’Architettura. L’Architettura non è disciplina. L’Architettura non è rigore (rigor mortis). 10
Nei miei due libri citati in precedenza vi sono diversi capitoli interamente dedicati ad Esenman.
L’ARCHITETTURA DELLE SENSAZIONI DI DOMINIQUE PERRAULT Francesca Buonincontri
L’architettura, divenuta sempre più oggetto di operazioni di marketing, non sembra aver mai raggiunto tanta notorietà come in questa fase storica in cui il rapporto con i fruitori è gestito direttamente dai mass media. La dimensione mediatica ha portato alla semplificazione di messaggi concentrati soprattutto sui nomi appartenenti allo Star Sistem. I veri protagonisti di questo interesse mediatico diventano allora gli Archistar cioè gli architetti divi, gli architetti di grande fama costretti, in un circolo vizioso, ad un’attività frenetica e a progettare opere stupefacenti, il cui incarico è spesso affidato loro da politici desiderosi di ripetere l’effetto Bilbao, cioè di attirare turisti come magneti e di incassare consensi dalla notorietà dell’architetto e dalla eccentricità dell’opera. Difficile risulta definire oggi l’architettura recente dello Star System, quella, ad esempio, di Frank Gehry, Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Renzo Piano, Jean Nouvel, Peter Eisenman, Norman Foster, Dominique Perrault, architetti molto differenti fra di loro, il che rende complesso svolgere analisi generalizzate. Quella attuale è infatti un’architettura caratterizzata, più che da tendenze, da poetiche singolari che non pervengono ad uno stile - il quale del resto avrebbe bisogno di tempo per consolidarsi, di una lenta sedimentazione di conoscenze e modi di operare - quanto a linee riconoscibili, quali sono quelle della moda, ad un marchio, una griffe. Le opere degli archistar appaiono inoltre lontanissime dall’edi- lizia corrente, attente soprattutto a segnare fortemente il territorio con la loro presenza. Nel progetto per l’Ampliamento del Teatro Mariinskij a San Pietroburgo, per esempio, ritroviamo uno degli architetti maggiormente presenti sulla scena internazionale, Dominique Perrault, con il suo desiderio di intervenire onde lasciare segni vincolanti e modificare la percezione dell’esistente, in questo caso la Piazza dei Teatri di San Pietroburgo, l’antica Teatralnaya, dall’aspetto solenne e dalla simmetrica severità, che viene sconvolta dall’apparizione di una sfaccettata ‘bolla’ dorata. Lo stesso Perrault ripete spesso, infatti, che per lui l'architettura è trasfigurazione, emozione, frutto di contaminazioni linguistiche e che «lo spazio esterno, il contesto, sono importanti quanto il volume da costruire». Sarà per questo intento quindi che dalla sua matita sia scaturita la scelta di un intervento fortemente innovativo, la cui costruzione ha comportato la distruzione di un intero brano della città. Il nuovo teatro-bolla sorge di fronte al vecchio Mariinskij, sul lato opposto del Canale
Kryukov, ed i due edifici sono collegati tramite «due ponti, uno tecnico per manovrare la scena e uno pedonale per il pubblico». Molte opere degli Archistar, non solo il nuovo teatro di Perrault, promuovono un’immagine di città mutante, in continua evoluzione, contraddittoria, con una architettura, più che simbolica, rivolta ad assumere le artificiosità emozionali del nostro tempo dove l’immaginario è falsamente lasciato libero di scatenarsi. A tal fine sono privilegiati gli interventi di grandi dimensioni, fautori di ‘nuove centralità’, opere faraoniche dalle spese di costruzione e di gestione onerosissime. «E’ un’architettura che deve liberarsi dagli aspetti funzionali» ha teorizzato il critico d’arte Germano Celant, dal momento che, come afferma Dominique Perrault, la vera finalità dell’architetto sta nello «scuotere la percezione di chi guarda....E’ proprio lì, nell’emozione che suscita una struttura, che l’architettura diventa di tutti». E, per suscitare emozioni, secondo Perrault, bisogna rivolgersi alla star che sappia suscitarle e che egli rivendica con orgoglio di essere: «Se l’architettura è come auspico, un tessuto complesso, ci vogliono le star come gli artigiani: mica Maria Callas cantava in un coro?» Ricerca di definizioni urbane volutamente innovative, desiderio di lasciare segni importanti sul territorio e capacità di applicare l’innovazione tecnologica, sono gli ingredienti con cui l’architettura può suscitare sensazioni emozionanti secondo Perrault il quale, anche nell’ampliamento del teatro Mariinskij di San Pietroburgo, conferma l’aspirazione di voler emozionare, con una struttura caratterizzata dall’effetto sorpresa legato alla forma ed al materiale usato, dove la doratura della superficie esterna vuole tuttavia essere un richiamo alla cupola dorata di San Pietroburgo. La proposta, risultata vincitrice ad un concorso internazionale nel giugno del 2003, risponde all’esigenza di ampliare lo storico teatro di San Pietroburgo, l’ex Teatro del Popolo e delle Arti, ribattezzato, dopo la rivoluzione, Kiros, un grandioso edificio bianco e verde progettato nel 1849 da Albert Cavos. La ristrutturazione muta il teatro non solo nella forma ma anche nell’identità di luogo dalla grande tradizione lirica e di ballo, che aveva visto debuttare nel 1885 il Lago dei Cigni di Ciaikovskij. L’obiettivo finale infatti è quello di trasformarlo in un superteatro all’avanguardia, dotato di tecnologie sofisticatissime, secondo una tendenza ormai diffusa in Europa ed anche in Italia, che vuole gli edifici per lo spet-
tacolo siano superarchitetture gigantesche, esse stesse spettacolari, dotate di tecnologie capaci di creare in scena effetti fantasmagorici con l’allestimento possibile di diverse opere liriche contemporaneamente, anche se economicamente deficitari, con scarsi risultati anche di pubblico. Il progetto del Teatro Mariinskij è formato da due elementi: un auditorium da 2000 posti e una sala minore per 350 posti con relativi spazi accessori. Sopra le aree funzionali si distende un gigantesco prisma di vetro, dalle sfaccettature triangolari e trapezoidali, con fasce dorate di alluminio cui corrispondono internamente lastre in cartongesso pure color oro. Tra questo ‘guscio’ e la parte più interna del teatro una seconda parete di vetro concorre alla determinazione di uno spazio pubblico per caffé, ristoranti e servizi commerciali. La doppia e preziosa ‘pelle’ sembra voler sottolineare il primato dell’immagine e dell’indipendenza degli involucri rispetto alle strutture, coerentemente con l’interesse di Perrault per la sperimentazione dei materiali e dei particolari. In più occasioni, infatti, il tema della natura del rivestimento è stato individuato dalla critica come cifra delle sue sperimentazioni che a volte sembrano riprendere la tecnica dell’impac- chettamento utilizzando materiali insoliti e innovativi per rendere il contenuto misterioso e valorizzarlo. Dopo tre anni, durante i quali il progetto è stato messo a punto, l’amministrazione statale, da cui dipende il teatro, ha rotto il contratto con l’architetto contestandogli quattrocento errori di progettazione e i costi lievitati, dalla iniziale valutazione di 150 milioni di euro a circa 200 milioni. Perrault ha risposto definendo grottesche le accuse, e lo Stato russo, responsabile del progetto, ha deciso di far continuare i lavori in assenza del controllo dell’autore il quale lamenta gravi modifiche all’opera, responsabili di alterarne anche l’acustica. In realtà il giudizio emerso dalla valutazione condotta dagli esperti dell’amministrazione allo scopo di appurare la qualità tecnica della struttura suona molto severo, e - come riferisce russia-ic.com - sono state evidenziate criticità soprattutto riguardanti il grande "involucro color oro", pensato per avvolgere l’edificio. Dominique Perrault ama coltivare il virtuosimo delle forme, trasgredendo i valori attribuiti al monumentalismo tradizionale, affermando di voler creare una nuova visione dell’oggetto architettonico fondata sul senso di semplicità, da «non architettura» o «architettura che non c’é», dove l’astrazione geometrica inglobi la natura offrendo ai fruitori grandi spazi aperti da vivere. Ritenuto uno degli interpreti dell’architettura landform, architettura a forma di paesaggio, tendenza in definitiva legata al cosiddetto decostruttivismo, egli tende a rendere persino in termini conflittuali il rapporto tra forma e funzione: la funzione è solo il pre-testo fissato da regole e norme, la forma invece deriva dalla fantasia creativa, coa-
diuvata dalla calcolazione strutturale computerizzata in ragione della previsione formale fornita dai rendering tridimensionali nell’uso dei nuovi materiali offerti dalla tecnologia. Perrault, a quanto dice, indirizza la propria ricerca formale anche sul rapporto con il paesaggio. Geografia e contesto diventano quindi per lui termini intercambiabili, analizzati non solo alla luce delle trasformazioni storiche, quanto attraverso discipline diverse quali l’antropologia, la sociologia, la geologia. Appare quindi paradossale, rispetto agli intenti, che i suoi progetti appaiano del tutto decontestualizzati, come è per il teatro di S. Pietroburgo, le cui dorature sottolineano la profonda vocazione alla differenziazione dal contesto urbano, storico, antropologico, figurale, invece che ammiccare alle analoghe dorature delle cupole ortodosse. Una decontestualizzazione che si avvale di diverse modalità, tra cui, come è nella Biblioteca François-Mitterrand di Parigi, quella del ‘grandioso’ o, meglio, del ‘mastodontico’ la quale, sebbene riferibile alla grandeur propria al carattere di Parigi, nelle quattro torri di vetro fuori scala e l’im- menso vascello seminterrato, annulla del tutto, in una arrogante invasività, il discreto paesaggio del XIII arrondissement disteso nel verde sulla riva della Senna. Il progetto della Grande Biblioteca sembra fondarsi su un’idea molto semplice che consiste nel lavorare col vuoto anziché col pieno. L’impianto è infatti caratterizzato da quattro torri-magazzino angolari in vetro a forma di libro aperto che delimitano la piazza centrale multilivello di circa 60000 mq. L’edificio presenta un sopra e un sotto: sopra stanno le quattro torri, sotto, nello “zoccolo”, vi sono le sale di lettura. Questa scelta è stata da più parti contestata per gli alti costi di gestione, per l’assenza di luce naturale per i lettori, sistemati sottoterra, per la necessità di dover ricorrere a persiane di legno a protezione dei libri conservati nelle quattro torri trasparenti, non essendosi potuti porre in opera i progettati vetri fotosensibili per le troppo grandi dimensioni previste. La struttura ha suscitato critiche anche per la gradinata di accesso di non facile percorrenza, per i percorsi troppo lunghi tra sale lettura, caffetteria, bagni, per le salite a piedi e le scale automatiche in discesa vertiginosa, per il rivestimento in legno della piazza sopraelevata che, scelto per ‘demonumentalizzare’ l’edificio, presenta problemi, sia per le possibili esondazioni della Senna, sia anche per il fatto che i legni pregiati con cui è costruito l’im menso pianoro con la pioggia diventano scivolosi. All’interno della struttura è collocato un giardino, chiuso al pubblico, di 12000 m² con alberi ingabbiati da griglie metalliche onde mostrare, nell’intenzione di Perrault, la possibilità della natura di prevalere sull’in- tervento umano: «La natura è viva e col tempo le griglie metalliche spariranno inglobate dai rami. La presenza e l’assenza dell’architettura, questa continua trasfor-
mazione mi emoziona...La mia è un’architettura che non c’è, è piuttosto un’esperienza che si rinnova, un’esperienza fisica e sensuale dell’incontro, spesso folgorante, tra un luogo e un’idea». Di fronte al simbolismo del grandioso, cui la grande biblioteca sembra aderire, con i suoi sensi di terribilità e, pure, di terrifico, messi in luce dalla psicoanalisi, viene da riflettere su tanta impudenza. Ma uno dei caratteri degli Archistar è forse proprio l’assenza di pudore, quell’aidós dei greci che offriva la misura a che risplendesse l’eterno.
VILIPENDIO A FOLIGNO FIRMATO FUKSAS Massimo Squillaro
La verde Umbria continua purtroppo a dimostrare un rapporto difficile con il cemento e con l’edilizia: ecomostri, palazzoni, torri, condomini e improbabili centri direzionali sorgono come funghi, cancellando ogni giorno un pezzo di campagna o una zona agricola. L’ultimo omaggio al grigio cemento, alla voglia di costruire malata di gigantismo, lo ha firmato la nostrana archistar Massimiliano Fuksas, “regalando” alla città di Foligno una chiesa - San Giacomo - che, per il suo impatto visivo avrebbe probabilmente goduto di migliore collocazione in una anonima area metropolitana. Voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana e disegnata dall’ormai noto architetto, la chiesa doveva rappresentare un simbolo della rinascita di Foligno dopo il terremoto del 1997, e un innovativo modello d’arte sacra oltre i canoni classici della sacralità. Il costo complessivo dell'intervento è di oltre 3 milioni di euro, cui vanno aggiunti circa 600 mila euro per le opere d’arte. Con questa creazione Massimiliano Fuksas ha dichiarato più volte di aver realizzato finalmente la sua opera più intensa e importante. La struttura si compone in un volume cubico costituito da due parallelepipedi, di cui uno inscatolato nell’altro. Quello esterno largo metri 22,50, lungo 30 e alto 26 (quanto un edificio residenziale di circa nove piani), quello interno posto a 3 metri dal pavimento e dalle pareti del volume esterno. Il primo è in calcestruzzo armato a vista; il secondo – una sorta di velario con struttura in acciaio e finitura in cemento alleggerito – è appeso nel primo per mezzo di travi in acciaio posizionate in copertura. L'edificio si apre all’esterno con una larga e bassa feritoia ritagliata in un fronte del tutto cieco: un ingresso rialzato al quale si accede dopo aver percorso una rampa, sorta di sagrato in pendenza. La luce vi entra dall’alto, a illuminare perimetralmente con continuità lo spazio interstiziale, e verso il centro, in corrispondenza dell’altare, attraverso tre finestre orizzontali rettangolari. Al corpo della chiesa si affianca un parallelepipedo allungato - disegnato con una partitura tradizionale di finestre, e finito con intonaco grigio (60x12, alto 7 metri) - dedicato alle funzioni complementari. Le profonde strombature delle aperture rettangolari esterne vengono sdoppiate e amplificate tra mite i volumi di congiunzione conquelle corrispondenti nel volume interno, proiezioni
materializzate dei vuoti che definiscono una rete spaziale di giunti aerei diagonali sopra le due strette “navate” laterali. Completamente in cemento, imitando la più ieratica sacralità dei templi di Tadao Ando, anche nella relazione tra pieno e luce, la colata grigia firmata Fuksas appare quasi volersi imporre al paesaggio, sconvolgerlo, invece che rifondarlo, del tutto alieno alla discreta presenza che si riconosce nell’architettura del maestro giapponese. L’autore, che si è recentemente convertito al cattolicesimo, ha affermato, contro i detrattori, di essersi richiamato, per la sua opera, ad una concezione del religioso che si manifesta nella verticalità degli edifici sacri, in linea con la liturgia della messa secondo il rito tridentino. In occasione dell’inaugurazione ha quindi dichiarato, forse pensando al più ampio luogo di culto realizzato da Renzo Piano a S. Giovanni Rotondo, di non aver voluto realizzare un luogo spettacolare rivolto allo spettacolo delle persone, quanto un edificio per la loro accoglienza in linea con i principi del Vangelo. E forse la povertà del cubo potrebbe effettivamente raffigurare il senso della chiamata al comunitario che è nello stesso termine ecclesia. Ma è la sua esuberante scala che sembra voler porre una esaltazione della povertà, il suo minimalismo superlativo, a denunciare invece proprio la volontà di spettacolarizzare l’indigente, esibire la magrezza della forma, contraddicendo gli assunti neofiti del progettista, il quale non sembra in tal modo aver veramente digerito la Parola, il catechismo cattolico, l’ordinamento del Messale Romano, il magistero di Papa Benedetto XVI. Sicuramente, secondo una maniera ormai consueta, quella dell’architettura nell’architettura, tra Ungers, Koolhaas, lo stesso Ando, rivolta a manifestare come il costruire non sia che un gioco chiuso in sé, privo di rinvii eteronomi, appare suggestiva la scelta di definire un volume interno ad un altro volume, tali da determinare una certa magia della luce. E tuttavia la scala eccessiva dell’intervento rispetto all’incolpevole panorama umbro non lascia supporre un edificio di culto quanto un grigio strumento d’imperio, forse, data la sua magniloquente e criptica geometria, una torre dei supplizi adatta ad un carcere di massima sicurezza o il nucleo di difesa di un bunker antinucleare, luoghi cioè dove far albergare la difesa di un potere invece che la rinuncia nella Persona. Del resto Fuksas non è nuovo a paradossi contradditori, come è per
“il Faro” di Albissola o il PalaFuksas di Torino, del tutto avulsi dall’intorno in cui sorgono malgrado i proclami contrari alla liberalizzazione dell’edilizia che compromette i territori ed alla anarchia progettuale che non rispetta i contesti. Naturalmente appare possibile, in un mestiere così complesso qual è quello dell’architetto, contraddirsi, ma il contraddire i principi che si pongono alla base del proprio fare, come accade a Fuksas, rivela solo una personale confusione o uno smodato desiderio di affermazione che costringe a venire a patti con se stessi, in un esempio da non imitare che rivela forse la sfrontatezza dei tempi.
VITTORIO GREGOTTI, CONTRO LA FINE DELL’ARCHITETTURA E ALTRI TESTI Raffaele Nappo
«Proprio perché la realtà umana è divenuta in disperso nei fatti in stereotipi, cliché, luoghi comuni la cui descrizione, coincidente con i modi di produzione del tardo capitalismo e in modo ancor più compiuto con quelli che hanno per ora trasformato la grande opportunità offerta della globalizzazione in ideologia della globalizzazione del denaro e del consumo, non può che essere costruita sulla critica diretta o indiretta di una società dei simulacri e dell’indistinzione tra realtà e apparenza» (V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino, 2008, p.14). La visione manifestata da Vittorio Gregotti circa la nostra condizione attuale sembra non prendere atto, malgrado la professione di “realismo critico”, del passaggio del tutto “reale” dei sistemi comunicativi da una «allegoria della rivoluzione (modernismo) a rappresentazione di uno stato (postmodernismo)» (F. Jameson, Postmodernism or the Cultural Logic of the Late Capitalism, Duke University Press, Durham 1993). L’avvento
del postmoderno per le generazioni del primo dopoguerra deve pertanto essere stato del tutto “funesto”, dal momento che esse sembrano vivere un gap di comprensione circa il mutare del mondo, ritenendo oltretutto che la causa del cambiamento sia dovuta alla disgregazione degli «impegni critici della cultura di fronte allo stato delle cose» (V. Gregotti, Il sublime ai tempi del mercato,in «La Repubblica», 20 Dicembre 2007, p. 40). Si chiede tuttavia se la critica ai tempi attuali
privi di “impegno” sia veramente ingenua o non si inserisca tra i differenti concept generati proprio dal postmodernismo. Viene infatti da domandare: appare veramente realistica una architettura del Realismo Critico? O invece la ricerca del fondo “reale”, che non si rende nella immediatezza superficiale dei sensi, definisce i contorni di una nuova forma, di un nuovo brand da commercializzare nei superficiali giochi del marketing globale? Che vi sia nell’ostinata affermazione di essere realisticamente critici solo l’ipocrisia di definire una diversa linea di mercato? In Italia, durante la grande ricostruzione del dopoguerra e del successivo “boom economico”, Vittorio Gregotti era tra i sostenitori del “Neo Liberty” la corrente che suscitò grande curiosità per la sua opposizione alla «cura dimagrante del Modernismo» ormai in crisi. Tra l’alternativa di rifugiarsi, data la caduta dei valori moderni, nell’intimismo lirico o nel silenzio di una inco municabile perfezione, Gregotti, con gli altri architetti italiani aderenti alla eterogenea corrente, indicò in quegli anni la necessità di riconquistare il senso
della storia, di assumere la responsabilità di intellettuali in grado di intervenire nella disgregata società e realtà urbana emergente dal disastro bellico. Il dichiarato impegno non deve però aver fatto presa sui fruitori, sui cittadini, sulla ‘massa’, sulla “realtà”, che ha mostrato di seguire narrazioni del tutto diverse. Con l’avvento esteso dei mass media infatti, più che l’impegno intellettuale degli architetti italiani è stata la comunicazione POP a svolgere più sottili critiche al mercato onde rigenerare una autenticità non mercificata dell’abitare. E’ indicativo anzi che la POPular Art, nata con l’Indipendent Group nel 1952, da cui derivano molte esercitazione attuali dell’architettura cosiddetta ‘decostruttiva’, abbia contrastato energicamente il fare del gruppo italiano, anche attraverso gli articoli di Reyner Banham, proprio in nome della libertà compositiva del progettista e di quella interpretativa dei fruitori. Gregotti e i componenti del gruppo milanese, agli albori della società consumistica, hanno infatti cercato di ‘sollecitare, celebrare, commuovere’ la massa mediante racconti abitativi comprensibili ma formalmente rigidi e, pur invocando il sociale, hanno negato la naturale vocazione della società alla mobilità. Emblematico in tal senso appare il quartiere palermitano Zen, esempio di realismo che sembra fondare un oppressivo potere di geometrie abitative, rigidamente chiuse, sulla falsa libertà del loro combinatorio comporsi il quale, invece che dar voce alle verità particolari degli abitanti, li interna piuttosto in un immobile fortilizio, un fermo ghetto. Negli stessi anni la mostra This Is Tomorrow organizzata da artisti, architetti, musicisti, grafic designers, ha delineato il fare dell’architettura come attività in divenire, dove la contaminazione con i diversi settori delle arti ha inteso interpretare il loro eterogeneo presente quale costruzione del domani, nella convinzione che in quell’oggi così variegato in cui si infrangeva ogni disciplinareità vi fosse già il futuro. Un futuro, secondo Gregotti, che negli artisti e negli architetti di derivazione pop, appare essere invece tutto risolto nell’immagine, e quindi nel suo presente «senza spessore» (V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, op. cit., p.121) per cui, seguendo Jean luc Nancy, più che il multidentitario dell’architettura odierna, già sperimentato nella mostra inglese, si pone l’eventualità di una interdisciplinareità, di una unità delle arti se si vuole, che, al fine di una reale comunicatività, si invogli, arricchendola, in ciascuna singola disciplina artistica, di cui va riscoperta
l’identità, il nucleo intenzionale già ricercato, per l’architettura, ne Il territorio dell’architettura. Si direbbe perciò che la possibilità di essere contro la fine dell’architettura, sia data ancora nell’interrogazione alla base del testo del 1966 in cui, chiedendosi di cosa sia fatta la “cosa” architettura, Gregotti non offre risposte univoche che rendano il suo “in-sé”, per mostrare come la dimensione fenomenologica del progetto sia nella intenzione formalizzatrice dei diversi aspetti (stilistico, ideologico, tecnico, economico) che concorrono alla conformazione dell’abitare, mezzi materiali i quali orientano l’agire progettuale senza esaurirlo nei singoli propri confini. Sarà forse per questo aspetto necessariamente attivo, produttivo, del progetto, che, consapevole, dalla critica tafuriana all’ideologia dell’architettura, Gregotti sostiene, ancora oggi, come, in quanto progettisti «non rivoluzioneremo mai la società per mezzo dell’architettura», sebbene potremo rivoluzionare l’architettura, e con essa il nostro stare. Ma se la chiamata alla rivoluzione interna agli autonomi dispositivi del progetto non sembra offrire slancio creativo, quanto solo isolamento e frustrazione, non si comprende perchè il monocolore dell’identità architettonica su base formale sia più rivoluzionario della libertà sperimentalistica, né, nell’oggi globalizzato, verso la difesa di quali valori esso muova. Di recente Luca Molinari ha messo in luce come Rossi, Gregotti, Polesello, Aymonino, lavorassero sui testi ed i progetti con in mente un preciso obiettivo il quale prima di essere progettuale era politico ed ideologico, ma che la città ed il territorio cui guardavano e da cui erano condizionati, ovvero l'Italia e l'Europa dei primissimi anni Sessanta, erano molto lontani dai contesti che oggi affrontiamo (L. Molinari La realtà ha bisogno dell'architettura, Più http://architettura.supereva.com/files/20021226/index).
duramente Luigi Prestinenza Puglisi leggendo il testo gregottiano L’architettura del realismo critico ha tacciato l’architetto milanese di neo-vetero-realismo ironizzando sulla riscoperta delle regole dell’architettura, della misura e della discrezione di personaggi quali Ando e Siza, in epoca di globalismo architettonico e di maggioranza rumorosa della civiltà dell’immagine. «Ma è proprio vero che Ando e Siza sono realisti? – si è chiesto LPS – E che lo siano più di Nouvel, Koolhaas, Hadid, Morphosis, Piano solo per citarne alcuni?...E poi cosa vuol dire realismo? La parola realismo, come ammette lo stesso autore, è ambigua: indica sia un fenomeno storico particolare, il realismo ottocentesco, sia la vuota affermazione che ogni cosa, per il fatto stesso di essere calata nella realtà, è di per sé realista. Inoltre, in una cultura quale la nostra, che nel recente passato è stata zavorrata dal realismo socialista, sia
pure nella sua versione togliattiana, la parola non può che suonare inquietante. I frequenti richiami che Gregotti fa a Luckas, pensatore oggi forse colpevolmente trascurato ma il cui influsso è stato negli anni passati certamente deleterio, non fanno ben sperare. Non vorremmo che Ando e Siza siano più realisti nella misura in cui Guttuso, tanto per citare il nome di un pittore, era giudicato più realista di, che ne so, un Fontana, un Melotti, un Licini. Che dietro la parola realismo non si celi una sostanziale incomprensione di tutta l’arte e la ricerca contemporanea? Sembrerebbe di si: Gregotti in questo libro attacca le ricerche d’avanguardia, mostra chiusure verso Duchamp che “apre paradossalmente la strada all’estetizzazione generalizzata”; dichiara che le avanguardie hanno finito la loro funzione negli anni venti, forse negli anni sessanta… ma ciò che è più grave, scambia la ricerca, che produce innovazione, con la novità, che produce stupore. Scopo dell’arte contemporanea non è ricercare la novità per la novità ma è ampliare i confini della nostra conoscenza, che è tutt’altra cosa». Non solo, ma denunciando apertamente l’ipocrisia gregottiana, lo studioso romano confessa di aver sempre interpretato il richiamo gregottiano alla resistenza rispetto alla civiltà dei consumi come un invito inquietante, in presenza di tanti giovani architetti italiani disoccupati a fronte della fiorente attività professionale dello studio Gregotti, primo per fatturato in Italia e settantanovesimo nel mondo. «Non è questo un modo, snob, da marxisti in Porche – si chiede Prestinenza Pugliesi – di cavalcare il globalismo architettonico nella sua versione triste e tradizionalista? Se esiste infatti uno Star System avanguardista ne esiste un altro passatista e mulinobianchista, nelle sue varie declinazioni che vanno dall’heideggerianamente nostalgico, al postspeeriano al neo-localista…» (L. Prestinenza Puglisi, Il neo-vetero-realismo di Gregotti , http://www. prestinenza.it /articolo.aspx?id=64). E che il realismo critico possa
essere assimilato ad una delle correnti, forse la più triste, del mondo postmoderno è in fondo rivelato dallo stesso Gregotti che, si direbbe in un lapsus, gli attribuisce una analoga valenza estetizzante, fondata sul desiderio e sul piacere. A proposito della critica al reale dato egli infatti scrive riprendendo un proprio saggio di quarant’anni oro sono: «”il processo storico poggia sul desiderio di divenire altro da ciò che è. La storia è fatta non dall’astuzia della Ragione ma dall’astuzia del Desiderio”. E non si può parlare di progetto senza desiderio e senza passioni… In questo senso uso la parola “politica” come messa in atto di un progetto in cui il desiderio è attore» (V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura,op. cit. p.130). Viene cioè da pensare che Gregotti in fondo citi qui uno degli utopisti settecenteschi, tanto amati, guarda caso, proprio dagli esponenti del nuovo avanguardismo
globale contestato, quel Jeremy Bentham che nel testo An introduction to the principles of morales and legislation, pone il genere umano sotto la sovranità di due padroni, il dolore e il piacere, affermando che, nel gioco dei diversi interessi, in fine, l’interesse del singolo, la realizzazione dei suoi desideri, coincide con l’interesse degli altri. (J. Bentham, Introduzione dei principi sulla morale e della legislazione, - 1789 - trad. it. di S. Di Pietro, Utet, Torino 1998, p.88). Assimilabile, attraverso
l’utopismo illuminista, alle posizioni delle cosiddette Archistar, esplicitamente rivolte ad un edonismo che, come annota Michel Foucault proprio a proposito di Bentham, determina un nuovo più versatile potere, il realismo gregottiano sembra legittimarsi a sua volta su una autoreferenzialità che è essa pure condizione di potere. Non solo, ma condannando l’architettura d’autore, pubblicitaria, ed associando in quest’atto il proprio nome ad un immagine da vendere, ad un prodotto da pubblicizzare e da consumare per i seguaci del brand italiano eticamente corretto, Gregotti, proprio con l’affermazione di una autonoma identità dell’architettura non fa che determinare l’architetto come auctor, depositario di una auctoritas che vive oltre ogni rivoluzione. E non ha mostrato proprio il contestato Baudrillard che nella crescita della comunicazione pubblicitaria produttiva di un tipo di società interamente pubblicitaria non si possa uscire dal corto circuito della comunicazione pubblicitaria con la sua semplice negazione? (J. Baudrillard, Il sogno della merce, trad. it. di V. Codeluppi, Lupetti, Milano1987). Non convinto della realtà di tale condizione, Vittorio Gregotti denuncia invece nell’esperienza architettonica contemporanea l’arrendevolezza al mercato ed al suo testimone pubblicitario, sebbene ciò non aiuti a decodificare l’intervento che egli ha effettuato per Real Estate Pirelli alla Bicocca di Milano, forse il più grande intervento di trasformazione urbana privata. Che la riconversione dei 676.000 mq degli Arcimboldi sia solo la vecchia cara speculazione edilizia priva dei connotati del globalismo delle Archistar? Che la speculazione edilizia determinata a Bilbao dall’effetto Guggenheim sia differente di quella milanese promossa dal progetto gregottiano? Franco La Cecla, il quale pure è profondamente critico del fare delle Archistar, ha esplicitamente assimilato al lavoro di queste l’operato di Gregotti e degli allievi come Purini: «in fin dei conti Koolhaas è almeno divertente...e non sostiene come Gregotti e Purini che loro avevano uno spirito impegnato a sinistra quando hanno progettato lo Zen» (F. La Cecla, Contro L’architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p.35). E del resto quale differenza tra lo Store Trussardi, progettato nel 1996 da Gregotti a Milano e l’Epicenter Prada di Koolhaas o i negozi Armani di Tadao Ando. In tutti i casi più che l’abitare o la
funzione, o tutti i materiali in gioco nel territorio dell’architettura, ciò che vale in essi, anche nello Store Trussardi, sia per lo stilista che per l’architetto progettista, è l’immagine che riproduce il mercato. Form Follows Market è la condizione necessaria affinchè tutto il desiderabile si consumi, sebbene con la coscienza che gli rimorde, si direbbe in un mea culpa, Gregotti quasi rinnega il propro progetto: «chi ha come obiettivo vendere vestiti e borse, trova il miglior alleato in questa eccitazione continua, in questo “ sex appeal dell’inorganico”, come lo definiva Benjamin, scioglimento di ogni forma nella transitorietà sublime. Quindi non “molto rumore per nulla” come si potrebbe dire guardando la consistenza creativa e persino la scarsa novità delle cose esposte ma, al contrario, molto rumore in funzione precisa dell’espansione del mercato dei consumi di lusso». (V.Gregotti, Quando la filosofia dello Shopping contamina l’architettura, «Corriere della Sera», 16 Marzo 2001, p.35).
Di fronte a tali contraddizioni, che condizionano il lavoro dell’architetto, più che dichiararsi contro la fine dell’architettura per partecipare invece al banchetto funerario di fronte alle sue morte spoglie, è probabile sia necessario risalire alla fonte che ha originato la ripresa dell’architettura italiana oggi incapace di consegnarsi alla nuova “realtà”, vale a dire al tema «Continuità o Crisi» posto negli anni ‘50 da Ernesto Nathan Rogers, onde misurare forse, sulla crisi postbellica, l’attuale crisi del progetto, senza rifugiarsi nell’intimismo di una silenziosa perfezione, proprio anche ad una architettura che voglia circoscrivere la sua identità per offrirsi a chissà quale “reale”, tanto più che, probabilmente Gregotti non se ne è accorto, oggi quello della continua svalorizzazione dei valori, della derealizzazione del reale, è il fronte della guerra che continuano a combattere le giovani generazioni, cui il richiamo ad anacronistici impegni suona solo come un appello da “cattivi maestri”.
PSICOGEOGRAFIA DI UN CUBO: THE CUBE, THE TUBE, THE BOX Giovanni Bartolo
Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, alle quali si deve il conio del termine archistar, mettono in luce, come già annuncia il titolo di un loro volume, Lo spettacolo dell’architettura. Secondo le autrici l’architettura sembra divenuta, nei virtuosismi dei progettisti più in vista, protagonista di un mondo che fa tendenza, che fa moda, e come la moda esalta la creatività, la provocazione, rendendo spesso le griffe protagoniste dell’informazione, tali da suscitare critiche contrastanti. Il maggior esponente di questa tendenza, che consapevolmente la riassume in sé, è l’architetto olandese Rem Koolhaas, vero mago dell’esposizione mediatica, nel bene e nel male, dell’uso di teorie provocatorie che colpiscono come slogan pubblicitari, inventore di forme desuete le quali, impregnando la mente di chi le guarda o visita, lasciano un’immagine residua riconoscibile, personalizzata, indelebile. Eppure, sebbene apparentemente libere, persino gratuite, le sue forme sembrano realizzarsi attraverso un procedimento complesso che tuttavia si articola ed agisce su strutture semplici. Una delle realizzazioni di Koolhaas, l’ambasciata d’Olanda a Berlino, è certamente una fantäsie spaziale di notevole virtuosismo, che torce, volta e rivolta lo spazio, racchiuso in una rigorosa volumetria cubica. Esplorazione ludica e piuttosto bizzarra delle gioie della complessità, l’ambasciata esaspera il tema della passeggiata architettonica creando un caos vivace ma controllato. Lungo un percorso che procede zigzagando e ripiegandosi più volte su se stesso all’interno di un blocco di vetro di 27 metri di lato dall’aspetto se si vuole modesto, si trovano raccolti molti dei giochi topologici già affrontati da Rem Koolhaas in altri progetti. Nel contrasto tra il vitalismo interno e l’espressione tranquilla delle facciate vi è un che di curioso, di intrigante, paragonabile, come suggerisce François Chaslin, «alla riservatezza di un gentiluomo che, pur in preda a qualche eccitazione, tuttavia non lascia trapelare nulla (un diplomatico ad esempio)». L’ambasciata è anche la metafora, volutamente distaccata, di una situazione politica, un contesto storico problematico, quello della fusione delle due anime di Berlino comunque consolidate dopo la divisione, delle due identità della città, quella romantica, tormentata, e quella efficientista, razionale, che convivono con modi diversi in entrambe le parti divise. Di qui anche, da un lato, l’idea dell’apertura, al mondo occidentale, ad una trasparente divisione verso la vicina Olanda e,
dall’altro, quella di una organizzazione centripeta come è per la Germania riunita nell’analoga oppressione del lugubre passato, del trauma degli orrori scoperti che ancora l’ossessiona e che è percepibile ovunque nella stessa struttura urbana: nelle rovine, nei vuoti, nelle incompiutezze, nella coesistenza di tipi architettonici, stili e atmosfere incredibilmente estranei gli uni dagli altri, che offrono una bellezza tutta particolare, plasmata dalla tragicità della storia, e tuttavia vivace, più libera rispetto a quella di altre città soffocate in vecchie abitudini. I Paesi Bassi volevano un’ambasciata autonoma, particolare e riconoscibile, che fosse un evento rivolto a riflettere l’altro evento dell’unificazione della città. Le autorità berlinesi ritenevano invece che l’edificio dovesse annullarsi nel modello comune della “ricostruzione critica” della maglia guglielmina della Berlino distrutta. Rem Koolhas magicamente risolve il conflitto tra le due opinioni antagoniste, mettendo tutti d’accordo, adeguando cioè il volume al masterplan dell’amministrazione ma giocandolo in trasparenze sghembe tali da suscitare curiosità. Nella citazione del motto del gruppo austriaco Haus-Rȕcker secondo cui bisogna proclamare una «amnistia per l’esistente» e ammettere che altre epoche e altre culture (anche recenti) hanno prodotto frammenti di città ed edifici che dobbiamo tollerare e non per forza denigrare, l’architetto olandese aderisce alla maglia ortogonale che dalla città ottocentesca distrutta si era riverberata nelle grandi lottizzazioni di Stato di Berlino-est, inserendovi l’estremo hi-tech di una fascinosa “confezione”, che soddisfa in pieno, da furbo agente del marketing, la doppia committenza. Anche all’interno la doppiezza viene tenuta viva e mediata da un percorso-passeggiata lineare e spigoloso, con fratture e cavità che sembrano tagliate a picco nel volume del cubo, in una concitazione di ombre e luci, di riflessi e colori. Nelle circonvoluzioni e nei meandri di universi elaborati al computer, si esplora così senza interruzione lo spazio fermo, permanente, della forma esteriore e quello mutevole dello scorrere interiore, in una sovrapposizione che crea, per così dire, “incidenti di percorso”, nodi nella cavità del blocco in cui il pavimento è anche soffitto, ciò che è rampa o scala diventa occasione per restringere o dilatare i corridoi e i locali piano dopo piano. Anche il rivestimento in alluminio del percorso, che crea un’atmosfera metallica, guidando fino ai recessi del tragitto e inducendo una relazione continua con la luce, confonde il pavimento con le
pareti ed il cielo. Koolhaas spiega che ha voluto realizzare un edificio capace di «comprendere meglio Berlino» grazie ad un itinerario iniziatico in grado di rimembrarne i diversi aspetti, le architetture, le atmosfere. Pur avendo dichiarato di aver considerato con la «stessa serietà» i diversi elementi del contesto storico della capitale tedesca, l’ambasciata sembra però voler entrare polemica con l’informe, le forme molli dell’espressionismo, forse per sfuggire il confronto con Mendelshon o Scharoun, ma anche per non essere letta solo nel versante puramente inventivo e mantenere, pure dal punto di vista espressivo, una sorta di medietà. Sebbene l’edificio presenti elementi fortemente innovativi, infatti, il progettista ne maschera la portata disorientante dietro un carattere tranquillo, apparenti misure miste dell’umanesimo e dell’estroversa apertura olandese. Ed è qui, probabilmente, che si mostra come la mediazione non sia mossa solo da aspirazioni estetiche quanto dalla necessità di ricondurre queste dallo spettacolo al business, nel senso che, forzando il sorprendente all’interno di una scatola, un contenitore quasi anonimo, si manifesta anche la necessità per ogni fantasia progettuale di dar conto della rigida necessità economica e organizzativa che la sostiene. Circa tre anni prima che venisse elaborato il progetto di Berlino, l’OMA (lo studio fondato con Elia Zenghelis) aveva già immaginato una promenade analoga lungo una topologia più sinuosa e ripida, più organica. Nel 1993, in occasione del concorso per la realizzazione di due biblioteche nell’università Jussie a Parigi, Koolhaas solleva i piani di ciascun livello degli edifici per congiungere le quote tra loro in un percorso continuo attraverso l’intera struttura il quale «come le curve di un viale interno», offre al visitatore la possibilità del contatto con i diversi ambienti delle biblioteche e col paesaggio circostante. In tal modo si dispiega nello spazio un piano mutevole, una sorta di “tappeto volante” tra i diversi livelli, inestricabilmente fusi, che apre un passaggio nell’ossatura dell’edificio scoprendo viste inattese: qui una rampa, là una pendenza sinuosa, una cavità, un poggio, un tetto, una volta che evoca il frammento di una cupola. Ma oltre gli spunti progettuali che si ripetono diseguali come le linee di uno stilista di moda che fa della riconoscibilità della linea nelle diverse versioni stagionali l’elemento propagandistico, in Koolhaas appare fondamentale proprio la relazione diretta con i media e la propaganda, la quale, utilizzata preliminarmente ad un progetto è alla base della riuscita dello stesso: se piace ai media sarà un successo! Uno dei tanti esempi è il“The Tube”, ovvero il The McCormick Tribune Campus Center, progettato e poi realizzato nel 2003 nell’Illinois, i cui disegni vennero utilizzati come copertina del software Autocad 2006, il programma più diffuso al mondo di
CAD Computer Assist Drawing, quasi a voler dire che il progetto realizzato con il programma si sarebbe diffuso come il programma medesimo. In questo caso la scelta compositiva era dettata dalla spettacolarizzazione dei volumi e delle forme mediante i materiali e i colori. La scelta progettuale non appariva semplice. L’IIT (Istitute of Tecnology) sorgeva su una sorta di terra di nessuno. Il progetto doveva svilupparsi su entrambi i lati della soprelevata che tagliava in due l’area oggetto d’intervento, e doveva far si che le due metà non continuassero a svilupparsi in maniera separata. Costruire una facciata su State Street, come suggeriva il piano regolatore di Mies, avrebbe condannato i quartieri residenziali a est della soprelevata a una condizione di emarginazione. Il progetto dell’OMA si sviluppa quindi in un grande rettangolo tra la State e la Wabash, e tra 32nd e 33rd street, nel cuore fisico del campus, evitando di ammassare le diverse attività l’una sull’altra e collocando ogni frammento di programma come la tessera di un mosaico. Per cogliere il flusso degli studenti nel suo complesso, la rete di percorsi che già collegavano la parte orientale e quella occidentale del campus viene fatta passare attraverso il Campus Center onde dislocare le molteplici attività nelle strade, nelle piazze e nelle isole spartitraffico. Ogni parte che compone il Campus viene accordata secondo esigenze specifiche ed è disposta in modo da rispondere esattamente all’influenza del contesto e dare vita così a diversi quartieri, parchi e altri elementi urbani in miniatura. Il principale elemento unificatore è il tetto, una lastra continua in cemento che protegge il Campus Center dal rumore della soprelevata e nello stesso tempo uniforma l’eterogeneità sottostante. L’impatto della soprelevata sul carattere dell’IIT è stato e continua a essere enorme. Per proclamare un nuovo inizio, l’OMA racchiude la sezione che corre sul Campus Center in un tubo d’acciaio inossidabile insonorizzato, liberando in tal modo il potenziale della terra di nessuno che circonda la ferrovia. Tale strada coperta, soprannominata “The Tube”, diventa una parte cruciale dell’immagine del Center e più in generale di tutto l’IIT diventando protagonista iconografico assoluto del progetto. Come per The Tube anche nel progetto della casa della musica a Porto, l’OMA e Rem Koolhaas propongono una soluzione simbolica che manifesti esplicitamente il nodo dell’incontro tra i due diversi modelli di città determinati nel tempo, una cerniera fra la parte vecchia e quella nuova. Dal punto di vista architettonico, se il tentativo del modernismo di sfuggire alla tirannia della “scatola” si è spesso arrestato di fronte alla perfetta resa acustica della forma geometrica per gli edifici musicali, a Porto, il progetto per la casa della musica, più che sfuggire la forma chiusa, si è concentrato sul rapporto tra la sala e il
pubblico. L’edificio appare una massa solida, un blocco scavato per far posto alle sale da concerto ed in grado di suscitare emozioni sia in chi lo osserva dall’esterno sia in chi vi si trova all’interno. Secondo i dettami del modernismo esso sembra così voler rivelare il suo contenuto. In realtà la forma esterna è tettonicamente autonoma, un puro involucro che finge di essere un pieno, essendo un vuoto che contiene un altro vuoto sì che, nell’illusionismo, sia ribaltata completamente la lezione dei maestri. Suddividendo il programma in spazi collettivi e aree secondarie di servizio, circolazione verticale, impianti tecnici, uffici, depositi, ecc., seguendo cioè il dettato si direbbe funzionalista l’edificio è invece, pure nella chiarezza che tende a manifestare, del tutto misterioso e i diagramma funzionali sono tradotti in una spericolata avventura architettonica. Appare evidente come nei pochi esempi descritti ogni progetto, realizzazione, o idea creativa di Koolhaas aspiri a promuovere nuove esperienze rivolte a sorprendere il pubblico, giocando spesso su analoghi motivi nuovi concetti spaziali, nuove tecniche e nuove scelte tecnologiche, più che per risolvere problemi funzionali, per rispondere ad una sentita esigenza di stupire, spesso non badando all’impatto ambientale e sociale che suscitano le scelte. Del resto non è stato proprio Koolhaas ad avvertire che l’architettura è show-business, nascosto dietro il sipario delle forme allestite?
IL SACRO E LA MERCE IN RENZO PIANO Daniela Conte
L’architettura odierna sembra rifugiarsi in un’artisticità di maniera che spesso scade nell’illusionismo e nel formalismo, sottraendosi alla utilità sociale. In tale direzione si vuole che il mestiere dell’architetto sia in via di estinzione, sostituito da quello dell’artista il quale plasma, nei centri urbani e nelle periferie, grandi sculture abitabili. Nello scenario descritto, si è distinta tuttavia negli anni la personalità dell’architetto Renzo Piano, per il quale l’architettura permane nel suo essere ‘arte del costruire’. In realtà la concezione dell’architettura in Piano non si articola secondo un corpo organico e coerente di norme, una precisata teoria, per manifestarsi in un insieme di aforismi pratici nei quali l’architetto descrive le sue creazioni. Egli è convinto che il fare dell’architettura, più che nelle parole e nello stesso disegnare, sia nel costruire concreto, per cui il progetto, ogni idea progettuale, non deriva da una posizione intellettuale, quanto dall’intuizione e dalla sensibilità nei confronti dei materiali e della forma cui essi sono versati. Per lui l’autenticità di un’opera sta quindi in un’onesta espressione della struttura e della costruzione, come mostra anche l’organizzazione del suo studio, una sorta di bottega artigianale, colmo di una forte sinergia collaborativa, in cui si lavora sui modelli e sui prototipi in scala reale. Suoi maestri, del resto, sono stati, oltre al padre costruttore, architetti versati nella pratica costruttiva, Albini, Prouvè, Makowski, Zanuso, e fondamentali nella sua formazione sono state le collaborazioni con conoscitori della statica dei materiali come Rogers e Rice. L’altro caposaldo dell’architettura di Renzo Piano è il rapporto che le sue opere instaurano con l’ambiente circostante. Queste appaiono come modellate dal luogo, dall’esigenza di integrare architettura e natura, e dalla continua ricerca sulle potenzialità dei materiali attraverso la sperimentazione delle nuove tecnologie. I temi costanti della sua ricerca progettuale sono la leggerezza e la trasparenza, che consentono di integrare l’architettura con l’ambiente naturale; i suoi edifici si adattano così al luogo in modo spontaneo, con l’uso anche di tecnologie sofisticate, tali però, da far aderire l’opera quasi naturalmente al tempo e al luogo cui appartiene, anche a costo di realizzare, in luoghi e tempi dissimili, opere tra loro eterogenee. Sicuramente appare condivisibile la diffidenza di Piano, che ricorda quella miesiana, verso una architettura risolta nel gesto artistico, istintivo, persino irrazionale, mosso dalla creatività dell’auctor. Ma non
è forse anche il mestiere costruttivo, l’integrazione armonica con l’ambiente, a determinare una normatività, una auctoritas in cui decade il tragico porsi all’ascolto dei materiali, del luogo, dell’essere, cui proprio Mies insegnava? In alcuni progetti di Renzo Piano, la forte attenzione al luogo e all’aspetto costruttivo, non sembra aprire infatti, ad alcuna interrogazione sull’abitare, offrendo finanche una scarsa qualità dello spazio. Ed è altresì paradossale che ciò avvenga in edifici nei quali l’incommensurabile dello spazio, del tutto alieno ai sensi che possedevano i grandi spazi miesiani, è, anche funzionalmente, rivolto al sacro, quello laico comunitario del centro commerciale detto “Vulcano buono” di Nola, e quello propriamente religioso della chiesa per Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Nel non-luogo dei raccordi autostradali dell’Interporto Campano, Renzo Piano realizza un “super-luogo”: una struttura artificiale che s’inserisce nella pianura nolana come un sollevamento del suolo che imita la forma del Vulcano napoletano. In quest’opera Piano esprime perfettamente la sua necessità di trovare una relazione con l’ambiente da cui riprende, sia pure individuato a distanza, l’andamento del Vesuvio, realizzando la forma organica e naturalista di una collina artificiale, la quale da lontano appare come un’increspatura della superficie terrestre. La dimensione della collina, ridotta in scala 1:50 rispetto all’originale, varia tra i venticinque e i quarantuno metri, la struttura esterna è in calcestruzzo armato rivestita con un manto erboso, mentre all’interno svettano grosse colonne colorate che terminano con una struttura d'acciaio, simile ai rami di un albero. Gli accessi sono offerti da cinque tagli radiali, che organizzano anche il vasto sistema dei parcheggi, distribuiti intorno all’area perimetrale. Il centro commerciale ospita, nei primi due livelli delle gallerie, un grande ipermercato, una multisala, una palestra, attività commerciali di vario tipo, ristoranti, zone di riposo, servizi per il pubblico, e, nell’ultimo livello chiuso al pubblico, la zona degli uffici. Lo scarso impatto visivo della struttura non riesce a identificarla come polo attrattivo, luogo di riferimento per la grigia e violenta periferia napoletana, e non caratterizza affatto la zona già priva di connotati, tanto che a distanza di pochi anni appare plausibile la probabilità di una sua riconversione funzionale. L’analogia con l’arida montagna vulcanica è tale che in questo spazio sembra difficile orientarsi, individuare gli accessi, distinguere le differenti zone delle
gallerie commerciali, contraddistinte esclusivamente dal diverso colore della struttura, quasi si sia all’interno di condotti utili all’indistinto muoversi di un anonimo magma. E difatti lo spazio interno è articolato lungo le gallerie in maniera indifferenziata mentre la relazione tra i due livelli avviene attraverso alcuni vuoti corrispondenti ai lucernari superiori, necessari a far filtrare la luce, e ad invogliare, di fatto, l’uscita. Fulcro della struttura, il cratere di centosessanta metri di diametro, ovvero la piazza scoperta con alberi, specchi d’acqua, fontane, nell’intenzione progettuale doveva essere punto di ritrovo e luogo d’incontro, ma in realtà non riesce a popolarsi di visitatori e ad incidere sulla vita dell’edificio, rimanendo, come è per la bocca del Vesuvio, solo un immenso sbadiglio rivolto al cielo. Viene da chiedersi, dunque, dove siano finite l’esplorazione e la manipolazione dei materiali, la ricerca della trasparenza e delle soluzioni tecnologiche innovative, l’ascolto e il dialogo con gli abitanti, di cui lo stesso Piano ha sempre parlato. Le grandi colonne portanti colorate sono inglobate o seminascoste nelle pareti interne divisorie; dalla copertura e dai lucernari la luce, ma anche l’acqua, sgocciola sugli utenti, mentre solo dai luoghi di sosta si percepisce il rapporto con la piazza centrale, quasi che Piano abbia voluto invogliare invece che ai profani riti del consumo a mistici raccoglimenti con sospese invocazioni alla luce. Anche la chiesa di San Giovanni Rotondo si presenta, come il “Vulcano buono”, con un grande spazio in grado di contenere 6.000 pellegrini all’interno e circa 30.000 sul sagrato. Il passaggio tra esterno ed interno, segnato da una vetrata trasparente, attrezzata con teli decorati da Rauschenberg, quasi non si avverte. Ed infatti sia l’esterno sia l’interno sono caratterizzati dalla medesima pietra locale, vera protagonista del progetto, così come recita, per la Chiesa, la nota locuzione evangelica. In pietra sono quindi la pavimentazione del sagrato, che degrada uniformemente da fuori a dentro l’edificio, il muro che regge le otto campane e l’enorme croce di quaranta metri di altezza visibile dalla piana. La chiesa è a impianto circolare, coperta con un sistema di ventuno archi di pietra calcarea, disposti in modo radiale e ancorati a un grosso pilastro centrale, ogni arco è formato da 120 conci e realizzato con tecniche di taglio e conteggi strutturali calcolati da Peter Rice. Da questi archi partono le strutture in acciaio inossidabile che reggono il tetto costituito da travi in laminati di larice e ricoperto all’esterno da rame preossidato. Sicuramente Piano, nella volontà di lasciar convergere in questo luogo coperto la gran moltitudine di credenti che si conduce a S. Giovanni Rotondo, si è ispirato al senso originario della chiesa, presente nel termine latino ecclesia ed in quello greco εκκλησια (ekklesìa), comunità che si raduna in conseguenza di
una convocazione, di una chiamata. Massimo Cacciari proprio in riferimento al nome scrive: «Chiesa è il riunirsi di coloro che sono stati chiamati, il ritrovarsi degli “eletti”. L’architettura dovrà esprimere questo movimento, questa trasformazione. Perciò la Chiesa dovrà apparire da lontano, richiamare, ri-tagliarsi dall’accidentale»1. Essendo luogo di riunione in quanto sede della divinità, con la presenza del corpo e del sangue eucaristico, Cacciari ricorda quindi come, per il Goethe ripreso da Hegel, il sacro sia «quel che tiene unite molte anime» e come, per l’Heidegger della Lettera sull’Umanismo, esso «spazio essenziale della divinità, la quale a sua volta è l’unica dimensione perché possano darsi gli dèi e Dio, giunge ad apparire solo se prima l’essere stesso viene a diradarsi e si lascia esperire nella sua verità». Al contrario, sebbene la chiesa di San Giovanni Rotondo tenti di offrire, nella grandiosità della struttura, una spiritualità, è proprio l’indistinzione dello spazio, ampio eppure rappreso nella densa materia costruttiva, con i grandi archi e le colorate vetrate che lo ancorano ad una mondanità troppo terrena, a non lasciar affatto «diradare l’essere», immerso com’è nella invadenza della pietra, nel disorientato andirivieni dei pellegrini per niente riuniti in comunità. Persino il rito liturgico si è dovuto adattare impropriamente alla indifferenza spaziale ed alla indiscrezione della forma materiale, dal momento che, mancando un percorso sacro, corde di separazione sono interposte tra una parte e l’altra dell’aula, onde permettere ai diversi cortei, dei visitatori, e dei sacerdoti che devono raggiungere l’altare per la funzione, di trovare il loro assegnato posto. Nella chiesa si procede quindi attoniti e curiosi come in un immenso spazio fieristico, in un andare che non offre affatto il senso del pellegrinaggio cui richiama ancora Cacciari. A sua volta l’illuminazione naturale non contribuisce a creare un’atmosfera sacra, e una forte luce fredda, uniformemente diffusa, entra sia dalla grande vetrata dietro l’altare, sia dall’ampia parte trasparente che corre lungo tutto il perimetro della copertura, quasi si sia in un grande ufficio con attesa. Eppure, quanto inchiostro e quanto cemento, a proposito della luce e del sacro, ha versato l’architettura contemporanea! Per non parlare dei teologi, da Guardini a Forte. Basterebbe tra gli architetti pensare al solo Le Corbuier il quale, proprio nella luce, mai piena, sottile come una lama a Rochamp, dove fa levitare la volta, o immersa misteriosa nei coni colorati a La Tourette, riesce, pure laicamente rivolto, a definire gli stessi spazi religiosi quali spazi d’esistenza quotidiana, ad aprire al “divino”. Viene così da chiedere non tanto sulla concezione del sacro in Piano quanto sul suo verbo laico: che ne 1
Massimo Cacciari, Ecclesia in Casabella 640/641, Electa, anno LX dicembre 1996/gennaio 1997, p.1
è infatti della sua insistenza sulla necessità, per il progettista, di ascoltare, dialogare, parlare con le persone che dovranno vivere l’architettura? Di interrogare, in questo caso, non solo i teologi, quanto i devoti che fruiscono del suo malinconico spazio senza miracoli. Osservandola da lontano, oltretutto, la chiesa non sembra caratterizzarsi in modo da “apparire” ritagliata sullo sfondo al fine di “richiamare”, convocare, i fedeli, anzi, come è per il “Vulcano buono” di Nola, essa sembra volersi mimetizzare perfettamente nella collina in cui s'inserisce, somigliando piuttosto a un naturale movimento del terreno. Ed è singolare che entrambi gli edifici abbiano la medesima pianta circolare, la stessa forma collinare, una analoga copertura verde integrata con l’ambiente circostante: che Piano abbia voluto interpretare la chiesa quale centro per commerci ed il centro commerciale quale luogo di un nuovo comunitarismo religioso?! In occasione della inaugurazione a Roma del suo Parco della Musica egli ha detto: «L’architettura è l’arte di dare rifugio alle attività dell’uomo: abitare, lavorare, curarsi, insegnare, stare insieme. E’ quindi anche l’arte di costruire la città ed i suoi spazi, le strade, le piazze, i ponti, i giardini. E, dentro la città, i luoghi d’incontro. Quei luoghi di incontro che danno alla città la sua funzione sociale e culturale. Ma naturalmente non è tutto. Perché l’architettura è anche una visione del mondo. L’architettura non può che essere umanista, perché la città con i suoi edifici è un modo di vedere, costruire e cambiare il mondo. L’architettura è l’arte di rappresentare qualcosa, è struggimento per quella cosa bellissima che è la bellezza».2 E’ forse il caso di dire che, di fronte ai due edifici di Piano, sicuramente il sentimento maggiormente avvertito è quello di uno struggente desiderio di bellezza!
Renzo Piano, Che cos’è l’architettura? (collana Auditorium con DVD ), Luca Sossella editore, 2007
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Félix Duque
Vittorio Gregotti
Franco La Cecla
Abitare la terra
Contro la fine dell’architettura
Contro l’architettura
Se le arti hanno, come le altre discipline, una storia e una mutazione nei territori di ricerca oltre a teorie e fondamenti, allora anche l’architettura può essere considerata una disciplina. E il territorio disciplinare dell’architettura si è modificato nel tempo, insieme alle condizioni tecniche del suo farsi e al suo posto nella società. Da ultimo, il cambiamento nelle condizioni di produzione delle immagini delle arti nella vita quotidiana è stato tanto traumatico da mettere in discussione i confini della disciplina architettonica. Fino a confonderne i compiti e i fondamenti, al limite della liquefazione. Vittorio Gregotti, protagonista dell’architettura italiana e internazionale, torna a interrogarsi sullo statuto di un’arte che è anche disciplina dotata di senso autonomo e di responsabilità sociale.
Mai come adesso l’architettura è di moda. Nelle riviste, nei quotidiani, in televisione le opere delle superstar dell’architettura sono oggetto della curiosità di lettori che prima erano completamente digiuni in materia. Eppure mai come adesso l’architettura è lontana dall’interesse pubblico: incide poco e male sul miglioramento della vita della gente. A volte ne peggiora le condizioni dell’abitare. Questo accade perché l’architettura è diventata un gioco autoreferenziale, tutta incentrata sulla «firma», sulla genialità del singolo architetto, genialità che è quotata nella borsa della moda al pari di un qualunque brand. L’architettura ha molta più influenza nel bene e nel male sulle condizioni dell’abitare in una città. Gli architetti però si rifugiano in una artisticità che li esclude da qualunque responsabilità. Purtroppo ad essi spesso viene affidata la trasformazione di interi pezzi di città, trasformazioni che spesso compiono con incompetenza, superficialità e convinti che si tratti di un gioco formale. Le città funzionano diversamente; sono il territorio profondo su cui agisce l’inconscio collettivo, sono il luogo delle appartenenze e dei conflitti. Questo libro invita ad abbandonare le archistar al loro egoismo e ad accettare che l’architettura ha esaurito la sua funzione. Oggi c’e bisogno di altro, sopratutto nella situazione di emergenza in cui le città e l’ambiente rischiano di diventare sempre più inabitabili.
Ambiente, Umanismo, Città
Prefazione di Vincenzo Vitiello I tentativi dell’uomo moderno di appropriarsi dell’ambiente che lo ospita, attraverso il pensiero (la scienza) e l’azione (la tecnologia), sono molteplici. Eppure, in nessun modo la natura è avvertita come dinamismo, evoluzione, proiezione generatrice di forme. Anzi, da parte delle forze produttive, la natura ha finito per essere considerata una semplice massa alla mercé della scienza, tecnica, industria ed economia. «L’ordine sociale» è la lapidaria osservazione di Félix Duque «espelle la natura in cui esso stesso originariamente si è costituito». Questo sì che è il vero trionfo dell’artificio, sottolinea l’autore. Trionfo che coincide ormai con il dominio quasi assoluto dell’intelligenza meccanizzata sugli enti intramondani… L’alternativa non è la nostalgia di epoche felici, di paradisi lontani che sono tali solo in quanto perduti. Al contrario, Duque ci indica che molto è nelle mani della riflessione filosofica, dell’arte, dell’architettura contemporanea. E ci suggerisce di riprendere il cammino dal pensiero di Heidegger, misurandolo scalarmente con la nostra esperienza sull’abitare e arricchendolo di nuove considerazioni – quelle dell’architetto Mies van der Rohe in particolare – sui tratti del costruire. Questa opera si presenta come una critica severa della condizione in cui trova svolgimento la nostra esistenza. Ed evidenzia che non si tratta di tornare al passato, ma di giungere a concepire lì’industria della costruzione come un preludio per un’altra storia dell’essere. (2007) Félix Duque è nato a Madrid nel 1943. Dal 1988 ricopre la cattedra di Storia della filosofia moderna presso l’Università Autonoma di Madrid. E’ studioso di ermeneutica e fenomenologia, filosofia della tecnica e della cultura, miti e religioni, idealismo tedesco, romanticismo e postmodernismo
Vittorio Gregotti, tra i più grandi architetti contemporanei, ha progettato opere in Europa, Cina e Nord Africa e ha insegnato in università italiane, europee e statunitensi. Con Einaudi ha pubblicato Questioni di architettura (1986), La città visibile (1993) , Le scarpe di Van Gogh e Identità e crisi dell’architettura europea (1999).
Franco La Cecla insegna Antropologia culturale all’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano e al Politecnico di Barcellona. Ha insegnato Antropologia per molti anni nella Facoltà di Architettura dell’Università IUAV di Venezia. È stato consulente del Renzo Piano Building Workshop e di Barcelona Regional. Ha fondato A.S.I.A. Architecture Social Impact Assessment, un’agenzia per valutare l’impatto sociale delle opere di architettura. Tra i suoi libri: Perdersi (Laterza 2005); Mente locale (Eleuthera 2004); Surrogati di Presenza, Media e Vita quotidiana (BrunoMondadori 2006) e, per i tipi Bollati Boringhieri, Jet-Lag (2002).
Gabriella Lo Ricco, Silvia Micheli
Lo Spettacolo dell’archistar
dell’Architettura.
Profilo
Un’analisi puntuale che percorre trasversalmente i mondi interconnessi dell’architettura, della comunicazione, dell’arte e del design, mettendo in luce uno showbusiness applicato al mondo dell’architettura. Un fenomeno che ha origini temporali lontane, ma che all’alba del XXI secolo assume una forza dai toni inaspettati. Il processo di trasformazione della figura dell’architetto in “star”, già visibile in alcune esaltazioni mediatiche ai tempi di Le Corbusier e di Frank Lloyd Wright, sembra oggi compiuto nell’archistar©, amalgama di uomo e opera, artista e manager. E se l’archistar© viene coinvolta in operazioni svolte fino a ieri dai tradizionali personaggi del mondo dello spettacolo, l’architettura cosiddetta d’autore diviene uno sfavillante e ricercato mezzo di promozione culturale e d’immagine. Fenomeni di superficie che celano cause profonde e di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai indagato con serietà e completezza. Un testo critico anche per i non addetti ai lavori, rivolto a coloro che desiderano comprendere i legami non dichiarati tra architettura, pubblicità, azienda, editoria e alta moda. Gabriella Lo Ricco si occupa di "architectural contemporary hunting" indagando sull'architettura contemporanea e sui rapporti con l'alta moda, il design e il marketing. Collabora con importanti riviste di moda e design e con il Politecnico di Milano. Silvia Micheli si occupa di "architectural contemporary hunting" indagando sull'architettura contemporanea e sui rapporti con l'alta moda, il design e il marketing. Collabora con importanti riviste di moda e design e con il Politecnico di Milano.
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ESPRIMIAMO LA NOSTRA ADESIONE ALLA BATTAGLIA CIVILE DEL COMITATO NO CRESCENT CONTRO L'ECOMOSTRO PROGETTATO DA BOFILL A SALERNO http://www.nocrescent.it/