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Est r at t i

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Quar t edicoper t i na


a r g o me n t i


L’ARCHITETTURA DEL VITALISMO DI HENRY VAN DE VELDE Alberto Cuomo

Come è noto, alla fine dell’ottocento lo Jugendstil sembra informare tutta la cultura di lingua tedesca con la sua aspirazione ad affermarsi arte totale, capace di offrire una forma ad ogni modalità dello stare e ritrovare nella bellezza un nuovo spirito. Sebbene spesso collegato al pensiero nietzschiano lo Jugendstil non sembra manifestare alcuna volontà di potenza ed appare piuttosto prossimo, malgrado il suo esangue vitalismo, o proprio per questo, alla Lebenphilosophie, come prova Olbrich, il quale a Darmstadt propone la sua Lebenserneuerung, un’arte rinnovo di vita. Può ritenersi quindi sia il pensiero «vitalistico ed irrazionalistico» di Dilthey, «filosofo della vita, teorico di un organicismo neoromantico e di una forma di relativismo quasi decadentistico» 1 , posto tra classicismo romantico, idea totalizzante della vita, ed il positivismo, l’attenzione al dettaglio, al singolo fenomeno della sperimentazione scientifica, a costituire uno degli incubatori dello Jugendstil. Tra idealismo e positivismo quindi, la consapevolezza circa la storicità del conoscere e dell’agire e quella della loro vitale concretezza estranea ad ogni aspirazione all’assoluto, Dilthey sembra non voler cedere al relativismo ponendo la vita stessa, Leben, quale fondamento dinamico interno alle diverse forme del suo riprodursi storico. Di qui, anche, l’interesse, comune alle scienze del secondo ottocento, per i moti interiori dell’io, per la psicologia, nel tentativo di una fondazione scientifica e non metafisica della «logica dello spirito». Alieno alla assolutezza del pensare per l’identificazione di un fondamento del vivere inerente la vita stessa, egli prosegue il kantismo virando la critica della ragion pura pratica – «nelle vene del soggetto conoscente costruito da Locke, Hume e Kant non scorre sangue vero ma la linfa di una ragione rarefatta intesa come pura attività di pensiero» 2 – nella «critica della ragione storica», della ragione cioè che concretamente si manifesta nei modi della vita. L’esperienza delle cose, il conoscere, non è quindi affidato ad alcun principio logico-formale trascendentale, ad alcun «rigido a-priori», quanto ad un moto interno, psicologico, di tensione alla vita, prossimo e simmetrico all’energia ritrovata dalle scienze alla natura. Neppure le forme più elementari interne all’io, che ne dettano l’acquisizione del reale nello spazio e nel tempo, sono fissate aprioristicamente, ma la stessa psiche si costituisce storicamente attraverso gli erlebnisse, i contenuti di coscienza vissuti. La vita, per la Lebenphilosophie, è intesa cioè come un tutto, un sistema complesso di nessi tra le cose e gli uomini con i loro atti, compresa la riflessione storico-filosofica, da cui si tenta la sua decifrazione, sì da potersi dire che, essendo il pensiero che la interpreta parte della vita stessa, «la vita si chiarisce e si spiega soltanto con la vita». Essa è concepita secondo una zusammenhang, una organicità di elementi ed aspetti di cui tocca all’attività analitica, intellettiva, svelare i verbindung, i legami, le forme di verhältnis, relazione, le quali si rivelano nella stessa mente indagatrice come aspetti della coscienza interiore, innere-beziebung, partecipi dell’analisi e collegati in una struttura formale, Gestalt, dove si rivela il tipo di visione del mondo, la Weltanschauung, che li sottende. E’ allora alla filosofia, attività coscienziale autoanalitica, pure non posta come in Hegel al sommo della logica dello spirito, dato mettere in luce gli elementi fondanti le visioni storiche del mondo e della vita e, costituendo i suoi concetti il luogo in cui più esplicitamente si manifestano, essa non può che rivolgersi primariamente a sé in una Selbsthesinnung, una autoriflessione rivolta a svelare i propri presupposti materiali nel tempo, e farsi «filosofia della filosofia». Il pensiero diltheyano evolve quindi dall’esplorazione circa la costruzione psicologica dell’apprensione del reale, intesa fondatrice di storia, come è nel saggio del 1883, «Einleitung in die Geistes Wissenschaften», alla concezione inversa, manifesta negli scritti del nuovo secolo, secondo cui è la complessità storica a riflettersi nella psiche, sebbene tale storicismo, rilevando l’incedere mutevole della metafisica nelle visioni dell’uomo nel tempo, non possa non prendere atto della caducità di ogni principio assoluto, della fondamentale infondatezza della vita, e pervenire all’apprensione del proprio relativismo, da colmare con l’idea, in definitiva ancora metafisica, di un luogo interiore che, pure lungo le storie, si offre ad «un’ultima riflessione circa essere, fondamento, valore, fine e circa il loro collegarsi nella Weltanschauung» 3 . Percorrendo l’itinerario delle intuizioni del mondo lungo la storia, malgrado privilegi i cammini della filosofia, la quale da se stessa ascende alla coscienza delle proprie strutture fondanti, Dilthey non evita di esplorare i percorsi che si intrecciano con il pensare, attraverso i quali pure imbattersi nella Weltanschauung, sebbene espressa in termini unilaterali, inconsapevoli: le vie della poesia, della scienza e della religione. Se l’uomo cioè, non tripartito in sentimento-intelletto-volere, possiede tali disposizioni congiunte in una «interiorità reciproca», Ineinander, che si confronta con gli oggetti esteriori convissuti, in un continuo intreccio tra interno ed esterno 1 F. D’Agostini, Breve storia della filosofia del novecento, Einaudi, Torino 1999, p. 67, dove è ripresa l’interpretazione lukacsiana del vitalismo diltheyano come irrazionalismo. 2 W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, trad. it. di G. A. Deoni, La Nuova Italia, Firenze 1974, p.9. 3 La frase conclude W. Dilthey, L’essenza della filosofia, a cura di G. Penati, Rusconi, Milano 1999, p.263. In Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Einaudi Torino 1982, pp.473-74 scrive: «Così nell’enorme lavoro dello spirito metafisico rimane la coscienza storica, che lo ripete in sé e sperimenta in esso l’insondabile profondità del mondo. Non la relatività di ogni intuizione del mondo è l’ultima parola dello spirito, che le ha tutte percorse, bensì la sovranità dello spirito di fronte ad ognuna di esse, e al tempo stesso la coscienza positiva del fatto che nelle diverse maniere di atteggiarsi dello spirito esiste per noi la realtà unica del mondo».


modificativo di entrambi, l’arte, la poesia, «formalizzazione tipica» dell’esperienza estetica quale processo in cui si relazionano stati psichici ed esteriorità delle cose, «rende figurata la vita fruita emotivamente e trasporta all’interno dell’elemento figurato dell’intuizione la vitalità fruita nel sentimento». L’anima, Seele, «sfera unitaria di fatti che la coscienza congiunge», fuori dallo spiritualismo, è intesa nella connessione dei vissuti che la psiche ordina costituendo il proprio dispositivo selettivo atto ad integrare ulteriori esperienze, un fondo dinamico, memoria vivente del passato e proiezione vitale nel futuro, in cui dimora la disposizione all’estetico, correlazione tra esperienza coscienziale del vivere e forma (Erlebnis e Gestalt) nella sua qualità intuitiva, manifesta nell’opera d’arte. Nel processo estetico la vita, così come si offre nel sentimento, si traspone in una forma interna resa nell’opera che a sua volta si immette nel vissuto offrendoci emozioni. La realtà quindi, nell’arte, come nel conoscere, non è quella effettuale quanto quella trasposta nella coscienza, Realität invece che Wirklichkeit, ed anzi nell’esperienza estetica la stessa cosalità dell’opera si annulla nel suo manifestare l’incontro tra vita ed anima, nel suo essere vitale pulsazione del sentimento delle cose 4 . Ambito dell’incontro, mediante l’intuizione, tra la rete interna delle emozioni e quella esterna delle cose, tra sentimento e immagine, l’arte manifesta la vitalità stessa dell’anima e dell’esistenza reciprocamente riflesse in «rappresentazioni visive, arabesco, ornamento, decorazione e architettura». In tale vitalità, i ritmi, i canoni, le regole, che pure istruisce non costituiscono forme assolute dell’estetico, ma ogni età forgia lo stile con cui l’arte conduce ad unità una «ricca molteplicità», risultando appaganti «la forza sensuale e l’energia prorompente di una creazione artistica…solo quando collegano un ricco patrimonio di impressioni sensoriali, e solo tale unità di un molteplice, che per così dire riempie l’intero campo della nostra ricettività e ne soddisfa per intero la potenzialità, riesce ad affascinarci». E’ quindi in tale concetto che, paragonando il «grande Semper» a Raffaello e Michelangelo, Dilthey ne rileva la capacità di rendere l’architettura ancora arte totale in cui si compenetrino pittura, scultura, decorazioni, pur mantenendo a ciascuna la propria autonomia espressiva, in una visione che intende la costruzione non rivolta a soddisfare la funzionalità del risiedere, quanto a manifestare l’energia vitale, la vita stessa che si manifesta nell’abitare di un’epoca 5 . Quando nel 1914 Henry van de Velde, intervenendo nel Werkbund, sosterrà contro Muthésius come solo il carattere libero dell’artista mai sottoposto «ad una disciplina che gli imponga dei modelli, dei canoni estetici» potrà favorire la nascita di un nuovo stile, di «forme e decori che esprimano la nostra epoca», con il tempo destinati a definire «modelli e standardizzazione» 6 , sembra veramente echeggi in una «formula» operativa il pensiero di Dilthey, la concezione storicistica dello stile, quella dell’arte estranea a regole e tipi, manifestazione di vita. Nato in Belgio, ma tedesco di adozione, van de Velde non cita mai Dilthey mostrando piuttosto il proprio interesse per Nietzsche, di cui cura, tra il 1900 ed il 1908, la grafica per la lussuosa riedizione dello Zarathustra promossa dalla sorella del filosofo, Elisabeth, amica del conte Harry Kessler, conosciuta a Weimar prima della morte di Friedrich, attraverso la quale otterrà, dal granduca Wilhelm Ernst, la direzione della locale scuola d’arte trasformata in scuola d’arte e mestieri. Il pensiero nietzschiano è quindi letto dall’architetto attraverso l’edulcorata interpretazione della sorella, la quale già nel 1906, nella pubblicazione dei Frammenti Postumi successivi all’autunno del 1887 per la progettata opera Volontà di potenza, altera il testo e la scrittura aforistica eliminando le frasi contro la morale religiosa, cattolica e protestante. Nella conflittuale relazione con Lou Salome, la quale riconduce il superominico al femminino, Elisabeth sembra voler riportare l’eccessivo ego nietzschiano all’afflato comunitario, in nome del quale era partita nel 1884, con il marito Bernhard Förster, per il Paraguay, a fondarvi la colonia agricola “Nuova Germania”, preclusa agli ebrei, sede di una rinnovata cultura nibelunga improntata allo spirito della terra e della razza. La medesima aspirazione comunitaria, depurata degli elementi antisemiti e razzisti, anima agli inizi del secolo la partenza di van de Velde per Hagen, chiamato da Osthaus onde vivificare con le sue idee la colonia degli artisti che qui aveva impiantato in analogia all’esperienza 4 «L’attività creativa del poeta poggia sempre sull’energia del vivere» che si manifesta nei fatti. «Come il nostro corpo respira così la nostra anima esige un riempimento e un ampliamento della sua esistenza nelle vibrazioni della vita emotiva. Il sentimento della vita vuole risuonare in note e parole e immagini; l’intuizione ci appaga per intero solo nella misura in cui essa è ricolma di tale importo della vita e delle vibrazioni dell’emotività; questo uno-dentro-l’altro, questa nostra vita originaria, piena, intera, intuizione compenetrata e riempita dell’emotività, sentimento della vita che si irradia nel chiarore dell’immagine: questa è la caratteristica essenziale di ogni poesia relativamente al contenuto…è per questo che chiamiamo poetica l’opera…la cui anima sia vissuto, vitalità, ci parli essa in colori o linee, forme plastiche o accordi…ed è a questa energia del sentimento della vita, che ci riempie nei momenti più belli, a questa intimità dello sguardo mediante cui godiamo del mondo, che la poesia ci rimanda continuamente». Cfr. W. Dilthey, L’immaginazione del poeta, materiali per una poetica, in Estetica e poetica, a cura di G. Matteucci, Franco Angeli, Milano 1995, p.107, Di G. Matteucci, cfr. Immagini della vita, CLUEB, Bologna 1995, un testo su logica ed estetica a partire da Dilthey, sulla cui visione dell’arte si sofferma in particolare al capitolo 3. 5 Semper, Wagner, Zola e Ludwig, con il progetto di una globale estetizzazione della vita, per Dilthey hanno rivoluzionato i tre metodi dell’estetica tradizionale, razionale, storico e sperimentale. E’ con il naturalismo, con la sua presa del reale, che l’estetica deve cioè fare i conti e, se è condivisibile, con i naturalisti, l’idea che l’arte sia manifestazione totalizzante del vivere, egli confuta la loro pretesa di un immediato rapporto con le cose, essendo queste mediate sempre dalla coscienza. E’ forse per l’assenza di una immediata resa delle funzioni, delle componenti tettoniche, del programma sociale, nel linguaggio costruttivo di Semper che il filosofo offre sempre un giudizio positivo sull’architetto, come è in Le tre epoche dell’estetica moderna e il suo compito attuale, in W. Dilthey, Estetica e poetica, op.cit. pp. 261-67. 6 Cfr. l’introduzione di A. Lambrichs e M. Culot a H.van de Velde, Formule della Bellezza Architettonica moderna, trad. it. di G. Bernabei, Zanichelli, Bologna 1981, p.35.


di Darmstadt 7 . Ad Hagen, così come nella sua opera, l’Hohenhofe, la casa di Osthaus il cui rustico era stato progettato e condotto a termine dall’architetto Gérard, l’esponente dell’Art Nouveau tenta di guidare verso una consonanza, si direbbe secondo le indicazioni diltheyane, ma anche del modello corporativo-medioevale perseguito da Elisabeth, il molteplice degli impulsi creativi degli artisti e degli artigiani chiamati a collaborare, esaltati nella loro singolarità, simmetrico dell’altro molteplice della vita chiamata ad abitarvi. I differenti materiali del rustico sono così annegati nell’intonaco, come è per i pilastri di acciaio sormontati dagli archi in mattoni, mantenendo però nelle forme e nei decori il segreto della loro intima differenziazione. I diversi corpi edilizi si inoltrano nella natura, e van de Velde ne rispetta l’autonoma plasticità riconducendoli però, mediante stilemi e materiali comuni, protagonisti diversi, ad un racconto unitario. Persino l’estraneità al linguaggio artigiano e neogotico di Hagen, della casa Cuno progettata da Behrens, chiusa in un unico volume dallo stile neoclassico rinascimentale, viene accolta in nome della libera acquisizione delle sollecitazioni della vita da parte dell’artista. E’ quindi la ricerca di un nuovo stile totalizzante, di forme in cui siano impresse le stimmate della relazione storica, percettiva, psicologica, spirituale, tra uomini e cose, dell’esperienza coscienziale dei vissuti, ad assimilare van de Velde a Dilthey e, se la macchina riporta nella storia il suo dinamismo, più che inscatolarne la movimentazione in rigidi schemi, come vuole Muthesius, è la variabilità del sentire che essa promuove, in uno con le accellerazioni della vita, a doversi manifestare. Nella sua architettura quindi le linee sinuose sembrano derivare direttamente dalla naturalità della vita, dalla vitalità della natura, che attraverso la macchina si fa stile e, perciò, storia, mentre in campo teorico il vitalismo diltheyano trapela in ogni scritto delle «formule» nelle quali raccoglie, nel corso della guerra, «battesimo di sangue…cataclisma» da cui è consentito guardare alle cose nella loro verità, le conferenze svolte tra il 1902 ed il 1912. Qui, in contrasto con romanticismo e primato del sentimento, van de Velde propugna «il riavvicinamento di Bellezza e Ragione». Ma né la bellezza è nel godimento disinteressato dell’estetica kantiana né la ragione un hegeliano assoluto che si serve del mondo per la sua autorealizzazione, essendo entrambe nella natura stessa delle cose così come la verità, la quale non è se non nelle piccole verità del vivere quotidiano da esporre nelle forme dell’architettura e degli arredi. «E’ dunque intenzionalmente che ci allontaniamo dall’immaginazione e dal sentimento: li abbiamo riconosciuti inadatti ad aggiungere alla condizione preliminare di una concezione razionale il fluido della vita e della sensibilità che devono risvegliare la materia dallo stato di inerzia che le è proprio…Fu il miracolo di quest’illusione di una vita che penetra nella materia a far meravigliare gli uomini». L’inno alla vita è esplicitamente manifestato nella dichiarazione d’amore per tutte le cose che sono, gli oggetti inanimati anche, le macchine, i monumenti, i cui materiali «palpitano, si animano e si colorano» offrendosi vivi al rapporto con l’anima, tanto che, tra le architetture, «solo quelle che derivano dal fenomeno e dal sentimento della vita hanno conservato la facoltà di risvegliare in noi, ad ogni istante, le stesse sensazioni che le hanno provocate». Come per Dilthey, anche per van de Velde si deve al realismo naturalistico la capacità di «riconoscere il valore del soggetto tratto dalla natura», sebbene gli artisti impressionisti, al fine di trattenere «l’emozione del primo istante», abbiano sacrificato la vita per la sua formalizzazione, mentre all’inverso è finanche nei materiali più morti che l’artista deve ricercare la vita se «l’essenziale bellezza di un’opera d’arte consiste nella vita manifestata dai materiali che la costituiscono». Questa idea della risonanza tra interiorità ed esteriorità, da tenere viva nelle forme, è derivata all’architetto belga da Theodor Lipps, esplicitamente citato, e dalla nozione di einfhulung posta alla base della sua psicologia sperimentale. Di origine linguistica tedesco-occidentale, così come denotano i termini inglesi to feel e l’olandese voelen cui è imparentata, la parola fuhlen significa andare a tastoni, rinviando quindi ad una capacità di avvertire ciò che ci circonda, ad un sentire materiale, tattile. Ed è già nell’estetica romantica di Herder e Novalis che la nozione di einfhulung sta ad indicare un accordo spirituale, la risonanza interiore di fronte alla natura e la consonanza tra gli esseri che deriva. Dagli esperimenti di Fechner sulla relazione tra l’intensità delle sensazioni percepite e quella degli stimoli esterni e dalle idee di Theodor Vischer circa il tradursi, l’alienarsi, della natura nel simbolo, mediante la percezione che vi trasferisce i sentimenti dell’uomo, in analogia alle ricerche di Wundt sugli elementi irriducibili, primari, della psiche, Lipps si rivolge allo studio delle convergenze psicologiche nelle relazioni umane indicando l’einfhulung come immedesimazione nell’altro, palese nelle risposte emotive, tanto più potenti quanto maggiore si concentra in quello l’attenzione 8 . Anticipando la nozione di inconscio di Freud, secondo quanto è riconosciuto nel Motto di Spirito e negli ultimi scritti freudiani, Lipps si pone su una linea sperimentalistica estranea a Dilthey, sebbene in entrambi si sintetizzi il percorso conoscitivo delle scienze e della filosofia ottocentesca rivolto ad approfondire le dinamiche interne del soggetto e le relazioni tra interiorità e realtà esteriore, tanto più che proprio nel campo estetico la teoria dell’einfhulung appare molto prossima a quella diltheyana sulla acquisizione emozionale dell’esteriorità, risonante in una forma che si offre ad una comprensione comune. Van de Velde concentra tale idea di trasparenza tra interno ed esterno nel concetto di linea-forza, che traduce i simboli floreali, naturalistici, dal sentimentalismo romantico alla più vera, ‘razionale’, radice sensuale

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G. Di Maio, op. cit. Van de Velde esprime il proprio credo estetico, analogo a quello di Dilthey, nella citazione del Lipps: «il godimento estetico consiste nel godimento dell’io oggettivo…godere dal punto di vista estetico consiste nel godere l’io in un oggetto nel quale ci si è proiettati. Ciò che io sento allora in un oggetto è il fenomeno della vita. La vita fatta di energia, di lavoro interiore, di tentativi e realizzazioni. La vita, in una parola, è l’attività; l’attività è dal canto suo ciò in cui percepiamo un dispendio di energie. Tale attività è una manifestazione essenziale del volere. E’ il volere in movimento». H. van de Velde, op. cit. p. 102-103. 8


della vita 9 . Frequentando la scienza, quella anche delle costruzioni, con i primi ponti sospesi e le opere in acciaio delle Esposizioni progettate dagli «artisti-ingegneri», intesi già «con i piedi nel futuro», egli riconosce nelle linee di equilibrio in cui si illustra il calcolo statico la più intima geografia dei materiali, la mappa della loro anima, sì da indicare nelle loro flessuose geometrie, dove si simboleggia il concentrarsi delle forze, i caratteri di un nuovo stile il quale, raccogliendo l’intimità della materia e della vita che l’abita, ne renda, nell’evidenza dei necessari andamenti statici, la trasparente ragione. In opposizione al Worringer, per il quale la stilizzazione geometrica della natura sarebbe immagine di un primitivismo, e collegandosi al Wundt, secondo cui essa è un modo di conchiudere in sintetici segni la varietà dell’esperienza, van de Velde raccoglie da entrambi l’idea della bellezza astratta, quella della linea, come luogo di una potenza dinamica che non si accontenta più dell’apparenza e che, espressione delle tensioni fisiche e spirituali, ci lascia sfuggire «come raccomanda Zarathustra…al peso della vita e delle cose materiali». Ancora una volta però, l’evocazione di Nietzsche a suggello finale dei testi, più che alla gaia scienza del superuomo rinvia ad un altro pensiero sempre presente nelle «formule», quello di Arthur Schopenhauer, cui sono dedicate ampie pagine. Concependo l’arte come modo di esporre la «volontà» in figure, le quali, acquietandola, inoltrano lo spirito verso il suo distogliersi da essa, per Schopenhauer l’architettura, arte pur oltre i propri fini pratici, non possiede «altro intento se non quello di rendere più chiare all’intuizione alcune delle idee che sono i gradi più bassi della volontà, quali gravità, coesione, solidità, durezza…e poi, oltre quelle, la luce: che per molti aspetti è di quelle un contrapposto», sì che, anche per van de Velde, citando il filosofo, «già in codesto basso grado dell’oggettività della volontà vediamo che la sua essenza si palesa in un conflitto: poiché la lotta tra gravità e solidità è propriamente l’unico proposito estetico della bella architettura e metterlo variamente in piena evidenza è il suo compito». L’adesione ad una concezione dell’architettura intesa nel suo fondamento costruttivo, tettonico, è tuttavia, nell’architetto come nel filosofo, solo apparente. Se infatti per entrambi la bellezza di un edificio consiste «nell’adattamento di ciascuna parte al suo fine» ovvero nella «consistenza dell’insieme, nella quale posizione, grandezza e forma d’ogni parte ha una relazione tanto necessaria che, qualora fosse possibile, sottraendone una sola, crollerebbe l’edificio intero», è tuttavia la magia con la quale le masse si annullano nella luce ad offrire «grande gioia allo spettatore», la cui conoscenza della volontà manifesta nella pietra ai suoi «infimi gradi», giunge al godimento estetico non per la percezione di quanto l’architettura svela «di scarsa significanza oggettiva» (la voluntas dei materiali) «quanto nel correlato soggettivo stabilito da codesta percezione» che strappa il contemplatore «al modo di conoscere dell’individuo» e lo innalza «a quello del puro, scevro di volontà, soggetto del conoscere» (la noluntas) 10 . Non è la volontà di potenza della creatività della vita, allora, che la linea-forza teorizzata da van de Velde sembra esprimere, quanto una vocazione all’annullamento, all’assenza di peso, all’equilibrio ed alla volatilità dei materiali nella luce tanto apprezzata negli edifici in acciaio e vetro e manifesta nella sua opera maggiore, il teatro del Werkbund di Colonia del 1914, dove egli sembra voler annullare l’edificio nella complessa articolazione dei propri ampi volumi, lasciati aderire fortemente al suolo, quasi a farli sorgere spontanei dalla terra, suoi prolungamenti, e resi aerei, attraverso le forme curvilinee delle coperture, nuvole di cemento disegnate dal vento che lo assimilano allo sfondo del cielo. In Semper il romantico, dionisiaco, accento sul corpo, sul suo concreto fare, da cui trarre i regolamenti del costruire, del raffinarsi anche della forma verso i modi superficiali, ornamentali, del suo narrarsi, tiene insieme idealismo e materialismo, naturalismo e spiritualismo, positivismo scientista e nichilismo, nell’architettura successiva, ed in van de Velde, il romanticismo, covato sotto le ceneri del rapporto pratico con il reale cui il pensiero scientifico sollecita, sembra ravvivarsi in una visione vitalistica della materia, del soggetto e delle cose, che nasconde però, dietro la proposta di un loro comune fondo energetico, l’immalinconita coscienza della sua inafferrabilità, della sua inconsistenza, quella dello sgretolarsi dell’io, di ogni sua stabile conformazione, nella inclinazione, dal relativismo della sua storia, o alla spiritualizzazione o alla nientificazione. La radice sensuale che spinge all’attrazione soggetto e cose, alla loro immedesimazione empatica, il corpo, in van de Velde, come in Dilthey, non è materia ottusa estranea al cogito, né solo luogo effettuale della vita con i suoi bisogni, ma esso stesso coscienza in atto attraverso la sua esperenzialità, fonte della cognizione del soggetto e contemporaneamente oggetto del sè attraverso il quale apprendersi nei fatti, ed è la sua transeunte identità nel variare della storia, a non consentire, nè la definizione di precisate regole costruttive, così come tentata da Semper, né la più elementare grammatica di uno stile nuovo, pure cercato, lasciato affondare nella fluidità dei lineamenti della propria architettura. E’ quindi anche nella diltheyana consapevolezza del relativismo della storia che il vitalismo storicista di van de Velde si incontra con l’antistoricismo di Schopenhauer, la proposta di ascendere dalla esperienza della limitatezza e del dolore, che il corpo traduce, verso l’assentarsi dalla sua materia, 9

La nozione di energia, espressa nella linea-forza, attraverso la citazione del Lipps, assume contorni diltheyani e schopenhaueriani. Infatti «il fenomeno e l’emozione che esso (il godimento estetico) provoca in noi provengono dall’intervento del proprio io. Siamo stati noi a proiettare la nostra volontà nella materia inerte…la linea rivela tale intervento,…essa attinge la propria vita alla stessa fonte della vita che constatiamo negli oggetti; e come la vita, essa è la volontà in movimento». Ibidem. 10 I passi citati da van de Velde nelle Formule, op. cit. p.64 e segg, sono in A. Schopenhauer, op. cit., vol. II, par. 43. E’ alla lettura del filosofo di Danzica, svolta dagli architetti tedeschi e non solo da van de Velde, a potersi attribuire un concetto di architettura secondo cui i valori tettonici, l’equilibrio delle forze statiche, trascolorando verso diafane figure di luce, non necessitano di ornati, propri alla scultura e, agendo il conflitto tra gravità e resistenza dei materiali non solo «matematicamente ma pure dinamicamente», neppure di forme staticamente simmetriche.


da ogni materia, sede della volontà al cieco perpetuarsi della vita. Van de Velde nei suoi testi traduce per gli architetti le idee schopenhaueriane ed anche per lui l’arte, l’architettura, pur nella concretezza dei bisogni e dei materiali che mostra ed allestisce, nel renderci edotti dell’intima energia che li muove, ci inoltra verso la catarsi nientificante, la pura contemplazione, forma dell’assenza. Il totalitarismo stilistico da realizzare, come tende a sottrarre la costruzione alla gravità così aspira a sottrarre l’uomo alla concreta esistenza, per renderlo apparenza tra le apparenze, ed il vitalismo delle forme mostra, negando la statica, la vocazione all’annullamento, così come denota in fondo il così vasto applicarsi dell’art nouveau, tra il floreale e la stilizzazione geometrica, a tombe e monumenti funebri. Il corpo si estenua verso il diafano, il volatile dell’anima, essendo, con Freud, simulacro, riflesso dell’inconscio, e la linea ondulata propugnata dall’architetto si ripete senza fine, muore e rinasce da se stessa, in un anelito inconcluso verso quella potenza che dovrebbe possedere e che mai si manifesta se non in debilitate e molli movenze. Per Nietzsche il mondo è divenuto favola, e questa coscienza alimenta l’ebbra potenza creativa del superuomo, rivolto a trarsi via dalle proprie narrazioni ed inventare nuovi racconti, ma van de Velde non coglie l’assunto nietzschiano per restare nel nebuloso universo delle apparenze illustrato da Schopenhauer. La ricerca di un nuovo stile, avanzata sin dal 1894 11 , non riesce così che ad offrire solo stilizzazioni, e la volontà di stile, di una definizione formale totalizzante dell’abitare, analoga a quelle delle epoche trascorse, nella consapevolezza circa il riprodursi del molteplice nell’età della macchina, lascia trapelare l’ansia della riproposizione del passato, ancora un nostalgico appello ai valori della kultur, che fanno di Van de Velde un neoromantico al di qua del moderno, secondo quanto in fondo annota Loos nel suo severo giudizio 12 e mostra il rifiuto di Gropius di accoglierlo nella Bauhaus.

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La ricerca di un nuovo stile, estetico e di vita, in van de Velde, secondo Lambichs e Culot, op. cit. p. 9, risale ai Déblaiement d’art, pubblicati a Bruxelles nel 1894,. 12 Per Loos, van de Velde è uno dei «superflui» del Werkbund, l’architetto di «un povero ricco» che, nello spazio d’arte totale della propria casa non riesce ad indossare neppure le pantofole, il progettista possibile di celle carcerarie il cui decoro è un aggravio della pena. Cfr. Parole nel vuoto, trad. it. di S. Gessner, Adelphi, Milano 1972, p.107 e p. 149.


VARIAZIONE E REGOLA COLLETTIVA Rosario Di Petta

Negli ultimi quaranta anni si è formata una nuova corrente del pensiero architettonico che ha assunto la nozione di tipo come uno dei fondamenti della propria costruzione teorica. In tale prospettiva acquista nuovo vigore il valore della forma come presupposto dell’architettura. Tale forma viene osservata proprio nel suo carattere più necessario, ovvero come qualcosa di simile alla struttura mentale dell’individuo, perciò portatrice di senso. L’esperienza storica ha poi dimostrato ampiamente che la forma è più duratura di qualsiasi suo utilizzo. Moltissimi sono gli edifici che hanno subito radicali cambiamenti nella loro utilizzazione, senza che la struttura formale ne venisse corrotta. Come ha ben evidenziato Carlos Martì Arìs, “il senso che attribuiamo alla parola forma è più vicino a quello che essa assume nella metafisica, dove la forma si oppone alla materia, essendo la materia ciò con cui si costruiscono le cose, e la forma ciò che determina la materia, affinché le cose siano quello che sono”.1 L’architettura è costituita da famiglie di forme, i tipi architettonici, che corrispondono a determinate attività umane. Il tipo architettonico è il tramite fra il nostro progetto e la storia dell’architettura. In tal modo, il progetto viene a trovarsi lontano sia dall’invenzione formale che dal determinismo del modello, ma piuttosto nell’ambito di un sistema logico e formale all’interno del quale sia condizionata la crescita della città. Rogers, Muratori, Samonà intuirono alla fine degli anni Cinquanta la centralità delle preesistenze ambientali come presenze attive e non solo come documenti storici. Muratori, in particolar modo, vede il tipo architettonico come una essenza capace di garantire la continuità dell’architettura, una sorta di entità superiore alle variazioni, perciò asse portante dell’architettonico. E’ del tutto evidente poi come il carattere operativo del tipo consista nella determinazione creativa, promotrice di forme, che il termine stesso porta con sé nell’opera dei migliori. Alla metà degli anni Sessanta Ludovico Quaroni afferma che il significato della forma urbana non sta nelle singole parti, ma piuttosto nella relazione tra dette parti; e sostiene che tra tipologia e morfologia non esiste differenza se non nel riferimento ad una particolare dimensione scalare dell’intervento. D’altronde, la realizzazione di una precisa progettazione edilizia introduce nell’ambiente esistente pur sempre un’alterazione. La tipologia secondo Giulio Carlo Argan, invece, è un concetto ambiguo: se infatti è necessaria per la comunicazione in quanto codifica i contenuti di un manufatto, è tuttavia un ostacolo ad una scrittura pienamente autografica. A questa attenzione per l’identità del progetto come processo creativo, Caniggia, Aymonino e Rossi sostituiranno una attitudine a dissolvere la questione del disegno dell’individuo edilizio nel quadro delle relazioni tra tipologia e morfologia, proprio attraverso l’analisi urbana. Tali studiosi sono cioè orientati alla comprensione dei valori urbani presenti come potenzialità nel tipo, e poi esplicitati nel suo inverarsi in individui edilizi. La conformità è quindi la regola per definire un ambiente organicamente strutturato. Valga per tutti l’esempio del Piano di Giancarlo De Carlo per Urbino, derivato da un esauriente studio tipologico, che dedica più spazio alle tattiche di conservazione che alla sistemazione dei nuovi sviluppi. La pianificazione urbana e la conservazione dei centri storici rappresentano uno dei contributi fondamentali forniti negli anni Cinquanta e Sessanta dalla cultura architettonica italiana al dibattito internazionale. Basti pensare allo studio analitico condotto a Bologna da Cervellati e Scannavini che ha poi condizionato lo sviluppo di questa città lungo gli anni Settanta. Due testi fondamentali quali “L’architettura della città”(1966) di Aldo Rossi e “La costruzione logica dell’architettura”(1967) di Giorgio Grassi sono il manifesto teorico che afferma con la necessaria veemenza la relativa autonomia dell’architettura. E' bene sottolineare tuttavia che se nel caso di Rossi i temi dell'autobiografia, congiunti con una vena “surrealista”, conferiscono una natura poetica alle sue opere, la “lingua morta” di Grassi si traduce quasi sempre in una sin troppo agevole riduzione delle sue architetture a pura archeologia. La Tendenza ha rappresentato, comunque, un tentativo di salvaguardare sia l’architettura che la città dall’invasione delle forze pervasive del consumismo. Secondo quanto afferma Rossi, “il tipo è l’idea stessa dell’architettura; ciò che sta più vicino alla sua essenza. E quindi ciò che, nonostante ogni cambiamento, si è sempre imposto al sentimento e alla ragione 1

C. Martì Aris, Le variazioni dell’identità, Cittàstudi edizioni, Torino, 1993.


come il principio dell’architettura e della città”.2 Tipo e luogo appaiono così i termini di un processo dialettico attraverso il quale l’architettura prende forma. Aymonino poi afferma che analizzare le strutture urbane è anche progettare (comprendere come si è progettato) e che progettare nuove strutture è analizzare il presente. Nell’architettura scopriamo sempre un sedimento di esperienze filtrate che portiamo profondamente radicate in noi stessi; e ciò non costituisce un vincolo all’invenzione, che resta pur sempre un’operazione di carattere analogico. Rafael Moneo identifica invece il tipo con una concezione più unitaria propria dell’architettura del passato, in cui gli edifici sorgevano dall’imitazione dei grandi modelli, stabilendo così una linea di continuità. La centralità della nozione di tipologia non fu tuttavia la sola linea presente nel dibattito italiano degli anni Settanta; fu contrastata infatti dall'ipotesi quaroniana del modello direttore, con un sostanziale superamento della sua dimensione prescrittiva a favore di una forma più aperta della previsione progettuale, basata sul ricorso ad un sistema simbolico che, sulla scorta di Kevin Lynch, predisponeva la presenza nel tempo di alcuni fatti urbani rappresentati nella loro intensità morfologica.3 Quaroni era convinto che fosse opportuno evitare di trasformare direttamente in progetto lo schema logico desunto dall’analisi; uno schema che, per quanto utile alle considerazioni del progettista, non potrà mai essere trasformato direttamente in una struttura edilizia senza passare per un circuito vitale di immagini, quale elemento imprescindibile per garantirne il valore architettonico.4 E’ sin troppo agevole notare come nella odierna città dei non luoghi le periferie, i paesaggi infrastrutturali, non hanno più nulla a che fare con i sistemi edilizi amministrati dalla tipologia, ma è opportuno chiarire che a questa città atopica non corrisponde il superamento o la negazione della tipologia, ma forse il suo definitivo compimento. E’ del tutto evidente come anche i grandi maestri dell’architettura si siano dedicati alla decodificazione del patrimonio storico ed alla successiva ricomposizione dei suoi elementi secondo le possibilità tecnologiche dell’epoca. Ad esempio, la Nuova Galleria Nazionale costruita da Mies a Berlino ha profondi legami con Schinkel e con le opere d’ingegneria in ferro e vetro dell’Ottocento; il Kimbell art museum di Kahn presenta profonde analogie con le costruzioni a volta dell’area mediterranea e con le costruzioni in cemento armato. Vittorio Gregotti osserva come l’architettura dei paesi scandinavi presenti forme di tranquilla transizione, senza rotture con il mestiere e con il luogo, dal momento che per ottenere un disegno urbano significativo, la regola consiste in un’articolata unità. Solo così la variazione inventiva riesce ad incrementare il valore della regola collettiva.5 E' evidente, del resto, come l’elemento della prevedibilità faccia parte strutturalmente della percezione estetica. Vi è quindi una sorta di necessità reciproca che lega tra loro la regola e l’eccezione. D’altra parte, Gropius non ha certamente inventato la nuova città, ma ci ha fatto comprendere, forse più di ogni altro, che la misura del lavoro degli architetti è quella del progresso comune, non certo della grandezza individuale. Dare forma architettonica a ciò che, nella condizione attuale della città diffusa, si presenta come indeterminato è una esigenza improcrastinabile; ed a tal proposito andrebbero rilanciati proprio gli studi tipologici, ossia quelle idee di progetto capaci di proiettarsi, con la loro tensione modellistica ed utopica, verso forme dell’abitare innovative, ma pur sempre tese verso quell’edificare che meglio corrisponda alle esigenze umane, di cui amava parlare Samonà.

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A Rossi, L'architettura della città, edizioni Marsilio, Venezia, 1966. Cfr. F. Purini, La fine della tipologia, in “Industria delle costruzioni” n° 283, 1995, pp. 40-45. Cfr. L. Quaroni, Progettare un edificio, ed. Gangemi, Roma, 1993, p.67. Cfr. V. Gregotti, L’architettura del realismo critico, ed. Laterza, Bari, 2004, p. 18.


SACERDOTI DEL TEMP(I)O Gerardo Malangone

Nell’inverno 2005/06 gli spazi della Chiesa dell’Addolorata e del convento di S.Sofia, recuperati a siti espositivi, ospitarono a Salerno una ricca rassegna di architettura contemporanea dall’inquietante titolo: Conflitti. Nata per essere salutata - dopo le mostre di Miró e Picasso dei due precedenti inverni come l’evento culturale dell’anno, la terza stella di una luminosa costellazione salernitana d’arte aperta alla contemplazione di cittadini e turisti ansiosi pure di traiettorie architettoniche, l’ambiziosa creatura di Pierluigi Nicolin e Pierluigi Cerri sfiorì in un doloroso flop, in un buco nero sbucato ingeneroso in un presunto-stellato cielo d’o sud, in un solingo eremo per sparuti curiosi o escursionisti paracollinari. Una cosa, cioè, visitata dai veri amici, senza corpulenti apporti di popolo, che da noi accorre in folla solo se c’è un ben orchestrato concerto di trombe di Palazzo. Talché, in un articolo per Il Corriere del Mezzogiorno di quei giorni, mi spingevo a chiedere se non fosse giunta l’ora che qualcuno s’interrogasse finalmente sul perché certi frutti culturali fossero in queste nostre terre sempre contati scarsi alla raccolta o rimballati immangiati dalle mense popolari, ad onta del bel danaro pubblico speso per coltivarli; ovvero indagasse sull’ostinazione di realtà come Salerno a non farsi attrarre né per amore, né per interesse, e fecondare, da certi abbracci sapienti. Ma, al di là di questi occasionali quiz su certe migliorabili politiche culturali locali, Conflitti regalò, a chi ebbe fede e risalì verso S.Sofia, informazioni audio-visive assai interessanti e istruttive non solo sui “Conflitti” illustrati nelle otto Sezioni antinomiche della Mostra, ma anche, e soprattutto, sulla complessiva caotica conflittualità di un sapere (e un mestiere) alle prese con l’ennesimo critico passaggio, fornendo una davvero sinottica tavola di conoscenza sullo stato dell’(anche mia) Arte, cui è un poco debitrice pure questa mia odierna nota in tema di Archistar. È opinione degli Ottimisti, di cui sempre trabocca il tempio dell’architettura, che l’odierno lussureggiante bosco di segni architettonici d’Autore in reciproco conflitto di diversità ispirativa ed espressiva sia indice di nostra nuova fertilità collettiva, capace finalmente di procreare il molto, che è meglio del poco. Se poi il molto si spande senza resistenze apparenti pure nel vasto e nel dovunque come avviene nel mondo “globalizzato”- diventa addirittura indice di planetaria accettazione del ruolo esemplare e unificante della Parola architettonica di Qualità. Per i Pessimisti, di cui ugualmente trabocca il Tempio, questo invece è il fatale ultimo segno del perduto rango di arché, di principio ancorante, di scienza “ordinatrice” dello spazio per/dell’uomo, patito dall’Arte nostra e dai suoi addetti: insomma, Babele non è né la remota confusa patria da cui fuggimmo per affrancarci dal caos primigenio né l’infernale futuro cerchio di cayenna che ci sarà inflitto per i troppo numerosi tradimenti del Logos. Babele è viva adesso, e siede intorno a noi. E noi ci vivamo dentro. Evvabbè. Ma perché escludere che l’archistar-System non sia un prelibato frutto/fruttuoso di stagione da cogliere e mangiare ai piedi dell’albero in bella e avvertita brigata, per meglio tenersi in salute nell’affollato viaggio per i mari sempre più liquidi di questi tempi immaginifici, in cui prima garanzia di sopravvivenza è professare la Fede certissima della propria Forma/Immagine? Di questa Religione comandamenti assoluti sembrano essere: 1) la facoltà per pochi di negare la Regola valida per tutti; 2) il superamento degli studi preparatori del/sul campo e di specifiche analisi sedentarie con insistiti esercizi “a corpo, e mente, liberi” per mantenere la propria bella Linea; 3) la contestazione del Contesto, da usare in particolare negli esercizi più ardui destinati a “piazze storiche”. Peraltro, i suddetti Comandamenti non sembrano dispiacere ai Gran Sacerdoti della Decisione Pubblica, cioè ai vari super-sindaci finiti nella trappola di palingenetiche norme di comportamenti di nuova trasparenza virtuosa (che però dovrebbe servire solo a impaniare gli “altri” quando diventeranno sindaci): ecco perciò l’Eccezionale tornare ottimo per scardinare le noiosissime procedure “ordinarie”; ecco il sistema per scongiurare il lancio di qualsiasi prima pietra contro qualsiasi scandalo amministrativo-architettonico. Chi mai, infatti, oserà scagliarla per fermare, chessò, l’eccezionale ennesimo exploit kitsch del mitico Bofill nella da sempre


umilecementizia Salerno (Domine, non sum dignus…)? Visti da un punto di vista così, i sacerdotiarchistar risultano assai meno “conflittuali” fra loro, non vi pare? D’altronde, siccome al di là delle vere o presunte reciproche conflittualità e irriducibilità ispirativo-espressive non c’è Archistar che non sia ovunque chiamata e acclamata per fare eccezionali eccezioni turistico-sviluppanti; e siccome ciascuna è a capo di studi pluri-organizzati e pluri-disseminati a cui prestano la propria opera centinaia di architetti-lavoratori di Linea (di montaggio), vuoi vedere che è a quelle consorterie che si debba ridurre ormai tutto il popolo degli architetti degni di lavorare? E gli altri, come faranno?, chiederete voi. E quali altri, ragà?


LA PIAZZA DELLA TERZA CITTA': dal luogo primario all’agorà telematica Claudio Roseti

È opinione concorde che il rinnovato interesse per gli spazi aperti d’uso pubblico si dia al 1978, quando il concorso per piazza Stamira ad Ancona registrò una entusiastica partecipazione (compreso chi scrive) seguita da una vasta riverberazione nelle varie sedii. L’interesse per la piazza, figura chiave della città classica, costituiva inoltre la derivata prima e più rappresentativa del montante interesse per l’architettura storica che portò al decennio postmoderno. Al 1980, con la famosa «strada novissima» della Biennale di Venezia presieduta da Paolo Portoghesi, intitolata «La presenza del passato», si data l’inizio dello storicismo postmoderno in architettura. Nell’apologia dell’architettura storica, tra revisionismo del Moderno, tra nostalgia e voglia di cambiare, con il supporto della montante cultura ambientalista, si rivendicò la riappropriazione degli spazi «a misura d’uomo» nei centri storici contendendoli all’automobile in una sorta di rinnovato antropocentrismo. Si perimetrarono nei centri le isole pedonali siglate da pavimentazioni che riprendevano l’uso di materiali storici come la pietra e il mattone (in parallelo agli stilismi che presto scivolarono nell’eccessivo citazionismo storicistico con effetti grottescamente kitsch) in nome di un arredo urbano presto inflazionato e involgarito dalla produzione di serie sparsa indiscriminatamente ovunque. Ma la domanda di residenze si andava riducendo, a causa del regresso demografico, e si poteva pensare al superfluo, all’embellissement degli spazi pubblici che è tuttora in atto. Ma negli anni ’90, col decadere del postmodernismo, le cose cominciarono a cambiare sospinte da una nuova ventata di modernità che vide i centri storici sempre più emarginati, cristallizzati dove la terziarizzazione aveva espulso le residenze traslate nella periferiedormitorio che, svuotate di giorno, tornavano a riempirsi la notte lasciando squallidamente e pericolosamente vuoto il centro. La piazza quindi perse il ruolo di «centro geometrico e gerarchico della forma urbis» perché la centralità intesa nel suo senso gerarchico era revocata in dubbio dal decostruzionismo montante (consapevole e non) mentre la città storica andava sempre più riducendosi a ipermercato culturale, museo en plein air di sé stessa. Nella piazza principale non risiedeva più il potere politico e quello religioso era stato pure ridimensionato. Né questo invaso poteva più essere definito come «metafora e immagine della città» perché di questa si era dispersa l’unità originaria, dissipata nei terrains vagues delle nuove periferie come anche nelle stesse concrezioni di pietra dei monumenti del centro, divenuti pura merce culturale per il consumo turistico. Il «luogo di relazione e d’incontro», il «condensatore sociale» era stato sostituito dai centri commerciali, a detta di Rem Koolhaas, e così pure dalle discoteche, dagli stadi dei megaconcerti, quelli ormai i «teatri di costume». L’antropocentrismo, destabilizzato dalle ricerche eisenmaniane già negli anni ’80, si avviava verso l’attuale tendenza postumana. La piazza resta la sede «della massima concentrazione dei valori architettonici e simbolici» ma non per la città presente e futura quanto per l’architettura storica, certamente più bella, ma tuttavia ineguagliabile e proprio perciò non più modello e riferimento; la piazza non è più quel «topos privilegiato» quel «luogo primario» della rossiana «architettura della città» perché tutto il centro storico, con buona pace del neoborghese e perbenista Marc Augé, sta diventando un grande nonluogo; brano straniato di classicità entro una città sempre più diversa e privata delle originarie qualità urbane, confinato nella pura estetica, nella fascinosa inutilità dell’arte. Un simulacro di se stessa, di altissime qualità poetiche, ma privo di quelle prerogative attive che fanno di un brano di tessuto urbano una città vivente. Va annotato comunque che quanto qui espresso vale per la città a scala metropolitana ed internazionale giacché in Italia tutto arriva con uno scarto temporale, differito rispetto alla media dei tempi ed infatti proprio al Sud e nei centri minori la situazione appare diversa potendosi registrare, per le piazze e gli spazi aperti in genere, una sopravvivenza in tali sedi non solo a scala nazionale e mediterranea ma nel senso più generale, stante il clima mite per la maggior parte dell’anno, e, non ultima, l’estroversione degli abitanti.


Le reti Ma nella metropoli il modello storico basato sul sistema strada-piazza-isolato ha ormai perso la gran parte della sua validità cedendo il passo al sistema complesso delle reti meccaniche e telematiche giacché la comunicazione, lo scambio, la relazionalità costituiscono la materia prima del terzo millennio, la base intorno alla quale si sta trasformando la città. Alla rete delle tangenziali e delle freeways urbane, le metropolitane sotterranee e di superficie, le linee ferroviarie ad alta velocità, e le numerosissime linee aeree, si è aggiunta la rete telematica che ha dato luogo ad un processo di trasformazione di straordinaria portata, senza precedenti nella storia della città. Due gli agenti principali di queste mutazioni. 1) La trasformazione fisica e funzionale della città nei rapporti tra le sue principali componenti: centro e periferia, residenze e servizi, infrastrutture e spazi pubblici. 2) La trasformazione del sistema di relazioni urbane dovute all’informatizzazione globale ed al ruolo pressoché ontologico assunto dalla comunicazione nelle varie forme della vita urbana con due aspetti: a) Quello di comunicazione interpersonale in sostituzione di quella verbale diretta, attraverso Internet, teleconferenze, e-mail e analoghi mezzi, con la parallela trasformazione del rapporto spazio-tempo dove all’annullamento della distanza corrisponde ugualmente un azzeramento temporale. b) La mediatizzazione diffusa dove tutto è visto nel suo aspetto comunicativo riducendosi a pura immagine, prevalente su ogni altro aspetto che ne viene depauperato, svalutato. All’essere viene universalmente preferito l’apparire. La fenomenologia relativa al primo punto è pressoché nota: il ridimensionamento quantitativo e qualitativo del centro è conseguenza della crescita complessiva delle aree adiacenti; dalle fasce semicentrali alla periferia storica della prima ricostruzione postbellica fino alle dilaganti periferie delle tangenziali, delle nuove industrie e di quelle dismesse e delle dense borgate abusive. Il sistema delle periferie è da tempo largamente maggioritario rispetto al centro e ha sempre più consolidato una sua identità che smentisce la definizione augeriana di nonluogo ponendosi piuttosto come neoluogo e iperluogo: luogo anzi più autentico, scenario di una realtà anche molto dura come descritto nella filmologia d’essai e politicamente impegnata, da Pasolini, a Wenders, a Moretti. Dall’ultima periferia si è andata conformando la grana rarefatta della terza città, la città diffusa a cui corrisponde simmetricamente l’urbanizzazione delle aree agricole, ulteriore contributo alla decostruzione degli storici dualismi centro/periferia, città/campagna, naturale/artificiale. L’estensione e la radicalizzazione dei sistemi relazionali ha «centralizzato» le reti infrastrutturali elevandole a principali ed uniche strutture urbane, ad essenza organizzativa e seconda anima della città. A queste tuttavia, anche per essere intervenute in tempi successivi su di una situazione pregressa, non corrisponde un disegno preordinato, una caratterizzazione morfologica; a parte l’invisibilità e virtualità delle reti aeree e telematiche, e quella ferroviaria che ha percorsi più limitati, quella automobilistica è caratterizzata dal doppio registro della viabilità a livello e quella delle freeway, omologhe urbane delle autostrade, che si stratificano generalmente su assetti preesistenti; la gerarchia è data dalla velocità di percorrenza, il parametro spaziotemporale che costituisce la principale misura e il discrimine di ogni azione e comportamento. Velocità, mobilità, attraversamenti sono i nuovi simboli della città in cui non si salva neanche la casa che, per i numerosi pendolari incrementati nell’accettazione di lavori anche in sedi molto lontane, esiste solo la notte o nel week end, nel quale invece dagli altri è abbandonata per una seconda casa al mare o ai monti, una stanza d’albergo o una roulotte. Circa il secondo punto il medium di questa trasformazione si identifica nello schermo del computer o della TV ( che ha sostituito il focolare nell’oikonomia contemporanea) interfaccia dell’attuale rapporto tra soggetto e oggetto. Lo schermo è il transfert, il luogo dello scambio attraverso cui tutto potenzialmente passa, dove tutto è contenuto, nomi e cose, in una sorta di fusione uomo-macchina, prolungamento della casa e prima ancora del luogo di lavoro, protesi ormai inescludibile e irrinunciabile del terzo millennio che appare indirizzato verso una deriva postumana. Tutto, compresa la città con le sue architetture, galleggia in un «etere elettronico» dove le dimensioni spaziali non contano più, sono annullate nella dimensione istantanea delle temporalità digitali che hanno cancellato le distanze azzerando i tempi di percorrenza. Ogni distanza si è quindi annullata in quanto ogni cosa è visibile nello spazio di pochi istanti, come se tutto fosse trasparente. La città è sovraesposta giacché l’intero pianeta può essere contenuto entro lo schermo che detiene in sé


stesso un’ubiquità totale e assoluta. Ciò comporta al tempo stesso una sorta di atopia perché «ogni luogo» equivale a «nessun luogo»; a tale aporetico rapporto corrisponde per contro una «topologia elettronica» della quale tutto lo spazio è partecipe e dove «la distanza più grande non occulta più la percezione» dove «tutto è già presente». Le dimensioni spaziali sono infatti relativizzate dal tempo di percorrenza, in questo caso l’istantaneità poiché nello schermo si ha un «presente permanente»; tutto arriva senza neppure partire, «l’arrivo soppianta la partenza»ii. Nello spazio-tempo tecnologico lo spazio è annullato e tutto è ricondotto alla programmazione e all’uso del tempo; «la rete nega la geometria» è antispaziale, dice William Mitchell, è un ambiente globale, scopre delle cose che non sai dove siano esattamente; «non è in nessun luogo in particolare ma insieme è dappertutto».iii «Non si va da; ci si collega in rete, da qualunque luogo» ci si trovi; non è fare una visita; è un atto mediato elettronicamente che permette di entrare; c’è un nesso fisico con la macchina e una chiave d’accesso a siti che non si conoscono e per i quali sei ugualmente ignoto, che è una relazione molto diversa da una telefonata, rileva ancora Mitchell. Nel collegamento con Internet si instaura un rapporto di «visibilità senza “faccia a faccia”» (Virilio), che costituisce una prossemica anomala rispetto ai comportamenti usuali e tende inoltre a favorire l’aggressività. Ma è anche questo tipo di astrazione propria del rapporto on line, oltre che il senso di universalità e di spazialità illimitate dato dal potersi connettere con chiunque e dovunque, che ha decretato il successo di Internet assurto ad agorà telematica quale concorrente (ormai in zona di sorpasso) della piazza e altri analoghi spazi aperti d’uso pubblico di cui si registra da tempo il calo d’uso. Ma di concorrenti ce n’è altri ugualmente temibili come vedremo qui di seguito. Gli spazi pubblici in America sono infatti sempre meno frequentati e la gente non va più allo stadio, preferisce la diretta TV e così è anche per gli altri spettacoli sportivi o di altro genere, riducendo in tal modo una quota di rapporti sociali diretti. La presenza è relativizzata e cede a favore dell’assenza, del vuoto, della lontananza che è risarcita con una prossimità virtuale dalla inquietante potenza del mezzo elettronico. Realtà, copia, ripetizione L’altro fenomeno inerente la comunicazione è la mediatizzazione diffusa che ha compreso anche l’architettura che, per quanto dotata di una fisicità materica concreta, appartiene anch’essa a quella sfera immateriale attraverso cui passa prioritariamente la trasmissione della sola immagine. Nella sfera comunicativa l’architettura espone il suo aspetto esterno e funzioni, strutture, ruoli di riparo, ecc., passano in secondo piano; acquista quindi uno stato del tutto autoreferenziale secondo cui resta assoggettata alle leggi della comunicazione ora esposte a partire dalla durata dell’immagine, in sé instabile, che corrisponde alla persistenza retinica. «All’estetica dell’apparizione di una immagine stabile (analogica) presente per la sua statica, per la persistenza del supporto fisico (pietra, legno, terracotta, tela, carta…) succede l’estetica della sparizione di una immagine instabile (numerica), presente solo per la sua fuga, e la cui persistenza è solo retinica, quella di un “tempo di sensibilizzazione”».iv Nell’interfaccia dello schermo si vede l’aspetto immateriale dell’oggetto cioè l’immagine di una cosa che non è presente, di cui è rappresentato il differimento e dove la verità, l’autenticità sono consacrate dallo schermo stesso; da ciò discende che la riproduzione ha un valore superiore al reale, il quale può esistere nella nostra conoscenza solo in quanto vi è la sua rappresentazione. È vero solo ciò che è già riprodotto, che conferma e propaga la sua esistenza esteriore, superficiale, comunicandola e partecipandola all’esterno. Tutto ciò consegue la perdita di autenticità del reale, su cui prevale la riproduzione, la ripetizione, l’interpretazione. La copia vale più dell’originale. L’oggetto diviene un fatto mentale. Il mondo è divenuto un insieme di immagini connesse a livello planetario le quali, pur non presenti realmente, sono però diventate la vera realtà, in sé derealizzata perché per essere tale ha bisogno della ratifica della sua riproduzione e della relativa trasmissione. L’architettura si manifesta quindi prevalentemente con la sua rappresentazione visibile nella città attraverso le riproduzioni digitali e stampate e la sua immagine, trattandosi di un’arte visiva, sta pericolosamente diventando l’essenza e l’obiettivo principale del progetto e della costruzione. Triade vitruviana addio! L’architettura, essendo entrata anch’essa nei circuiti mediatici e nel relativo marketing, tende ad assumere come fine principale la rappresentazione di se stessa, in quanto ciò che si comunica è divenuto più importante di ciò che è dentro l’immagine, è al di sopra dei contenuti intrinseci.


Il consumo Degli altri concorrenti della piazza classica il primo è senza dubbio lo shopping che, oltre alle sedi massive dei centri commerciali, ha colonizzato molti altri servizi, comprese le strutture culturali, sospinto dall’imperativo irredimibile del consumo su cui è basata l’economia dei paesi industrializzati. Lo shopping, secondo Rem Koolhaas, è l’unica forma di attività pubblica oggi rimasta e in tal senso l’alternativa alla piazza avverrebbe anche nei contenuti e nei ruoli di tipo sociale. Il centro commerciale in realtà ha una molteplicità di vantaggi rispetto alla piazza tradizionale. È coperto e per lo più climatizzato per cui può essere fruito a qualunque ora del giorno e della sera; la sua frequentazione è infatti al riparo dai rischi che presentano invece gli spazi pubblici nelle ore serali e notturne; la frequentazione inoltre è incentivata dall’assolvere al tempo stesso una necessità anche se per la società opulenta comprare è divenuto un passatempo autogratificante. Ha (per legge) un ampio parcheggio che, al contrario, manca all’interno delle piazze storiche perché le auto ne violano la purezza architettonica (né i parcheggi sono reperibili nell’immediato intorno che è sempre parte del centro storico che, in genere, di spazio libero ne ha ben poco); il centro commerciale risulta comunque attraente anche per chi non deve necessariamente acquistare (o non può) presentandosi come un «museo in progress della merce» (Purini), per di più variabile nel corso delle stagioni e nelle diverse sedi. I punti nodali delle reti del trasporto pubblico e privato, le stazioni, gli aeroporti, i grill autostradali, anche questi tacciati di atopia dal buon Augé, hanno al tempo stesso incluso al loro interno ampi spazi commerciali oltre a quelli di ristoro; e addirittura sui voli a lunga percorrenza vi è ormai un momento dedicato alla vendita svolto dalle hostess. Dopo la ristrutturazione della Stazione Termini a Roma in occasione del Giubileo, in cui sono stati inclusi numerosi punti vendita, sono stati predisposti analoghi progetti per altre dodici importanti stazioni italiane tendenti a trasformare queste strutture in luoghi confortevoli e attraenti dove si è indotti a sostare (e consumare) più a lungo . Considerando il fascino del viaggio che si dispiega in questi luoghi e che emana dai mezzi stessi (a partire dagli aerei che hanno realizzato una delle più grandi utopie dell’uomo), questi servizi sono oggi consacrabili, a mio giudizio, come il compimento del luogo contemporaneo, poli di riferimento e crocevia complessi e polifunzionali dei transiti, simboli autentici della vita attuale. I grandi grill autostradali infine, che comprendono il commercio, il ristoro e il parcheggio, anch’essi target della critica augeriana, sono invece dei luoghi nel senso più heideggeriano del termine; infatti la nota metafora (usata paradigmaticamente dal filosofo tedesco) del ponte che, nel punto di superamento del fiume, fa il luogo, è perfettamente applicabile al grill autostradale a ponte, ma anche agli altri grill in effetti, dove il fiume è quello delle auto. L’ibrido Quale piazza per quale città? Sembra uno slogan sessantottesco, in realtà è difficile prevedere quale sarà la piazza della terza città perché bisognerebbe sapere prima la forma e i destini di quest’ultima. La città storica non può più darsi come riferimento e la città moderna, che ha trascurato e trasformato la piazza, è da rifondare così come l’urbanistica nata con lo stesso Movimento Moderno. In questo quadro, dove mancano attendibili previsioni, il progetto degli spazi pubblici diviene problematico soffrendo la mancanza di un congruo programma e di un disegno. Nelle aree meridionali certo è assicurata, come già detto, una sopravvivenza delle forme più o meno tradizionali della piazza: ma bisogna ricordare che è prevista una progressione inarrestabile e planetaria dell’informatizzazione digitale che colmerà man mano i ritardi di queste regioni. In una logica che tiene conto dell’economia complessiva dello spazio urbano e perciò di una sua fruibilità a tempo pieno nella giornata e nell’anno, la soluzione prospettabile è l’ibrido, mescolanza fisica e concettuale propria del tempo contemporaneo, imprevedibile e metamorfico; senza aspirazioni di improbabili purezze, di forme ideali e assolute, di verità e autenticità, ma aperto invece ad ulteriori contaminazioni. Ibrido come capacità di ricomporre frammenti tra loro diversi, come inclusioni di verità parziali, di interstizialità, di pluralità di ruoli o di significati ma anche di geometrie, di materiali e di linguaggi come decostruzione di opposti dualismi e antidoto alle formule dogmatiche, deterministiche e totalizzanti. Un esempio lo si può trovare negli spazi aperti compresi in servizi complessi di tipo culturale o analogo, come un’area inserita in un complesso museale con implicita la previsione ad uso espositivo temporaneo od occasionale; la piazza sarebbe quindi garantita


da una polifunzionalità già prevista ab origine e dalla prossimità di quei servizi di cui ormai si dotano tutte le strutture culturali (dal parcheggio, al ristorante al book shop e altro) che ne accrescerebbero inoltre l’attrattiva e la frequentazione. Spazi di questo tipo non sono poi tanto difficili da trovare e, non a caso, quelli qui di seguito descritti sono dovuti a personaggi di altissima caratura. Nella Biblioteca di Seattle di Rem Koolhaas/OMA l’ibridazione è esplicitamente enunciata nell’elencazione riportata dei vari ambienti della biblioteca. I vari ambienti sono infatti suddivisi in «stabili» ed «instabili»v (relativamente all’utilizzazione, ovviamente) dove la seconda categoria comprende: «sale di lettura, mixing chamber, living room e la biblioteca per i bambini». Ma ciò che si rapporta a quanto finora analizzato sono i vasti spazi di sosta e i relativi percorsi di cui è costellato il bordo dell’edificio, ambiti arredati con verde e sedute così come tutti gli spazi aperti d’uso pubblico e che comunicano con l’esterno attraverso le pareti esterne tutte costituite da vetrate trasparenti, spazi che appartengono di fatto alla Biblioteca ma sono categorizzabili al tempo stesso come piazze e che partecipano visivamente con gli spazi urbani sui quali si affacciano separati unicamente dal quasi immateriale diaframma vitreo ma ascrivibile concettualmente e funzionalmente al sistema urbano in cui sarà collocato. Un altro esempio ancora più noto della Biblioteca di Seattle è l’edificio culturale polifunzionale realizzato sul waterfront di Barcellona da Herzog e De Meuron per il Forum del 2004, edificio al quale, contenendo una sala di 3.200 posti, i programmi del Forum dovevano fare principale riferimento logistico e operativo. Ma di fatto vi era anche un’esigenza di rappresentatività e di attrazione non solo riguardo al Forum ma l’area in generale e la relativa utenza turistica. L’ edificio è su tre livelli dove l’interrato è solo parziale contenendo soltanto la parte più bassa e rastremata della grande cavea che attraversa obliquamente i tre livelli. Di questi il primo fuori terra è di altezza più contenuta ed è in parte aperto verso l’esterno e in parte vetrato e col secondo piano di altezza notevolmente maggiore va a formare una duplice piazza coperta dove si innesta una molteplicità di servizi (spazi espositivi, foyer, uffici, ristoranti, una piccola cappella) che attestano la flessibilità e la caratteristica ibrida dell’insieme qualità dichiarate e sottolineate anche in questo caso dagli stessi progettisti che hanno prodotto un edificio caratterizzato da un’immagine «forte» ma anche «enigmatica», essendo per l’appunto connotata da murature chiuse tagliate da una sorta di feritoie oblique, anch’esse ambigue nella morfologia di pianta e dei prospetti giocati anche e soprattutto sulla particolarità dei materiali: cemento rugoso di colore blu (il colore preferito dai progettisti ribattezzato per l’occasione «blu Mirò») contrastante con le aperture (in forma di tagli e squarci) perimetrate da materiali levigatissimi tersi e trasparenti quali il vetro e l’acciaio, e integrate da numerosi cavedi in copertura. Esempio questo del tutto diverso da quello precedente descritto composto di fatto da due livelli di piazza coperta, quasi una traduzione (se pure non indotta dal clima) delle «gallerie» otto-novecentesche sorte nel Nord Italia e nella Mitteleuropa per fornire delle piazze protette usabili a tempo pieno in tutti i climi e in tutte le stagioni.

Note i

Io facevo parte di uno dei 135 gruppi concorrenti (per un totale di ben 600 partecipanti) e da allora mi associai con entusiasmo a questo interesse collegandolo per diversi anni a temi di ricerca e di sperimentazione progettuale. Gli esiti si concretarono in un libro abbastanza corposo dal titolo Il progetto della piazza (Roma, Gangemi, 1985, 320 pp. 550 immagini), uno studio tassonomico, quasi un trattato che si esaurì in poco più di due anni. L’editore me ne propose la replica che dovetti rifiutare perché non erano ammesse revisioni essendo l’offerta per una ristampa, non una riedizione. ii P. Virilio, Lo spazio critico, Bari, Edizioni Dedalo, 1998, pp. 12 e 15. iii W. Mitchell, «Agorà elettroniche», in «Casabella» n. 638, p. 74. iv P. Virilio, op.cit., p. 35-36. v Si riporta il diagramma delle funzioni enunciato nel programma della Biblioteca: «La Seattle Central Library ha una forma derivata dalla innovativa organizzazione razionale delle attività della biblioteca. Opponendosi all’ambiguità degli spazi genericamente flessibili OMA propone una compartimentazione di aree di uso stabile e instabile. Attraverso il raggruppamento di funzioni simili, combinabili tra loro, vengono identificate cinque zone di stabilità (centro direzionale; Book spiral; sale di riunioni e sale conferenza; uffici; parcheggio sotterraneo) e quattro di instabilità (sala lettura; Mixing chamber; living room; biblioteca per i bambini) da sovrapporre alternandole. Il tutto è interamente avvolto dalla pelle a maglia romboidale in vetro-metallo che conferisce un aspetto unitario al singolare volume multi-sfaccettato.» in «Lotus» n. 127, pag. 54.


UN’ARCHITETTURA LIBERATA DALLA CONOSCENZA. Andrea Carbonara

«L’opera architettonica è un coacervo di molteplici e talvolta contrastanti esperienze…. tutte quante – poesia e non poesia – si fondono nella realtà del fenomeno….la sua validità come opera d’arte non è garantita da una supposta purezza di alcuni elementi di elezione ma da una profonda energia dell’esperienza vissuta che purifica e conduce all’unità tutti quanti i termini della composizione, i fisici, i pratici, gli estetici, i morali, i nuovi e gli antichi» 1 . Questa di Rogers mi sembra una delle definizioni più felici ed aperte che si possano offrire a chi - un giovane studente per esempio - voglia avvicinarsi al progetto d’ architettura rifiutando di doversi confrontare con contenuti che non siano desumibili dalla più immediata attualità; a chi ritiene che riferirsi pertanto ad essi sia incompatibile con una piena e reale espressione della libertà personale. Le parole di Rogers sono interpretabili come una lezione sulla libertà dell’architetto, sul carattere artistico dell’architettura. Una lezione, la cui importanza risiede nell’idea che la libertà nel progetto si possa fondare demolendo i preconcetti che la riguardano - esattamente sulla conoscenza di quei contenuti dai quali alcuni vorrebbero, paradossalmente, vedere l’architettura liberata. L’”esperienza vissuta” di cui parla è proprio la conoscenza: il solo elemento che consente di acquisire l’energia necessaria a rifondere nell’opera gli elementi che vengono eletti, quegli elementi ai quali inevitabilmente ci si riferisce. Quell’energia necessaria che solo una conoscenza profonda determina è la stessa che ci impone di sentire ciò che facciamo, deliberatamente ed arbitrariamente quando progettiamo, come se fosse in qualche modo dovuto. La conoscenza, cioè, liberando quell’energia, produce l’ “inganno” necessario a pensare che quello che facciamo è ciò che va fatto; come se l’opera venisse verso di noi nello stesso tempo in cui noi ci muoviamo, nell’atto di compierla, verso di lei. Ma in che modo questo “inganno” necessario si determina in virtù della conoscenza di quello che gli altri hanno fatto prima di noi? La risposta nasce dalla considerazione di come la nostra capacità immaginativa - e l’ energia che da essa promana - è in grado di trasfigurare gli elementi eletti proprio perchè fecondata attraverso l’azione della nostra memoria, attraverso appunto la conoscenza. Pensare di svuotare se stessi da qualunque contenuto riferibile ad un passato più o meno lontano, significa consegnarsi alla costrizione che deriva dall’elezione dei riferimenti a noi più vicini; un’elezione trasfigurata in apparente libertà, avvertita come tale solo a causa della diminuita mediazione scaturita dalla facilità e dall’immediatezza con la quale possiamo ricorrere ad essi. L’unico modo per sentirsi veramente liberi, per permettere all’opera di andare oltre i propri inevitabili riferimenti, non è quello di allontanarli, restringendo soltanto, così, il proprio orizzonte creativo, ma al contrario è una loro assunzione talmente profonda da permetterci di agire mediante loro - guardandoli come materiali -, evitando che siano essi ad agire attraverso noi - come obiettivi alla cui realizzazione sottomettere il progetto: l’unico modo, dunque, è costruire in noi stessi un orizzonte così ampio da permettere di indirizzare lo sguardo verso punti differenti, lontani abbastanza che non sia possibile distinguere fin dall’inizio del percorso creativo, le forme verso le quali l’opera potrà alla fine approdare. Dunque, quei contenuti ai quali si fa riferimento vanno considerati come materiali, in quanto l’«energia dell’intuizione artistica conferisce all’uso della storia ancor più che un’interpretazione, il vigore di una violenta trasfigurazione; come uno scultore che, avendo perfezionato l’uso dell’esercizio di un materiale e conoscendolo a fondo, se ne serva per dargli le forme corrispondenti alla sua personale interiorità» 2 . Ma affinché l’architettura di un edificio non sia la meccanica trasposizione di elementi desumibili dal passato allo stesso modo che dal “contemporaneo”, dovremmo considerare tali elementi – secondo quanto detto da Rogers -, come il ferro o il marmo nelle mani dello scultore. Allo stesso modo in cui, nei materiali concreti, lo scultore riesce a vedere la possibilità di definire la propria opera, così un architetto, può pensare di fare con la propria, in relazione a materiali sui quali, però, non interviene direttamente con le proprie mani, ma attraverso la mediazione cui lo obbliga la natura del proprio operare. Cioè se una scultura si può pensare venga condizionata dalla resistenza meccanica e dalle altre proprietà fisiche dei materiali con i quali è realizzata, senza che a nessuno sia dato di pensare che ne venga determinata, certamente anche un edificio può essere condizionato dai linguaggi architettonici, pittorici, cinematografici etc., senza che questo implichi che da essi sia determinato. 1

Ernesto N. Rogers, Gli elementi del fenomeno architettonico, Milano, Christian Marinotti Edizioni, 2006, p.p. 5-170, cit. p.86 2 Ivi, cit.88


In architettura però c’è qualche difficoltà ulteriore che impedisce la considerazione di questa “pacificata” relazione non deterministica tra l’opera e gli elementi ai quali essa si riferisce. Nella scultura, nella pittura e in tutte le altre forme d’arte nelle quali il supporto materico attraverso il quale si concretizza l’opera è più diretto, i riferimenti, anche linguistici, dai quali pure, ovviamente, essa trae origine, subiscono una sorta di decantazione a causa della disciplina cui quello stesso supporto costringe chi su di esso voglia agire con un’ operazione di manipolazione: ovvero l’azione – più o meno consapevole - con la quale l’artista assume, nel fare l’opera, determinati riferimenti linguistici, nel suo non essere scindibile dall’ azione conformativa, produce una sorta di dissipazione di quei riferimenti, nella “resistenza” che quel supporto “oppone”alla loro flagrante immissione nell’opera. Nel progetto d’architettura, invece, le cose cambiano: nessuna materializzazione è immediatamente richiesta: se, infatti, i bozzetti per un quadro, come per una scultura - quando vengono prodotti - rappresentano comunque un passaggio nel processo che condurrà all’opera, il progetto, in particolare in ambito didattico, si sostanzia nell’invenzione di una forma disegnata che non deve, per forza, pre-supporre la sua costruzione. Questo, ovviamente non solo in relazione all’eventualità di un approccio, professionale o didattico, poco interessato ad includere gli aspetti costruttivi nell’ideazione del progetto, ma a causa della irriducibile complessità delle dimensioni operative, delle competenze, e della diversità delle presenze, che sono coinvolte nel processo chiamato a dare, a quell’ideazione, concretezza materiale. E, come sappiamo, quanto maggiore è la raffinatezza dei mezzi tecnici finalizzati alla costruzione, tanto cogente diviene l’esperienza della sua potenziale differibilità nel tempo e, contestualmente, della sua delegabilità a coloro che dovranno renderla possibile nel darne, infine, consapevolezza agli stessi ideatori del progetto. E’ la cogenza di questa esperienza di ‘onnipotenza edificatoria’ che rende così difficile quel dissiparsi dei riferimenti linguistici, a causa della sempre più flebile resistenza che la costruzione dell’architettura è in grado di opporre ad un’azione progettuale che voglia immetterli nell’opera: è la consapevolezza di una realizzabilità pressoché illimitata a rendere la loro presenza patentemente flagrante. A rendere cioè difficile che ad essi l’opera non finisca per essere subordinata, togliendo quell’eterogeneità, quella indecifrabilità, quella complessità, nella quale risiede gran parte della sua capacità di essere viva, di non vedere il proprio valore ridotto al riconoscimento delle sue caratteristiche più immediatamente identificabili, ma al contempo più immediatamente “consumabili”. Dunque, l’atteggiamento con il quale si percorre lo spazio di mediazione che sempre sussiste, in architettura, tra ideazione e realizzazione, risulta fondamentale per intendere lo statuto che è possibile attribuire, in una data opera, ai linguaggi, alle forme in generale e a tutti quegli elementi desumibili dal passato come dal presente, che entrano inevitabilmente a far parte del processo progettuale come materiali utili al suo compimento o piuttosto come fini ai quali esso tende. Nel primo caso, una prospettiva che riconosce la relazione secondo la quale – come osserva Moneo - « sempre la costruzione dell’architettura ha supposto l’invenzione della forma » 3 , conduce ad eleggere gli elementi linguistici - ma il discorso vale per qualsiasi elemento riconducibile alla propria esperienza della realtà - ai quali ci si riferisce, con una pre-disposizione a definire la propria intenzione – formativa direbbe Pareyson – solo nella concretizzazione dell’opera. Una prospettiva, dunque, secondo la quale l’autore non avverte come preventivamente deliberata la loro elezione, ma di essa assume progressivamente consapevolezza con l’approssimarsi dell’opera alla sua forma definitiva e, dunque, costruibile. Nel secondo caso, al contrario, quell’ “energia” che – parafrasando Rogers – operava una “trasfigurazione” degli elementi della storia, non è più alimentata dall’ “intuizione artistica”, perché tale intuizione non ha lo spazio di determinarsi liberamente, in quanto tutta già definita in un’intenzione pre-costituita allo svolgersi del processo realizzativo. Processo il cui punto di arrivo viene assunto con chiarezza in un’opera che non deve negoziare in alcun modo la propria forma con la costruzione; e che, quindi, assume pure, l’insieme degli elementi cui tale forma fa inevitabilmente riferimento, come proprio obiettivo. Ma se tali elementi rappresentano un obiettivo, il progetto diviene più facilmente lo strumento con cui si rispecchia la realtà contingente dalla quale quegli stessi elementi sono desunti. Che questo possa essere un terreno soddisfacente all’interno del quale l’architettura possa ambire a muoversi, è un tema sul quale vale la pena interrogarsi. Certamente, però, rinunciare all’ambizione di introdurre in tale realtà – se pur contingente delle modificazioni che nascono dall’interazione che con essa l’opera, una volta realizzata, può determinare, è una scelta dotata di una specifica intenzionalità. Certamente non l’inevitabile conseguenza di uno stato di cose, né tanto meno il segno che l’architettura si sia liberata di quei vincoli che impedivano la piena affermazione della sua indipendenza rispetto ad una realtà ad essa esterna; che, al contrario, rischia di essere l’unica cosa dalla quale l’architettura, in un ripiegamento su se stessa nel quale appare secondaria la sua stessa presenza materiale, finisce per dipendere.

3

J.R.Moneo, After modern architecture. Entrados ja en el ultimo quarto de siglo…, in «Arquitecturas Bis», n. 22, maggio 1978, pp.2-5, cit.p.5 [la traduzione del passo in spagnolo citato è mia].


In tal senso, mi pare significativo concludere ancora con le parole di Rogers: «E’ oltremodo importante insistere ancora su come le scelte degli elementi di un’architettura siano profondamente legate alle condizioni ambientali: sia a quelle di carattere sociale-economico e, in genere, umano; sia a quelle della natura dei luoghi o delle possibilità pratiche di intervenire nei precostituiti limiti naturali. Le scelte contengono nel primo atto l’ultimo fine, che è sempre quello di far vivere una determinata esperienza culturale nelle forme concrete dei fenomeni – determinati da essa e determinanti la medesima – in una relazione di causa ed effetto che è un ciclo continuo; dove è inutile distinguere il principio e la conclusione sempre rinnovatisi, quando le negazioni sono provvisorie quanto le affermazioni». 4

4

E. N. Rogers, Gli elementi del fenomeno architettonico, op.cit., cit. p.94.


t e s t i


ARCHITE ETTI VS AUTOCAD A D…. Inconttro o scontrro? Giovanni B Bartolo

Negli ultim mi trent’ann ni si è sviluuppata un eenorme diffu fusione dell’uso d d dei compputer nell’ambieente della prrogettazionee architettonnica, di conseguuenza sono nate polem miche e crittiche sul fatto chhe Architettti, soprattuttto quelli ddi fama mondiaale, utilizzaassero i com mputer e i software più avanzati per p realizzarre progetti impossibili daa concepiree alla vecchiia maniera, cioè sul vecchiio e tradiziionale tavoolo da disegno. Addiritturaa scuole di pensiero attribuiscon a no al computer la creazion ne di alcunne opere, data l’estrema ccomplessitàà delle form me che caratterizzato stuppefacenti prrogetti di Architettura A contemporanea. La realtàà è che se si s conoscessse a fondo l’arrgomento si potrebbe capire meeglio come stannno verameente le cosse. Per inizziare vorrei daree delle defin nizioni che possono esssere utili a capiire di cosa stiamo parllando. In innformatica, l'accronimo ing glese CAD viene usatoo per indicare duue concetti correlati c maa differenti: Computer--Aided Draffting, cioè disegno d teccnico assistito daall'elaborattore in tale accezione iindica il settorre dell'inforrmatica voltto all'utilizzzo di tecnologie software e specifiicamente ddella computer ggrafica per supportare l'attività ddi disegno tecnnico (draftin ng). I sistem mi di Compputer Aided Draf afting hanno o come obbiettivo la ccreazione di unn modello, tipicamentte 2D, del ddisegno tecnicco che descrive il mannufatto, nonn del manufatto stesso. Ad esempio, unn sistema C Computer Aideed Drafting g può essere impiegatoo da un progettiista nella crreazione di una serie ddi disegni tecnnici (in proiiezione ortoogonale, inn sezione, in assonometrria, in esploso) finalizzzati alla costruzzione di un n motore, dii un edifico con pianta prosspetti e sezzioni, come se stesse ddisegnando su un tavolo da d disegno ma con unaa serie di vanttaggi: poterr modificarre il disegnno in qualsiasi m momento seenza cancelllare il luce con la vecchia lametta, o richiamanddo a distanzza di tempo lo sstesso file e stamparlo in scale di rappresentaziooni diverse; Computer--Aided Desiign, cioè prrogettazionee assistita dalll'elaboratorre in questaa accezionee, la più comunne, CAD ind dica il settorre dell'inforrma-

tica volto all'utilizzo a di d tecnologiie software e in particolaree della comp puter graficca per suppoortare l'attivitàà di progettaazione (desiggn) di manuufatti sia virtuuale che reaali. I sistem mi di Compputer Aided Desiign hanno come c obiettiivo la creazzione di modellii, soprattuttto 3D, del manufatto. Ad esempio, un u sistema Computer Aided Deesign può essere impiegato da un progeettista mecccanico nella creeazione di un u modello 3D di un m motore, di un faabbricato o di una partte-complem mento di un fabbrricato. Se viene v realizzzato un moddello 3D, esso può p essere utilizzato u per calcoli qquali analisi stattiche, dinam miche e struutturali ed inn tal caso si paarla di Com mputer Aideed Engineeering (CAE), dissciplina più vasta di cuui il CAD coostituisce il soottoinsiemee di azioni e strumenti vvolti alla realizzzazione pu uramente geometrica g del modello. Probabilmen P nte, l'antenato dei sisttemi di CAD è stato il sisttema Skecthhpad sviluppato al Massacchusetts Insstitute of Technology T nel 1963 da paarte di Ivan n Sutherlandd. Si trattavva di un sistemaa sperimentale che connsentiva al progettista di disegnare su s un monitor a raggi ccatome applicazzioni dici con unna penna otttica. Le prim commerciaali del CAD D si ebbero negli n anni 11970 in grandi aziende a eletttroniche, auutomobilistiiche, o aerospazziali. Veniv vano impieegati compputer mainframee e terminalli grafici veettoriali. Quuesti ultimi sonoo monitor a raggi catoodici il cui ppennello elettrronico, inveece di scanddire lo scheermo come nei televisori, t viene v controollato dal ccomputer in modo m da traccciare le linnee. Negli anni 1980 vennnero svilupp pati sistemii CAD per microcomputter con mon nitor a graffica raster, cioè basate su frame f buffer. Tali sisteemi erano anncora o molto limitati o molto m costoosi, e comunnque molto diffi ficili da usaare, per cui venivano uusati solo da aziende medio-grandi o da professiionisti, essenddo questi sttrumenti teccnologicam mente sofisticati. Negli anni 1990 la semplificaz s zione nell'uso del computer dovuto allaa diffusione delle interfaccce utente grafiche g e l'abbassam mento dei costi dell'hardwaare hanno reso i sisttemi CAD alla portata p di tu utti i professsionisti.


A , hanno troovato I software CAD in Architettura, mpi di appliicazioni dallla progettazzioni diversi cam di compleementi, quaali arredi, infissi, o pparti strutturali, in urbanisttica con i GIS G si è adddirittura svilupppato il sisttema di conntrollo integgrato delle infrasstrutture su u un intero territorio t grrazie alla georefferenziazion ne delle mappe m geoggrafiche. Ma laa discussion ne sta’ tuttta nella rapppresentazione grafica di molti m progeetti che sfogggiano nei conncorsi di arcchitettura unna serie di tavole dove vengono rappresenta r ati stupefaccenti Render fotto realistici aprendo una vera e proopria battaglia suu quello più ù tendente al a reale. Maa che cosa è un R Render? Mo olti software in commeercio di grafica vettoriale consentono c di elaboraare il rendering o fotorealiismo). È possibile p crreare oggetti arbbitrariamentte complicaati con acccanto più sorgennti luminosee e, assegnando dei m materiali alle ddiverse supeerfici, il motore di renndering calcolla le ombree, le riflessioni e le traasparenze deglli oggetti disegnati gennerando im mmagini atte a simulare l'aaspetto realee degli oggeetti e delle scenee progettatee. Grazie a questo q strum mento si può m materialmen nte dare unna visione rreale (virtuale) nnell’ambien nte in cui verrà v realizzzato l’opera prrogettata. L'attuale L dim mensione ddegli schermi peer computerr non è in alcun a modoo paragonabile alla dimen nsione di unn tecnigrafoo oppure di unn foglio di formato f A00; pertanto i sistemi CAD D sono costrretti ad offrrire modalità alternative pper la visuaalizzazione dei disegnii. Le funzionalittà essenziali di visuaalizzazione, nei sistemi 2D D, sono an naloghe a quello q che potremmo otttenere osseervando un foglio da ddisegno con unna macchinaa fotograficca o con una telecamera: inoltre spo ostando orizzzontalmennte o Disegno innquadrata. Si S noti che si tratta di funzioni di vvisualizzazio one, cioè di d funzioni che modificanoo la vista deel disegno e non il disegno. Premesso tutto queesto si deve d preciisare chel’archittetto, autoree del progeetto, modellla le forme com me uno scultore, caambia peròò lo strumento materiale, il i martello e lo scalpelllino vengono ssostituiti, an nche se tristemente, ddalla tastiera e ddal mouse. La L modellaazione che a noi può apparrire un opeerazione auutomatizzataa ed immediata in realtà è un operazioone con unaa sua complessittà. Comunqu ue pensata e concepita dal operando ssull'obiettiv vo si può inngrandire o rimpicciolire a piacere ill disegno paassando da una visione gloobale dell'in ntero disegnno ad una visione locale ddi una sua so ottoparte;

verticalmennte la teleccamera è poossibile varriare l'area del progettista p poi p trasferitta al calcolaatore che ci mostra m tutte le sue raappresentazzioni grafiche, viste asso onometrichee prospetttiche ecc… Sottto certi aspeetti è più edducativa per gli studenti di d architettu ura perchéé si imparra a gestire il progetto p su una mappattura del terrreno reale, con dislivelli e quote reeali visibilii da diverse anggolazioni. Nei N sistemi BIM (Building Information Modellin ng) la costrruzione è ccome nella realttà, si può progettare alzando inn tre dimensionii muri, piilastri solai, risolveree la giuntura trra una traave ed un solaio, veedere materialmeente come si s intersecaa una vetrata ad un muro ecc… Sono d’accorddo nel critiicare progetti coomplessi ad d esempio di Ghery o di Chipperfieeld nelle lo oro scelte compositivve o sull’utilizzzo di alcunee performannce che tenddono solo a speettacolarizzaare l’architettura, ma non concordo sul s fatto chee si attribuissca al compputer la realizzaazione dell’opera. Conn questo voorrei concluderee esprimen ndo il mioo pensieroo in merito, il computer è un prezzioso e pottente orazione a disposizzione strumento di elabo dell’Archittetto, non può sostittuirlo in nessun modo ma a vantaggio dell’Archhitetto servee ad e aiutare la l sua creattività nella sua ampliare ed espressionee, estende la sua senssibilità versso la composizioone del prog getto di Arcchitettura. In pratica il Compu uter, comee strumentoo di lavoro, rieesce a mosttrare a tutti,, anche a cooloro che non riiescono a capire c le raappresentazzioni tecnico-graafiche, la propria ideea di proggetto diventandoo così uno strumentoo di linguagggio universale..


THE KOOL LEE INSTITUTE CENTRE FOR SUSTAINABLE ENERGY TECHNOLOGIES NINGBO-CINA, 2006-2007 MARIO CUCINELLA Francesca Buonincontri

Il problema di un'architettura ecosostenibile è ormai all'attenzione di tutti gli stati, le stesse due potenze mondiali maggiormente responsabili delle emissioni globali di CO2, Stati Uniti e Cina, recentemente, nel luglio 2009, nonostante le divergenze sulla lotta al global warming, hanno firmato un accordo per la creazione di un programma congiunto di ricerca sulle tecnologie in grado di ridurre le emissioni di gas serra. In Cina la crescita incontrollata che sta modificando l'aspetto delle metropoli ha portato all'aumento spaventoso del livello di inquinamento e solo con le più recenti opere architettoniche, progettate da studi occidentali, si è iniziato a prendere in considerazione il fattore della sostenibilità. Le autorità cinesi, consapevoli della gravità del problema, stanno cercando la collaborazione dei paesi occidentali e soluzioni adeguate, che hanno già così fortemente aumentato il settore delle energie rinnovabili da trasformare la Cina nel più grande produttore di pannelli solari, e i suoi 6 progetti eolici genereranno una quantità di energia senza precedenti: tra i 10.000 e i 20,000 megawatt ciascuno. La collaborazione tra la Cina e i paesi occidentali ha prodotto numerosi progetti tra cui il SIEEB (Sino Italian Ecological efficient Building) risultato della cooperazione tra il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio Italiano ed il Ministero della Scienza e della Tecnologia Cinese nell’ambito degli accordi di Kyoto e il The Koo Lee Institute Centre for Sustainable Energy Technologies sempre progettato da Mario Cucinella e dal Politecnico di Milano, che ne ha curato gli aspetti scientifici. L'Istituto, realizzato dall’università inglese di Nottingham a Ningbo, città di un milione e 200 mila abitanti, all’interno del primo campus indipendente della Cina, nasce con il preciso intento di divulgare tecnologie sostenibili come il solare, fotovoltaico, eolico in una delle zone a maggior crescita economica, il distretto di Zhejiang, provincia orientale e costiera della Repubblica Popolare Cinese. Il nuovo centro italo-cinese per la ricerca e la compatibilità ambientale applicata in edilizia può considerrsi un prototipo per il controllo e la riduzione dell'emissioni di CO2 nell'ambiente, l progetto realizzato con la collaborazione del Politecnico di Milano si è posto di perseguire, come scrive lo stesso Cucinella " gli obiettivi di efficienza energetica e massima riduzione possibile nell’emissione di CO2 con un aspetto funziona

le ed una immagine architettonica contemporanea". Il padiglione richiama morfologicamente una lanterna dell'antica tradizione cinese adagiata su un grande prato, a ridosso del piccolo fiume che scorre internamente al campus , ed è progettato secondo i principi di bio-architettura che tendono a minimizzare l’utilizzo di energia elettrica, sfruttando invece al massimo le energie naturali, all'interno di un complesso organismo architettonico, sono state riportate le più avanzate proposte relative al risparmio energetico sia attraverso soluzioni impiantistiche che scelte architettoniche e strutturali. L’edificio di 1.300 metri quadrati, diviso in due zone di cui il piano interrato di 800 mq e la torre di 500 mq, ospita un centro visitatori, laboratori di ricerca, aule per corsi di specializzazione dipartimenti, uffici, un auditorium e uno spazio espositivo dedicato alle tecnologie italiane. Per Cucinella la tecnologia diventa linguaggio architettonico, ogni scelta propone al fruitore riflessioni sulle ragioni delle soluzioni prese, ogni facciata è trattata seguendo l'esposizione, quella a nord, che è anche l'accesso principale al campus, è in gran parte opaca e fortemente isolata per proteggerla dai venti invernali, le facciate sul giardino utilizzano diversi sistemi di ventilazione, le facciate a sud prendono ombra dagli sbalzi dei piani e sono trattate in modo trasparente, l'insediamento a corte si apre verso sud. Le facciate esposte ad est ed ovest sono rivestiti da una doppia "pelle" in vetro molato in modo da modificare l’andamento dei raggi solari evitando cosi’ l’effetto di abbagliamento. La doppia pelle è composta da una facciata continua in cui si alternano moduli opachi e moduli trasparenti e da una facciata esterna serigrafata. I motivi serigrafati sul vetro ricordano le trame tradizionali dei grigliati in legno degli edifici storici locali, la facciata è attraversata da una piega trasparente che genera diverse visioni dell'edificio di giorno e di notte. La struttura frangisole è composta da lamelle in vetro riflettente con angoli di inclinazione diversa per l'irraggiamento solare e la penetrazione della luce. I componenti dell’involucro esterno, le diverse tecnologie utilizzate, i sistemi di controllo sono prodotti di imprese italiane accoppiate a innovazioni sperimentali.


Le soluzioni strutturali e cantieristiche si caratterizzano per l'importante ricerca di integrazione con le tecnologie e le pratiche cinesi. Il fulcro delle strategie adottate è l’ampio lucernario sul tetto, che come un imbuto attraversa interamente l'edificio e convoglia a tutti i piani la luce solare diffusa, regolata poi da un preciso sistema di aperture. Il lucernario, producendo un effetto camino, assicura anche un’efficace ventilazione naturale migliorando la qualità dell’aria interna. La climatizzazione degli ambienti si realizza invece attraverso un efficace isolamento termico, dato dai doppi vetri della facciata, e dall'utilizzo, in facciata, di rivestimenti opachi o trasparenti, a seconda del livello di esposizione al sole. E' stato anche previsto un sistema di pannelli radianti alimentato da energia geotermica . Le strategie di raffreddamento e riscaldamento passive vengono integrate con quelle attive ottenute con una pompa di calore reversibile (per produzione caldo e freddo) collegata a 16 sonde geotermiche verticali, con i 114 metri quadrati di collettori solari sottovuoto, attraverso un sofisticato sistema di controllo BMS (Building Management System) per la gestione dell’integrazione ottimale tra sistemi attivi e passivi. Il consumo elettrico totale per la climatizzazione raggiunge appena 7-8 kWh annui per metro quadro, risultato sorprendente se si paragona ali 3500 kWh annui che è il consumo medio di una famiglia di 4 persone. L'architetto Mario Cucinella si è aggiudicato il prestigioso Mipim (10-13 marzo 2009) Award 2009, categoria "Green Buildings" L'oscar, considerato il più importante del mondo nel settore immobiliare, è stato consegnato a Cucinella per il progetto CSET Building di Ningbo ed è la prima volta che viene assegnato ad un architetto italiano. Strategie ambientali L’edificio è diviso in due zone: il piano interrato (circa 800m2) e la torre (circa 500m2).

Inverno: - l’aria di rinnovo proveniente dalle aperture situate nella parte bassa della faccia sud, viene preriscaldata per effetto dell’irraggiamento solare incidente all’interno della doppia pelle e,quando l’effetto della radiazione solare non è sufficiente,grazie a scambiatori con tubi alettati disposti lungo la facciata all’interno del pavimento galleggiante; - l’aria esausta evacua attraverso aperture poste sul pozzo di luce per effetto camino; - il riscaldamento degli ambienti è garantito attraverso il sistema di attivazione termica della massa in corrispondenza dei solai, alimentato da pompe di calore geotermiche con sonde verticali; - le aperture situate nella parte alta della doppia pelle esposta a sud restano chiuse per favorire l’effetto serra; - nel piano interrato l’aria viene preriscaldata presenza mediante il passaggio all’interno di uno scambiatore aria-terra nel sottosuolo ed evacuata attraverso aperture controllate in corrispondenza dei lucernai. Estate: - l’apertura situata nella parte alta del pozzo di luce è chiusa; - una macchina ad assorbimento posta in copertura ( alimentata da collettori solari sottovuoto – solarcooling) convoglia l’aria raffrescata e deumidificata all’interno del pozzo di luce. Ogni piano riceverà l’aria attraverso le aperture poste sul pozzo di luce ed estratta grazie all’effetto camino che si genera grazie al surriscaldamento all’interno della doppia pelle esposta a sud; - le aperture situate nella parte alta della doppia pelle restano aperte per favorire l’effetto camino; nel piano interrato l’aria viene preraffrescata mediante il passaggio all’interno di uno scambiatore ariaterra nel sottosuolo ed evacuata attraverso aperture controllate in corrispondenza dei lucernai. Lo studio Mario Cucinella Architects ha presentato una serie di progetti basati sulla “sostenibilità” nella mostra itinerante “Energia dell’ Architettura” inaugurata il 3 luglio nel Loggiato San Bartolomeo di Palermo.


RIFLESSIONI SULL’ABITARE CONTEMPORANEO Carmine Lo Conte

L’architettura dell’ultimo ventennio, concentrata sull’evocazione delle cosiddette “archi-star”, ha messo da parte quelle tradizioni, fatte proprie dagli anni cinquanta e volte alla risoluzione delle problematiche certo meno appariscenti ma maggiormente vicine alla massa, che risultavano essere al centro di continue ricerche formali del processo compositivo dell’architettura razionalista. Le periferie delle città italiane sono la fotografia di uno stato di disagio abitativo e distributivo degli spazi; il problema della casa negli ultimi venti anni è stato quasi del tutto rimosso o meglio dimenticato dagli addetti alla materia, in particolare dagli architetti. Bakema, De Carlo, Quaroni, Ridolfi, rischiano oggi di non suscitare più alcuna memoria o interesse nei giovani professionisti del settore, immersi costantemente nelle ragioni di un’architettura che non trova più corrispondenza nelle esigenze delle contemporaneità. Nel linguaggio architettonico contemporaneo il lessico, legato alla cosiddetta “edilizia economica” o più comunemente “casa popolare” 1 non dà più spunti e significati ad originarie e profonde sfumature concettuali e progettuali. Oggi si assiste ad una sorta di ”anglosassonizzazione” che, dalla derivazione etimologica della parola, si può intendere in due accezioni specifiche: “social housing” 2, prova ,comunque, di un abbandono non solo linguistico ma anche culturale che, alla fine del secondo conflitto mondiale e nel successivo ventennio, ha caratterizzato una parte importante fase dello scenario progettuale e della produzione architettonica di quegli anni. Le politiche pubbliche di tutela sociale, negli anni in cui sono state attuate, hanno dato l’opportunità a maestri come il

Quaroni, il Ridolfi, Aymonino, Albini ed altri, non da ultimo Ignazio Gardella, di sperimentare e realizzare modelli di insediamenti edilizi, che tuttora possono essere considerati degli esempi da cui far partire la ricerca di un modello abitativo che possa rispondere alle esigenze di una contemporaneità in forte mutamento. La ricerca architettonica sul tema,comunque, è relegata a un mero e sporadico manifestarsi di episodi isolati e sconnessi di rinnovamento, frutto nella maggior parte dei casi del concorso di eterogenee progettazioni nelle quali le amministrazioni pubbliche scelgono,ma non sempre con continuità, la strada del confronto e del dibattito architettonico; quella dei concorsi banditi dalle pubbliche amministrazioni, per l'affidamento dell'incarico di progettazione, resta, allo stato attuale, l’unica strada percorribile per svincolare il professionista dalle rigide regole del mercato immobiliare, nel quale l’interesse principale non è quello di sperimentare nuove soluzioni o nuovi approcci conoscitivi e progettuali, ma volgere l'attenzione alla massimizzazione del profitto e alla riduzione dei costi. L’investimento delle amministrazioni pubbliche nella qualità architettonica dell’edilizia economica mostra evidenti ricadute a livello sia culturale che sociale; paradossalmente in Italia si registra un incremento delle famiglie cosiddette non tradizionali. 3 Quello che non viene chiaramente identificato è la variazione del nucleo familiare a ribasso che determina il passaggio dalla composizione tradizionale, a cui siamo abituati, a forme di famiglie con un assetto di tipo ristretto, il cui numero dei componenti oscilla tra due e tre membri. Tale situazione la si riconduce ad un’accelerazione dei flussi migratori e ad una sostanziale difficoltà a mantenere un

sufficiente livello reddituale con una famiglia numerosa,fatto comportante un incremento della così detta "famiglia monocomponente"4. Ma queste immediate considerazioni iniziali aiutano ad introdurre altre specifiche relazioni che sono anch’esse fondanti, come ad esempio lo è il fenomeno della domanda di sostituzione del proprio alloggio con uno di migliore qualità e dimensione e non da ultimo il modificarsi della tipologia del rapporto tra lavoro e permanenza nel luogo di residenza. La crisi economico finanziaria che si sta vivendo modifica in maniera radicale le scelte dei modelli tipologici di riferimento, apportando delle declinazioni forti alle scelte soggettive e non, alla tipologia edilizia oggetto di ricerca da parte dei progettisti. Queste tematiche non sono del tutto estranee all’Europa, che registra un dato da non sottovalutare per l’anno 2008; nello specifico la popolazione urbana ha superato, anche se di poco la popolazione non urbana. Questo dato potrebbe sembrare un mero confronto di situazioni fattuali, ma cosi non è, in quanto, alla luce di altre problematiche, come le cosiddette emergenze non ambientali ma sociali, ci si pone il quesito come far fronte alle trasformazione delle grandi metropoli. In questo scenario preponderante è il ruolo che il progettista deve svolgere nella composizione degli spazi abitativi5 capaci di accogliere da un lato il bisogno primario della popolazione ma, nello stesso tempo , sufficientemente protagonista delle nuove esigenze di vivibilità. Quindi tali esigenze tornano preponderanti nel linguaggio architettonico attuale, esigenze di cui gli architetti hanno saputo dare in passato testimonianze di grande carica etica e 4

1

Social Housing, Casabella 774, pag. 5, febbraio 2009 2 Antonio Monistiroli, La casa Borsalino ad Alessandria, Casabella 774, pag. 7, febbraio 2009

3

Lorenzo Bellicini, Ritorna il problema della casa, Casabella 774, pag. 14, febbraio 2009

Nicola Braghieri, Sociale, economica, popolare, Casabella 774, pag. 17, febbraio 2009 5 Paola di Biagi, La grande ricostruzione, il Piano INACasa e l’Italia degli anni 50, Donzelli Editore, 2001;


sostituito dalla ricerca del paesaggio, attraverso una forma adattabile, sensibile al contesto, formata da materiali leggeri, luminosi,volta a creare habitat impalpabili per superare quei concetti di limite di relazione all’interno dell’edificio. Tutto ciò lo si riscontra in alcune attuali realizzazioni di strutture abitative individuanti una possibile linea di crescita e un tentativo condiviso di trovare nuove attribuzioni e impronte adatte a uno stile di vita in continuo mutamento, scoprendo e rivalutando nuovi sistemi insediativi consolidati per un corretto abitare. Tuttora esistono notevoli esempi di estremizzazione del concetto di flessibilità ed adattabilità dello spazio domestico; in alcuni casi favorendo la soluzione a esigenze di vita nelle quali, ad una mutevolezza degli interni, coincidono realizzazioni essenziali e funzionali alla stessa vita di relazione, dove il movimento e la dinamicità rappresentano il richiamo alla informatizzazione dei servizi. La più evidente dimostrazione è l’edificio Wozoco ad Amsterdam degli MvRdV, con proiezione, per mezzo di spiccati sbalzi, degli alloggi verso la città. Anche Steven Holl sperimenta le nuove forme dell’abitare negli interni del complesso residenziale Fukuoka in Giappone, in cui si realizzano appartamenti dalla forma mutevole, dagli spazi in movimento e imprecisati, in ogni caso volti al non finito, dove gli interni sono dinamici e interagenti. Come Shigeru Ban che intende l’abitazione in maniera completamente flessibile mediante l’inserimento di ”stanze mobili” che rappresentano continuamente l’ambiente. Sin dagli anni settanta in Italia ci si è commisurati con il problema dell’edilizia abitativa minima, trovando molteplici soluzioni formali e pratiche; tale attenzione, purtroppo, nell’ultimo ventennio sembra essere stata spostata su altre tematiche dell’architettura; in paesi, come l’Olanda e la Francia, forte è stata la spinta al confronto intellettuale e ideologico, affrontando e in parte risolvendo i vari problemi della “popolazione contemporanea”: la diversità etnico6 Stefano Casciani, Pubblic Housing in Italy, Domus 919, culturale, l’emergenza, la temporaneità novembre 2008

ideologica; esigenze, alle quali oggi sembra non essere più sufficiente l’approccio dato . In questo ventennio l’edilizia cosiddetta economica, ha seguito un percorso che difficilmente si è intersecato con le grandi maniere, eccellenze o opere monumentali che dir si voglia. Alcune riviste specialistiche continuano a dare quei messaggi propri di un settore che richiede nuovi approfondimenti e sembra segnalare quella presa di coscienza di un’emergenza a cui bisogna far fronte. Quando si parla della città del futuro e dei relativi quartieri residenziali generalmente ci si trova di fronte a due tendenze principali: il vecchio, il tradizionale, il nuovo e il contemporaneo. La questione centrale per lo sviluppo urbano risiede nel superamento dell’opposizione, apparentemente, inconciliabile tra permanenza storica e nuova pianificazione urbana. L’abitazione diventa elemento fondante il nuovo modo di pensare la città, abbandonando le apparenze meramente funzionali ed accogliendo l’eterogeneità fluida del nostro tempo. Gli edifici assumono carattere ibrido con programmi articolati, contribuendo a trasformare la realtà urbana in un territorio di ricerca e sperimentazione che confronta e risolve diverse problematiche volte all’isolamento progettuale e con l’antidoto di un’intensa coesione sociale. Comunque si avverte la necessità di approcciare una possibile svolta ambientale integrando la natura negli ambienti abitativi con le nuove tecnologie ricercate per costruire in maniera consapevole. La scelta di dare spazio all’architettura, da spazio anche alla realizzazione di basi comuni in cui forme di progetto sembrano incidere sulla qualità della vita quotidiana. Questo nuovo “status dell’abitare”6 viene fatto proprio dal pensiero progettuale che lo schematizza nello spazio domestico ed urbano, divenuto dinamico il primo e incostante il secondo. Ma questo aspetto influenza non poco la città odierna nella sua dimensione e nel suo sviluppo futuro. È da evidenziare come l'immobilismo compositivo sia stato

degli interventi, elementi che influiscono in maniera determinante sulla genesi del costruire. Riconsiderare l’abitazione come una “organismo” in movimento può essere utile per riconoscere un architettura sostenibile ed ecologica, in cui i beneficiari possono crearsi su misura il proprio spazio domestico. La dinamicità degli spazi si riflette soprattutto nella prospettiva progettuale, che deve essere il luogo dove fare proprio sempre più la sostenibilità ambientale, includendo doti quali il consumo ridotto dell’energia e la sua conservazione, lo smaltimento dei rifiuti e l’uso di materiali riciclati, fino alla proposta di soluzioni formali e tecniche quali, ad esempio le facciate a doppia pelle, per una migliore qualità climatica oltre che estetica. La ricerca sulla progettazione delle unità abitative, oggi sembra ancorarsi ad una pluralità di concezioni tutte caratterizzate da un concetto base volto alla temporaneità nonché flessibilità degli spazi da distribuire e dall’altro una forte riconoscibilità degli elementi essenziali di tipo strutturale. Prendendo coscienza, senza preconcetti culturali o sociali, della nuova società che si va definendo e profilando, ciò spinge ancora di più a ripensare al ruolo degli architetti, che hanno la necessità di prospettare nuovi modelli, certo alternativi e sostitutivi di archetipi costruttivi nella prassi superati, rendendo le città italiane degli organismi che sappiano adattarsi alla contemporaneità non solo estetica ma soprattutto funzionale alle esigenze e all’interesse della società .


CCTV: IL VELO DELL'IKONS Sogno leonardesco attuato o icona commerciale? Raffaele Nappo

L’intenzione progettuale koolhaasiana potrebbe essere tipica del fare rinascimentale, di quell’ armonizzare tutte le contraddizioni della cultura del suo tempo, oppure è da considerare solo come un duplicatore di oggetti distrattamente ammirati in un angolo della CBD (Beijing Central Business District) di Beijin? Sicuramente si tratta di un “testo” di cui fanno parte in maniera inscindibile l’immagine, la forma, il tessuto urbano, la popolazione, il marchio dell’azienda e il senso commerciale dell’investimento. Come sostiene Baudrillard si tratta all’alienazione dell’Io che, offuscato dal Velo di Maya, legittima la fusione globalizzante della cultura europea e asiatica. «La storia poggia sul desiderio dell’uomo di divenire altro da ciò che è. La storia è fatta al di là della nostra volontà, non dell’astuzia della ragione ma dell’astuzia del Desiderio» (Vittorio Gregotti, Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano, 2008, p.11). Il CCTV è il tentativo di creare un

oggetto che soddisfi i desideri dei dirigenti della TV di stato e dei consumatori/fruitori. Koolhaas intuisce i desideri di una città che è sempre più in auge nel valzer economico-politico mondiale. L’immagine creata è un nuovo modo di concepire l’architettura verticale, non più grattacieli rispettosi dei baricentri geometrici e delle masse, ma puro atto creativo ovvero l’ “ang”(sbalzo) + grand arche piegato su se stesso che separa ed unisce la Piazza Tian'anmen, lo stile spoglio e austero “sino sovietico” e la nuova architettura della recente CBD. La tradizione architettonica cinese non ha mai codificato né riconosciuto l’architettura come una vera arte e manca per questo motivo di una trattatistica adeguata, eccetto alcuni manuali tecnici di costruzione tramandati nei secoli. Le costruzioni storiche prevalentemente in legno (il tien o padiglione) erano sviluppate con struttura tripartitica, costituita dal basamento (chieh-chi), dalle colonne (chu) che sorreggono il sistema mensolare (tou-kung). Confrontando gli stilemi storici cinesi con la composizione del CCTV si ha una sovrapposizione di elementi che richiamano le invarianti architettoniche della Dinastia Sui e T’ang (581-907 d.C.), periodo che con la diffusione del Buddismo in Asia ha prodotto lo sviluppo del nuovo stile che è esso

stesso somma del’evoluzione delle 6 dinastie precedenti. Gli edifici sono di misure ampie, hanno carattere monumentale ed è evidente l’amore per le forme chiare, lineari e semplici. In genere le strutture, rigidamente funzionali, sono urbanizzate con un chiarissimo senso della simmetria del ritmo e dell’armonia. Influenzate anche dal profondo interesse per la musica sviluppatosi in questo periodo, seppur ne sono rimasti pochissimi esempi, le descrizioni dei testi storici, le raffigurazioni scolpite o dipinte e i resti dei complessi buddisti di Nara come la sala d’oro del Toshodaiji, ci permettono di fissare con acuta chiarezza l’evoluzione ed il parallelo con l’opera di Koolhaas. Il centro dello stile è il sistema mensolare che si sviluppa in altezza, aumentando gli ordini, ma conservando una salda compattezza. Il braccio emergente definito “ang” agli angoli diviene esteticamente e strutturalmente più coerente, mentre le colonne perdono lentamente l’entasi. Proprio l’ “ang” del CCTV è il culmine del nuovo concept, per i grattacieli, dove torsione e piegatura di due barbacani riprodotti fuori scala determinano la nuova icona. Ritroviamo anche lo spirito della pianificazione del complesso templare, della dinastia Sui e T’ang nel nuovo polo televisivo, cioè l’impianto del palazzo reale composto dalla sala delle preghiere o sala delle udienze imperiali, situato spesso sull’asse delle porta d’ingresso dove due pagode sono disposte ai lati della facciata della sala delle preghiere, esaltando cosi il ruolo di fulcro del santuario. Definito «impianto a pagode gemelle» (Mario Bussagli, Architettura Orientale, Electa Milano, 1973 p.288) diffuso in particolar modo nei regni

di Silla e di Nara è il riferimento storico delle due alte torri laterali. Pagode, un tempo in legno poi in mattoni, oggi riproposte in acciaio e vetro avevano come scopo principale quello di ospitare reliquie sacre e quello di attirare i fulmini, poiché a causa della loro altezza, il pennacchio appuntito presente sulla cima, spesso decorato con motivi religiosi, garantiva l’incolumità alla sale delle preghiere o delle udienze imperiali, scaricando l'energia dei fulmini a terra, salvaguardando così le altre aree del tempio vicino. Come da leggenda la rievocazione della tradizione asiatica ha scatenato nella notte del 9 febbraio del 2008, festa delle

lanterne, un incendio del CCTV che ha causato la distruzione parziale del complesso. Dalla tradizione europea invece possiamo considerare il CCTV come un nuovo Arco Trionfale dell’ epoca Romana costruito per celebrare, anziché una vittoria in guerra, l’ascesa economica. Il concetto aulico di porta è saldo nella cultura cinese infatti la piazza Tiananmen, simbolo nazionale della Cina, significa letteralmente Porta della pace celeste, quindi l’idea rispecchia la tradizione dello spirito cinese, interrogandosi su ciò che influenza la sfera visibile della sua esistenza e cerca, combinando la fede (Taoismo, Confucianesimo e Buddismo), di trovare un suo equilibrio interiore. L’Arco della CCTV piegato, indica l’unione tra Occidente ed Oriente, esaltando un vuoto celebrativo che osserva il business CBD. McDonaldizzazione di stilemi! Sicuramente il CCTV è inteso come un “ars liberalis” derivante da un atto creativo che si distingue dall’ “ars maecanica” tipica dei grattacieli di Manhattan. L’uomo abita poeticamente secondo Heidegger ed «è la poesia che, in primo luogo, fa dell’abitazione un’abitazione. E’ la poesia che fa abitare e in che modo si arriva all’abitazione? Attraverso il costruire più che far abitare, la poesia ci costruisce. Ci troviamo cosi davanti ad una duplice esigenza: in primo luogo pensare ciò che chiamiamo esistenza dell’uomo, partendo dall’abitazione, in secondo luogo considerare l’essenza della poesia come fare abitare; se cerchiamo l’essenza della poesia in questa direzione arriveremo all’essenza dell’abitazione» (M. Heidegger, Batir, Habiter, Penser, in Essais et conferences, Gallimard, Paris, 1958, p.45) Il CCTV potrebbe essere quindi una

risposta poetica dell’abitare in quanto è un’organizzazione del quartiere elevato a “New Big Apple”. L’estetica del paesaggio che ne deriva «risente non da un processo produttivo ma da quello che si potrebbe chiamare un conferimento di senso rispetto al quale il loro esserci materiale era preesistente: da una scoperta, come si suol dire, per effetto della quale diventano oggetti estetici quelli che prima erano pure e semplici cose di natura. Stabilita questa prima distinzione, dovremo ulteriormente distinguere i paesaggi che in quanto da un processo produttivo umano, l’essere estetico, il cui nascimento


fa tutt’uno con la venuta al mondo del come esserci materiale, a una preordinata intenzionalità artistica e gli altri la cui artisticità è per cosi dire inerente a un processo formativo la cui finalità intenzionale si svolge sotto il segno di una categoria diversa da quella estetica.» (Rosario Assunto, Introduzione alla critica del paesaggio, in De Homine, n° 5-6, Roma, 1962). Il CCTV ha

una forte intenzionalità artistica, svelando realmente un bisogno oppure è solo l’attuazione di un pensiero forte dell’emittente televisiva nazionale gestita dal socialismo cinese che asserisce di conciliare il comunismo con l'economia di mercato? Analizziamo l’opera attraverso il rapporto di una serie di parametri che nell’insieme costituiscono la storia del formarsi dell’oggetto. CCTV è comunicazione data dalla differenza tra produzione e consumo di comunicazione. Esso è proposta ed ipotesi. «L’incontro fra necessità e volontà non è semplice risposta del soggetto ad uno stimolo, è qualche cosa di molto diverso del rapporto tra bisogno, soddisfacimento e volontà di azione comunicante del soggetto, senso del suo realizzarsi nell’incontro con la natura e la storia attraverso la definizione di uno stato di cultura» (Vittorio Gregotti, Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano, 2008, 170). Cosa ha spinto la giuria a scegliere l’idea degli OMA? Secondo Chen Yuezhong “esso era il progetto più esagerato, più pioneristico e ha messo in luce più di un visuale impatto”; per Wang Hui “è un progetto pioneristico, sempre avanzato, ma il suo grande problema era il rischio di realizzazione” mentre per Meng Jianmin “è attuazione della più elevata tecnologia e utilità”. Le altre proposte tra le quali quella dei SOM, KPF, GMP, Philip Johnson, Toyo Ito, Dominic Perrault, Hong Kong Office, erano ancora legate a canoni convenzionali dei skyscraper seppur con particolare cura della forma/immagine. Per Tina di Carlo «il progetto è uno dei più visionario dai tempi del Modernismo. Esso preme l’architettura al suo estremo, non solo formalmente ma dà più importanza alla società, al messaggio culturale e tecnologico sebbene reinventa gli edifici alti. Le variazioni funzionali degli edifici, loro articolazione spaziale e organizzazione, sono state completamente ripensate a provocare un nuovo tipo di costruzioni collettive con le potenzialità per il sociale e urbano cambiamento. » (Tina di Carlo, assistant curator of architecture and design at the Museum for Modern Art, www.oma.eu). La soluzione degli

OMA è stata vincente poiché ha creato uno strappo storico dalla tradizione architettonica attraverso un ottimo rapporto Costo/ Benefi-

cio/Iconicità ovvero aver individuato il baricentro Vitruviano, firmitas utilitas venustas. L’architettura dice W. Benjamin ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione da parte della collettività. Analizziamo la connessione distrazione iconologica e Teoria della finzione (Utile dell’investimento): Rem Koolhaas confessò ad un giornalista della Building design che «l’idolatria del mercato ha drasticamente legittimato il nostro status che non è mai stato altissimo ed è realmente incredibile cosa il mercato ora richieda (all’architettura). Esso domanda ricognizione, differenza e qualità iconografica». (Building Design, 20 Feb.2004, p.2). La richiesta incessante del riconoscimento dell’ente appaltante, mediante segni iconografici di alta qualità, ha condotto direttamente il CCTV ad essere l’esperimento più grosso ed imponete effettuato dallo studio OMA e Ove Arup. Koolhaas, prima di concepire tale atto creativo, è stato coinvolto in una serie di vicissitudini con bocciature di progetti e scioglimenti di contratti sia nel vecchio continente che nel nuovo a tal punto da coniare nel 2001 l’esclamazione “Goes East”. In Europa nel 2000 Prodi, allora leader del parlamento europeo, gli conferì l’incarico di ideare una nuova bandiera europea che rinnegasse l’immagine di un Europa legata solo dalla finanza e gestita da uomini economici. Nel 2002 Koolhaas con il suo gruppo chiamato AMO esclamò “Europa - qual è il suono del suo morso?” , criticando il senso della bandiera con sfondo blu e stelle circolari che non esalta realmente il senso del tempo e dell’uguaglianza tra i singoli stati ma rappresenta i falsi ideali del clock work harmony, come se tutte le diversità e le strutture potessero essere soppresse dalla bandiera blu stellata dell’unità stato. Quindi la proposta è stata pensata smascherando la falsità dell’omogeneità della comunità europea. “E-Conography” , la bandiera ipotizzata riprendendo la struttura del codice a barre, sostituendo il rapporto bianco/nero con le matrici dei colori delle bandiere nazionali, evidenzia così la natura “diversity” del vecchio continente seppur unito da un’unica moneta. Alla presentazione della “nuova bandiera” la stampa con una parte di parlamentari europei rifiutò tale nuova icona. L’imbarazzo di R. Prodi nel disdire l’incarico fu ovviato con la scusa che i bambini potevano avere grosse difficoltà nel ridisegnare la bandiera. Alla bocciatura europea segue il tracollo dei colossi americani come la Enron, Wordcom e la Dotcom, lo shock dell’11 settembre con il conseguente fronte di Bush, causando la chiu-

sura del Guggenheim Museum di Las Vegas e la bocciatura dell’albergo commissionato dell’imprenditore Ian Shrager a New York. Alla progettazione dell’albergo collaborò lo studio di Herzog & de Mouron. Il risultato doveva sancire la nascita di un colosso internazionale per l’architettura che, inoltre, con la collaborazione dell’Ove Arup (forse nel CDA) doveva innervare un meccanismo monopolistico per l’aggiudicazione dei lavori più rappresentativi. La collaborazione per dodici mesi ha tentato la fusione aziendale, come sostiene C. Jencks, sperimentando una nuova icona/albergo assomigliante ad una spugna. “Sponge model”, un conoide irregolare dalla superficie randomizzata da fori che fu respinto dall’albergatore. «Delirius No More» (Rem Koolhaas, Delirius No More, Wired giugno 2003 pp166-9) è il titolo severo apparso su Wired nel giugno del 2003 con il quale si annuncia l’affievolirsi del delirio capitalistico targato USA. L’articolo duro sul sistema capitalistico europeo e americano è l’annuncio al testo che seguirà dopo qualche mese “Goes East”. L’est è visto come la nuova fucina di sperimentazione, bisognosa di nuove icone e con un’ elevata disponibilità per la speculation/benefit dei Real Estate. Facendo una considerazione economica, la moneta cinese RMB attualmente ha un costo di scambio bloccato cioè non segue l’andamento del GDP (gross domestic product ovvero PIL) e del volume di vendita. Questo determina il vero corto circuito mondiale. L’America, un tempo leader mondiale dell’economia, è sempre più fuori produzione, a causa del debito pubblico elevatissimo contratto con le banche cinesi e quindi, se da un lato difende il prezzo fisso di cambio per contenere il disavanzo, dall’altro paga con un decremento di produzione/consumo tale ingranaggio economico. Facile pensare come oggi convenga investire in Cina non solo per export ma soprattutto per il mercato interno. Il CCTV è un esempio di sicura redditivizzazione dell’investimento, dato il suo costo bassissimo di produzione (circa 1’478.26 €/mq), inferiore o pari al costo di 1 mq di qualsiasi costruzione per abitazione economica popolare italiana e con un elevato valore iconico non monetizzabile. “Goes East” sancisce il suo taglio da “Perverted Architecture” “criticare e promuovere glamour nel medesimo tempo”come definito su Content ovvero una mera operazione di marketing all’insegna del Warholismo. «L’ architettura è un divertente amalgama di antiche conoscenze e pratiche contemporanee, un goffo modo di guardare il mondo e un inadeguato medium di operare su di esso. Ogni progetto


architettonico dura mediamente 5 anni, nessuna singola impresa ambisce ad intenzioni e bisogni che restino invariati nel vertice contemporaneo. L’architettura è troppa lenta. Tuttavia il mondo “architettura” è ancora pronunciato con una certa reverenza (fuori la professione). Esso incorpora la prolungata speranza – o la vaga memoria della speranza- che la forma, coerenza potrebbe essere imposta sulla violenta cresta dell’onda dell’informazione che ci persuade quotidianamente. Forse l’architettura non deve essere cosi stupida dopo tutto. Liberata dalle obbligazioni a costruire, essa può diventare un modo di pensare ogni cosa, una disciplina che rappresenta relazioni, proporzioni, connessioni, effetti, il diagramma di ogni cosa. » (Rem Koolhaas, Content, Taschen 2004, p. 6) China Central Television rappresenta per tale associazione il POP, inserito nel circuito finanziario e, non negando il suo atto creativo, si legittima con numeri e profitti a modello di esportazione magari anche nella “Vecchia Europa”. Il vortice mondiale economico indica la Cina come lo stato con la più forte esportazione dei prodotti ed importazione di capitale intellettuale. Non solo gli OMA ma anche SOM e KPF hanno stabilizzato la propria residenza in Cina, lanciando una nuova geografia dell’architettura: «Architects World-Wide Go East». (A. Frangos –L. Chang “Architects World-Wide Go East”, The Asian Wall Street Journal, 18 Dec.2003 p.A10) Il

concorso di progettazione per il CCTV ovvero, un contenitore di 13 canali con un pubblico solo nazionale di 1,2 milioni di persone, classificandosi come il primo grande gruppo dei media al mondo, è stato inteso dal partito comunista (gestore/proprietario) e poi dai giurati (Rocco Yim Arata Isozaky, Charles Jencks) un’importante pietra miliare del nuovo concept del distretto urbano “killing the Skyscraper”. Due edifici collegati (il CCTV e l’albergo) cercano di rappresentare il rapporto tra schermo e telespettatore, come due entità che sono complementari e che racchiudono i desideri e il senso delle cose è rapportato alle cose stesse. Tale condizione è denunciata in modo indiretto da Andy Huang nel video-arte «Doll Face» (Andy Huang, Doll Face, marzo 2007, www.youtube.com ) dove un robot (popolazione), alla ricerca di una propria identità si sforza di assomigliare a divi che si modificano sempre più celermente per esigenze di marketing. L’umanoide dalla faccia di bambola così, invece di trovare un soddisfacimento, si perde, innescando un processo autodistruttivo. La bambola costruita da Dedalo, costruttore di manufatti e di artifici per il divertimento, il lusso, le

passioni è l’inventore dell’emblema della città umana materializzata in pietra capace nel medesimo tempo di liberare e rinchiudere la nascita di ogni creazione simulata. Questo atto di svelamento potrebbe essere anche il caso del CCTV. Quanto è attuale allora l’affermazione di Platone: «L’amante (desiderabile) è un qualche cosa di più divino dell’amato perché posseduto da Dio» (Platone, Il Simposio,R.L Gruppo Editoriale, Santarcangelo di Romagna, 2008, p.28) poiché l’umanoide (massa) è incantato dall’amato (comunicazione pubblicizzante). Brusatin scrive: «Il desiderio di osservazione è di ammirazione fa restare senza parole e non ha bisogno di parole anche se si determina come conoscenza inferiore e soddisfare le percezioni grossolane e ignoranti ma attraverso questo passano lentamente quegli esercizi del riconoscimento nel gioco delle somiglianze che articolano le voci della stupidità cosciente che è una forma di saggezza umana.» (Manlio Brusatin, Storia delle immagini,Einaudi, Torino, 1989, pag. XVII). L’immagine appunto ha

un’altissima capacità di comunicare pure in assenza di parole, tocca il sensibile e ciò che non può essere definito con la parola (struttura chiusa) che evidenza celermente il senso delle cose, si basa sull'esperienza intuitiva, che si presenta a noi in un riflesso fenomenologico. Gabriele Paleotti (cardinale italiano, arcivescovo di Bologna nel 1566, importante figura dell'epoca della Controriforma) scrive: «Discorso intorno alle immagini sacre e profane parole e immagini sono inestricabilmente connesse e non c’è dubbio che le immagini abbiano proceduto i libri anche se sono quelle che devono seguire le idee e non possono raffigurare tutto il dicibile. La pittura come poesia che tace e la poesia come pittura che parla o meglio la parola come immagine delle azioni coinvolge allora in un’aura di figuratività desiderata la letteratura manierista e marinista. La pittura è un libro muto ma se i libri possono essere frequentati soltanto dagli intelligenti e dai colti, le pitture abbracciano universalmente tutte sorte di persone ma soprattutto superano e mettono insieme la Babele delle lingue e delle intelligenze. La fortuna e la popolarità circa l’operare delle immagini hanno bisogno però di una condotta. E’ per questo che Paolotti invoca continuamente l’equilibrio a somiglianza di un’arte che non produce immagini ma le ha in se stessa: un’arte astratta e morale allo stesso tempo. Infatti la pittura e la scultura guardino all’architettura per trovare la giusta misura della loro espressione. Usino del dialetto, della commozione, dell’insegnamento per giungere a

una forma di persuasione e per muovere gli uomini all’obbedienza e alla sottomissione a Dio.» (Manlio Brusatin, Storia delle immagini,Einaudi, Torino, 1989, p.62-63). Mentre per Brentano il carattere specifico dei fenomeni psichici sta nella loro intenzionalità, cioè nella loro direzione verso l'oggetto dotato di assoluta autonomia rispetto alle rappresentazioni della coscienza dove ogni fenomeno psichico è sempre “coscienza di qualcosa”. Scrive Banfi: «La ragione è la sfera in cui trovano la propria armonia e le direzioni di trascendentalità dell'esperienza, quelle in cui l'esperienza supera le sue particolari forme di antitesi soggettooggetto, poiché il trascendentale è appunto il momento della sintesi dei due termini, come legge dell'infinita loro relazione o della continuità dinamica dell'esperienza storica. La ragione svolge il proprio compito attraverso tre momenti: la "dialettica”, che si sviluppa attraverso il linguaggio gli elementi intuitivi della conoscenza e li eleva al piano della universalità razionale; l' “eidetica” che fissa le varie idee come “leggi” di organizzazione e sviluppo dell'esperienza; la " fenomenologia”, che determina il rapporto tra l'idea e le varie sfere dell'esperienza e della conoscenza.» (A. Banfi, Principi di una teoria della ragione, Riuniti, Roma, 1967, I, 2)

Ricollegandoci alla cultura asiatica secondo l’antica saggezza religiosa indiana, conservata nei versi dei «Veda» (che sono fra gli scritti più antichi che ci siano pervenuti, datati intorno ai 5000 anni a.C), la dea Maya, dopo la creazione della

terra, la ricoprì di un velo, Velo di Maya, che impedisce agli uomini di conoscere la vera natura della realtà. E’ scritto: «Maya è il velo dell’ illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista; il mondo, infatti, è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure ad una corda buttata per terra ch’egli prende per un serpente. (Sisto Firrao, Il velo di Maya, www.c omplexsystems.it )

La realtà tangibile è coperta da un velo benefico che proietta l’uomo a curare il proprio Io compromesso poi dal sociale. Ed è proprio il sociale che gli genera un meccanismo di dolore-piacere, equilibrato dall’illusione. Il velo delle illusioni è il velo di Maya che non può essere superato né le nostre illusioni possono essere contraddette come esplicitato dal Veda. La nostra fede è una difesa nei confronti delle paure della realtà ed è per questo che rappresenta un dono prezioso della Dea. E’ istintivo


per l’uomo rinchiudersi in un “guscio” che lo separa dal male e per questo la coscienza si illude di poter ricevere solo soddisfazioni. Quest’atteggiamento è sicuramente lontano dal superuomo di Nietzsche, da quell’uomofanciullo, reincarnazione di Dionisio, che accetta il “gioco cosmico” del tempo, che non concede il bene senza il male, l’ascesa senza la decadenza, la verità senza la finzione. Eikon fluttua nello stagno di Narciso che nell’impossibilità di possederla muore. Narciso (contemplazione) e la ninfa Eco rivelano il gioco delle immagini che non possono aver voce e delle parole che non si possono vedere. Parole ed immagini, le due grandi invenzioni dell’uomo, si sono avvicinate ed all’allontanate nella ciclicità storica: «le immagini stanno fra le parole e le cose e sono quasi sempre delle isole grandi e piccole in mezzo a vasti mari di oblio visivo. Ciò che non si vuole capire è ciò che non si vuole vedere. Oggi la moltitudine di immagini di ciò che ci circonda serve appena a ricordarci che ci si dimentica sempre di ciò che ci circonda.» (D. Freedberg, The Power of Images. Studies in the History and Theory of Response, Chicago, The University of Chicago Press, 1989 trad. it., Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. Boesch Gajano e L. Csaraffia, Torino 1990) «Il nostro punto di partenza è il segno verbale,

la parola come prima dicotomia semiotica, formata da un concetto, (il significato) e un suono (significante, che conferisce forma al segno e lo rende comunicabile. In perfetta analogia, il segno architettonico è per noi l’unità dialettica di un invaso abitabile (significato) e di un involucro (significante) che lo delimita. Si tratta in sostanza di uno spazio interno, comunque definito e di un volume, una serie di muri o quant’altro che delimita quello spazio, che rende l’intero segno (una stanza, un cortile, uno spazio in ogni casa delimitato) un’entità funzionale e comunicativa. Significato e significante, invaso e involucro hanno evidentemente, ripetiamo, un rapporto dialettico; non si dà l’uno senza l’altro: basta spostare un muro dell’involucro per avere un diverso invaso, basta dilatare di un minimo lo spazio interno per avere una diversa volumetria esterna.» (R. De Fusco, Architettura come Mass Medium, Dedalo,Bari, 1967,p. 158).

La verità di un’immagine nasce quindi nell’influenza, nello spazio della sua ombra, con elevata capacità di afferrare l’informe ed atta a riflettere e a far riflettere. Nella ciclicità degli eventi e delle cose atte a creare per ogni tempo un’immagine l’icona è l’elemento cardine rintracciabile nella cultura

occidentale ed orientale. Nell’occidentale le “veroniche” rappresentano la rinuncia alla rappresentazione del Padre (il divino) per giungere alla produzione del figlio, della madre e dei santi (per la massa). «La sostanza iconica è fatta per essere consumata, in effetti il sogno dell’arte è quello di inseguire e di fissare questo loro scomparsa e raccogliere dei frammenti attorno ai quali posso nascere nuove galassie di memoria. » (Manlio Brusatin, Storia delle immagini,Einaudi, Torino, 1989,XVII). La creazione iconografica non soddisfa un piacere ma nasce da un bisogno. Deleuze, scrivendo “Che cos’è l’atto di creazione?” effettua un parallelo tra l’opera d’arte ed il suo consumo, un tempo resistenza (politica, morte) oggi produzione di eventi. «Quelli che oggi chiamiamo eventi non sono caretterizzati né dall’autonomia, né dall’assolutezza, ancor meno dalla distanza. Urgenza, promiscuità e vicinanza sembrano piuttosto il loro indice».(G. Deleuze, che cos’è L’atto di creazione?, Cronopio, Napoli, 2003, p.56) L’artista è dentro la produ-

zione artistica-evento, fa tutt’uno con essa, innanzitutto come corpo, come supporto materiale di un processo in cui è difficile distinguere fra il produttore ed il prodotto, tra l’autore e l’opera, forse più in generale tra il soggetto e l’oggetto da Matthew Barney a David Nebreda , da Sophie Calle a James Nachtway solo per citarne alcuni. Hannah Arendt considera l’opera d’arte come attività poetica nella produzione, ovvero in quella attività umana “in cui si manifesta la dimensione anti-natura di un essere che dipende dalla natura.” «Se, infatti, l’apogeo dell’attività poietica è stato raggiunto nell’età moderna e nella fase primitiva del capitalismo, le figure del capitalismo maturo e contemporaneo privilegiano invece le altre di forme della vita attiva, il lavoro e l’agire. L’uno come esaurimento del corpo e della mente nel meccanismo produttivo/consumo della vita della specie e l’altro come ipertrofia della categoria di processo, attraverso la quale gli uomini non agiscono più sulla natura, ma direttamente al suo interno, sia il lavoro che l’agire non producono né oggetti né cose, ma implicano un’inclusione diretta di colui che lavora o di colui che agisce nell’attività stessa. » (G. Deleuze, che cos’è L’atto di creazione?, Cronopio, Napoli, 2003, p.60). Koolhaas quindi è creatore di maschere iconiche con il volto basato su produzione/consumo, una struttura logica non firmata solo da Koolhaas ma comune a tutti gli architetti postmodernisti. Koolhaas sostiene che l’opera di Aldo Rossi a Fukuoka, nel profondo sud del

Giappone, sia una caricatura dell’autore stesso. Infatti «il Palazzo domina il circondario come un castello di un samurai. Esso sembra cinico e deliziosamente fascista. Esso è un hotel, alcuni dicono perfino un amorevole hotel, un lavoro in cui l’architetto italiano non progetta il night club e gli interni ma solo lo storico esterno ed il suo sviluppo ha un misterioso fascino. Esso è puro emblema. Rossi senza la zavorra ideologica diventa un Iper-Rossi. I giapponesi hanno considerato la poesia di Rossi applicata alla facciata talmente densa da non credere che tutto possa stare sullo stesso piano: un capolavoro immaginabile per il Giappone, non costruibile per Rossi. Come un ibrido, esso è fondamentalmente differente dal Seagram Building o il UN: la sua fertilità non è il risultato della fusione, ma reminiscenze di piu’ contemporanee forme di bioingegneria. Esso è una congiuntura genetica: la poesia di Rossi è il primo spoglio dell’ideologia e poi spinta per l’ingenuità giapponese». (O.M.A. KOOLHAAS R.; MAU B. SMLXL, Monacelli Press, N.Y., 2002, p. 364) Questa lettura è legittimata dal fatto che il contemporaneo processo estetico è caratterizzato sempre più da fusioni di stilemi, caratterizzanti le diverse visioni che hanno dedotto la caduta del Modernismo. Kenneth Frampton, nel Testo «The Work of Architecture in the Age of Commodification» (Harvard Design Magazine n°23 fall 2005/Winter 2006) , analizza il mercato odierno dell’architettura e stabilisce la sua totale immersione nel processo industriale. Frampton si riferisce al testo Less for less yet: On Architecture’s Value(s) in the Marketplace di M. Benedikt: «in una società in pace che può mantenere in libero mercato, le persone possono ottenere quello che vogliono che dipende su come loro indirizzano con successo i propri bisogni mediante la competizione produttiva. Con un modica prosperità, le persone possono scegliere. Il contesto nel quale l’architettura, come un’industria largamente convinta, ha iniziato sempre meno ad avere sviluppo e popolarità, ingaggiando produzione che può competere con altri prodotti di successo, con macchine, film, sport e viaggi a nome di pochi e l’inferiore successo dell’architettura è in competizione con quelli di diversa “crescita industriale”; la minore architettura è stata affidata con tempo e danaro a perfomance su scale e con una qualità che poteva forse cambiare il proprio contesto».(K. Frampton, The Work of Architecture in the Age of Commodification, Harvard Design Magazine n°23 fall 2005/Winter 2006 p.2)

Architettura non più basata sulla singolarità della libera professione ma come un settore in


dustriale, solo cosi per Benedikt si può avere una ristrutturazione architettonica come una “growth industry” e quindi, rispondendo ai gusti della popolazione del libero mercato, questo processo ha la capacità di modificare l’edilizia a contorno. Sempre nello stesso articolo Frampton dichiara, questa volta citando il testo “Archirìtecture for sale(s): Unabashed Apologia” di K. E. Kelly, che l’architettura dalla fabbrica dell’AEG di Peter Behrens ha posto la questione dell’architettura come brand basato sul rapporto fruitore-desiderabile-cosa. «Behrens poteva ancora trattenere l’illusione che lui era determinato alla complessiva qualità di una nuova civilizzazione industriale , dal momento che oggi i brand designers non sono dedicati a gratificare solo i consumatori ma anche a stimolare i desideri, sapendo che ogni cosa dipende dalla sublimazione erotica del consumo come opposto all’intrinseca qualità delle cose consumate. Come sostiene Kelly, le persone godono dell’esperienza del comprare, qualche volta più dell’avere il prodotto stesso, perché il momento del comprare è una delle entusiasmanti fantasie e fuga».( K. Frampton, The Work of Architecture in the Age of Commodification, Harvard Design Magazine n°23 fall 2005/Winter 2006 p.3)

L’architettura contemporanea (Postmodernista) multiforme e non codificabile è posta ad una condizione necessaria e sufficiente affinché nuovi «templi e chiese, pagode e moschee, in tutti i paesi e in tutte le epoche sono una testimonianza, nel loro splendore e nella loro grandezza, del bisogno metafisico dell'uomo che, potente ed indistruttibile, segue a ruota il bisogno fisico». (Arthur Schopenhauer codice 10870)

Cliente: China Central Television Competizione: 2002 Inizio costruzione: Settembre 2004 Realizzazione: 2009

Superficie: 20 ettari nella Central Business District

Costo 5 billion RMB (€850 million) Costo a mq

Sup. Totale CCTV+TVCC+L.I: Amministrazione: Previsioni tempo Ufficio Programmazione Attrezzature News Produzione Parcheggio Hotel: Spazio-Pubblici Parcheggio tvcc Edificio servizio Torre 1

Torre 2

Struttura a sbalzo

Base

Piano Terra

575,000 m2

1’478.26 €/mq

75’000m2 40’000m2 65’000 30’000 70’000m2 120’000m2 65’000m2 52,000m2 23000m2 20000m2 15000m2 altezza: 234m, 54 piani. Pianta:(40x60m) 2,400m2 altezza: 210m, 44 piani. Pianta:(40x52m) 2,000m2 162m, 14 piani 75m to the west, 67m to the south 45m, 9 piani, pianta 160x160m Altezza 18m, 4 piani

Aldo Rossi Hotel a Fukuoka 1989

Bandiera Europea progettata da Koolhaas


UN' ARCHITETTURA BIOECOLOGICA PER LA VITA Massimo Squillaro

“Architettura Bioecologica", "Bioarchitettura" neologismi etimologicamente pericolosi per la comprensione dell'area disciplinare a cui si riferiscono. Inducono a ritenere che questa sia poco più che un settore, una parte in qualche modo specialistica dell'Architettura. Questo equivoco è generato dal diffuso abuso dei termini "biologico", "ecologico" da cui nasce la convinzione che per Architettura Bioecologica si intenda semplicisticamente la simbiosi tra una disciplina antica, l'architettura, e una disciplina giovane, l'ecologia, quest'ultima usata come filtro per una attualizzazione assolutamente settoriale della prima, per altro comunque auspicabile. In realtà, nel nostro modo di affrontare la cosa, il suffisso"bio" si riferisce, in modo molto ampio, alla auspicata presenza di "vita" in un'architettura, ormai ritenuta per diversi aspetti e da diversi punti di vista e soprattutto in Italia, sempre più morente. Quindi un'Architettura fatta per la vita, un'Architettura in grado di creare "case" e quindi "città" intese come organismi viventi. Il termine "ecologico" rappresenta invece l'esplicitazione della volontà che l'Architettura crei luoghi che sappiano rapportarsi in modo equilibrato con l'ambiente in cui si inseriscono e che necessariamente trasformano. Pensiamo quindi l'Architettura Bioecologica come una radicale rilettura, una sorta di rifondazione dell'Architettura stessa che ha origine da un vasto campo di ricerche fortemente interdisciplinari e interconnesse. Questi termini continuano ad essere giustificati, ancora oggi, solo dalla necessità di rendere riconoscibile e individuabile, anche al prezzo di qualche equivoco, un percorso di ricerca tecnica e culturale ancora acerbo ma non sono ovviamente per nulla rappresentativi della complessità delle interazioni messe in gioco quando si pensa ad un'Architettura fatta per la vita. Si potrebbe allora parlare forse più propriamente di Architettura Olistica o più concretamente e più efficacemente di Architettura Naturale

(nell' accezione di conforme alla natura, secondo natura). Questo chiarimento è in qualche modo richiesto dalla confusione già presente nell'ancora marginale ambito dell'ecologia del costruire ma soprattutto dal contesto di generale grave crisi dell'Architettura e in essa dell'Architetto. Crisi di contenuti per l'Architettura, crisi di ruolo per l'Architetto. L'Architettura ha perso negli ultimi decenni pressochè completamente i propri contenuti sociali, in campo tecnologico è in balia dei prodotti dell'industria e del mercato più che del sapere e della ricerca professionale, è disorientata da un eclettismo formale ormai completamente astratto e fine a sè stesso. Improbabile individuare oggi nel percorso di ricerca culturale, professionale, tecnologica, progettuale di un architetto la consapevolezza di lavorare per l'uomo e per la sua salute psicofisica, di trasformare l'ambiente per favorire la vita, di operare per l'equilibrio dei rapporti sociali... L'architettura è ormai autorappresentativa nel migliore dei casi, rappresentativa della sua subalternità al mercato nel peggiore. Tutto ciò in un contesto in cui l'industria edilizia e quindi l'Architettura sono oggettivamente tra le attività umane a più alto impatto ambientale e sono di conseguenza tra le principali responsabili della tendenza alla distruzione del pianeta. E' decisivo quindi riportare al centro delle riflessioni di chi fa dell'architettura il proprio mestiere o di chi semplicemente e inevitabilmente con l'Architettura convive, il rapporto tra l'Architettura e la vita, questa vista, con tutte le sue implicazioni come scenario di relazioni complesse ed in questo senso adottata come chiave di lettura di un'attività umana, quella di pensare la trasformazione del territorio per la costruzione dei luoghi dell'abitare, connaturata all'esistenza dell'uomo, per questo "naturale", e sempre strettamente legata alla sua storia e alle sue vicissitudini.L’attesa dei grandi interventi a livello internazionale mirati al risparmio di risorse e

a uno sviluppo compatibile con la natura sarà ancora lunga se, per riequilibrare il pianeta, gli addetti continueranno a dibattere tra difesa ecologica e ricerca tecnologica. Preservare ciò che abbiamo, salvaguardando quello che la natura offre per vivere, o mirare alla riproduzione artificiale di tutto quanto serve? È una domanda che non avrà mai una sola risposta, perché l’uno e l’altro coesistono e muovono affari miliardari. Più sensata può sembrare la richiesta di specificare i tempi di realizzazione di una maggiore vivibilità, ma è ancora pura astrazione. Reali sono, invece, i problemi della città odierna con lo smog, il traffico, il rumore, i pericoli, i servizi inefficienti; anche il tempo perduto a far la spesa o in banca è inquinante. Stanchi, torniamo a casa e abbiamo gli stessi problemi amplificati: respiriamo lo smog della strada e lo troviamo sui mobili, sentiamo il rumore del traffico e il televisore del vicino... Poco ci consola sapere che dall’altra parte del mondo si sta peggio. Poco ci rasserena constatare che stiamo pagando il prezzo del progresso e del benessere, perché, nell’intimo, il benessere si valuta in modo diverso. È proprio su questo doppio binario di lettura che si scontrano tecnicisti ed ecologisti. I primi pongono al centro l’umanità, i secondi l’uomo.È indubbio che benessere collettivo e individuale siano correlati ed è giusto che la ricerca sperimenti ciò che può risolvere anche un solo problema, ma senza quella negativa competizione che circola tra le fazioni. Una afferma che l’elettronica ha permesso un miglioramento sostanziale e tangibile nell’allungamento della vita, nelle comunicazioni, negli scambi economici e culturali e che le nuove tecnologie risolveranno ogni questione; l’altra denuncia il massiccio spreco di energia e di risorse naturali, che causerà danni irreversibili alla salute degli esseri viventi, e si batte per la conservazione delle identità locali. Poiché quella che impropriamente è chiamata bioarchitettura è sempre più sentita


dalla gente come un mezzo utile per aumentare il proprio benessere fisico e psicologico nell’unico luogo dove ognuno è veramente se stesso, l’abitazione, si è ristudiato il tema dell’ecosostenibilità dalla nascita alle interpretazioni date da architetti affermati, e da diverse angolazioni, per separare ciò che è scientifico da ciò che è dogmatico o è semplice diceria.L’approccio si è mosso continuamente dalla deduzione all’induzione, investendo nell’indagine storia, teorie, programmi e progetti, ma, proprio perché tanto è già stato scritto sull’argomento, si è optato di pubblicare non l’intera ricerca, quanto quelle parti che possono chiarire un principio o suggerire una riflessione. Così, per esempio, non ci si è soffermati sull’analisi di cause ed effetti del degrado ambientale a livello mondiale (inquinamento, surriscaldamento, desertificazione, deforestazione ecc.) di cui siamo costantemente informati, ma sull’interpretazione dei termini che indicano il processo di risanamento dell’ abitare, sui quali c’è ancora molta confusione per la loro presunta sinonimia. Si è preferito porsi qualche interrogativo in più e proporre letture poco consuete o il meno frammentate possibile, piuttosto che involversi (e cadere) in principi dottrinali che non lasciano spazio al ragionamento individuale.


LA VISIBILITÀ DELL’ARCHITETTURA. ‘ECCEZIONALITÀ’ E ‘NORMALITÀ’ COME PARAMETRI COMPOSITIVI Luca Romano

Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo. Italo Calvino,

“Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, 1a ed., Arnoldo Mondadori, Milano, 1993 (ed. del 2002), p. 103.

Quando Calvino scriveva queste righe all’interno della lezione dedicata alla visibilità – erano gli anni Ottanta- la cosiddetta “civiltà dell’immagine” era agli inizi e tuttavia l’arguto scrittore già ne presagiva, con stupefacente lungimiranza, sviluppi ed effetti ai nostri giorni, segnati dalla superficialità della comunicazione, affidata a veicoli sempre più rapidi come le infinite pagine della Rete. Al termine di questo girovagare (e del correlato bombardamento di stimoli e percezioni varie), cosa rimane di duraturo impresso nella mente? L’incessante e forzata rincorsa all’inedito a tutti i costi, unica (?) via per una manciata di notorietà che si rivela essere il segno dei tempi in tutti i campi dell’esperienza umana. E’ pur vero, per ciò che attiene all’architettura, che l’esperienza figurativa del Moderno si è ormai esaurita dando origine ad una reiterazione infinita ed indipendente dalle geografie dei contesti, trasformandosi in luogo comune. Una buona alternativa può essere un ennesimo “punto e a capo” ovvero ‘distinguersi scomparendo’. Ricominciare da capo, senza dimenticare l’esperienza accumulata per tempo, è un fatto che si ripete ciclicamente nella storia degli uomini, come individui e come società che si esprime (si pensi, ad esempio, al ritorno della pittura figurativa con l’esperienza della Transavanguardia, certo non dimentica delle rivoluzioni estetiche che l’hanno preceduta). Ritornare all’essenza delle cose, senza tempo, è un’operazione che, in ogni caso, è sempre pregna degli umori del momento ovvero è sempre una re-invenzione. Proprio come testimoniano gli anni del mito del buon selvaggio o infanzia dell’umanità (intesa come stadio evolutivo della sua crescita culturale come società), tradotti nell’ elementarità del segno fauve o nel primitivismo del primo Picasso e più in generale, per restare ai primi

decenni del XX secolo, nel guardare da parte di un pò tutta l’avanguardia artistica a culture non “civilizzate” (ritornando all’architettura, il vernacolo del Mediterraneo diventava negli anni della Carta d’Atene il mito fatto sostanza delle teorie razionaliste). Andando più indietro nel tempo, periodicamente si sono alternate stagioni di ‘sbornia’ ed estrema libertà espressiva a momenti di rigore e ripiegamento analitico sui fondamenti della disciplina (una per tutte, alla stagione del barocco è seguita quella neoclassicista), naturalmente questo alternarsi non è mai stato nè immediato nè senza contaminazioni o frizioni. Non lo è mai stato, fino ad oggi. Il problema del nostro tempo è proprio il consumo, rapido e senza sosta; la critica non fa in tempo a coniare una minima definizione che abbia la parvenza di una riflessione tassonomica che già occorre trovarne un’altra. Una condizione questa che parrebbe anche esaltante se fosse il riflesso di un vivace dibattito culturale non viziato da questioni più vicine al mercantile/marketing che ai presupposti e alle istanze di progresso (o, più modestamente, di un benessere condiviso) proprie di un’arte sociale qual è l’architettura. L’attuale trasformazione dell’architetto in “star”, causa ed effetto del suo piegarsi alle leggi del mercato ed ai suoi operatori (la moda, la pubblicità… chi non ricorda quella con protagonisti un noto architetto ed una altrettanto nota casa automobilistica compiacersi a vicenda?), ha aperto la strada a pericolose conseguenze. Il processo di semplificazione, di riduzione accelerata ai valori di superficie, che investe tutti gli aspetti della società (dalla cultura alla politica), partito dall’America si è imposto come modello planetario di comportamento. Il paesaggio europeo (il riferimento è a quello aulico, non a quello drammatico delle periferie) è, storicamente, segnato da una qualità diffusa del costruito (fatta di poche architetture eccezionali in un tessuto di buoni manufatti), a vantaggio di tutti ed all’insegna dell’equilibrio. La spettacolarizzazione dell’ architetto se porta alla perdita dei valori sociali della disciplina, schiacciati dalla potente committenza individuale delle corporations - il principale interlocutore non è più quello politico ma il mondo mediatico o la speculazione immobiliare – conduce anche al paradosso che il successo raggiunto dalle “grandi firme” finisce con l’oscurare le stesse opere realizzate e pone in secondo piano la qualità del risultato. Che, in una scala di valori, dovrebbe essere al primo posto ma tant’è. Ecco quindi che assumono maggior

1. Sottsass Associati. Casa Cei-Bitossi, Empoli, Italia, 1994.


valore proprio quelle ‘poetiche di resistenza’ che sembrano ancora voler dire che l’architettura è fatto duraturo e condiviso. Se recuperare il ‘simbolismo dimenticato della forma architettonica’ (e volutamente evochiamo quel famoso saggio che torna di estrema attualità proprio in questi anni di ‘forma per la forma’) è una operazione pressochè impossibile da realizzare, oggi che le cosiddette grandi narrazioni sono tutte entrate in crisi e l’individuo ha preso irrimediabilmente il sopravvento su tutto il resto, l’obiettivo progettuale di certa architettura non è il recupero tout court ‘dell’arco e della colonna’ per riportare nostalgicamente indietro le lancette della storia ma perchè individua un problema di comunicazione del significato che investe sia l’esterno, l’urbano, che l’interno dell’edificio, la sua dimensione intima, domestica. Storicamente, gli elementi morfologici stabili –gli archetipi: il campanile; la cupola; la facciata…- pur caratterizzati, in ogni epoca, da uno stile diverso, garantivano la comprensibilità dell’opera da parte di tutti, perché rimandavano a contenuti permanenti, condivisi, sotto la superficie mutevole. Oggi, è molto difficile riconoscere in un panorama urbano contemporaneo in progress una sagoma familiare. L’autografia sovrasta la città. Ma un’alternativa c’è: ... Riguardo all’architettura non sono certo entusiasta di idee che sono in circolazione adesso: una, che l’architettura si esaurisca in un buon disegno della struttura, in una buona anche se fantasiosa soluzione ingegneristica; l’altra, forse ancora peggio, che l’architettura sia una scultura da guardare oppure da penetrare… Ognuno fa quello che può, c’è posto per tutti, però non mi interessa molto questo aspetto dell’architettura come scultura e ancora meno quello dell’architettura come struttura. Siamo invasi da tubi saldati e sembra che dovremmo essere contenti perché siamo invasi da tubi saldati. Io non sono contento affatto. Un’altra formulazione strana che c’è nell’architettura contemporanea è che l’architettura sia leggera, voli, non esista. Mi emoziono molto quando vedo un muro, quando vedo il peso di una cosa, quando ho un rapporto con i pesi del mondo. Anche la leggerezza è un peso, ma io peso 85 chili e sono contento 1.

In buona misura, esiste una forte analogia d’intenti che accomuna l’esperienza dell’architetto-designer austro-italiano (confluita nello studio Sottsass Associati) a quella del collega americano Robert Venturi. Questo sincretismo culturale - ahimé, poco à la page- viene qui rilevato ed osservato in alcuni dei suoi esiti realizzativi perchè ci sembra che i due, partendo da presupposti diversi, distanti cronologicamente, geograficamente ma non concettualmente, 1

Quelle riportate sono parole di Ettore Sottsass jr. tratte da F. Burkhardt, “Ettore Sottsass architetto”, Domus 799, dicembre 1997, p. 13.

arrivino alla medesima conclusione: un’architettura democratica, come efficace risposta ad anni diversi (accomunati però da sterilità creativa, mascherata da èlitarismo intellettuale), comprensibile ai più senza essere populista. Per tale via, si conseguono risultati estetici popolari (non “popolareschi”) pur attraverso operazioni di raffinata astrazione del quotidiano dove il risultato raggiunto ‘appartiene’ a tutti e a nessuno. Del resto, siamo in linea con le performance compiute da un Robert Wilson per il teatro o un Pedro Almodovar per il cinema, entrambi tesi a mescolare la cosiddetta “cultura alta” con culture marginali più popolari alla ricerca del consenso sociale, senza perdere in qualità. Un’architettura che si appella a codici compositivi noti sembrerebbe cadere nel tranello dell’anonimità ma ogni opera che rivela la mano che l’ha prodotta non è più tale 2. Venturi, Sottsass ma potremmo citare anche i primi Herzog & De Meuron o il minimalismo esprimono tanti modi affatto ingenui di comporre semplificando e lavorando sul ‘limite’. Come dimostrano due opere paradigmatiche quali Casa Cei-Bitossi (Villanova, Empoli), 1994, per l’uno (fig. 1) e la Casa per Vanna Venturi,1959 – 1964, per l’altro (fig. 2), che, a distanza di circa trent’anni l’una dall’altra, rielaborando il medesimo tema -la casa col timpano ed il tetto a falde- portano la ricerca ad un punto al di là del quale c’è solo lo stereotipo. Gli elementi morfologici sono gli stessi; quelli noti e sedimentati nella memoria collettiva: il tetto a falde inclinate, ‘pesante’; le finestre ‘carine’, quadrate con infissi a croce; la veranda in legno del patio… Non le si scambi per una forma primitiva poiché in questa sintassi di parole note non c’è ingenua spontaneità, tutt’altro. Dietro l’apparente “trascrizione” del banale archetipo originario della capanna di laugierana memoria si cela una volontà di più complessi significati e traguardi da raggiungere attraverso una rilettura pop, ironica e gioiosa, o tipiche pratiche compositive ereditate dalle avanguardie storiche, fondate sull’accumulazione e lo straniamento. Infatti, ciò che sostiene Dal Co proprio a proposito di Casa Cei, si può estendere complessivamente al lascito architettonico di entrambe, che qui interessa sottoporre all’attenzione del lettore:

2. Robert Venturi. Vanna Venturi House, Philadelphia, Pennsylvania, USA, 1959-1964.

E’ un insieme di avvenimenti scontati, di forme ovvie, che sovrapponendosi cessano di essere banali: un volume massiccio, cubico, omogeneo, rivestito di pietra d’Istria in pezzature di non grandi dimensioni, uguali, i cui corsi dettano i profili delle aperture praticate in un involucro perfino troppo levigato, privo di inflessioni vernacolari 3. 2

D. Steiner, “Anonimo: differenziarsi scomparendo”, Domus 811, gennaio 1999, pp. 14-17. 3 F. Dal Co, “Ettore Sottsass A House from Nowhere”, Domus 765, novembre 1994, p. 47.

3. Sottsass Associati. Casa Wolf, Ridgway, Colorado, USA, 1987-89.


E’ pop il modo di concepire la composizione architettonica quando questa “manipola” i luoghi comuni, ‘ipercostruendo’ le icone – il tetto, la finestra, il camino, la colonna – delle case tradizionali, americane e non solo. All’esterno, le due case, a prima vista, sembrano non andare più in là di una riproposizione infantile dell’idea occidentale di ‘casa’ – il tetto a due falde, il camino, l’ingresso al centro del prospetto – ad un secondo sguardo ci si rende conto della re-invenzione avvenuta. Grazie all’apparente convenzionalità contraddetta dai salti di scala. Alla tensione che si instaura tra ‘normalità’ ed ‘eccezionalità’. Il contrasto scalare tra la copertura (generosa) ed il resto della costruzione, già adottato da Sottsass nella casa Wolf (fig. 3), a fine anni ’80, viene riproposto per Casa Cei con esiti diversi (in entrambe, il contrasto cromatico ne accentua l’evidenza). Infatti, se in casa Wolf (ma potremmo citare anche la coeva casa Olabuenaga – fig. 4, sebbene là ricorra ad una copertura piana a coronamento di un catalogo di volumi incastrati l’uno nell’altro) i grandi prismi di copertura servono a concludere e a dare unità alla sofisticata articolazione planimetrica, qui il tetto è un elemento ‘accessorio’ della forma pura di base. Non si sviluppa dai muri d’ambito ma grava con il suo finto peso (è una struttura d’alluminio), su grosse colonne, ‘gonfie di sforzo’ (in realtà nascondono dei montanti interni). La vera copertura è, in definitiva, il terrazzo-giardino sottostante. Tutto è finzione: i rapporti tra le differenti masse; la formafunzione dell’elemento tetto. La “verità strutturale”, uno dei dogmi modernisti per eccellenza, è bell’è sepolta. Ma per arrivare a queste conclusioni è stato fatto un lungo percorso. Negli anni Sessanta, i riferimenti storici leggibili nella produzione dell’americano sono indiretti, relativi alla sintassi compositiva dei monumenti del passato, più che a citazioni formali immediatamente riconoscibili, applicata ai materiali del paesaggio ordinario, sottoposti così ad una correzione estetica; per questo motivo, riteniamo che quelli (e i ’70) siano stati, per le produzioni dello studio Venturi, gli anni migliori o comunque quelli più aderenti ai contenuti qui discussi. Allora, quella qui ricordata ed altre opere suscitavano aspre critiche da parte di chi vi leggeva un ritorno della retorica accademica – per il recupero della simmetria, frainteso (si pensi a Zevi, Pevsner…)- o di chi cercava ancora il nuovo e l’originale (Philip Johnson). Quelli erano gli anni della nascente società dei consumi, che riusciva ancora a produrre l’ultimo fermento d’arte autenticamente popolare (la Pop Art) che rappresenta il retroterra culturale di entrambe, bagaglio tecnico e strenua difesa di libertà. Riconoscere possibili contenuti artistici nei suoi ingranaggi e nei suoi prodotti e sottoprodotti, inserirsi nei suoi meccanismi di produzione (Sottsass designer) e nello stesso tempo man-

tenersi lucidamente defilati, consente di non lasciarsi schiacciare e trascinare dal vortice. Questo è il loro lascito morale in direzione chiaramente opposta al rischio che corre buona parte degli architetti oggi sulla cresta dell’onda.

Riferimenti bibliografici F. Burkhardt, “In un altro modo”, Domus 799, dicembre 1997, p. 2. F. Burkhardt, “Ettore Sottsass architetto”, Domus 799, dicembre 1997, pp. 6-16. F. Dal Co, “Ettore Sottsass A House from Nowhere”, Domus 765, novembre 1994, pp. 47-48. “Sottsass Associati Casa unifamiliare nei pressi di Empoli”, Domus 765, novembre 1994, pp. 40-46. D. Steiner, “Anonimo: differenziarsi scomparendo”, Domus 811, gennaio 1999, pp. 14-17.

Fonti iconografiche Figg.1, 3, 4: www.sottsass.it/ Fig. 2: http://homepages.mty.itesm.mx/al780176/

4. Sottsass Associati. Casa Olabuenaga, Maui, Hawaii, USA, 1989-97.


q u a r t ed ic o p e r t i n a


Carlo Sini

L'uomo, la macchina, l'automa Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto Nel segreto dell’automa, dalle prime macchine al robot “intelligente”, è in cammino il segreto stesso della vita umana, presa tra sapere della morte e sogno di vita eterna. Il sogno dell’automa, della macchina pensante, è antico, ma mai come oggi suscita speranze e timori, desideri e riprovazioni. Il libro di Sini ne scandaglia la storia, pervenendo al sorprendente risultato, non solo di rimuovere perduranti ingenuità e superstizioni,ma anche di capovolgere i termini del problema: è davvero l’automa il doppio dell’umano o non è già l’umano, nella storia del suo corpo e del suo lavoro un automa in cammino? L’intera cultura funziona infatti come un grande automa, essa è sempre mossa e governata dal sogno di resuscitare il fantasma dell’origine e di impadronirsi in tal modo di ciò che eternamente “si muove da sé”, cioè della sostanza fatale e immaginaria dell’automa immortale.

Carlo Sini insegna Filosofia teoretica presso l’Università statale di Milano. Accademico dei Lincei, ha collaborato per molti anni con le pagine culturali del «Corriere della Sera» e collabora tuttora occasionalmente con la stampa, con la Rai e con la radiotelevisione svizzera. Ha tenuto seminari e conferenze negli Stati Uniti, in Argentina, in Canada e in vari paesi europei. È autore di una quarantina di volumi alcuni dei quali tradotti in varie lingue. Tra i più recenti: Figure dell’enciclopedia filosofica (Jaca Book, Milano 2004-05); Archivio Spinoza. La verità e la vita (Ghibli, Milano 2005); Il gioco del silenzio (Mondadori, Milano 2006); Il segreto di Alice e altri saggi (Alboversorio, Milano 2006); Da parte a parte. Apologia del relativo (Ets, Pisa 2008). e-mail: carlo.sini@unimi.it

Alberto Cuomo

Ernesto N. Rogers

Nichilismo e utopia nell'architettura tedesca contemporanea

Gli elementi del fenomeno architettonico a cura di Cesare de Seta

da Schinkel a Kollhoff Caratterizzata dal binomio «angoscia-speranza», come mostra il Koenig, l’architettura tedesca ci rende il senso costituzionale della modernità, il disincanto, morto dio, da cui questa tenta tuttavia di offrire nuovi possibili fondamenti al nostro stare, nella coscienza della fragilità delle fondazioni che pure aspira a ricostruire, su cui non eleva alcuna monumentalitá, né di pietra né teorica. Nell’assunto che l’architettura moderna sia nella riaffermazione del proprio essere arte, un fare cioè inteso forma di conoscenza, di riflessione critica sul mondo e su se stessa, e nel considerare come l’impegno alla comprensione delle cose ed a rendere i propri dispositivi di senso pervenga agli architetti da una profonda attività analitica e di riflessione, pure quando il gesto creativo appare istintivo, questo testo si pone sulle tracce della possibile relazione tra architettura e pensiero, tanto più in un frangente storico-geografico, quello tedesco a cavallo del secolo, in cui costruzione materiale e costruzione logica, architettura e teoresi, sembrano percorrere analoghi cammini. Il confronto tra architettura e pensiero filosofico, nel quale avventurosamente si addentra, non tende però a ricondurre l’architettura alla filosofia, né a leggere questa nell’interpretazione dell’architettura, quanto a mostrare le interrogazioni che accomunano la ricerca architettonica contemporanea a quella filosofica e che in essa, oltre gli attuali estetismi, ancora perdurano. Alberto Cuomo è professore ordinario di Progettazione architettonica nel Laboratorio di Sintesi finale presso la Facoltà di Architettura di Napoli, dove ha ricoperto anche diversi incarichi istituzionali. Ha progettato significative opere di architettura ed ha partecipato, con successo, a diversi concorsi di progettazione nazionali ed internazionali. Tra i suoi scritti si ricordano: Piranesi e l'archeologia per frantumi come scienza della città (il Mulino 1976); Alberto Sartoris. L'architettura italiana fra tragedia e forma (Kappa 1978); Terragni ultimo (Guida 1987); Doktor Loos (Libria 2000).

Di manuali di storia dell’archityetturave ne sono mplt,mancano invece quei mestiche possono lo studioso e soprattutto lo studente ai problemi del “fare” architettura. Una cosa è insegnare l’architettura , cosa ben diversa è introdurre alla pratica dei problemi del costruire. Rogers, che è stato uno dei caposaldi dell’architettura contemporanea in Italia, ebbe l’ambizione, in tutta la sua attività di studioso, di docente e di architetto, di coltivare con passione questo interesse. Lo fece con la con la sapienza di un autentico maestro, legato alla grande lezione di Gropius, ma ben consapevole della crisi che aveva colpito – nel secondo dopoguerra – anche la veneranda scuola del Bauhaus. Questo testo mette a nudo tutte le difficoltà connesse alla progettazione: attività che Rogeers considera non una semplice professione, ma una vera missione per dotare l’uomo di una casa, di un ambiente i generale, che sia organico alle esigenze del nostro tempo. Attraverso queste pagine che hanno un carattere godibile e discorsivo – un vero e proprio avviamento – cisi accosta ai segreti di questo affascinante mestiere. Proporlo all’ attenzione di chiunque ami i problemi dell’architettura non è solo un omaggio alla memoria di Rogers, ma un modo per ricordarne la lezione che ancora oggi – a quasi quarnt’anni dalla sua scomparsa – può svolgere la sua feconda funzione. Ernesto Natan Rogers nato a Trieste da padre inglese e madre italiana di religione ebraica, si laureò in architettura presso il Politecnico di Milano nel 1932. Nello stesso anno fondò con i compagni di studi Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Gian Luigi Banfi lo studio di architettura BBPR. Attraverso la direzione di due importanti riviste di architettura, "Domus" (1946 - 1947) e "Casabella" (1953 - 1965), e in particolare attraverso i sui famosi editoriali, Rogers definì progressivamente una originale impostazione teorica sull'architettura, fortemente influenzata dai contemporanei studi di Enzo Paci su Edmund Husserl e sulla Fenomenologia e dal personale interesse per John Dewey, soprattutto dal punto di vista pedagogico. Contemporaneamente nelle redazioni delle riviste da lui dirette andò costituendo un gruppo di giovani architetti (Aldo Rossi, Vittorio Gregotti, Giorgio Grassi, Gae Aulenti, Giotto Stoppino, Guido Canella e Giancarlo De Carlo tra gli altri) destinati ad influenzare profondamente la cultura architettonica europea. Particolare rilevanza nella personalità di Rogers ebbe l'attenzione per la didattica e la formazione dell'architetto e in particolare l'impegno come professore presso il Politecnico di Milano dove, per l'ostracismo della parte più tradizionalista dell'accademia e nonostante la grande passione e il seguito che aveva presso gli studenti, divenne professore di ruolo solo nel 1964, pochi anni prima della sua prematura morte.


Anton Radevsky, David J. Sokol

Architettura Moderna POP-UP Un tour visivo e artistico dal XIX secolo ai giorni nostri attraverso le opere dei padri dell'architettura contemporanea e delle archi-star del presnte: dal Crystal Palace di Londra al ponte di Brooklyn, dalla Tour Eiffel al Flatiron e a Villa Savoye di Le Corbusier, dalla Sydney Opera House al Museo Guggenheim di Bilbao alla Tate Modern e al grattacielo "a vela" di Dubai. Un libro divertente e ricco di informazioni, in cui le architetture moderne e contemporanee pi첫 importanti del mondo si materializzano attraverso pop-up tridimensionali.


di r e t t o r e

a l be r t oc u o mo c omi t a t os c i e nt i f i c o

f e l i c eba i o ne r obe r t oc o l l ovà a l b e r t oc u o mo ma r i ode l l ' a c qua a nt on i of . ma r i ni e l l o l ui g ip i c o n e gui dor i a n o c l a ud i or o s e t i s e r g i os t e n t i ga b o rs z a ni s z l ò r e da z i o ne

gi o v a nn ib a r t ol o a nd r e ac a r bona r a ma r i ag a br i e l l ae r r i c o gi a nl ui gif r e da ga e t a nal a e z z a


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