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LA FINE DELL’ARCHITETTURA? Renato Nicolini

Discutere della fine dell’architettura ci riporta indietro nel tempo, alla profezia hegeliana della morte dell’arte. Nello Stato della Ragione, ultimo atto della dialettica storica tra Spirito e Materia, dove tutto ciò che è reale non può che essere razionale (è difficile non pensare al Pangloss di Candide, ironia volterriana preventiva), l‘arte diventa superflua. In Giulio Carlo Argan, di cui per due anni sono stato assessore alla cultura mentre era Sindaco di Roma, cui è stata frequentemente rimproverata, questa tesi non aveva però nulla di meccanico. Se soltanto il progetto può contrapporsi efficacemente al destino (tesi centrale del libro forse più importante di Argan critico d’architettura), Argan critico d’arte non poteva non constatare la debolezza dell’arte programmata (dove l’arte si proponeva di fare integralmente propri i canoni della razionalità) ed apprezzare piuttosto l’informale di Jackson Pollack, magari nella versione europea di Fautrier e Dubuffet. La sua straordinaria conferenza sulla “tipologia”, riprendendo la distinzione di Quatrèmere de Quincy tra tipo e modello, è indicativa di una visione della storia poco conforme al sistema chiuso hegeliano; così come l’apertura di fatto alla transavanguardia di Achille Bonito Oliva, cui Argan aveva chiesto di curare l’ultimo volume della sua Storia dell’Arte edita da Sansoni, e di cui aveva visto con grande favore la mostra Avanguardia – Transavanguardia. Le “barbare” tende bianche che sembravano come assediare le Mura Aureliane allestite da Nino Dardi per l’occasione appartengono pienamente, non meno della Strada Novissima della Biennale Architettura di Paolo Portoghesi, al postmoderno. Senza parlare di Roma interrotta, gioco sulla pianta di Roma di dodici architetti postmoderni da Aldo Rossi a Leon Krier, concordato con gli Incontri Internazionali d’Arte di Graziella Lonardi da Argan pochi mesi dopo il suo insediamento in Campidoglio. Comunque, dalla fine degli anni Sessanta ad oltre la metà degli anni Settanta opere ed installazioni all’insegna di arte cinetica, optical art, etc. hanno tentato (pur senza successo) di conquistare l’egemonia su astrattismo e informale. Parto da questa notazione per far rilevare come il clima dei primi anni Duemila – dove l’architetto sembra divenuto invisibile o mutato in archistar – obbedisca a un “sentimento del tempo” assolutamente diverso. La fine dell’architettura di cui oggi stiamo discutendo non avviene per eccesso di progetto, per assorbimento dell’istanza estetica da parte della ragione, che spinge al radicalismo purista, alla cancellazione calvinista di ornamenti e decorazione in nome del rigore, ma per motivi di tipo opposto. Nella prevalenza sullo scopo del progetto dell’efficacia della comunicazione che il progetto veicola, il tempo proprio al progetto, il futuro, scompare e viene sostituito dal respiro corto delle esigenze celebrative e rappresentative. Trionfo postumo di Vilfredo Pareto su Karl Marx e Max Weber. Tra tante discussioni, polemiche, meraviglie e stupori a proposito dell’architettura; tra ipermusei (dal Guggenheim Bilbao di Frank O. Gehry al MAXXI romano di Zaha Hadid); shopping mall e centri commerciali; enclaves residenziali sorvegliati da guardie armate: sembrano scomparsi i temi classici della modernità dei CIAM, come la questione delle abitazioni (cara a Federico Engels) e lo spazio pubblico (il cuore della città, che sembrava così importante al Team X ed ai Congressi dell’UIA subito dopo la fine della II Guerra Mondiale, antidoto agli eccessi di astrazione razionalisti. La città stessa rischia di perdere la propria relazione fondante con l’architettura, dispersa nel continuum urbanizzato, frantumata in enclaves per le élites e desolazione delle periferie. Parlare di fine evoca l’Apocalisse (e neanche possiamo aggettivarla, come nella finis Austriae, “gaia Apocalisse”): mi sembra un po’ un modo di gettare la spugna e chiamarsi fuori. Dunque non lo farò. Ma è difficile non avvertire (non tanto negli architetti nostri contemporanei quanto nel modo in cui opinione pubblica ed istituzioni affrontano oggi i problemi dell’ambiente, della sostenibilità, del rischio idrogeologico e sismico, delle infrastrutture, delle città, dell’abitazione, dello spazio pubblico), l’eclissi del principio di realtà e la sua sostituzione con una serie di derivate seconde, all’insegna del whisful thinking e del Truman Show. L’architetto vive la stessa impotenza di un partecipante ad un reality: separato da tutto ciò che è reale, scambia la soddisfazione effimera del proprio narcisismo con l’accettazione, senza possibilità di critica, delle regole del gioco


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«DE FINIBUS» Luigina De Santis

Di fronte ai tanti requiem per l'architettura che ispirano il tono apocalittico di testi recenti - da Contro l'architettura di Franco La Cecla a Contro la fine dell'architettura di Vittorio Gregotti, per limitarci a quelli italiani - ci si pone un dubbio: ma davvero l'architettura sta finendo? o, meglio, davvero l'architettura può finire? Inevitabile diventa rispolverare la «fine dell'arte» annunciata o decretata da Hegel, che da ormai due secoli muove la riflessione estetica, in una sorte di sindrome compulsiva. A guidarci, il saggio di Jean Luc Nancy, Il peso di un pensiero. L'approssimarsi (Milano 2009). Nelle Lezioni di estetica, Hegel non parla direttamente di “morte dell'arte”, afferma piuttosto che «l'arte è una cosa del passato». L'arte, manifestazione sensibile dell'Idea, opaca ed empirica, lega l'essenza alla parvenza nella concretezza storica delle opere; pertanto, nell'ascesa dialettica verso lo Spirito Assoluto, si colloca in un primo momento, destinata a essere soppiantata dalla religione e dalla filosofia. L'architettura, poi, ne è la declinazione iniziale: simbolicamente pregna di materia, imprigiona l'idea nella massa litica, come nel caso dei monumenti egizi. E', dunque, soppiantata dalla statuaria greca, equilibrata fusione di materia e di spirito, cui succede la poesia romantica, arte spirituale della parola completamente disincarnata. L'arte si libera delle sue spoglie inerti e e di ogni contingenza materica, assolutizzata come espressione dello spirito. Non è più “al servizio di”, o, meglio, svolge un compito essenzialmente religioso, destinata a superarsi con una necessaria sostituzione attraverso e nella filosofia. Affrancata da ogni finalità esteriore, ha come vero 'fine' l'armonizzazione di Idea e forma, di spirito e materia, di essenza e apparenza, in una problematica conciliazione degli opposti che segna la 'fine' della dialettica stessa nell'aporetico superamento dell'apparenza, che lo stesso Hegel riconosce essere una necessità intrinseca dell'Idea, essendo «la manifestazione un momento essenziale dell'essenza». Infatti, «la bellezza non è un'astrazione dell'intelletto», ma «il concetto assoluto in se stesso concreto»: è dell'ordine del “concetto concreto” e ha l'arte come suo proprio effettivo regime di presentazione. Ne consegue che il progressivo assottigliamento del corpo dell'arte, la sua 'anoressia', ipoteca il futuro di una perdita: perdita della bellezza, nella sua immediatezza e freschezza, e quindi perdita della vita. Perdita, che pur dialettizzata nella poesia, capace di elevare la vita allo spirito, lascia comunque il senso di un'insopprimibile assenza, dal momento che l'epoca del concetto e del pensiero è, nelle parole di Hegel, «un'epoca senza vita e triste». Dunque, l'arte, «domenica della vita», non è poi così facilmente superata e superabile nella dialettica. Seppur 'morta', non finisce né resuscita. Si tiene piuttosto nella reminiscenza di se stessa. Sospende se stessa e in tale sospensione si raccoglie e si mostra; offre la grazia della sua presenza: Le sue opere sono resti che giungono con «generosità» e «amicizia» da un tempo remoto, residui di un'esistenza trascorsa e risarcimenti immaginari di quella catastrofe che è la storia del mondo. Scaturigine di un passato immemoriale che non cessa mai di nascere, l'arte è “traccia”: strano rammemorare che non si deposita nel ricordo e così sfugge all'oblio e alla memoria insieme. Traccia frammentaria e lacunosa, interiorizzata nel lutto di un'impossibile appropriazione. Eccedendosi sempre verso ciò che la precede o le succede - verso la propria morte e la propria nascita – fa della sua finitezza un evento che ferma l'attenzione 'dentro' e 'sul' suo stesso confine. La sua finitezza ha la forma di un limite; i segni testamentari che deposita sono innanzitutto tracce del 'già-da-sempre' del suo essere passato assoluto rilanciato verso il 'non-ancora' di un futuro sempre a venire, in una torsione originaria del tempo dove la memoria vira in attesa e il ricordo in promessa. Grazie al suo legame con questa strana memoria dell'immemoriale e dell'immemorabile - attraverso la scrittura, il segno, la téchne – l'arte è “cosa del passato”, proprio perché «inscrive materialmente e così sempre dimentica il suo contenuto ideale». La 'fine' preconizzata da Hegel, quindi, è davvero un arret de mort come afferma Blanchot, richiamando l'ambiguità della parola francese che contemporaneamente dice la diagnosi medica e la sentenza giudiziaria, ma anche la sospensione. La morte 'si ferma' e l'arte inizia a sopravvivere, comincia a preparare e a prepararsi alla 'fine'. Mettendo in questione limiti operativi e confini disciplinari, si interroga sulla 'fine' nei suoi molteplici sensi: la finitezza, l'infine, il confine. Del resto, in tutte le culture la morte è compimento e compiutezza: appunto limite, bordo, termine. Le riflessioni di Hegel pongono, dunque, il problema del senso dell'arte, del suo fine e dei limiti delle sue rappresentazioni: ne mettono in questione la finitezza, destinandola a finire incessantemente. In Aporie. Morireattendersi ai “limiti della verità” (Milano 1996), Jean Derrida ci ricorda che già nel De Finibus, Cicerone, attento ai confini delle parole e ai passaggi tra le lingue – il greco e il latino –, chiarisce che il télos dei Greci è «talvolta


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l'estremo, talvolta l'ultimo, talvolta il sommo», quindi anche 'fine'. E l'architettura, nell'archetipo della Torre di Babele, riletto come figura catastrofica del limite interno a ogni formalizzazione - che intreccia i destini delle costruzioni e delle lingue nel crollo dell'edificio e nella confusione degli idiomi - direttamente richiama l'idea di traduzione nel portato metaforico delle sue opere e di limitatezza-interdizione nei vincoli che si pongono al suo operare. 'Fine', allora, è anzitutto 'finitezza': quella dell'uomo, ma anche quella della costruzione che mira a dilatare la durata della vita umana nella testimonianza delle pietre, i cui tempi eccedono le generazioni. «Tutto è vinto dal tempo» scrive Alberti nel IX libro del De Re Aedificatoria. Anche l’architettura ha un proprio corso ed è soggetta a continue attualizzazioni. La durata è il tempo ‘proprio’ di ogni costruzione, da preparare con diligenza, avendo cura di praecogitare e di praefigurare l’edificio mediante un meticoloso lavoro di revisione e di verifica sui modelli, e da progettare con prudenza, prevenendo la consummatio delle opere con la scelta di adeguate tecniche e di collaudati materiali. Costruire per la durata significa obbedire al principio vitruviano della firmitas, invocato nel I libro, che esige che ogni costruzione dell’uomo sia «compatta e solida e incorruttibile», ma anche avere di mira la bellezza, che può inibire, almeno, la forza distruttrice degli uomini. Questa la lezione degli edifici antichi: possenti moniti, ci dicono, ciascuno nella propria singolarità, la capacità di corrispondere al tempo - la varietas dei linguaggi nell'avvicendarsi degli stili - e l’abilità di resistervi - la durata costruita sulla possanza della pietra. Nella monumentale bellezza, sono un imperativo etico contro negligenza e imperizia e un esempio potente, chiamato a testimoniare come il desiderio di eternità possa essere corrisposto nella dimensione, tutta etica, della concinnitas, che è ‘misura’ che orienta il progetto e tenta di dominarne l'empiria, e ‘bellezza’ capace di “stare”, di reggere il corso del tempo, addestrandoci a costruire nella consapevolezza della fine. Costitutivamente fragile, ogni opera porta già in sé le tracce della sua distruzione a venire, il «futuro anteriore della sua rovina». Questa distruttibilità essenziale va organizzata come resistenza e monumento, «marca» testamentaria che resta, che sopravvive al presente della sua iscrizione e che, distante dal soggetto che l’ha tracciata, dà vita ad un’infinita iterazione-alterazione. La 'fine', dunque, costituisce per l'architettura un'aporia ineliminabile: qualcosa che «resta sempre a venire e quindi la memoria di ciò che porta l'avvenire qui e ora». La sua esperienza è sopportazione e passione, resistenza o restanza interminabile, e il pensarla è sempre un problema, secondo la più autentica etimologia del termine, che in greco indica 'proiezione' e 'protezione': la previsione del programma e la protezione dello scudo, la strategia del progetto e il riparo del bordo. Escogitare rifugi per nasconderci e rappresentarci, rendendoci «infinitamente finiti»: questo il fine della costruzione. A questo télos si tende, agendo una tecnica che è tramare e proteggere, ordinare e coprire, tessere e rivestire ... mettere in forma lo spazio mediante l'allestimento fisico del limite, nell'indifferenza tra involucro materico e contenuto ideale. Perciò Hegel la dice 'simbolica' – criptica e finita, perché iscrizione materica – e Derrida la chiama 'archiscrittura'. La piramide ne è emblema essenziale: offre alla vista la sua immagine esterna ma nasconde un corpo morto all’interno. La pienezza della forma esteriore, il segno della pesante massa litica, cela il proprio contenuto: la salma inaccessibile, quale significato essenziale della sua edificazione. Riprendendo l'equivalenza orfica di sôma (corpo) e sêma (segno), è lo stesso corpo a farsi segno allo spirito, avvolgendo e celando l'anima. Monumento della scrittura, la piramide è segno materiale, esteriore e permanente (signatum), ma anche segno di un’interiorità nascosta e vivificante (signans). In un’essenziale ambiguità, da un lato non rimanda che a se stessa, dall’altro allude a qualcosa di esterno e differente. Oltre il semplice monumento o l’istituzione della presenza, veicola al suo interno la dinamica di un raddoppiamento infinito della presenza e la possibilità della sua negazione. Dunque è anche indice di un’eccedenza, di un sovrappiù che le si accompagna. Il farsi segno della massa litica, «istituisce» la differenza e quindi la ritenzione, in una struttura di rimando che inaugura l’enigma del simbolo e lo inscrive nelle dinamiche dell’articolazione linguistica. Perciò, nell'opacità della pietra, è 'monumento': traccia materiale - economica e metaforica – che, come la scrittura, procede per movimenti differenziali – interno/esterno primo fra tutti – inscrivendo il proprio senso tra identità degli elementi e complessità dell’articolazione. Scrittura corporea che solo dall'anima può attendere il suo senso; segno criptico è appunto una cripta, un sacello. Anche per Adolph Loos la tomba è figura essenziale dell'architettura, ma, lettera morta, non cela più nessun enigma, se non la disincantata consapevolezza che la trasparenza del segno, o piuttosto il suo salto metaforico in un'eccedenza di significazione, può darsi solo nell'ineluttabilità della morte. «Se in un bosco troviamo un tumulo lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto un uomo. Questa è architettura» si legge in “Architettura”. Condensata nel mucchio di terra foggiato dalla pala, la costruzione si rapporta alle misure del corpo umano e, nella sua caduca opacità, si connota della sacralità della morte. Riaffiora l'idea classica di luogo come impronta del corpo, ma quello cui il tumulo allude vede il compimento della sua esistenza; perciò può essere solo evocato - nel monumento e nella tomba - nella


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distanza della memoria. Traccia silente di un corpo privo di vita e dal significato sfuggente, inscrive la propria impronta nella terra. Un segno che assurge al ruolo fondativo del luogo, in rapporto al suolo, riecheggiando il pensiero di Semper, che già individua nel «segno» con «la forma di un cumulo di terra» la 'marca' di «un luogo consacrato». Il 'cadavere' dell'arte continua ad agire le sue dinamiche di significazione, ribadendo i limiti del costruire. «Solo una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento. Il resto, tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte». L’architettura si relazione all’arte solo come «traccia testamentaria», affidato alla distanza della memoria e alla sacralità della morte. Questo il limite essenziale, che Loos pratica con cruda consapevolezza, nell’ethos della regola e nella misura dei luoghi, nella verità dei materiali e nella differenza dei muri, a ricordarci che abitare è avventura di frontiera e costruire è ‘sublime’ faccenda di margini. Se è 'spettrale' la possibilità dell'arte, è comunque tutta da imparare la difficile «pratica del limite» che articola la costruzione, dove il limite è sì legato all'effettività della tecnica a alle sue concrete possibilità realizzative, ma è soprattutto l'oggetto da agire, perché delimitare gli spazi per dar forma ai luoghi è disporre bordi, innalzare confini, allestire involucri... e materializzare un senso. La 'finitezza', dunque, come sottrazione in rapporto a un'infinitezza – istituzione di differenze oltremodo significative -, è il modo proprio del fare architettura: divisione che apre uno scarto, distribuendo e affermando, ogni volta, i limiti o i 'fini' della singolarità di una forma e di un luogo. Del resto è lo stesso luogo a essere concepito da Aristotele come frontiera o limite: punto di contatto tra l'ente e il suo ambito, in cui entrambi si fanno reciprocamente 'confinanti' (cum-fines). Contorno definito di un 'dentro' e disegno tracciato di un 'fuori', il luogo ha a che fare con limiti e bordi. Soglia tra interno ed esterno, è l'orlo estremo cui l'ente perviene e in cui tocca l'altro da sé. Dimensione esposta del fines, è questione di tocchi, è l'eschaton del suo corpo, aisthesis per eccellenza. Davvero la configurazione spaziale è messa in opera della 'fine': si compie come esito di un fare che, ricoperto un 'fine' (télos) con una 'fine' (limite), si 'arresta' per destinare la costruzione al futuro della sua rovina.


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IL TERRORE DELLA CATASTROFE SUL GRANDE SCHERMO Alberto Cassani

Da quando il cinema è diventato un’arte narrativa – ossia da quando le scenette di vita reale dei fratelli Lumière sono diventate prima le scenette di magia e poi le avventure fantastiche di George Méliès – il grande pubblico è sempre andato alla ricerca dell’insolito. Ciò che, infatti, ha sempre colpito l’immaginario degli spettatori cinematografici è la sorpresa di vedere sul grande schermo qualcosa che non appartiene alla vita reale. O per lo meno, alla vita reale così come lo spettatore la vive. Come accadde anche alla letteratura e al fumetto (e solo parzialmente alla radio), anche il racconto cinematografico fu inteso dal pubblico come un ottimo mezzo di evasione. Ciò che però distinse l’approccio al cinema rispetto a quello verso la letteratura scritta e disegnata, fu che lo spettatore non cercava solo un mondo diverso, bensì un mondo che – in qualche modo – sapesse spaventarlo. Nella letteratura scritta, infatti, il terrore è quasi sempre rimasto confinato nel genere horror e in quello fantascientifico, e oggi nel thriller. Il fumetto, invece, ha affrontato con continuità questo tipo di racconto solo di recente, quando è arrivato a completa maturazione come mezzo narrativo. Nel cinema, al contrario, il terrore ha sempre saputo insinuarsi all’interno delle pellicole di qualsiasi genere – a volte travestito da “semplice” suspense – e quando l’ha fatto ha sempre saputo catturare il pubblico. Perché il pubblico cinematografico ama essere spaventato, e il cinema è forse il mezzo narrativo che più facilmente può spaventarlo. Per quanto, come diceva il personaggio interpretato da Kirk Douglas ne Il bruto e la bella (1952), «ciò che spaventa gli esseri umani più di qualunque altra cosa è il buio», è proprio grazie al fatto di poter mostrare (di poter scegliere se, quando e quanto mostrare) che il cinema può spaventare gli spettatori con qualsiasi tipo di prodotto. I film catastrofici, in cui viene messa in scena la distruzione dell’ambiente in cui gli spettatori vivono, sono quelli che forse meglio di tutti possono guadagnarci da questo vantaggio del cinema rispetto alle altre arti narrative. Questo perché la rappresentazione delle catastrofi non ha bisogno delle poetiche parole della voce narrante di letteratura e radio, e le immagini in movimento proiettate sul grande schermo sono certamente più coinvolgenti di quelle disegnate nelle pagine dei fumetti. Non a caso, la brutalità delle devastazioni più o meno naturali hanno da sempre trovato cittadinanza – e successo – nelle sale cinematografiche. Da molto prima che il cinema catastrofico fosse codificato. Addirittura, da quando ancora il cinema era quello delle scenette di vita reale dei fratelli Lumière. Risale infatti al 1901 Fire! di James Williamson, che racconta in cinque minuti il salvataggio di un uomo intrappolato in un appartamento in fiamme da parte di una squadra di pompieri, mentre nel 1908 Arturo Ambrosio e Luigi Maggi adattarono per il grande schermo Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton. Perché, ovviamente, quando la catastrofe colpisce realmente, il cinema è sempre stato pronto a riprodurla, anche in tempi brevi. Basti pensare come i primi film dedicati al Titanic risalgano al 1912, solo pochi mesi dopo l’affondamento del transatlantico. Fu però solo all’inizio degli anni Trenta che il genere catastrofico cominciò davvero a trovare una sua forma vera e propria. Nel 1933, lo stesso anno del King Kong di Cooper e Schoedsack, Felix Feist diresse La distruzione del mondo, in cui prima gli Stati Uniti occidentali e poi la città di New York sono sommersi da una serie di maremoti. Fu l’inizio di una sequela di disastri naturali che caratterizzarono il cinema hollywoodiano fino praticamente all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, facendo spesso da argomento principale delle pellicole – come quando Ernest Schoedsack e Merian Cooper diressero la quinta versione cinematografica de Gli ultimi giorni di Pompei (1935) e John Ford ricostruì un ciclone tropicale per Uragano (1937) – e facendo ancora più spesso da sfondo per melodrammi sentimentali, come nel caso di San Francisco (1936) e il terremoto che sconvolse la città californiana nel 1906 o di Via col vento (1939) e l’incendio di Atlanta del 1864. Dopo la Guerra, la ragione dietro le catastrofi cinematografiche cambiò. Non era più la Natura a minacciare l’uomo, bensì mostri e alieni. Il terrore dell’olocausto nucleare è ben visibile sotto l’impianto fantascientifico dato a quelle pellicole, ma in quegli anni Hollywood preferì parlare chiaramente del blocco sovietico solo all’interno dei confini del cinema bellico, affrontando davvero temi socio-politici solo anni dopo, con pellicole come A prova di errore (1964) o The Day After (1983). Al contrario, il Giappone minacciato da mostri giganteschi come Godzilla (1954) o Gamera (1965) dovette sempre alle radiazioni nucleari lo stato di assedio in cui si trovava. Erano due tipi di catastrofi ben diverse tra loro che però, come detto, nella realtà avevano un’origine comune, e dal punto di vista narrativo presentavano lo stesso grande cambiamento rispetto al cinema dei disastri visto fino a quel momento. Non trattandosi più di una catastrofe naturale, per i protagonisti non c’era più modo di evitare lo scontro: non bisognava più trovare un modo per scampare al pericolo in attesa che tornasse la calma, bensì un modo per sconfiggerlo. Il secondo dopoguerra non era un periodo in cui si poteva cercare di sopravvivere aspettando che i problemi si risolvessero da soli, bisognava imbracciare il fucile e sistemare la


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questione con le maniere forti. Perché se è vero che è il nostro stesso mondo a rifiutare “l’altro”, con il raffreddore de La Guerra dei mondi (1953), è anche vero che il carotone alieno de La “Cosa” da un altro mondo (1951) pesta il dottor Carrington quando questi gli dice «sono un uomo di scienza.» La sensibilità degli spettatori, comunque, cambiò nel giro di pochi anni, e di conseguenza cambiarono le mode cinematografiche. Le catastrofi che minacciavano gli eroi del grande schermo tornarono a essere terrene. Gli anni Settanta sono stati il periodo d’oro del genere, e per quanto disastri naturali e animali non fossero completamente estinti (basti citare Terremoto del 1974, Swarm del 1978 e Meteor del 1979), a mettere in pericolo la vita dei protagonisti diventarono soprattutto le azioni degli uomini stessi. È ciò che l’uomo ha costruito, che ora lo minaccia. Prosaicamente si potrebbe far notare come i due film catastrofici più famosi del decennio, Airport (1970) e L’inferno di cristallo (1974), possano essere considerati quasi delle riletture moderne dei miti di Icaro e della torre di Babele, ma la realtà è molto più semplice: negli Stati Uniti Airport fu il miglior incasso dell’anno, e come sempre i produttori di Hollywood provarono a sfruttare a fondo questa nuova tendenza. Cercarono di replicarne il successo tanto da riproporne anche l’unica caratteristica davvero nuova, ossia quella di raccontare una storia corale interpretata da un cast di nomi di prima importanza. Il ricalco fu tale che persino le locandine presero ad assomigliarsi clamorosamente, con l’immagine del disastro incorniciata dai volti dei protagonisti ritratti più in piccolo. E allora ecco L’avventura del Poseidon (1972), Hindenburg (1975), Cassandra Crossing (1976), Rollercoaster – Il grande brivido (1977) e mille altri capaci di attirare in sala milioni di spettatori di tutto il mondo. In realtà, negli anni Settanta si sviluppò anche un altro tipo di film catastrofico, che pare a prima vista la diretta conseguenza della strada percorsa dal genere negli anni Cinquanta ma che è in realtà semplicemente l’approdo cinematografico di un sottogenere che in letteratura godeva di buona salute da almeno quarant’anni: il post-apocalittico. Per quanto ci siano pellicole che raccontano tanto l’apocalisse quanto la ricostruzione, buona parte dei film appartenenti a questo sottogenere del cinema fantascientifico mette in scena un mondo in cui il genere umano sta ancora cercando di venire a capo di ciò che è successo, di adattarsi alla nuova Terra in cui si trova a vivere. Una Terra solitamente devastata, ridotta a lande desertiche e abitata da bande di barbari, qualunque sia la ragione che ha provocato l’apocalisse (guerra nucleare, pandemia, disastro naturale…). Perfetti esempi sono le avventure di Mad Max e le prime due versioni cinematografiche di Io sono leggenda di Richard Matheson, ma anche Apocalypse 2024 (1975), adattamento di un racconto di Harlan Ellison in cui un giovane Don Johnson si muove per le rovine di Phoenix cercando di sopravvivere a scapito degli altri grazie all’aiuto del suo cane, col quale comunica telepaticamente. Un’altra visione del mondo post-apocalittico è quella che vuole invece gli uomini strettamente organizzati in società distopiche (anche se magari all’apparenza perfette), in cui quasi sempre i sentimenti e le singole personalità sono state cancellate. Di questo filone fanno parte pellicole come La fuga di Logan (1975) ma anche Parts: The Clonus Horror (1979), di cui nel 2005 fu realizzato il remake non dichiarato The Island, con Ewan McGregor e Scarlett Johansson. Alla fine degli anni ’70, comunque, il genere catastrofico passò di moda. Non così la fantascienza postapocalittica, ma per rivedere sul grande schermo con una certa continuità e un certo impegno produttivo il racconto degli sforzi degli uomini per sfuggire ai grandi disastri bisognerà aspettare la metà degli anni ’90. Preceduto dai successi di Jurassic Park (1993) e Virus letale (1995), il 3 luglio 1996 uscì negli Stati Uniti il pubblicizzatissimo Independence Day di Roland Emmerich, in cui gli alieni tornarono cattivi per distruggere Washington. Più di 800 milioni di dollari di incasso mondiale convinsero tutta Hollywood che il genere catastrofico non era ancora morto, ma stavolta il nuovo revival fu caotico e incoerente. La catastrofe poteva essere di qualunque genere – naturale, aliena, medica, astronomica, tecnologica… – e a volte i film parevano realizzati in coppia, tanto era la somiglianza del soggetto di una pellicola con quello di un’altra uscita pochi mesi prima. Ecco allora i vari Vulcano e Dante’s Peak, Armageddon e Deep Impact, Decisione critica ed Air Force One, con però il Titanic di James Cameron a far sembrare minuscolo il successo di ogni altro film del genere. Da allora i film catastrofici non hanno più lasciato le sale cinematografiche, a volte riprendendo soggetti di pellicole passate – come nel caso di Godzilla dello stesso Emmerich (1998), La guerra dei mondi di Spielberg (2005) e Poseidon di Wolfgang Petersen (2006) – a volte cercando nuove interpretazioni di temi classici del genere, come in Sunshine di Danny Boyle (2007) e venne il giorno di M. Night Shyamalan (2008). Le pellicole più classicheggianti di quest’ultimo periodo sono proprio quelle di Emmerich, che con The Day After Tomorrow (2004) e 2012 (2009) aggiorna il cinema catastrofico solo dal punto di vista degli effetti speciali. Ma il pubblico risponde con entusiasmo, segno che anche nel nuovo millennio continua ad amare andare al cinema per farsi spaventare da un pericolo all’apparenza impossibile da superare. Non c’è nessuna idea narrativa che può essere così visceralmente magnetica come quella della Natura stessa, del nostro mondo, che decide di sterminare il genere umano. È quanto di più ineluttabile si possa pensare, eppure al cinema il genere umano ha sempre trovato il modo di limitare la catastrofe e superarla. Anche se nelle sale cinematografiche il mondo così come lo conosciamo viene distrutto, la razza umana sopravvivrà. Ma più che una


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semplicistica volontà di happy ending da parte di autori e produttori cinematografici, nel caso del cinema catastrofico si tratta di una vera e propria necessità. Non è un caso, infatti, che il cinema catastrofico abbia vissuto i suoi momenti di massimo splendore quando il suo pubblico viveva pesanti momenti di crisi, anche mondiale. Gli Stati Uniti dei primi anni Trenta erano quelli che cercavano di rialzarsi dalla Grande Depressione, il mondo degli anni Settanta faceva i conti con la crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur e più in generale ai conflitti mediorientali, gli anni Novanta sono quelli della disgregazione dell’Europa dell’Est e il primo decennio del XXI secolo nasce con l’11 settembre. Andare al cinema e vedere il genere umano sopravvivere a situazioni ben peggiori di quelle che gli spettatori vivevano quotidianamente, è una grande iniezione di speranza. È la ragione per cui gli spettatori vanno al cinema: farsi terrorizzare da qualcosa di più grande di ciò che affrontano nella vita reale, e farsi dire che potranno superarlo.


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SONNO REM* Maurizio Cecchetti

La crisi del capitalismo ha messo a nudo i limiti ideologici del “pensiero unico” in campo economico e politico, perché se già in Occidente esistono interpretazioni del libero mercato in conflitto fra loro, come si può pensare che in Cina o in Brasile, in India o negli Emirati arabi, il modello capitalista possa essere applicato allo stesso modo che in Occidente senza tenere conto delle diverse condizioni politiche, sociali e legislative di questi Paesi? Come se niente fosse cambiato nella centralità economica e politica dell’Occidente, l’architettura, soprattutto quella delle grandi speculazioni e delle grandi firme assoldate dalle multinazionali e dai network bancarifinanziari, ha sposato proditoriamente la visione cara al pensiero neoliberista, prefigurando un nuovo orizzonte in ragione del quale chi costruisce a New York non si relaziona più con la realtà fisica del luogo, ma con un generico e virtuale skyline planetario. Il sistema delle immagini è il contesto nel quale prende forma la “delocalizzazione iconica” dell’architettura, un pensiero dell’ubiquità che presuppone che si possa abitare in tempo reale qualsiasi luogo della terra, vedersi dentro una delle grandi città del mondo, stando in realtà “altrove”. L’ubiquità, così intesa, è il “non-luogo”, non l’utopia, ma la negazione di quelle differenze che sono il sale di ogni storia e tradizione “locale”. Forse, qualcuno pensa che l’omogeneità estetica del mondo, il nuovo internazionalismo che rende ogni luogo equivalente e intercambiabile, possa un giorno far coincidere il “villaggio globale” con la “città mondiale” sognata da qualche cosmopolita del Novecento. Ma l’uniformità paradigmatica dello skyline globale esprime una idea di città avulsa da qualunque principio di stratificazione storica, è la città del presente assoluto che cambia aspetto con grande velocità rimanendo però, a qualunque latitudine, identica a se stessa, grazie al meccanismo della delocalizzazione iconica consentita dalla rete comunicativa del “villaggio globale”. Questo artificio fa sì che New York, Dubai, Astana o Pechino abbiano una collocazione geografica precisa ma senza particolare specificità perché l’architettura contemporanea le ha rese tutte somiglianti fra loro, e paradossalmente è nelle aree del degrado che si possono trovare quei segni differenti che fanno riconoscere un luogo, forse perché in queste parti di città la crescita spontanea è lo specchio reale dell’umanità che vi abita. La delocalizzazione iconica annulla l’autorità del contesto, al punto che un grattacielo progettato per Calcutta potrebbe sorgere identico a Houston, a Londra o a San Paolo con pochi adattamenti al contesto reale. La globalizzazione dell’estetica conferma la debolezza intrinseca (l’ipocrisia morale) di una idea, che fu, come ha ricordato Richard Ingersoll, all’origine della nascita delle stesse Nazioni Unite, ovvero l’internazionalismo come «antidoto al colonialismo». Il fatto è che l’internazionalismo (anche cosmopolita) da modello culturale è diventato un valore economico che prevale sulla politica e sull’etica sociale e mostra inquietanti analogie con un passato dove il più forte esercitava un ruolo “civilizzatore” sul più debole imponendogli la propria tavola di valori (è il “fardello dell’uomo bianco” rivisto alla luce della globalizzazione). Alla fine del secolo scorso venne introdotta nel dibattito architettonico la categoria dell’“internazionalismo critico”: doveva essere – secondo Jean-Louis Cohen – «una sorta di adattamento creativo ai fenomeni dell’internazionalizzazione dei mercati della progettazione e dell’apertura dei siti urbani». Ma l’aggettivo “critico” non è bastato a mettere al riparo architetti e designers dalle seduzioni del potere economico. E l’architettura ha via via perduto alcune prerogative disciplinari, che sono inscindibilmente funzionali ed etiche. Junkspace è lo spazio-rottame, quello creato dai relitti abbandonati nello spazio cosmico dopo ogni missione aerospaziale, che per Koolhaas diventa il paragone della città di oggi considerata come «discarica della modernizzazione» ovvero una «architettura-casino». (Le città di domani conosceranno “banlieues extraplanetarie” dove altri uomini vivranno una esistenza di qualità assolutamente diversa dalla nostra? Simili trasformazioni, secondo Marc Augé, spingerebbero a riconsiderare anche il pensiero della storia, dopo le bizzarre teorizzazioni del postmoderno; e per ovvie ragioni: la distanza fra la Terra e le nuove aggregazioni satellitari cambierebbe anche il modo di pensare le radici storiche e ambientali di una disciplica artistica, l’architettura, che per la prima volta si troverebbe al di là della soglia che da sempre la tiene ancorata, anche concettualmente, alla terra. A riprova che non stiamo parlando di semplici ipotesi, va registrato l’incarico che l’Agenzia spaziale europea ha affidato a Norman Foster per lo studio di strutture architettoniche permanenti da costruire sulla Luna, che consentano, per ora, una migliore funzionalità alle missioni di esplorazione del suolo lunare. Ci troviamo, insomma, alle prove generali per l’urbanizzazione dello spazio extraterrestre che, possiamo esserne certi, verrà vissuta con lo spirito dei pionieri che colonizzano terre sconosciute, cioè anteponendo lo ius pedorum a ogni altro principio).


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Come abbiamo già visto, Koolhaas è un fervido inventore di parole-marchio, che rischia un uso inflazionistico del copyright. Tra quelle più efficaci nel colpire l’immaginazione, c’è la sigla ¥€$, sulla quale ha imposto il proprio sigillo. Si tratta dei simboli dello Yen, dell’Euro e del Dollaro che uniti formano secondo Koolhaas il brand della globalizzazione, ovvero il distintivo dell’«ideologia che privilegia il potere economico su qualsiasi altro valore». Koolhaas ha costruito a Pechino il mo-numentale complesso della televisione di Stato, cui i cittadini cinesi avevano imposto il curioso soprannome di “Pollastro” (una delle due torri, quella TVCC, la più alta, è andata a fuoco dopo l’inaugurazione oltre un anno fa ed è stata demolita). Nonostante la Cina sia il Paese che oggi condiziona maggiormente le analisi economiche mondiali, Koolhaas minimizza le questioni etiche che esso pone alle società democratiche: persecuzioni politiche, repressione delle minoranze, infanticidio femminile, eugenetica razziale, pena di morte, controllo dell’opinione pubblica e dell’informazione, oltre a una disinvolta e aggressiva interpretazione del modello capitalistico che trascura la tutela ambientale e il controllo dei fattori inquinanti. Erede del pragmatismo dei mercanti olandesi, che commerciavano in tutto il mondo perfettamente allineati alla politica coloniale del loro Paese, Koolhaas sembra attribuire al suo progetto per il palazzo della Tv di Stato cinese un valore critico esemplare rispetto al complesso di superiorità che l’Occidente dimostra verso società e culture che non condividono la sua stessa etica. Illustrando i contenuti di quel progetto, Koolhaas ha affermato recentemente che la forma dei due palazzi è pensata come se dovesse violare le leggi della fisica, come «fragilità monumentale». Sarebbe dunque questa la pregiudiziale “critica” che consente all’architetto di lavorare per il governo cinese senza condividerne il sistema e l’ideologia politica. D’accordo, l’ironia e l’eleganza possono essere armi molto affilate, ma in questo caso è difficile negare che in tali affermazioni si celi un atteggiamento opportunistico. Con l’edificio di Pechino Koolhaas ha voluto replicare polemicamente a chi, come Libeskind, lo ha accusato di cinismo imprenditoriale: queste forme di censura, secondo Koolhaas, sono armi spuntate in un mondo dominato dalla globalizzazione, perché ogni embargo, morale o economico che sia, nel sistema dello ¥€$ finisce per essere autolesionistico. Il “sì”, scritto coi simboli della finanza mondiale, per i più realisti significa un assenso obbligato da parte di chi vuol stare nel Great Game della globalizzazione: rimanerne fuori equivale a negarsi il futuro. Se questa tesi sia vera o falsa è meno importante ai fini del nostro discorso dell’implicito valore di contrasto dell’ipocrisia dominante che assume nella polemica di Koolhaas la costruzione di edifici di grande impatto, anche simbolico, sul territorio cinese. «Soltanto le non democrazie stanno guadagnando importanza», commenta. Ergo: se non collaboriamo verremo strangolati da un nemico che, quanto a forza produttiva, appare oggi in crescita più di qualsiasi altro Paese nel mondo. Koolhaas accusa di debolezza strategica e politica l’Occidente. Progettare per il governo cinese, oltre che una invitante opportunità, per Koolhaas è il modo per dire a chi fa del moralismo demagogico che i tempi sono cambiati e bisogna prenderne atto sollecitamente e agire di conseguenza: Realpolitik. Così, invitato a far parte del comitato di saggi che dovrà elaborare le strategie di marketing dell’Europa, Koolhaas suggerisce all’Unione Europea di essere «meno filoamericana» e di lavorare piuttosto alla costruzione di nuovi rapporti con Russia, Turchia, Mondo arabo, Cina e India, considerando alla pari questi Paesi. Se una nuova “guerra fredda” è in corso, non più su fronti contrapposti, ma dentro un war game globale nel quale tutti giocano contro tutti e l’arsenale che conta non è più quello militare e politico, ma quello economico e quello culturale, Koolhaas dipinge strategie di lungo periodo che impongono, volenti o meno, la «collaborazione con l’altro». «È sbagliato – ha risposto laconico a un giornalista – condannare la Cina come una dittatura e basta»: per Koolhaas è, piuttosto, una “non democrazia” o una “semidittatura”. Vocabolario da esperto diplomatico, da ministro degli Esteri, che fa riemergere quel retaggio secolare di realismo pragmatico che fece dei suoi connazionali dei colonizzatori efficienti e spregiudicati (le navi olandesi pensate per la tratta dei neri erano le più attrezzate e confortevoli, questo anzitutto perché dovevano ridurre i rischi di morte e di malattie per la “merce” da vendere sui mercati occidentali; a emblematico riscontro di questo, la prima testimonianza verbale di questa pratica risale al 1619 e consiste in un’annotazione di un giudice della Virginia che nel suo taccuino scrive: «A fine agosto, una nave da guerra olandese ci ha venduto venti negri»). Rem Koolhaas è l’architetto contemporaneo che meglio ha compreso la lezione del “grande comunicatore” svizzero. E se quella di Le Corbusier era la città nata dal metodo razionale della pars destruens, la tabula rasa dedotta con metodo scientifico, cui deve seguire la parte costruttiva, per Koolhaas il “grado zero” è piuttosto una esperienza soggettiva, nasce dal ricordo di Rotterdam rasa al suolo dai tedeschi. Così la città che l’architetto conobbe da bambino, la Rotterdam costruita lungo i secoli col paziente e intelligente lavoro di generazioni, oggi non esiste più. Questo ricordo è come un imprinting, determina nel tempo una forma mentis et operandi, che autorizza Koolhaas a sostenere che le città possono essere ripensate anche da zero, ciò che conta è l’idea che le genera, non la loro storia. Se il modello resiste nel tempo lo si conserva, altrimenti si cambia tutto. E in linea più generale si può anche dire che sia il Datascape a imporre la regola. Secondo Koolhaas, infatti, l’«incapacità di pensare la “tabula rasa” spiega l’impressione di immobilità che regna quasi ovunque».


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Quando la quantità si rivela abnorme, tanto da cambiare con un solo intervento l’aspetto di una città, la questione diventa immediatamente “qualitativa”. Di questo Koolhaas era cosciente mentre teorizzava la Bigness. Ma nel momento in cui l’analisi del problema arriva al dunque, e si auspicherebbe un pensiero critico capace di individuare un rimedio alla “straniante” proliferazione dell’architettura-magma, Koolhaas gioca con le parole: la Bigness è il «radicalismo della quantità», a cui è inutile opporsi, perché ha la meglio su tutto e travolge ogni tentativo di ordine. A chi obietta che la difesa della quantità ha sempre in sé qualcosa di decerebrato e pericoloso (quantità è massa, anche sociale), Koolhaas risponde indirettamente che oggi «la distanza tra nucleo e involucro cresce al punto che la facciata non può più rivelare ciò che avviene all’interno. L’esigenza umanistica di “onestà” è abbandonata al suo destino». Non fa una grinza per cinico realismo, e l’abbiamo già costatato in altre affermazioni di Koolhaas. Se questa situazione sia irreversibile o meno, all’architetto sembra importare poco o niente: la città contemporanea dal suo punto di vista è la Citta Generica, un insieme urbanistico senza capo né coda, dove non c’è più un centro e una periferia ma esiste soltanto una estensione anonima e proteiforme che si diffonde senza un progetto, come irrazionale crescita prodotta dalle mille libertà che si affrontano sul palcoscenico della città senza un’autorità che giudichi la correttezza o meno delle scelte (e certo a Koolhaas non sfugge che l’unica legge accettata da questa “massa acefala” è il diritto del più forte). Il paragone più calzante diventa, a questo punto, il trash dispensato giorno dopo giorno dalla tivù generalista, ma è talmente cosa morta e putrefatta, che risulta difficile credere che persone dotate di un minimo di buon senso possano considerarla una immagine desiderabile del futuro. Ma come fa capire Koolhaas, chi opera e vive nella Città Generica deve essere anche disposto a progettare il brutto. L’unica osservazione critica che Koolhaas riesce a elaborare, infatti, prende atto che la Città Generica si afferma «spez-zando l’asfalto dell’idealismo col martello pneumatico del realismo». Se per caso il discorso dovesse apparire troppo metaforico, l’architetto sintetizza l’idea della Bigness con parole rotonde: Fuck context, ovvero «il messaggio implicito della Bigness è: fanculo al contesto». Che, dopotutto, è una filosofia della flessibilità. La città ideale di Koolhaas è un campo dove si gioca senz’arbitro – «la ragnatela senza ragno» –, dove è consentito ogni genere di mossa o colpo basso, exploit da fantasisti, crisi isteriche, finte e simulazioni, si tratta soltanto di decidere a chi spetta, nell’economia del gioco, il ruolo della mosca. Oppure: tutti sono allo stesso tempo il ragno e la mosca. Ma l’immagine della “ragnatela senza ragno” ricorda utopie di città ideali fondate sull’autodeterminazione virtuosa dei loro abitanti. Condizione, come si può intuire, difficile da realizzare, se non proprio impossibile; certamente non data a priori. Koolhaas avrebbe buon gioco a obiettare che le città rette da leggi e autorità che impongono dall’alto le regole della convivenza e stabiliscono limiti all’agire dei cittadini non hanno dato prova di produrre qualcosa di molto diverso dal caos, dal degrado sociale ed estetico, favorendo, spesso, i privilegi dei più ricchi. L’idea di città che Koolhaas propone ricorda lontanamente l’abbazia di Thélème, la cittadella utopica vagheggiata da François Rabelais mentre tratteggiava il mondo di Gargantua. L’imperativo a Thélème era: «Fay ce que voudras» (“fa’ ciò che vuoi”). Si sente l’eco di Agostino, tronco della premessa (Ama e poi fa’ ciò che vuoi), teologo che Rabelais conosceva bene avendo indossato da giovane il saio francescano. In pieno Cinquecento, il motto di Thélème poteva essere il distillato di un umanesimo come ideale di emancipazione da un’autorità prescrittiva ancorata al pensiero politico-religioso medioevale, ma costretta a fare i conti col principio soggettivo della Devotio moderna da cui sarebbe emersa anche una nuova visione della laicità. Rabelais, da incredulo che dissimula accurate letture bibliche (Gilson ne mostrò le fonti), dà voce all’uomo del suo tempo che rivendica lo status di essere adulto e libero, condizione che precede qualsiasi tutela teologica o morale. Poiché lo scandalo è quello «di governarsi al suono di una campana e non alla voce del buon senso e del giudizio», a Thélème non ci sarà orologio, ciascuno potrà decidere se, come e quando mangiare, lavorare, amare, dormire, divertirsi. Ma a Thélème per la prima volta fa la sua comparsa anche l’“eugenetica”, ovvero un principio di selezione dei cittadini: le donne saranno belle e di buon carattere, gli uomini ben fatti e sani nel corpo. L’imperativo di Thélème diventa utopico perché rifiuta le insufficienze e l’impurità della condizione umana; libertà e libero arbitrio si affrontano nell’uomo, talvolta l’una sotto le mentite spoglie dell’altro, ma non coincidono (verosimilmente, neanche in Dio): la scienza e la cultura possono favorire la libertà umana, ma non sono in grado di prevenirne del tutto i rischi e spesso nemmeno di riparare ai torti che infligge. Solo le visioni totalitarie ritengono che questo sia possibile. Agostino dice: la libertà sia preceduta dall’amore; Rabelais sottoscrive riducendo la prospettiva al buon senso e alla responsabilità; Koolhaas, abbassando ancora un po’ la soglia, teorizza l’architettura-caos come condizione creativa della città dove le azioni dei singoli si autoregolamentano senza avere un centro che detta loro le norme, affidandosi insomma al metodo della competizione che lascerà sul campo di battaglia molti cadaveri e affermerà il diritto del più forte, come nella “selezione naturale”.

* Tratto, per gentile concessione dell’autore, da: Maurizio Cecchetti, Pelle di vetro. Il libro dell’antiarchitettura, Medusa, 2010.


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LA FINE SENZA FINE DELL’ARCHITETTURA* Alberto Cuomo

Quando Hegel, nella sua ”Estetica”, svolge la sua diagnosi sulla fine dell’arte, in cui si comprende quella dell’architettura, come è noto, intende indicare solo il concludersi dell’arte “bella”, non dell’operare artistico tout court. Se la storia, nella sua visione, procede quale movimento di una ideale ragione che, negandosi nelle cose finite e riassumendo la negazione nella sua luce, evolve verso l’autorealizzazione, luogo assoluto della identità di reale e razionale, l’arte, quella greca, sorgendo da un bisogno assoluto o d’assoluto, si pone, oltre la mera finitezza della natura, quale primo modo, immediato, del rendersi a sé, attraverso l’ente sensibile che è l’opera, dell’ideale, il quale, calato nelle sue figure, in cui si immedesima e si riconosce, si costituisce nella loro armonia quale “bellezza”, già corrotta, secondo il filosofo, nel successivo polimorfismo delle divinità olimpiche che introduce ad un diverso suo consegnarsi nel tempo. Sarà anzi proprio il trasmigrare dello spirito verso i luoghi del suo progressivo compiersi, oltre quelli dell’immagine sensibile, artistica, la religione, la scienza, la filosofia, a rendere manifesto il decadere dell’arte, quale suo ambito privilegiato, nella frammentazione postclassica, in cui più non traluce alcuna ragione, quanto solo il carattere più particolare della soggettività, così come mostrerebbe l’arte romantica postmedioevale, mera commedia, spazio del comico rinchiudersi del soggetto in sé, nelle proprie affezioni singolari, in cui più non si riconosce l’incedere dell’ideale. Schemen, ombra, fantasma della verità, l’arte, che nel finito dell’opera classica accoglie l’assoluto come “un dio beato”, nel moderno, ancora soggetta al movimento dello spirito, si pone a sua volta come aufhebung, superamento, di sè, ovvero aufhebung, dissoluzione, per manifestare nell’età nuova il suo “carattere di passato”, Vergangenheitscakter, inoltrandosi dal “bello” verso il “godimento” e il “giudizio”. Ed è proprio il dedicarsi della seconda parte dell’Estetica al diverso frammentarsi dell’arte romantica, tra il sensualismo e l’astrazione propri al tempo moderno, a mostrare come, nel riconoscimento della sopravvivenza dell’operare artistico, della sua “povertà”, si apra il suo carattere non necessariamente estetizzante, quello di essere luogo della separazione dall’ideale e quindi modo di far risaltare, o esaltare, le forme della quotidianità, del brutto, dell’eccessivo, della lacerazione, della libertà soggettiva della creazione e della stessa riflessività propria al mondo contemporaneo. I corsi hegeliani, svolti ad Heidelberg sull’estetica, risalgono al 1817, quando Schelling aveva da tempo condotto, negli anni 1802-1805, le proprie lezioni su “La filosofia dell’arte”, tra Jena e Würzburg, che, pubblicate postume, nel 1856, avevano comunque conosciuto un’ampia diffusione nella cultura tedesca. Già Schelling aveva mostrato infatti come l’assoluto si renda primariamente nella bellezza propria all’arte della prima Grecia, mitologica, pre-tragica, antecedente al pensiero dei filosofi, sebbene, a differenza che in Hegel, egli intenda tale assoluto non come ideale puro che si nega nella realtà per riassumerla, dialetticamente e progressivamente, a sé, quanto principio uno, infinito, esso pure fondamento del molteplice finito tutto però presente in sé, ovvero uno-tutto, unità non numerale, non antitetica, come nell’hegelismo, alla molteplicità, ma assoluta in quanto molteplice, assoluta totalità quindi, coincidentia oppositorum di ideale e reale, pensiero ed essere, spirito e natura, soggettivo ed oggettivo. Una visione in cui rivive il platonismo rivisitato alla luce del cristianesimo che intende l’assoluto, divino, quale essere che detiene in sé i complementi ideali, i quali, non delimitandolo, si configurano come sue “potenze”, “idee”, o “archetipi”, cui in-formare (einbilden-ung) le cose finite che ad essi si uni-formano (Ineninsbilden-ung). La peculiarità dell’arte, di quella greca antica, pure manifestazione finita, rappresentativa delle cose finite del mondo, della natura, è pertanto nel produrre oggetti conclusi che mostrino il loro essere informati dell’assoluto ed uniformati ad esso, di cui rivela, a differenza dei prodotti del tutto finiti della natura o di qualunque altro fare, il tratto dell’infinito, l’elemento ideale depurato di tutte le particolarità e le accidentalità pure presenti nelle cose illustrate le quali, luogo del manifestarsi in concrete forme sensibili del loro “in sé”, del loro “archetipo”, essendo questo, così come assolutamente vero, assolutamente bello, si determinano nella “bellezza”. Un concetto del tutto analogo quindi a quello posteriore di Hegel, anche se, per Schelling, non realizzandosi l’assoluto dialetticamente e progressivamente nella storia, essendo tutta la storia, dei fatti e del sapere, in esso compresa non per progressive negazioni, dopo l’arte greca antica, coincidenza in atto di infinito e finito, rappresentazione, pure in un oggetto finito della infinita possibilità d’essere dell’ideale che lo informa, e quindi ferma, armonica, forma, appagata dell’infinito ideale che in essa è offrendole “bellezza”, l’arte postclassica, moderna, pure caratterizzata dalla perdita della flagrante fragranza dell’assoluto, invece che manifestare il decadimento nelle affezioni della singolarità, come è nella teorizzazione hegeliana, si produce quale gesto attivo, ambito del divenire, della evocazione e dell’avvento, ancora, dell’infinito nelle sue forme finite, estrinsecazione della libertà del soggetto rivolto a rendere l’assoluto, l’ideale, oltre la coltre delle limitate conoscenze del mondo. Di qui la differenza tra antico e moderno, di natura non cronologica, quanto legata al carattere della forma artistica, “realistica” e “simbolica”, nel primo caso, estranea alla riflessione filosofica ed alle altre modalità del conoscere, autonoma


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raffigurazione dell’assoluto che in essa è stabilmente, appagato di sé, secondo quanto accade altresì nell’opera di artisti, come Raffaello, pure non antichi; “idealistica”, e più propensa alla “allegoria”, nel secondo caso, in quanto includente in sé la riflessione filosofica e le diverse acquisizioni dei saperi storici da cui rivolgersi all’ideale che le determina e che si manifesta quindi nella sua libertà come inappagato ed attivo agente del sapere e della storia reso nel libero agire di cui si costituisce l’opera. Di qui anche la superiorità dell’arte rispetto ad ogni modo conoscitivo ed alla stessa filosofia, nella misura in cui, se le diverse scienze e saperi risultano essere sempre delimitati nei loro concetti, l’arte, quella moderna, traspropria le stesse acquisizioni del conoscere verso il pieno manifestarsi dell’infinito, essendo il suo proprio, a differenza che per Hegel il quale ne legge la perdita dell’ideale ed il rendersi ai particolarismi della singolarità, al contrario, nella capacità di far emergere nel particolare, delle stesse affezioni del soggetto e delle stesse cognizioni scientifiche e filosofiche, l’infinito, in un primato che, fondato sulla libertà dell’artista, invoglia alla libertà dell’intera umanità la quale, oltre le conoscenze settoriali delle scienze e della filosofia, fonda su queste una nuova mitologia che la comprenda riconducendola al luogo iniziale del farsi del mondo, al Principio unitario indifferente ad ogni particolarità e di esse comprensivo. Le affinità e le differenze tra le due concezioni, hegeliana e schellinghiana, sull’arte si riflettono quindi in quelle riguardanti l’architettura. Per entrambi l’architettura non è nel costruire rivolto ad un fine, all’utile, ma, pure in questo, nel piegare il suo necessario materiale inorganico, la pietra, ed astratto, le sue geometrie funzionalistrutturali regolate dall’intelletto, allo spirito che è estraneo alle loro finitezze, in modo tale che, quando ciò accade, essa si avvicini alla più alta arte costituita dalla scultura, dove dio e corpo, spirito e materia, sono uniti nella forma di là di ogni scopo. Oltre le analogie tra i due filosofi, secondo Hegel, la possibilità, per l’architettura, di immedesimarsi nello spirito passa attraverso tre modalità storiche: la costruzione autonoma, antica, particolarmente l’egizia, con un alto grado di astrazione ed inorganicità, dove l’ideale si offre simbolicamente; quella classica, particolarmente la greca, dove l’inorganico si conforma all’intelletto, e quindi all’organico, compenetrandosi con l’organicità dei fini, di uso o statici, i quali si annullano a loro volta nell’inorganico (come è per la colonna greca che, sostegno di pietra, con le sue modulazioni stilistiche giunge all’organico, il quale, in quelle stesse modulazioni, si fa a sua volta inorganica dimenticanza del suo riferimento naturalistico) in modo che, anticipando la scultura, nell’incontro tra organico ed inorganico sfuma ogni particolarizzazione e si dona lo spirito; ed infine quella romantica medioevale, della casa oltre che della chiesa, che, sublimando l’uso strumentale per cui è costruita in un autonomo elevarsi, riflette ancora lo spirito nel fondare la sua elevazione su infinite partizioni, molteplicità individuali, una sterminata varietà di forme la quale, nel disfacimento della sintesi classica tra organico ed inorganico, decade verso le forme d’arte del romanticismo successivo, dove il particolare perde il suo riferimento unitario, ovvero il principio ideale. A differenza di Hegel, per lo Schelling, che già aveva teorizzato per la costruzione, al fine di manifestarsi, oltre la grecità, quale arte “bella”, il confluire dell’organico nell’inorganico e dell’inorganico nell’organico, nella condivisione della definizione dello Schlegel circa l’architettura quale musica irrigidita, “pietrificata”, la sua versione gotica più che costituirsi nel decadimento di quella classica, si manifesta come declinazione ingenua, “rozza”, nell’esplicito naturalismo, del reciproco incontrarsi di organico ed inorganico, e quindi come incipit di un nuovo cammino che attraverso la libertà dell’immaginativo elevi ancora all’oggettivo il soggettivo degli usi, delle necessità strutturali, della propria organicità ed inorganicità, divenendo, con un accento del tutto attuale, ripreso proprio dalla lettura dell’idealismo da Dino Formaggio per l’arte contemporanea, arte dell’arte, architettura dell’architettura, architettura cioè che riflette su se medesima e, si direbbe, quasi una pura plastica. Naturalmente il pensiero di Hegel e Schelling è ancora interno alla tradizione metafisica, e pure è in esso che si fonda la concezione e il farsi stesso dell’arte e dell’architettura moderna che giunge sino a noi, oltre le diverse dichiarazioni di fine succedutesi nel tempo e, spesso, avanzate dagli stessi artisti ed architetti. E’ indicativo, ad esempio, come la riflessione sull’arte di uno dei maggiori teorici moderni, Walter Benjamin, riprenda in definitiva i concetti idealistici, non solo mostrando come essa, perduta la “bellezza”, ovvero l’aura, abbia perso il suo senso cultuale tradizionale, quale immagine del divino, dell’infinito, dell’assoluto, per tradurlo nel culto di sé, come arte per l’arte, quanto rilevando anche le stesse modalità proposte dall’idealismo per l’arte antica e moderna, “simbolica” la prima ed “allegorica” la seconda, e la possibile funzione politica del fare artistico nel mondo della tecnica, attuabile più che nel suo essere ancella di valori nuovi, rivoluzionari, nel suo, si direbbe schellinghiano, carattere di libertà, rivoluzionario, “barbaro”, distruttivo, dei sistemi del senso e del potere oppressivo che vi si cela, ovvero, anticipando Derrida, nel suo carattere di destruzione, di decostruzione, onde allestire più aperte mitologie. E difatti, nel moderno, venuta meno l’idea di un principio assoluto, ideale, cui con modalità diverse, sia nell’idealismo hegeliano che schellingiano, sarebbero informate le cose, gli architetti aderiscono alla foga iconoclastica, distruttiva, nei confronti della storia, e dello spirito che l’animava, dei valori e dei sistemi del passato, propria alle cosiddette avanguardie storiche artistiche, aggiungendovi una necessità costruttiva, nel senso che la stessa tabula rasa viene da essi intesa fondamento per la costruzione di una città nuova, una società nuova ed un uomo nuovo. Il principio ideale, nell’architettura moderna, può dirsi sia stato


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quindi sostituito da un principio laico, dall’idea utopica di un nuovo sistema di valori che potesse avere, proprio come nelle riflessioni passate, l’uomo - animatore e recettore di quei valori, tale cioè da trarre da se stesso, invece che dall’assoluto, la volontà di ragione o l’ansia di libertà - al centro dell’universo, in un nuovo umanesimo, sì che essa, sebbene rivolta al soddisfacimento funzionale dei bisogni, ancora secondo le indicazioni dell’idealismo, sarebbe stata arte se avesse manifestato nelle sue applicazioni particolari la presenza di un disegno più ampio che trascendesse i suoi caratteri determinati. Più che fine dell’arte o fine dell’architettura potrebbe quindi parlarsi, dal moderno, di una architettura della fine, di una architettura rivolta ad elaborare la fine della metafisica, dell’assoluto, ipotizzando nuove ragioni, laiche ma con tratti universali, cui elevare i propri templi. Del resto tutta l’opera analitica di uno storico opportunamente distaccato dai coinvolgimenti operativi, Manfredo Tafuri, è stata tesa a rilevare il carattere ideologico del progetto contemporaneo, la sua aspirazione a sviluppare narrazioni sul mondo, interpretazioni del nostro stare alla luce del progresso tecnico-scientifico e sociale, la sua vocazione quindi ad ipotizzare nuove, terrene, divinità, teoriche, razionali, istintive, politiche, da cui far discendere il gesto inventivo, sebbene lo stesso studioso abbia mostrato come, nei maggiori architetti, nei poeti della costruzione, l’ideologia, la falsa coscienza, la volontà ad improntare ad ideali e valori il modello della città nuova, adombrasse la consapevolezza della fine, quella di ogni garanzia di verità e di ogni principio, pure terreno, il nichilismo quindi, emergente dal sapere i propri idoli infranti, dal riconoscere i propri progetti solo frammenti di un disegno destinalmente inconcluso. Ma, prima che dalle analisi, i limiti dei propositi e dei disegni moderni volti a fondare più laici universali su cui reggere il mondo sono stati resi evidenti dalle due grandi guerre e, se dopo il primo conflitto l’avanguardia artistica, con le sue diverse concezioni, tentò di ricomporre, nella ricostruzione delle città, anche un nuovo ordine, l’ulteriore fallimento manifesto nel secondo conflitto ha determinato, nell’architettura e negli architetti, accanto allo slancio teso a far rinascere i valori modernisti, a rinnovare le utopie dei maestri, l’immalinconita coscienza di muoversi tra le spoglie di un disegno definitivamente andato in frantumi, il cui rinnovamento teneva in sé stesso, nel suo essere una riedizione, il senso della ricostruzione, di un restauro incapace di recuperarne l’integrità, quello in definitiva di essere, già nella seconda metà del secolo, di là del moderno e dei suoi miti. Negli anni sessanta infatti, l’interesse verso il linguaggio, gli elementi formali di ogni modalità del conoscere, con la compiuta consapevolezza della loro separazione dalle cose verso cui si applicano, gli studi cioè tra Foucault ed Eco, la riscoperta di Saussure, già annuncia il viraggio del moderno nel postmoderno, l’incedere verso la deriva tra segni perduti ad ogni contenuto che caratterizza la fine della modernità, decretata nell’ultimo scorcio degli anni settanta, nel riconoscimento del venir meno dei grandi racconti ideologici succedutesi tra l’ottocento e la metà del novecento, da François Lyotard e Gianni Vattimo. Se, secondo l’analisi del Foucault, il moderno, che ha la sua origine nel settecento, già vive nella coscienza del divaricarsi di segni e cose, richiamati all’incontro, al senso, attraverso costruzioni ideologiche, sempre anche sistemi di potere, la caduta dei grandi racconti che avevano sostenuto le strutture della modernità, ma anche i discorsi del contropotere, messa in luce da Lyotard e Vattimo, rileva il definitivo scollamento dei segni dal reale che abbandona l’uomo in un immoto, nichilistico, baloccarsi tra i suoi insensati alfabeti. Nel secondo dopoguerra l’architettura, con la critica al funzionalismo, aveva scoperto la breccia aperta tra la forma ed i suoi significati abitativi. Nell’ultimo quarto del secolo l’agire costruttivo sembra persino smarrire le proprie ragioni tettoniche per esercitarsi in pure evoluzioni di strutture edilizie spesso private anche dei valori statici, o in mere parvenze esteriori, vuote facciate, cui è tolto ogni reale contenuto abitativo. Gli attoniti esperimenti di Robert Venturi, i cadenti prospetti dei Site, i vuoti tralicci dei Five, che con Eisenmann perdono anche le fondazioni terrene, gli onirici fantasmi di Rossi, i piani inclinati di Dardi e di Stirling, manifestano infatti, negli anni settanta, forse meglio di altre esperienze, il desiderio dell’architettura a fuggire da sé, non solo dai suoi tradizionali sensi d’abitare, quanto dal suo stesso impianto costruttivo. A ben vedere anche l’architettura di Kahn, sebbene rivolta a riscoprire antiche sapienze edificatorie, forme dense di storia e, quindi, di vita, con le sue occhiaie vuote, i suoi nuclei vacanti, sembra erigere fragili castelli di carte aperti a labirintici disorientamenti. La manifestazione che rende esplicito il carattere dell’architettura di questi anni, postmoderna oltre la definizione critica offerta da Carl Jenks nel 1977, è la mostra della Strada Novissima allestita da Portoghesi nel 1980 per la Biennale di Venezia, con l’esposizione di una serie di pure facciate elevate da architetti come Venturi, Moore, Hollein e, non a caso, Gehry e Koolhaas. Caratterizzate da segni desunti da ogni storia, le facciate appaiono voler essere fini a se stesse, aliene ad ogni contenuto, pure parvenze, mere maschere felici del loro vuoto sé, gioco superficiale privo di ogni profondità, spaziale e temporale, in una modalità che sembra tuttavia caricaturizzare il “pensiero debole” proposto da Gianni Vattimo, espressamente citato. Sia Lyotard che Vattimo infatti, messa in evidenza la caduta definitiva, propria all’età postmoderna, di ogni principio, spirituale o storico, ideale o sociale, di legittimazione dei discorsi, tale da offrire sensi conclusi ai linguaggi, rilevato il carattere delle nuove narrazioni tecnico-scientifiche nella ricchezza informativa, istantanea, che fa del soggetto, non il recettore di un disegno finalistico che lo sovrasta e lo comprende, quanto il luogo di incrocio delle


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informazioni performative, non intendono la postmodernità del tutto perduta a poteri legittimanti, sia pure individuati nella stessa contraddittorietà del dire postmoderno, ovvero, per il primo, nella “paralogie”, nell’uscita dai singoli discorsi formali per coltivare “le désir de justice et celui d’inconnu”, e nella verwindung ermeneutica, per il secondo, nell’attraversamento o, meglio, nel ricircolo, dei discorsi passati, le parole dei padri, i frantumi della storia cui si rivolge pietoso l’angelo benjaminiano, onde scoprire i possibili sensi del presente. Sebbene i caratteri “moderni” della indebolita riflessione sull’essere e dell’indebolimento dell’essere da essa diagnosticato, emergano, da un lato, nella stessa aspirazione a configurare il campo, linguistico, di applicazione del “pensiero debole” che smentisce l’idea della caduta di decisi confini narrativi, e, dall’altro, nella proposta di un incedere memorativo del pensare che manifesta la nostalgia di un essere in salute sotto la cui protezione si pone ancora la verwindung, la speculazione ermeneutica, in architettura le contraddizioni appaiono molto più grossolane. Mentre cioè Carl Jenks registra solo il nuovo fenomeno postmoderno tentando di rilevarne i connotati attraverso diverse esperienze architettoniche, Paolo Portoghesi propone lo stesso “postmodernismo” come nuova avanguardia intesa a proseguire il gioco della novità proprio alla modernità, ovvero a rilanciare la storia ed il progetto, in termini modernisti, verso l’ideologico perseguimento di un fine, l’utopia di un mondo riappacificato con il passato e con la natura, la Terra del malinteso Heidegger, interpretata come luogo di un appaesamento invece che come l’Aperto da cui trapelano anche i tratti del terribile, del conflitto, con il Mondo, e della morte. Fraintendendo l’analisi di Gianni Vattimo, cui pure si ispira, che aveva additato il tramonto della storia e dell’essere, la fine del linearismo progressivo della temporalità illuministica, il concludersi dell’ideologia nel più generale crepuscolo della metafisica, Portoghesi interpreta il Postmoderno come “fine dell’inibizione”, quella moderna nei confronti del passato, per proporre, secondo i termini dello storicismo idealista, il recupero dei segni della storia in ragione di una futura armonizzazione del mondo in cui convivano tutti le forme dei tempi, poste, in un nuovo umanismo (altro che Heidegger) nella disponibilità dell’uomo, sia pure per un vuoto narrare. Ancora secondo i termini modernisti quindi, la fine dell’arte, della sua capacità di manifestare l’ideale, si traduce nella ideologica proposizione di un fine, quello della libera circolazione dei segni, intesa da Portoghesi non come fine dello “scambio simbolico” e, quindi, quale perdita dell’oggetto, quanto come felice (ed intontita, si direbbe) ricreazione delle cose. Heidegger aveva mostrato come con Nietzsche si compia la metafisica propria al pensiero occidentale, oggettivandosi l’essere nell’übermensch, ovvero non più in figure poste dall’uomo ma nell’ente stesso assunto a principio; Portoghesi, debilitando il tratto metafisico nietzschiano, ripropone comunque l’architetto, l’artista, al centro del carosello dei segni che caratterizza il dopomoderno, nel tentativo di rilevare ancora un suo inattuale carattere demiurgico, creativo, e renderlo in realtà solo caricatura del superuomo, un frastornato Dioniso che più neppure si abbandona alla sensualità dei giochi per tentare di raccogliere i passi nomadi tra i frammenti del tempo verso sconosciute mete, sì che l’ignoto fine sia una fine insaputa. Vale a dire che il cosiddetto Postmodernismo architettonico, pur elaborando a sua volta la fine della metafisica, non raccogliendo la coscienza de la condition postmoderne che riconosce l’uomo in una gettatezza priva di sensi e fini cui far fronte con i fragili puntelli di un indebolito essere, non propone affatto, a sua volta, il far termine dell’architettura, per offrire a questa, in una concezione ancora ideologicamente “forte”, nuovi valori, comunicativi, su cui fondare un nuovo disegno, il progetto di un mondo trasparente ai segni, di cui concepisce ancora la possibilità di raggiungere le cose, asservire gli oggetti, mentre invero l’uso eclettico dei diversi stili storici, dei linguaggi noti, in un certo senso popolari, offerti ad una fruizione collettiva, manifestando l’inclinazione al consumo, rileva la mutazione del progetto sociale che sottintendeva la sperimentazione architettonica modernista nel diffuso loisir di massa proposto dalla moda e dal mercato. I suoi proseliti in realtà sono pochi, con una scarsa produzione di manufatti – oltre ai caramellosi edifici di Portoghesi, qualche più consistente intervento di Bofill, Graves, Leon Krier – e presto un tronco degli stessi invitati alla Biennale del 1980, Gehry, Eisenmann, Koolhaas, proporrà una architettura che, liberandosi, all’inverso, di tutti i segni della storia, meglio interpreterà il senso dell’eventuale, della temporalità disorientata, propria al postmodernismo. Probabilmente la diagnosi più lucida, o almeno più suggestiva, circa la mutazione del nostro vivere attuale rispetto al passato è espressa da Jean Baudrillard, così come l’atteggiamento analitico che più sembra interpretare, pure nel transfert tra analisi e mondo analizzato, il senza-fondo dei sensi della nostra realtà appare essere quello decostruttivo proposto da Jacques Derrida. Anche per l’architettura, se il pensiero di Baudrillard trova riscontri nell’opera di Jean Nouvel, mentre, seguendo la sua traccia, Mario Perniola ne rileva le analogie con quella di Libeskind, Hadid, Koolhaas, Gehry, a sua volta Derrida sembra volersi misurare con l’idea, del tutto controversa, propostagli dagli architetti Eisenmann, Tschumy, lo stesso Libeskind, di poter ritrovare nello stesso carattere necessariamente costruttivo del progetto una modalità de(co)struttiva. Oltre la concezione marxista, la lettura del capitalismo quale luogo dell’alienarsi di uomini e cose nella merce e, quindi, nel più volatile valore di scambio, Baudrillard mette in luce come la scambiabilità dei segni si fondi su termini differenziali (non c’è scambio se non tra differenti, se non con l’altro) a propria volti fondati su quelle che si direbbe siano differenze originarie, incommensurabili, di cui essi sono simbolici, quella sessuale ad


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esempio, o quella più radicale della morte, o, infine, del punto cieco, totalmente alieno, dell’origine stessa del mondo. Anche i valori, quindi, a partire dalla distinzione vero/falso, non rispondono che a tale necessità simbolica, la quale, nel mondo occidentale, nel suo culmine moderno, si è trasformata nella costruzione di sistemi chiusi di segni-valori la cui logica ha assunto il reale, disciplinando i rapporti di uomini e cose. La mutazione che distingue l’età successiva al moderno, ipermoderna più che postmoderna, è quindi legata ad una alienazione per così dire di secondo grado, determinata dalla ipertrofia della scambiabilità dei segni, propria al mondo comunicazionale-informatico, ovvero da quella del medesimo valore di scambio che ha annullato il senso della scambiabilità ed ogni valore, sia pure finzionale, di cui questa era portatrice (in una vera e propria profezia circa l’attuale crollo dei mercati finanziari) dimenticando altresì la differenza originaria, la morte persino, sublimata nella spettacolarizzazione della vita e della sua stessa fine, la cui equivalenza spettacolare rende in termini estremi l’equivalenza complessiva dei segni. L’età dei consumi è quindi l’età della “alienazione radicale”, della estraniazione della stessa estraneità a sé, o meglio dell’eliminazione dell’esserci estranei, di ogni al di là da sé e perciò di ogni alterità anche, dove non solo i processi lavorativi ed i prodotti sono reificati nella merce e nel valore più astratto dello scambio mercantile, ma tutto l’intero universo umano fatto di funzioni, pulsioni, sentimenti, viene rivolto al consumo, ovvero alla oggettivazione spettacolarizzata di modelli-segni, consumabili, in cui il più intimo sé estraniato perviene ad una grigia equivalenza, ad una piena identificazione cioè, ma come io-massa nella massa. L’ipermoderno non manca affatto di valori, come vorrebbero i nostalgici del mondo di ieri, ma essi sono così tanti da aver creato una distesa di equivalenze in cui è perduto ogni valore, con il termine differenziale, l’altro, che li poneva, e tutto concorre a formare masse consumistiche le quali alienano nel consumo bisogni e desideri. Così, ad esempio, gli istituti come il Beabourg, che fanno della cultura un modo per produrre masse, gli edifici per gli ipermercati e gli oggetti in vetrina che fanno degli stessi bisogni elementi di trasformazione dei clienti in massa consumante, i luoghi turistici che rendono il visitatore uno smarrito fruitore di massa, per cui, all’inverso che nell’analisi marxista dove si rilevava al soggetto il feticismo dell’oggetto, è invece dall’oggetto che promana la conformazione del soggetto al desiderio alienato della sua appropriazione. Di qui la “terza fase del capitalismo”, ovvero il percorso dalla strategia della libera estrinsecazione del soggetto al suo servaggio nei confronti dell’oggetto, sino alla sparizione dell’oggetto stesso, oltre che del soggetto che vi è asservito, attraverso le tecnologie informazionali e comunicative, nella immagine virtuale, posta oltre ogni finzione, ogni racconto, sostitutiva della stessa realtà, di cui attua il “delitto perfetto”. Il fine del nuovo sistema non è quindi che la sua fine, quella degli oggetti, del sé, del tempo, o della storia, trasformata nel susseguirsi di eventi, della verità, della morte stessa, soffocata nella riproduzione artificiale e nella clonazione biologica, dello spazio, divenuto ambito di una performatività immaginifica in cui si fondono e si confondono soggetto ed oggetto perduti ad ogni stanzialità e ad ogni mobilità. Fine pertanto dell’architettura, di ogni inclusione ed esclusione, in una sorta di luogo prospettico il cui fuoco sia il senza fuoco ovvero il senza fondo del nulla. “Perché il nulla piuttosto che l’essere” scrive infatti Baudrillard invertendo l’interrogazione posta all’origine del pensiero occidentale, manifestando una doppia posizione che, da un lato, rileva la fantasmizzazione, l’annullarsi del mondo, come estremo limite del controllo perfetto della realtà la quale, sostituita dalla sua immagine, è posta interamente sotto l’autorità dell’intelligenza artificiale, e, dall’altro, si lascia sedurre dalla vertigine del senzasenso che pure potrebbe valicare ogni dominio ed ogni autoritarismo. Ribaltando la critica di Heidegger al pensiero nietzschiano quale compimento della metafisica, riconoscendo cioè nell’Essere, quello stesso indebolito avvistato da Vattimo, ancora il persistere dell’aspirazione ad identificare la Verità, ovvero come sia “nella salvezza a porsi l’estremo pericolo”, Baudrillard sembra proporre una sorta di antimetafisica, o postmetafisica, del nulla, una nullità effettuale che trasforma l’übermensch da creatore di favole, capace di distogliersi dalle maschere che inventa ed indossa, in un investigatore rivolto a scorgere nelle maschere, che è obbligato ad indossare e che gli sfilano davanti, l’indizio onde individuare le dinamiche del delitto, dell’uccisione del mondo, chissà, l’assassino. Ed è forse solo per raggiungere l’estrema scoperta che si pone ancora attenzione alle opere d’arte, e d’architettura, intese non più luoghi di vita, e neppure di critica al perduto reale, quanto morti “oggetti singolari” in cui si espone il movimento delle cose, ovvero dei loro fantasmi, e quindi le tracce del nostro sopravvivere a noi. L’assimilazione delle opere di Jean Nouvel alla riflessione di Jean Baudrillard è posta proprio dall’architetto in un lungo colloquio con il filosofo dove egli, descrivendo le “strategie” del proprio progettare, mette in luce come dopo il preliminare “concetto” o “precetto”, l’idea progettuale cioè che, a partire dal luogo e dalle condizioni predeterminati, libera all’invenzione, si svolga già sul foglio una sorta di esercizio di prestidigitazione fatto di continue “deviazioni” tali da determinare l’organizzazione di spazi concreti dilazionati verso uno spazio “non leggibile … prolungamento mentale di quello che si vede”. Il gioco della “profondità di campo” dove sono messi in successione una serie di “filtri”, secondo Nouvel, deve quindi nell’opera prolungarsi senza termine, del tutto alieno, come è nel progetto per la Tête Défense, alla prospettiva albertiana, sì da perdere la coscienza dello spazio, il senso delle dimensioni, la solidità della materia, tanto che anche la costruzione non si ponga più tra


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l’osservatore e l’orizzonte, per far parte insieme dell’occhio e dello sfondo e condurre la continua “deviazione”, di sequenza in sequenza, al modo del cinema, in una spirale seduttiva, verso l’illusorio e l’immateriale, del teatro di Versailles o della fondazione Cartier, dove le immagini reali, il cielo vero, ad esempio, si mescola con la sua immagine virtuale riflessa, rendendo l’intero spazio ad una proiezione mentale. Ed è pertanto il gioco tra visibile ed invisibile, quello che Virilio individua come estetica della sparizione, a sollecitare Baudrillard, il quale legge nelle opere di Nouvel l’aspirazione, attraverso il gioco della deviazione/destabilizzazione, a sfuggire la “letteralità” della forma, per innescare piuttosto un processo di continuo annullamento della forma in una forma sempre nuova sin verso la pura superficialità del virtuale dove lo spazio si annulli sfuggendo all’uso, essendo perduta, nella nostra età, ogni coerenza tra bisogni ed oggetti. La stessa città, smarrita l’urbanità, la gerarchia degli spazi, non si offre che, virtualmente, come uno schermo su cui ci si muove secondo le diverse possibilità offerte dalla sua tastiera, dove l’architettura, con le sue infinite possibilità di forme e modelli posti nella disponibilità del progettista, priva di finalità quindi che non la loro combinatorietà, è già in questo del tutto virtuale. “Può essere chiamata ancora architettura” una tale combinazione indefinita di cose, tecniche, materie, configurazioni spaziali, si chiede allora il filosofo riferendosi al Guggeheim di Gehry, pur riconoscendo il suo essere una “meraviglia”. Il Guggenheim infatti manifesta esplicitamente il venir meno della singolarità della forma tradizionale, definita e conclusa anche nella mobilità moderna, sostituita da un flusso di forme, quasi che la sua architettura abbia la possibilità di evolversi, tradursi in altre forme, all’infinito. Ma il suo conformarsi, una istantanea presa tra le tante possibili, è dato alla libera creatività che l’architetto ha perseguito in passato per sé e gli abitanti delle sue architetture? O una tale libertà non è che una costrizione ad essere liberi, una sorta di operazionalità? Certo, “non è stato ancora inventato un edificio che metta fine a tutti gli altri edifici,… una città che metta fine a tutte le città, un pensiero che metta fine a tutti i pensieri” ed è nello iato che separa dallo stadio finale che, per il medesimo Baudrillard appare possibile agire, così come sembra accettare Jean Nouvel per il quale nel mondo dell’odierna “architettura automatica creata da architetti intercambiabili”, là dove l’architettura ha fine, rimane “l’eccezione che conferma la regola”, una architettura del tutto residuale, testimone della propria stessa fine, del nulla, che muove il vivere contemporaneo degli “encefali clonati” o dei morti viventi che siamo. (continua).

* Il presente testo è parte di un più ampio scritto di prossima pubblicazione.


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QUANDO L’ARCHITETTURA FINISCE Giacinto Cerviere

Nel 1895 l’etnologo francese Gustav Le Bon pubblica La psicologia delle Folle. Le Bon è il primo studioso ad occuparsi di una disciplina, la psicologia sociale, che cresce di pari passo con l’estensione degli agglomerati urbani divenuti velocemente metropoli. La folla nella nascente modernità passa da antico fenomeno irregimentato, militare, a forma ed espressione di masse civili che si sviluppano spontaneamente e caoticamente fino a divenire moltitudine civile organizzata. Le Bon vede davanti a sé un’era in cui l’industrializzazione provoca aggregazioni politicizzate di individui che possono cambiare il destino della civiltà. Questi coaguli multiformi di grandi masse sociali resistenti alle attività di controllo oppressivo e repressivo provenienti dal centro della città, prodotte dall’incontro di identità prima polverizzate e disseminate in zone rurali o suburbane, si materializzano all’improvviso nei luoghi pubblici centrali, nelle piazze. La piazza diviene così lo spazio urbano che plasma le folle e consente di farle espandere a dismisura tentacolarmente. Dopo essere stata agorà e Foro, dopo essere diventato luogo sociale destinato allo svago, alle parate e al commercio, la piazza dalla Rivoluzione francese si offre al grande conflitto classista. Presto diviene scenario di guerriglia su cui le idee delle masse moderne si costruiscono e da dove parte lo scontro con la “vecchia signora” che da oltre un secolo domina la città, ossia la borghesia urbana. Le decine di decorati palazzi che si affacciano sulla piazza, le spettacolari chiese, le delicate teorie di logge e fontane ricoperte di fragili opere d’arte, non servono più a stupire le folle, a mitigare la loro euforia, il loro malessere e le loro tensioni psichiche. L’arte e l’architettura borghesi sono ora in forte pericolo sotto gli attacchi generalizzati delle folle proletarie che non si fanno più affascinare da questo concentrato simbolico. Per Le Bon, da studioso, è arrivato il momento di cercare di prevederne le future azioni, soprattutto di porsi il problema di come manovrarle. Da psicologo perfetto conoscitore del suo paziente, crede che le capacità delle folle stiano nella loro forza distruttiva, esse sono inerti davanti alla possibilità di rifondare una struttura sociale. La folla è guidata dall’inconscio, dice, che è la caratteristica della creatura collettiva più che dell’individuo. Era inevitabile che i più grandi dittatori del Novecento si avvicinassero al libro di Le Bon. Lenin, Stalin, Mussolini e Hitler lessero con attenzione la sua opera cercando di comprenderne profondamente la psicologia delle masse che poi con successo avrebbero guidato per decenni. Le folle dopo la modernità non hanno conservato nulla del loro carattere psicologico. Quelle politiche si sganciano dalle istituzioni secolari (sindacati, partiti), esse non riescono più a conservare per lungo tempo forte adesione, organizzazione, autocontrollo. Le nuove folle deideologizzate, quelle delle tifoserie sportive, a causa della loro violenza incontrollabile vengono cordonate con forza e contenute a stento all’interno di stadi e stazioni. Quelle transnazionali in fuga, caotiche e imprevedibili, premono alle porte dei paesi sviluppati forando recinzioni, creando tunnel, solcando deserti o colando da navi così come da imbarcazioni di fortuna in labile equilibrio. Ultime, drammatiche e potenti, sono quelle musicali, dai Beatles a Woodstock fino alle Love Parade tra cui l’ultima spaventosa in Germania del 2010 di 1,5 milioni di persone). Non sono più le folle ad adeguarsi allo spazio fisico plastico, che le subisce e che soventemente viene raso e al loro passaggio. Sono ora la città e l’architettura ad inseguire i loro bisogni e le loro aspettative, ad essere progettate per resistere, piacere e durare il più possibile all’usura potente di queste enormi forze fisiche. Le folle, in particolare quelle nomadiche disperate, esercitano un’inaudita pressione sul territorio, sulla città e sulle sue architetture. Per il loro volto principalmente multiculturale scardinano il concetto di dominio territoriale permanente. E le architetture sfuggono sempre più al controllo statale. Se l’architettura intravvede la sua fine, questa è solo la fine di un suo ciclo. E’ l’architettura monumentale ad essere morta definitivamente. Al suo posto nasce e cresce un nuovo pensiero architettonico che si sviluppa dai bisogni primari dell’uomo. Al pari degli uccelli, anche l’uomo ha nuovamente esigenza di migrare per recuperare cibo e trovare ambienti a lui più favorevoli. Sul territorio è costretto ad inseguire i centri di produzione delle merci. Le ultime generazioni di architetti e di architetture si spostano sul globo in pochissimi anni dall’Olanda alla Spagna, dall’Inghilterra alla Cina, dal VietNam all’Indonesia fino al Kazakistan. Più che lo sforzo estetico, spesso vuoto, delle élite nazionali intellettuali borghesi, stanziali, passive, all’architettura oggi si richiede mobilità, sicurezza, alta efficienza. Per affrontare comodamente i suoi viaggi capisce che la sua bellezza deve risiedere in tali cose. Tutto questo si verifica mentre i luoghi simbolici della trasmissione del sapere continuano in gran parte ancora ad occuparsi di un’architettura che non esiste più, di un’architettura che crede nell’eternità, nella propria identità nazionale, nella sua cultura parziale, mistificatrice e felice del proprio isolamento dal reale: dell’architettura come monumento. Nessuna delle Storie dell’architettura moderna, in gran parte sviluppate in Italia, ha mai rivelato coraggiosamente un punto di vista che procedesse oltre l’originaria impostazione eurocentrica. Abbiamo dovuto


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aspettare il Major Event, come Derrida definisce l’11 settembre, per cominciare ad accorgerci di quanto le culture degli “invisibili” avessero tanto bussato invano alle porte della storia. Le ragioni per cui anche l’Italia ha escluso ogni altra istanza progettuale esterna sono state determinate dalla produzione e dal possesso incondiviso della modernità da parte dell’Occidente. E questo ha preparato le basi ad un’anti-architettura, ad un prevedibile quanto spropositato e sanguinario desiderio di distruzione delle nostre stantie politiche territoriali, urbane e architettoniche. Paradossalmente questa risposta è maturata nel Mediterraneo, a torto sempre percepito come il punto di equilibro di civiltà, mentre è sotto gli occhi di tutti che è una delle zone più turbolente e pericolose del pianeta. E’ nata in seno ai Fratelli musulmani di Sayyid Qutb, ma già presente nelle lotte per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori edili impegnati nella costruzione del Canale di Suez. Successivamente si è spostata in Medio Oriente, alimentata da un sistema economico innescato dalle grandi attività infrastrutturali in Arabia Saudita causate dall’aumento del prezzo del petrolio e fatta propria da Al Qaeda. Non è un caso che la città e l’architettura occidentali siano state elette dai terroristi islamici a privilegiati teatri di guerra atomizzata. L’Italia, nonostante la sua naturale sensibilità geopolitica, dopo le storiche divisioni ideologiche, sul piano culturale non si è impegnata a far digerire alla sua architettura attori e figure che hanno generato altri cambiamenti estetici, territoriali, sociali. Le culture extraoccidentali sono state esaminate sempre con uno sguardo post-coloniale, tradizionale, compassionevole. Il rallentamento registrato nelle politiche urbane e abitative è elevato e solo ora il Governo italiano si accorge dell’esistenza di un rischio banlieue nelle nostre grandi periferie. La nazione è sempre meno vincolata ai contesti politico-geografici d’elezione e più relazionata a quelli culturali. Sono gli ambiti culturali ora a contenere forti forme di appartenenza. Non si tratta di un nazionalismo implosivo né diffusivo. La kulturnation ora è piuttosto la sintesi dei liberi movimenti umani accelerati dall’alta tecnologia che si emancipano dal loro territorio. Il suo antico concetto, proprio di un popolo che condivide fittamente su base territoriale cultura, tradizioni, religione, architettura, è abbandonato. Di conseguenza il maggiore dei suoi simboli, il monumento, utilizzato dalle dottrine metafisiche per consolidare il sentimento nazionale, decade. I suoi valori laico-religiosi si nebulizzano tragicamente. Neppure il concetto relativista di “deterritorializzazione” si addice più a questa nuova modellazione dei fatti storici: questo è un termine che descrive una situazione di crisi, richiede un abbandono del territorio più che una sua riappropriazione concordata e limitata. L’architettura si confronta ora col post-territorio, ossia con un territorio separato da ciò che si muove al di sopra di esso e di cui può anche farne a meno stabilmente. In fondo, per certi versi, questo desiderio dell’umanità contrassegna da tempo l’architettura nelle sue visioni più radicali. Ma finora quest’aspirazione è stata relazionata solitamente a ragioni etiche: densificazione, consumo di suolo, sovrappopolazione mondiale, inquinamento. Anche se in modo timido, sia la progettazione che la costruzione sul mare di comunità (come su terre sottratte al mare) hanno spesso eluso o sfidato il controllo statale centralistico diventando fatto politico. E’ ormai indubitabile che l’alta tecnologia ci consentirà di separarci dal territorio procedendo anche nel mare e nello spazio aereo. Le macroutopie di Atlantropa (Sörgel), Ville Volante (Kroutikov); Marine City (Kitutake), Paris Spatial (Yona Friedman), Habakkuk (Pyke), Spatiovore (Constant), Walking City (Archigram) sono servite come grandi narrazioni “letterarie” anticipatrici del futuro. Ma l’architettura post-territoriale è il passo ulteriore, è l’esempio compiuto, capillare, anonimo. Essa richiede la formazione di una forte vicinanza umana d’intenti spirituale e non più necessariamente spaziale. La perdita di orientamento sarà relativa. Se il territorio non rientrerà più nell’idea di possesso dello stato-nazione, muterà in una libera, infinita, infrastruttura terziaria di movimento. Saranno disinnescate le guerre tra popoli. Il concetto stesso di popolo, inteso come massa umana compatta, non esisterà più. Continuerà a permanere quello di folla definita in un armonico, cangiante, sciame multiforme organizzato distribuito cineticamente sul pianeta. Se sorgeranno tirannie velocemente saranno sconfitte, i loro imperi saranno svuotati dalla presenza umana rapidamente in fuga verso altre estensioni terrestri o extraterrestri.


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UN'ARCHITETTURA SENZA FINE Claudio Roseti

E’ chiaramente rileggibile nel tema assegnato a questo numero di “Bloom” un’allusione provocatoria che chiama palesemente in causa il recente testo di Vittorio Gregotti Contro la fine dell’architettura (Milano, Einaudi, 2008) cui poi è seguito, nell’aprile 2010, Tre forme di architettura mancata, praticamente la continuazione del primo con lo stesso formato, lo stesso editing e lo stesso genere di contenuti. Recita infatti l’iscrizione nella prima pagina di copertina “Tra omogeneità globalizzata e stramberia postmoderna, la schizofrenia dell’estetica contemporanea rischia seriamente di distruggere un’antichissima pratica artistica come l’architettura.” E nell’ultima di copertina Gregotti “vede nell’apparente trionfo di un certo modo di fare architettura alcuni pericoli, sia per la pratica artistica di per se stessa, sia per i riflessi che essa ha sulla realtà del mondo in cui viviamo. Questi pericoli discendono da tre rinunce, tre forme di architettura mancata: ‘la rinuncia al disegno di modificazione del presente come progetto di confronto critico col contesto, la rinuncia alla capacità di vedere piccolo, con precisione, tra le cose, e la rinuncia alla durata dell’opera di architettura come metafora di eternità.’” In questi due libri Gregotti, con dei ragionamenti molto sottili, a volte anche sofisticati e velati da un certo ermetismo, enuncia i crismi di quella che dev’essere la vera architettura. Personalmente ho molto stima di Vittorio Gregotti che ritengo uno dei più grandi architetti italiani, studioso e accademico di elevata caratura a scala internazionale e non ho pressoché nulla da eccepire sul modello di architettura raffigurato in questi due libri, se non che un’architettura di questo tipo, che ottemperi a tutte le qualità enumerate da Gregotti, non è certo facile da progettare e realizzare e probabilmente non sono molti gli architetti al mondo che ne hanno la capacità. Meno apprezzabile è però l’esclusività, l’elitarietà e l’assolutismo che connotano le teorie di Gregotti. Un tale atteggiamento, palesemente censorio, talvolta un po’ polemico e, devo dire, anche manicheo, non può che far pensare che ritenga tutta l’altra architettura, ovvero tutto ciò che non corrisponde al suo modello ideale, praticamente inesistente. Non sarebbe architettura. E perciò rarefacendosi i cultori e gli adepti di questa categoria sarebbe la fine dell'architettura. Come già accennato ho sempre apprezzato e praticato (sono di una sola generazione posteriore a quella di Gregotti) quest’architettura fino a una quindicina di anni fa quando poi ho iniziato ad interessarmi da vicino ad altre correnti anche se pur sempre assumendone i caratteri con moderazione, filtrandoli attraverso la mia cultura di base, pressoché collocabile nel “moderno classico”, se mi si consente quest'aporia, ma sempre aperto verso l’avanzamento, l’evoluzione, il progresso che compete ad ogni disciplina nel tempo. E pertanto su questo rigido determinismo non posso essere d’accordo, giacché esistono diversi tipi di architettura contemporanea che sono peraltro architettura a pieno titolo, che è quella che poi l’utenza attuale apprezza maggiormente perché al passo con i tempi che sono molto cambiati di recente e si deve comunque pur sempre considerare che siamo immersi nel mare dell’opinabilità e ci troviamo di fronte ad una disciplina complessa e plurivoca che è anche arte e pertanto ancor meno giudicabile obiettivamente. Ma Gregotti ha affermato in più circostanze, che l’architettura deve esprimere il proprio tempo e i rispettivi luoghi, pertanto non si può che confermare che Gregotti esalti prevalentemente l’architettura che lui stesso progetta; con un atteggiamento certamente prevedibile e tutto sommato comprensibile (se pure non condiviso) trattandosi di uno dei più significativi rappresentanti di quest’architettura. Nonostante tutto permane però inaccettabile considerare tutto il resto come “non architettura” ovvero “architettura mercato” quando invece sappiamo tutti che l’arte visiva per la sua interpretabilità, citata pocanzi, non ammette ormai da tempo un “bello ideale” universalmente riconosciuto e condiviso, mentre vi sono (archistar a parte) molte poetiche individuali che producono anche buona architettura che non si può non considerare tale accettando la pluralità di tendenze, di correnti, di stili, cosa che d’altra parte corrisponde al pluralismo della società attuale (che Gregotti ha definito “postsociale”). Bisogna tener presente inoltre che si sta parlando di personaggi di caratura mondiale: per la bigness, Rem Koolhaas (che ha scritto anche un libro sull'argomento, il famoso S,M,L,XL; per la spettacolarizzazione, Frank O. Gehry; per l’originale interpretazione del neoespressionismo (e non solo), Daniel Libeskind e per la processualità, il testualismo, il decostruzionismo, lo spacing, la piega deleuziana, Peter Eisenman, considerato tra i più grandi architetti del mondo, e ce ne sono molti altri che si potrebbero citare. Pertanto in questa breve analisi si cercherà di individuare sia i temi cruciali, oggetto della severa critica gregottiana, sia i rispettivi punti di forza delle tesi di tendenze diverse, col risultato (spero) di fare utilmente il punto sulla condizione attuale dell’architettura, sia pure in forma molto sintetica e parziale. Gran parte delle varie tendenze attaccate da Gregotti sono comprese da questi entro il “neoavanguardismo di


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consumo”, il “mutamento incessante” conseguenza della “moda del culto dell’immagine” che ha indotto la ricerca di spettacolarizzazione dell’architettura e la nascita delle “archistar” mentre il disegno, quello vero, fatto con le proprie mani (e, direi, anche col cuore) sta scomparendo bypassato dal CAD, di cui Gregotti ammette tuttavia i vantaggi economici e temporali, mentre il nuovo come tale è divenuto l’obiettivo principale di ogni progettista. Bisogna annotare tuttavia che, come già detto, la società è cambiata e sta ancora cambiando, ma tutto si è trasformato sensibilmente in questi ultimi decenni e, da quando l’uomo è sbarcato sulla luna, nulla più sembra impossibile. Nella terza città, la città diffusa, velocità, mobilità e attraversamenti sono i nuovi simboli dove il medium, costituito dallo schermo del computer, è l’interfaccia del rapporto tra soggetto e oggetto. Tutto galleggia in un etere elettronico dove le dimensioni sono annullate nella dimensione istantanea della temporalità digitale, dove ogni luogo equivale a nessun luogo ed a tale aporetico rapporto corrisponde per contro una “topologia elettronica” della quale tutto lo spazio è partecipe, dove “tutto è già presente” tutto arriva senza neppure partire “e l’arrivo soppianta la partenza”1. In questa temperie, che certo non cesserà mai di sorprenderci, confermare strenuamente l’architettura del secolo scorso escludendo tutto il resto non mi pare facilmente accettabile ovvero, come già accennato, si può ammettere una sorta di architettura “primaria”, non paragonabile a tutte le altre, ma in realtà è corretta e giustificata questa specie di graduatoria che andrebbe invece sottoposta ad un giudizio più allargato. Partendo dalla definizione di architettura data da Gregotti vediamo che questa disciplina “ha a che fare con i problemi della costruzione e dell’uso, lavora, cioè, all’interno del recinto disciplinare della morfologia e della tettonica, ed è, diversamente da altre arti, collocata, nel suo farsi, sul crinale tra discipline diverse, frutto di collaborazioni complesse nelle ragioni empiriche e tecniche non meno di quelle ideali del suo costituirsi. E’ caratterizzata da lunghi tempi di realizzazione e da un tempo separato, relativamente autonomo del progetto. I suoi confini territoriali sono ovviamente variabili nel tempo e nelle occasioni, ma comunque sempre connessi a un proprio punto interno pur nella variabile relazione tra fatti e intenzionalità”2. E sempre a questo proposito aggiunge Gregotti che: “Va ricordato, poi, che l’architettura si è congiunta e ha attraversato in vari modi nella storia in modo speciale i materiali delle arti visive, decorative e applicate e in generale di quelle che attengono alla cultura materiale. Inoltre, come ho già ricordato, anche le scienze e in particolare la matematica e la geometria sono state per secoli materiali portanti e di verifica estetica per la pratica artistica dell’architettura non meno dei contenuti della politica, della religione e dei mezzi tecnici della costruzione. (...) Ogni tecnica, però, non dobbiamo dimenticarlo, trascina con sé il senso storico della sua stessa costituzione e da questo punto di vista, e solo da questo, si fa anche, oltre che mezzo efficace, materiale dell’opera architettonica.” Configurata l’architettura Gregotti passa a citare i malesseri che affliggono oggi l’architettura, in gran parte derivati dal consumismo imperante e dalla schi-zofrenia della comunicazione totalizzatrice3. “Questo universo preme sul territorio dell’architettura, ne influenza la stessa condizione di produzione, allo stesso modo in cui oggi l’universo del con-sumo ha cambiato radicalmente il carattere delle pratiche artistiche tentando di farle coincidere con la nozione di comunicazione che ne è invece solo una componente.”4 Gregotti introduce infine quella che costituisce la componente più particolare dell’ars architectonica che ne viene segnatamente caratterizzata, la costruzione: “E’ qui necessario ovviamente distinguere il fare come produzione dal fare come ricerca della qualità e del suo senso, che è essenza delle pratiche artistiche. Non si dà musica senza suono (anche nel caso della sua apparente negazione come in Cage), né letteratura senza parole, anche nel limite del balbettio negazionista del dadaismo, così non si dà architettura senza costruzione e abitabilità, effettuale o possibile. Inoltre non si dà musica senza ascoltatore, letteratura senza lettore, architettura senza lo sguardo dell’abitante.”5 Continuando ad esaminare ora i principali obiettivi della critica gregottiana si evidenzia quella che è la causa della “mutazione incessante” e della ricerca ossessiva del nuovo, che è induzione della moda di cui tuttavia Gregotti dà una bella definizione nel secondo libro. Partendo dalla nozione di “memoria, un tempo memoria collettiva in quanto referente della costruzione del monumento, oscilla oggi invece in modo contraddittorio” e afferma quindi Gregotti “Si tratta peraltro di una funzione strutturale della nozione di moda che, come ha ben scritto Georg Simmel un secolo fa, è il punto di convergenza tra bisogno di coesione e quello di differenziazione. Tra il fascino dell’imitare e quello di distinguersi.”6 1

W. Mitchell, “Agorà elettroniche”, in “Casabella” n. 668, p.74. V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Torino Einaudi, 2008, p.104. 3 Ibidem, pp.104-105. 4 Ibidem, p.105. 5 Ibidem, pp.106-107. 6 V. Gregotti, Tre forme di architettura mancata, Torino, Einaudi, 2010, p. 99. 2


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Sui temi essenziali del disegno come progetto, dell’invenzione e della creatività, Gregotti non perde l’occasione per definire il rendering “una forma orribilmente iperrealistica e omogeneizzante” pur riconoscendo al disegno elettronico gli enormi vantaggi tecnici, temporali ed economici ed anche se tutto ciò consegue sempre più “lo smarrimento della capacità del disegno come relazione diretta tra segno, braccio e mente e con la perdita della possibilità di progettare per approssimazioni successive, carattere strutturale di ogni processo progettuale, non solo delle pratiche artistiche. Tutto questo dovrebbe porre su nuovi fondamenti anche i linguaggi di rap-presentazione che possono poggiare sul rispecchiamento (come di fatto avviene) o sulla costituzione di una distanza critica, alla ricerca di un nuovo senso del disegno (come non avviene).”7 Ciò non avviene perché quello che chiede Gregotti, che parametra tutto sulle sue capacità, la sua esperienza, la sua cultura, non è cosa da poco; dare un nuovo senso al disegno lo possono fare i veri maestri che, naturalmente, non sono moltissimi. Ma c’è ancora da considerare il doppio ruolo del disegno progettuale che è strumento da interpretare nel suo “valore figurativo indipendente, che è comunque altro rispetto ai fini dell’opera compiuta anche se dovrebbe cercare di anticiparne il senso.”8 In effetti il disegno non è solo del progetto materiale ma anche di cose astratte, di pensiero, significando al tempo stesso programmazione di propositi, di insiemi di concetti, di idee, di progetti di qualunque genere, rileva Gregotti che però denuncia la deformazione operata dalla traduzione in design che, nato per definire il disegno industriale, è stato radicalmente trasformato dal culto dell’immagine connesso al consumo al punto che non è più possibile riattrezzare la cultura del disegno come “pratica artistica”, poiché “Oggetto del design è diventato il suo aspetto comunicativo (...) La centralità dei mezzi mediatici nell’economia e l’immagine di massa ne sono componenti essenziali. L’informazione manipolata vale assai di più dell’oggetto prodotto: quindi non più il capitale manipolato al punto di diventare immagine ma ‘l’immagine accumulata al punto di diventare capitale’ e il pensiero ridotto a convenienza. Quindi non è più possibile riattrezzare la cultura del disegno dell’oggetto come spazio di pratica artistica. Qualsiasi azione culturale è fatalmente riassorbita dal sistema in quanto forma di promozione.”9 Per quanto affermato a questo punto da Gregotti è giusto e dà da pensare che sta all'operatore il gestire l'arte e il marketing in modo paritetico o, comunque equilibrato; anzi il bravo architetto prende spunto da un vincolo per un suo scatto d'invenzione (la creatività) facendo sempre, come si dice, “di necessità virtù”. Si deve ancora annotare come il termine inflazionato di design ha avuto diverse significazioni; tra cui l’attribuzione di “creatività”, che un tempo era attributo prevalentemente divino, e che poi è divenuto “un vocabolo di uso corrente quasi a definire ogni attività intellettuale o professionale che produca idee, invenzioni, trasformi percorsi come soluzioni di problemi sovente applicati a questioni contingenti, a interessi di mercato, con durate limitate o addirittura fluide.”10 Ma la creatività pertiene anche il campo delle tecnoscienze dove alla creatività individuale si affiancano l’innovazione, quale organizzazione collettiva, ma bisogna tener presente che vi sono delle differenze tra la creatività scientifica e quella in campo artistico. Ma a questo proposito Gregotti denuncia una carenza di “pensiero critico” tanto che il “solo giudice attendibile sembra essere diventato il mercato.”11 Ovviamente vi sono differenze notevoli tra il campo scientifico e quello artistico: “La scoperta scientifica è connessa all’idea di progresso, di superamento, di spiegazione migliore dei fenomeni e ha come scopo quello di superarsi. La creatività dell’arte costruisce cose che non propongono progressi ma frammenti di verità. Inoltre le opere dell’arte hanno la capacità di suscitare, da parte di chi ne usufruisce e a partire da ogni presente, interpretazioni continuamente diverse.”12 E qui Gregotti conferma quanto io ho enunciato in questa sede su arte e interpretazione. Concludo infine questa mia analisi con un recupero operato da Gregotti nei confronti di J. Derrida (che è da oltre quindici anni un mio importantissimo riferimento13) di cui Gregotti nel primo libro aveva criticato un po’ severamente il disinteresse fisico per la costruzione dell’architettura. Mi ha fatto piacere che lo abbia richiamato in causa nel secondo testo proprio sul tema della creatività, ma questa volta con un giudizio positivo. Riporta 7

Ibidem, p. 30. Ibidem, p. 31. 9 Ibidem, p. 33. 10 Ibidem, p. 35. 11 Ibidem, p. 34. 12 Ibidem, p. 37 13 Sul rapporto filosofia/architettura instaurato da Derrida le cui teorie, come molti sapran-no, ho scritto due libri. Del primo La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell'architettura (Roma, Gangemi, 1988) esaurito da anni mi è stato chiesto dall’editore la seconda edizione o la ristampa. Il secondo è intitolato eloquentemente La decostruzione e il decostruttivismo vent'anni dopo. Bilancio critico e prospettive (Reggio Calabria, Centro Stampa d'Ateneo, 2007). 8


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quindi Gregotti il pensiero derridiano sull'argomento: “L’invenzione non crea un’esistenza o un mondo come insieme di esistenti, non ha il senso teologico di una creazione dell’esistenza come tale, ex nihilo. Scopre per la prima volta, svela ciò che già si trovava lì, o produce ciò che, in quanto téchne, certo non si trovava lì ma non per questo viene creato, nel senso forte della parola, ma soltanto congegnato, a partire da una riserva di elementi esistenti e disponibili, in una determinata configurazione.” E Gregotti prosegue nel recupero del pensiero derridiano segnalando la vera portata del suo operato: “forse è venuto il tempo di rendere giustizia a cosa significhi per la nostra disciplina il pensiero di Derrida tanto male utilizzato dagli architetti. Bisognerebbe cercare cioè di riflettere ancora su cosa di esso possiamo utilizzare come insegnamento per ridare un disegno alla nostra intera disciplina anche oggi; sia pure perdendo, con sacrificio, una parte della ricchezza di quel discorso. A più di vent’anni di distanza bisogna però ammettere che ciò che è rimasto dell’influenza dell’avventura culturale del decostruzionismo che si è occupato anche di architettura, è stato un immenso inutile spreco, proprio di quel disegno che, secondo Derrida, ne costituiva il travestimento ma anche l’inevitabile materiale da far confliggere per mezzo della decostruzione come interrogazione proprio intorno alla creatività e alle sue convenzioni.”14 E visto l’atteggiamento di Gregotti verso J. Derrida mi pare opportuno riportate una “parabola” di questo grande filosofo che ha attinenza con queste riflessioni specie per quanto riguarda il determinismo e l’assolutismo che J. Derrida depreca segnalando la pura occidentalità di tali atteggiamenti che risultano pressoché basati sul solo principio fondato sulle opposizioni dialettiche, dove il primo termine è positivo e il secondo negativo: vero/falso; bello/brutto; naturale/artificiale, ecc. Derrida, il cui pensiero, definito in USA come postruttualismo, ha avuto grande successo e molti consensi e proseliti, porta come esempio opposto, il pensiero orientale che è capace di vedere la cosa in tre modi: e o non è (come l’occidente) è, e non è; ne é, ne non è.15 Le mie conclusioni sono lineari e sequenziali. Se l’architettura definita da Gregotti non appare più con frequenza è inutile osteggiare i fautori di un’architettura diversa, giacché sempre di architettura si tratta, e per di più quella corrispondente a questa temperie globalizzante, telematica, spettacolare, qualità che non sono poi così negative, né si può, io penso, denigrarla, ostacolarla o combatterla ma piuttosto, più costruttivamente, più democraticamente e più proficuamente assecondarla partecipandovi con l’intento di dare un apporto fattivo, di moderare gli eccessi di spettacolarità o di bigness o altro incentivando quello che c’è di positivo, di accettabile, dando indicazioni per migliorare l'architettura, che sono riconducibili a quanto espresso in questi due ultimi libri di Gregotti, benché il commento sia negativo. Poiché ostacolare il progredire delle cose non è giusto, non è pagante mentre invece tentare di modificare gli aspetti deteriori, che non ritengo siano poi tanti, anche attraverso quest’analisi, giacché penso anch'io che una dote importante dell’architettura sia rappresentare adeguatamente il proprio tempo. Piuttosto che condannare questa arte/scienza, questa espressione che non potrà mai scomparire, a onta di qualunque previsione di qualsivoglia “mostro sacro” dell’architettura e che, sono fermamente convinto, non potrà che migliorare perché l’uomo (grazie a Dio) progredisce sempre, si evolve di continuo e, infine, l’architettura nelle sue molteplici forme non potrà mai morire perché è arte, è scienza, è vita, è mondo.

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Ibidem, pp. 38-39. Cfr. La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e forma dell'architettura di C. Roseti (Roma, Gangemi, 1998) p. 24, da Ann Van Sevenant La decostruzione e Derrida in “Aesthetica Preprint” n. 36, 1992. 15


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FINE DELL’ARCHITETTURA O FINE DEI VALORI Tomaso Garigliano

Le diverse dichiarazioni circa “la fine dell’architettura”, da La Cecla allo stesso Koolhaas, incuriosiscono lasciando supporre che esista un inizio della pratica architettonica alla quale seguirebbe l’attuale far termine, di cui sono gli architetti stessi a individuare il luogo. La fine dell’architettura è probabilmente, invece, un evento continuo: ogni volta che vi sono grandi cambiamenti e stravolgimenti dal punto di vista tecnologico, nella storia dell’uomo, si è perso di vista il contesto in cui si stava operando e si sono subite violente scosse di assestamento, dapprima osteggiate dai reazionari di tutti i campi, compreso quello architettonico, per poi, al depositarsi graduale delle polveri, rendersi conto che l’architettura è ancora lì, sempre davanti, e dietro di noi, rinata dalla crisalide e arricchita di nuove caratteristiche più al passo con i tempi, lasciando invece il guscio vuoto delle obsolete pratiche da riporre rispettosamente nel museo. Se si deve individuare una fine dell’architettura, quindi, più che cercare nei nuovi mezzi (digitali), il motivo dell’eventuale concludersi della sua pratica storica, dal momento che i mezzi sono sempre mutati nel corso del tempo, sarebbe forse più corretto guardare al movente, ai contenuti d’abitare che essa, sembra, non riesca più a circoscrivere. E tuttavia, solo quando il costruire non avrà più senso e più non servirà all’uomo potrà dirsi che la sua fine sarà sopraggiunta; mentre, finché chi si dedica al progetto, qualsiasi siano i suoi mezzi, terrà vivo il movente sociale, il senso dell’architettura, probabilmente, non si perderà. Chi paventa la fine dell’architettura è, a mio avviso, mosso da tre tipi di equivoci, tutti e tre in parte accettabili, ma che dovrebbero essere affrontati e approfonditi con atteggiamento di inclusione più che di rigidezza e rifiuto, sapendo distinguere tra progresso e degenerazione. Il primo è quello espresso da chi è colto dal rifiuto o dallo smarrimento di fronte ai media digitali, affermando che questi ultimi negano la poetica della matericità e il gioco sapiente dei volumi sotto la luce. Altro tipo di allarme viene da chi, forse giustamente, pone una questione morale, affermando che alcune committenze, oggi, non hanno più come obiettivo l’abitare e il bene della collettività, bensì il profitto, com’è avvenuto in un continuo crescendo, in questi ultimi anni di industrializzazione. Il terzo tipo di equivoco riguarda un fenomeno oggi molto dibattuto, ossia il ribaltamento dell’attenzione degli architetti dall’abitare interno con la sua funzionalità a vantaggio dello spazio pubblico esterno (e al di là di ogni luogo reale come è ad esempio nel mondo virtuale) agli edifici, nuovo terreno di conquista dei media, delle reti telematiche e dei flussi della mobilità, sebbene anche luogo dell’abitare collettivo. Vittorio Gregotti nel suo libro Contro la fine dell’Architettura mette in luce come l’architettura patinata di oggi, fondata sulla comunicazione, sia comunque già in crisi, così come l’economia, in quanto, allo stesso modo di questa, si nutre di se stessa. Anch’essa ha perso di vista i suoi obiettivi, e soprattutto si dimostra impotente di fronte alle richieste di un mercato non legato alle necessità dei cittadini e sempre di più rivolto alla creazione di luoghi da consumare, anche attraverso i media, invece di essere veramente abitati. Gregotti sembra attaccare in particolare l’eccesso di comunicazione che, a suo dire, avrebbe messo in crisi i caratteri tradizionali della disciplina tracciati nel dibattito progressista delle avanguardie. L’impiego esorbitante dei mezzi comunicazionali e lo stesso edificare rivolto esclusivamente ad un comunicare puro, un mero esternare se stesso, avrebbe creato una sovraesposizione dell’immagine architettonica, per cui «… Il nuovo diventa novità e abbandona ogni pretesa fondativa di costituzione di differenze. Tutto è sostanzialmente fermo pur nell’incessante turbinio delle proposte, fermo in un tempo che si pretende senza storia». Ma in realtà, forse, ad essere in questione, più che i mezzi comunicazionali, è proprio l’assenza di un vero movente al progettare, nel senso che l’architetto non sa più per chi o per cosa o perché progetta, dal momento che gli stessi contenuti d’uso e sociali che caratterizzavano la disciplina, oggi sono in gran parte assolti o, comunque, non più necessariamente affidati alla forma architettonica. Per questo, la cosiddetta morte dell’architettura non sembra determinarsi quindi nella fine della sua realtà “solida” o “materica”, come vorrebbero molti osservatori alla maniera di Gregotti, nella fine cioè della poetica dei materiali tradizionali, con la loro “liquefazione”, o il loro arrendersi all’effimero, tanto più che gli stessi termini del dibattito sono, in definitiva, garanzia della vita del costruire descrivendone lo stato di salute. Molti architetti oggi si concentrano sulle potenzialità comunicative dell’architettura, poiché, secondo quanto spiega il curatore dell’ultima biennale di architettura Aaron Betsky, sembra che sia proprio la comunicazione il territorio in cui fare nuove scoperte sociali. Fondamentale appare allora il tentare di comprendere le possibili finalità dell’architettura, dall’interno dei suoi nuovi mezzi che, necessariamente, evolvono. Vale a dire che, comunque essi siano, “tradizionali” o digitali, probabilmente, rimane fondamentale che l’architettura recuperi un senso oltre le logiche del consumo – e quello comunicazionale è in fondo analogo a quello funzionale - che pure


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lo investono. Sempre secondo Gregotti, ciò che sembra infatti cruciale, nell’attuale incapacità a costruire distanze critiche da cui estrarre indicazioni alternative ad una realtà che ci fagocita oltre ogni consapevolezza, è l’attuale “avanguardismo consumistico”, il quale ha cancellato buona parte dei valori critici delle avanguardie dei primi decenni dello scorso secolo e rovesciato il senso della loro “faticosa”, quanto “dolorosa rottura delle regole”, la quale, diffusasi in senso tecnico, è divenuta la prima legge del “mercato dell’arte postsociale”. Sembrerebbe pertanto, alla luce di queste osservazioni, che l’eventualità per l’architettura di pervenire a nuova vita si fondi nella nostalgica riproposizione dei contenuti delle esperienze passate o, almeno, del loro atteggiamento critico, quasi che la questione sia, secondo una accezione in voga, di natura “morale”. Così come la ricchezza dei paesi affluenti, con le sue perversioni finanziarie, si fonda sulla povertà dei paesi terzi, può ritenersi infatti che anche l’eccessiva offerta dei paesi sviluppati nel mercato delle costruzioni non si adegui alle reali esigenze dei popoli, creando inutili mostri architettonici, ad Abu Dhabi o Dubai, utili solo ad un gonfiato consumo che tende ad incrementare esclusivamente la ricchezza dei centri di investimento Real Estate. E tuttavia, sebbene tutto questo sia vero, Gregotti (preso qui solo ad esempio di un atteggiamento per così dire di sospetto di fronte ai nuovi dispositivi produttivi mediante gli strumenti comunicazionali), analizzando l’architettura contemporanea, si trova ad enunciare tesi contraddittorie: da un lato sembra rilevare nella digitalizzazione qualcosa di estraneo all’architettura, dall’altro ammette la multidisciplinarità del suo fare, e questo sulla base delle convinzioni di molti progettisti di successo per i quali la fuoriuscita dal proprio campo manifesta una espansione della “creatività” pure «nel vuoto di un nuovo senza necessità». Egli parla quindi di superamento della distinzione tra la scienza e l’arte, che nell’architettura si fondono insieme, per poi stigmatizzare gli eccessi della comunicazione nelle nuove opere architettoniche, quasi vi sia una misura prestabilita da non oltrepassare e si possa definire il limite oltre il quale la comunicazione sia fine a se stessa e non serva al progetto. C’è forse un limite oltre il quale l’oggetto di architettura si muta in mera arte decretando la propria fine? In realtà se c’è una fine dell’architettura questa consegue maggiormente dalla produzione di oggetti architettonici privi d’abitare, privi cioè di fini abitativi che non dall’ibridazione del costruire con i media moderni i quali, al contrario, contribuiscono ad arricchire di contenuti sia la disciplina che il dibattito contemporaneo sulle sue potenzialità. Ma anche sul tema dell’abitare appare necessario intendersi. Comunemente la finalità abitativa è il discrimine che segna il solco tra arte e architettura. Il graduale allontanamento da questo compito è quindi uno dei capi d’accusa per l’imputazione delle cosiddette Archistar nel tribunale della cultura architettonica. Essi cioè sono spesso accusati di produrre architetture da consumare, senza tenere in considerazione il tema fondativo dell’architettura o per così dire il suo più vero movente. E molte Archistar in verità oggi concentrano i loro sforzi nel progettare architetture comunicanti lasciando spesso in secondo piano la ricerca sull’abitare, a detta di Aaron Betsky, ormai affidato a meri diagrammi o a normative edilizie. In realtà la subordinazione della funzionalità a favore del ruolo rappresentativo della costruzione, in molti autori contemporanei, è dovuta a un diverso modo di intendere l’abitare che li conduce ad un approccio al progetto in una interpretazione dell’edificio come vis à vis dello spazio pubblico oltre il funzionamento ed il confort interno. Secondo Koolhaas, ad esempio, lo scollamento dell’interno dall’esterno, che egli chiama Lobotomia, è dovuto a un accresciuto interesse per lo spazio urbano e ciò che vi avviene, i flussi cioè in esso presenti tra le quinte che lo compongono. Di qui l’aspetto predominante della forma esterna, la pelle, in un approccio quasi indifferente alle conseguenze che il progetto determina all’interno, sconfessando la progettazione dall’interno verso l’esterno, che ha caratterizzato il procedimento progettuale per il Razionalismo e, generalmente, per il cosiddetto Movimento Moderno. La progettazione delle quinte che si offrono alla rappresentazione sociale, però, non è nuova, ed ha anzi caratterizzato quasi tutta la storia dell’architettura, dall’antichità al Rinascimento sino all’eclettismo ottocentesco, per poi interrompersi durante il periodo razionalista e riprendere con provocatoria veemenza con il Postmodernismo. E’ quindi, forse, ancora l’amnesia modernista della storia, a motivare l’attacco alla nuova architettura occupata a ritrovare valore all’aspetto esterno, spesso considerata fuori-contesto o “calata dall’alto”, autoreferenziale, nel non riconoscimento della sua volontà di operare una risignificazione dei luoghi. Del resto, sul tema della risemantizzazione dello spazio d’uso collettivo, già negli anni settanta, il gruppo Archigram ha stimolato un acceso dibattito. L’esperienza pop delle Instant City, ad esempio, tentava di suggerire all’architettura la possibilità di irradiare influenze comportamentali nello spazio pubblico, soprattutto attraverso contrasti formali che generassero aspirazioni di cambiamento culturale e sociale. Soprattutto in un tempo come il nostro, in cui le reti comunicative acquisiscono un’importanza cruciale per il loro crescente uso nella vita quotidiana, non può che essere il misurarsi con la” rete” urbana, territoriale, in una parola, lo spazio esterno, ad offrire all’architettura ancora un ruolo sociale, e diremmo politico-educativo, attraverso cioè la sintassi del disegno esposto al pubblico, piuttosto che all’interno degli edifici. Le Plug - in City, sempre degli Archigram, furono infatti proprio concepite come architetture insediate in un ambiente già posturbano bisognoso di rivitalizzazione al fine di diramare stimoli creativi da sviluppare nello spazio circostante. E’ allora tale potere evocativo di una possibile nuova socializzazione, posta,


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oltre il consumo, in un creativismo collettivo, che può essere proprio all’architettura negandone la morte, tale da potersi porre persino come movente etico, aspirazione a quella stessa più libera realtà di cui parla Gregotti. Certo, la fine dell’architettura può riconoscersi nella deriva cinica del gioco delle forme indotte dai nuovi mezzi comunicativi e dalla stessa comunicazionalità esteriore della forma architettonica. Ma è altresì vero che il costruire può acquisire un nuovo ruolo sociale solo attraverso la sapiente immaginazione che oggi fruisce dei media, per rivolgersi ancora al miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo garanzia anche della propria salute.



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FRAMMENTI PER UN DISCORSO FUNEBRE L'architettura come lavoro di lutto* Georges Teyssot

Dai parchi, ai musei, ai cimiteri: la nostra peregrinazione attraverso le scritture del mito - un percorso attraverso mitografie architettoniche approda al luogo oscuro della memoria e dell'oblio, per eccellenza. Nel “cominciamento”, le architetture sono state erette per ospitare il soggiorno degli dei e dei morti. Oggi, mentre siamo confrontati all’imbalsamazione del nostro ambiente, al paradossale progetto della sua totale conservazione, può essere utile interrogarsi sull'op'era architettonica e lo spazio della morte. Un’osservazione di Ernst Jünger, apparsa nel suo secondo Diario parigino, può servirci da introduzione: “Il nostro attaccamento ai musei corrisponde, a un livello minore, al culto egizio dei morti. Ciò che da loro è mummia dell'immagine umana è da noi mummificazione della cultura; e ciò che è per loro angoscia metafisica, è per noi angoscia storica: non vedere la nostra espressione magica dissolversi nella nostra lucidità crescente - tale è la nostra preoccupazione”. Nascita del cimitero moderno Atto unico. I personaggi sono quelli delle Affinità elettive: sulla scena si svolge una discussione sulle trasformazioni operate nel cimitero, eseguite per ordine di Carlotta. Tutte le lapidi, ormai rovinate dal tempo e abbandonate in uno spiacevole disordine, erano state rimosse dalla loro sede e avevano trovato posto sulla parete lungo lo zoccolo della chiesa. Lo spazio, reso così libero, venne spianato e seminato per formare un prato verde cosparso di fiori. La riforma prevedeva inoltre che le nuove sepolture fossero disposte in terra, ma poi il luogo doveva essere livellato e similmente seminato. Tale sistemazione nuova imponeva agli abitanti del villaggio un cambiamento negli elisi e richiedeva una mutazione di mentalità che non poté che incontrare resistenze. A molti dispiaceva che si levasse l’indicazione del luogo dove giacevano i loro parenti. In effetti, pur se restaurate e conservate, le lastre indicavano ancora chi era stato sepolto, ma non più dove fosse sepolto, e proprio questo dove era l'importante, così perlomeno molti affermavano. E’curioso notare come Goethe riproponga l’antica soluzione del Campo Santo e del Campo dei Morti, introdotta in Occidente fin dal XII secolo. Quando fu abolito il diritto alla sepoltura collettiva per la totalità degli abitanti all’interno della chiesa, vennero utilizzati per questo scopo gli spazi circostanti dei cortili (atrium in latino, churchyard in inglese) che solo più tardi presero il nome dotto di

cemeterium (dal greco Koimêtêrion, “luogo dove si dorme”). I cortili ricalcano la forma del chiostro, al centro del quale si provvede alla sepoltura vera e propria con l’apertura di grandi fosse, le “fosse dei poveri”. Periodicamente, i resti mortali vengono rimossi e messi ad essiccare in ossari (charnier in francese), specie di gallerie ben ventilate, situate sopra le arcate dello stesso chiostro e sotto le capriate del tetto. Negli ossari, i crani e le ossa vengono disposti con arte: la ricerca di effetti decorativi con le ossa - scrive P. Ariès - servirà di modello all’iconografia barocca e macabra, come si può ancora vedere oggi, per esempio, a Roma nella chiesa dei Cappuccini o nella chiesa di S. Maria dell'Orazione e Morte, dietro palazzo Farnese: candelabri, ornamenti costituiti unicamente di piccole ossa. Per i benestanti invece, sono previste tombe “private” sia nella chiesa, che sotto le arcate del chiostro: consistono in sepolture poste sotto il pavimento oppure in sarcofagi di pietra. A partire dal XII secolo circa riappare la tradizione dell’iscrizione funeraria (“Qui giace ... “), e poi dell'effigie sempre più realistica. L’arte funeraria lo dimostra E. Panofsky - si è evoluta verso una sempre maggiore personalizzazione, fino agli inizi del XVII secolo, quando il defunto poté essere raffigurato due volte sullo stesso monumento sepolcrale, come figura giacente e in atteggiamento di preghiera. Parallelamente, si moltiplicano le piccole lapidi applicate contro i muri della chiesa, all’interno o all’esterno, che hanno più la funzione di ricordare l'identità del defunto, che quella di indicare il luogo esatto dell'inumazione: si vede quindi che la “riforma” proposta da Goethe attinge ad una tradizione molto viva, specie fra il XVI e il XVIII secolo. È apparso così, pur con forme diverse, un nuovo modello di celebrazione funeraria, basato sul processo di individualizzazione della morte e caratterizzato dalla moderna corrispondenza fra la funzione e il segno. Vale a dire: si crea nello stesso luogo una corrispondenza fra il sema (il segno del corpo: il sepolcro, la lapide) e il soma (il cadavere), una nuova macchina pensante che riunisce in sé il topologico, il semiotico e il somatico. La tomba moderna (burial-place in inglese, Grabstätte in tedesco) - anche se fino all'800 è riservata agli happy few - indica in effetti chi è morto, insieme a dove è seppellito. In questa unione, si fondono due tradizioni: l’eredità ebraica e cristiana del seppellire


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in terra e l’eredità pagana del sarcofago e dell’arca marmorea. La pratica sarcofagica (da sarkos, “carne” e phagein “divorare”) è mossa dalla volontà di “mangiare la carne” come fatto semiologico, ben s’intende. Ereditata dall’antica Roma, questa pratica si articolerà - lo sottolinea J.D. Urbain – nell’insieme degli schermi e degli involucri che celano con ridondanza sempre maggiore ciò che deve essere evacuato sul piano del reale e ricomposto sul piano simbolico: il sudario, la bara decorata, la tomba con lapide, l’iscrizione, l’effigie. Posto alla fine di questa catena, analogica, il monumento funerario ricompone il segno del corpo, non come referente ma come simulacro, come protesi del ricordo, come supporto della speranza nell'a-mortalità. Nello stesso tempo, il cimitero, vera e propria dépendance della chiesa, diventa uno spazio pubblico dove i vivi esercitano le più varie attività, come il commercio, la passeggiata, la prostituzione ... Per evitare certi disordini, i cimiteri delle città occidentali vengono recintati a partire dal XIII secolo: fin dai suoi inizi, il cimitero si pone quindi come spazio “disciplinare” di fronte al tessuto urbano. A Parigi, il più importante di questi cimiteri era senza dubbio quello dei Saints-Innocents, situato nei pressi delle Halles e oggi distrutto. Le, sue arcate ospitavano il celebre affresco della Danza macabra, distrutto nel 1669 in seguito ad un rifacimento. L’arte della danza macabra sembra indicare il distacco dall’immagine magico-religiosa della morte in una direzione significativa: nel raffigurare la vita peccaminosa, e quindi la soggezione alla morte, di tutti gli strati sociali e di tutte le professioni, non bisogna trascurare - avvertono A, Tenenti, oppure W. Fuchs - l'implicito accenno all’eguaglianza davanti alla morte. Nel testo citato di Goethe, sembra che il significato della riforma del cimitero, già descritta, consista proprio nel ritornare a pratiche di sepoltura che sottolineino l’ideale di questa uguaglianza. È utile ricordate che tali opinioni si esprimono pochi anni dopo che Napoleone aveva imposto di seppellire i cadaveri fuori dall’abitato dei comuni per motivi igienici. Tornano alla mente i Sepolcri foscoliani: “'Pur nuova legge impone oggi sepolcri/ Fuòr de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti/ Contende ... ". E’ un fatto ben noto che il decreto fu emesso il 12 giugno 1804 ed esteso all’Italia il 5 settembre 1806: la legge contrastava la fama degli estinti, concedendo che le lapidi potessero essere poste solo sui muri perimetrali dei cimiteri. I testi del Foscolo (1807) e di Goethe (1809) segnano la nascita del culto moderno dei morti, secondo P. Ariès la sola manifestazione comune ai credenti e ai non credenti. Si assiste alla definitiva laicizzazione dei cimiteri (iniziata prima della fine del XVI secolo) e alla loro

nuova dislocazione fuori mura. Nella nuova accezione tecnocratica dominante a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, il cimitero non è più riconosciuto come locus sacer e memòria martyrium, ma come attrezzatura pubblica di servizio. In tale clima ha luogo la disputa goethiana, che ora possiamo leggere, e dove si esprimono interessi divergenti: i proprietari di tombe, difesi dall' Avvocato ed i Riformatori (Carlotta, Ottilia) con gli artisti ai quali l'Architetto presta la sua voce: L’Avvocato: Voi vedete che al più umile come al più altolocato importa di contraddistinguere il luogo dove riposano i suoi. I benestanti fanno queste croci di ferro e le consolidano e le proteggono in tutti modi, ed ecco che se ne prolunga la durata già per molti anni. Ma poiché anche queste alla fine cadono né più si distinguono, così niente è più opportuno per i ricchi che porre una lapide, la quale dà affidamento di durare per molte generazioni e dai discendenti può essere rinnovata e restaurata. Non è la pietra che ci sta a cuore, ma ciò che sotto vi è conservato, ciò che in quel punto è affidato alla terra. Non è neanche tanto il caso di parlar di memoria, quanto della persona stessa; non del ricordo, ma della presenza., Carlotta: La cosa non è di tanta importanza, che dobbiamo darci la pena d’un procedimento legale. Devo dichiararvi schiettamente che i vostri argomenti non mi hanno persuasa. Il puro sentimento d’una generale uguaglianza finale, almeno dopo la morte, mi sembra più foriero di pace che non quella ostinata e tenace prosecuzione delle nostre individualità, affezioni e relazioni di vita. E voi cosa ne dite? L’Architetto: Permettetemi di esporre semplicemente ciò che riguarda più da presso la mia arte il mio modo di vedere. Poiché non c’è più concessa la felicità di stringerei al petto i resti d'un amato oggetto entro un’urna, poiché non siamo abbastanza ricchi né sereni per conservarli intatti in un grandioso e bene adorno sarcofago, poiché, ancora, nelle chiese non troviamo più posto per i nostri cari e per noi, ma veniamo, invece, mandati fuori all’aperto: cosi abbiamo tutte le ragioni per approvare il modo che voi, mia gentile signora, avete tenuto. Ottilia: E senza qualche segno di ricordo, senza qualcosa che venga incontro alla nostra memoria, così, dovrebbe tutto questo trapassare? L'Architetto: Niente affatto! Non al ricordo, ma solo al luogo materiale si deve rinunciare. L’architetto, lo scultore, sono altamente interessati che l’uomo si attenda da loro, dalla loro arte, dalla loro mano, un prolungamento della propria esistenza; e per questo io vorrei vedere monumenti


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bene ideati e bene eseguiti, non sparsi qua e là, ma raggruppati in un luogo dove si ripromettano lunga durata. Ci sono migliaia di forme, che a loro volta richiedono migliaia di decorazioni con cui adornarle. Carlotta: Se gli artisti sono così fecondi, allora ditemi un po’: come mai non si riesce a tirar fuori dal solito modello d’un piccolo obelisco, una colonna infranta, un’urna cineraria? Invece delle migliaia d’invenzioni di cui vi vantate, io non ho mai visto che migliaia di ripetizioni. L’Architetto: Eh, da noi succede proprio così, ma in altri luoghi no. Certo, il problema sta sempre nell’invenzione e nella sua adeguata attuazione pratica. In questo caso la difficoltà è di rendere attraente un soggetto tanto serio e, trattando di cosa dolorosa, non cadere nello spiacevole. Il più bel monumento resta pur sempre l’immagine stessa dell’uomo. Ma com'è raro che l’artista sia in grado di ridargli vita pienamente! Il problema dell’arte funebre si riassume quindi in quello dell’invenzione contro la ripetizione. Esistono buoni esempi, ma sono “in altri luoghi” che sta per “in altri tempi”, e non è certo nell’espressione patetica e barocca della morte, come si rivela per esempio nella tomba del Conte d’Harcourt (1771-1776), scolpita da Jean-Baptiste Pigalle nella cattedrale di Notre-Dame, a Parigi, dove l’immagine dell’estinto agonizza sull’orlo del proprio sarcofago, che può fornire un modello. Forse è Goethe stesso a mostrare una possibile via: l’altarino alla Buona Fortuna eretto dallo scrittore nel parco di Weimar nel 1777, formato da una perfetta sfera poggiante su un cubo. Puri cubi, sfere, piramidi e cilindri, tali forme geometriche rimandano ad un tempo primitivo, primigenio e l’architettura, funebre e sacra non può che tornare ai suoi inizi, ai tempi del cominciamento. Oblio contro reminescenza, attesa che non è attesa di qualche cosa. L’oblio si sottrae all’istante passato ma conserva una relazione con esso attraverso la parola. Attesa che non attende nulla: tempo notturno del lutto. Frammento puro e oggetto perduto Ecco il curioso epitaffio dettato a posteriori da Roberto Longhi a proposito delle opere del Canova che, secondo lo storico dell’arte, non furono che “svarioni cimiteriali”: “Antonio Canova, lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove”. L’operazione macabra e, addirittura, feticistica della divisione del cadavere in oggetti ricordo può far venire in mente un procedimento molto corrente nell’arte occidentale: quello del frammento indicante la perdita di una totalità scomparsa. Non sta forse lì il significato di queste pratiche macabre che fanno sì

che il cuore di Voltaire sia depositato alla Biblioteca nazionale di Parigi e il suo cervello venduto all’asta nel 1875? La “parte per il tutto” – pars pro toto – costituisce d’altronde uno dei tropi più comuni del linguaggio poetico. E’ la figura della sineddoche. È curioso osservare - scrive Giorgio Agamben come un processo mentale di tipo feticistico sia implicito in questa forma della metonimia: alla sostituzione della parte al tutto che essa attua, corrisponde, nel feticismo, la sostituzione di una parte del corpo (o di un oggetto annesso) al partner sessuale completo. Agamben sottolinea che non si tratta semplicemente di una analogia superficiale. La sostituzione metonimica non si esaurisce nella pura e semplice surrogazione di un termine con un altro, dal momento che invece, come spiega Freud, il termine sostituito è a un tempo negato e evocato dal sostituto. È dallo stesso riferimento negativo che nasce il particolare potenziale poetico di cui vengono investite la parola e l’oggetto figurativo. Per il pittore Gilpin che propone la distruzione a metà delle ville palladiane per trasformarle in rovine artificiali, “il laconismo del genio” consiste appunto nel “dare una parte per il tutto”. Lo stesso procedimento evocativo si scorge nella falsa rovina del “Tempio della Filosofia moderna”, costruito nel parco pittoresco di Ermenonville, parco che, non a caso, ospita il sepolcro di Rousseau e fornisce l’archetipo elisio del cimitero contemporaneo. Per Schlegel, “molte opere degli antichi sono divenute frammenti, mentre molte opere dei moderni lo sono al loro nascere”. Ogni opera finita, secondo Novalis, è necessariamente soggetta a un limite cui solo il frammento può sfuggire. Recentemente, Adorno asseriva che il frammento è quella parte della totalità dell'opera che resiste alla totalità stessa. E Blanchot: “Chi dice frammento non deve pensare soltanto frammentazione di una realtà preesistente o momento di un insieme ancora a venire”. Pensiamo comunemente che non ci sia conoscenza se non del tutto, “come la vista è sempre vista d'insieme”. Secondo questa comprensione occorrerebbe che, quando c'è un frammento, ci sia una designazione sottintesa di qualcosa d'intero che è stato tale anteriormente o lo sarà in seguito - il dito tagliato rimanda alla mano ...”. Né puramente negativo o privativo, né semplicemente positivo, il frammento si identifica invece nell’esplosione, nello scompaginamento. Così “l'opera frammentaria è un’opera non incompiuta, ma che apre un’altro modo di compimento”, quel modo che è in gioco in “una certa esperienza frazionante, ossia di separazione e di discontinuità, nell’attesa, nell’interrogare o in una affermazione irriducibile all’unità”. Le opere architettoniche che più si avvicinano oggi a tale poetica sono forse quelle di Carlo Scarpa


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- pensiamo ai padiglioni, alle “fabriques de jardin”, alle macchine “inutili” nel cimitero di San Vito di Altivole, oppure quelle di John Hejduk, in particolare nell’organizzazione dei frammenti dispersi, brandelli di memorie disseminate sulla Wilhelmstrasse per il concorso I.B.A. nella Friedrichstadt Süd di Berlino (1981). In tali progetti, scorgiamo, per riprendere il filo del discorso di Blanchot, “un'organizzazione che non compone, ma giustappone, ossia lascia esterni gli uni rispetto agli altri i termini in relazione, rispettando e riservando questa esteriorità, quella distanza, come il principio - sempre già destituito - di ogni significato … Ordine al livello dello scompiglio”. Architettura polverizzata, frammenti d’un discorso funebre. Rimpiangendo la fine, io canto gli inizi. In questa ottica, si colloca anche il cimitero di Arnaldo Pomodoro per Urbino, una scrittura geomorfica che apre la breccia, la faglia nella quale naufragano i significati troppo pacificanti. “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, per rammentare l’idillio leopardiano. La parola poetica avviene - scrive Agamben in un altro testo – in modo tale che il suo avvento sfugge già sempre verso il futuro e verso il passato e il luogo della poesia è sempre un luogo di memoria e ripetizione. I termini-chiave della scrittura-lettura di Pomodoro sono la “tabella mnemonica” e la “sfera lacerata”. Così scrive Jacqueline Risset, che definisce il cimitero di Urbino “una granata esplosa a misura della collina microcosmica della città rinascimentale”. Proviamo ora a confrontare tre autori contemporanei che hanno scritto sul significato del frammento e sulla “preoccupazione per l’origine”, temi che oggi intridono la riflèssione sull'arte. Sono: Emmanuel Levinas, Maurice Bianchot e Giorgio Agamben. Agamben concorda con Blanchot quando dice. che la differenza fra il frammento rispetto alla metonimia linguistica consiste nel fatto che l’oggetto sostituito, il “tutto” cui il frammento rimanda, è, come il pene materno, inesistente o non più esistente. Il non-finito, la rovina artificiale, il frammento, si rivelano quindi perfetti e puntuali, pendants del rinnegamento feticista. In effetti, l’oggetto feticcio si configura come qualche cosa di concreto e di tangibile, essendo la presenza di un’assenza: “esso rimanda continuamente al di là di se stesso verso qualcosa che non può mai realmente essere posseduto, qualche cosa di irreale. L’oggetto feticcio è insieme negazione e segno di un’assenza”. Questa sua capacità miracolosa di rendere presente l’assente attraverso il proprio rinnegamento, il proprio disconoscimento, permette l’appropriazione dell’irreale.

L’”irreale” per Agamben - frammento o feticcio è sempre legato al cominciamento. In termini più semplici, Blanchot afferma: “l'opera dice: cominciamento”. E prosegue: “nell'opera d’arte, gli dei parlano, nel tempio gli dei soggiornano, ma l’opera è altresì il silenzio degli dei... E nel tempio il dio dimora, ma dissimulato, ma assente ... L'opera dice gli dei, ma li dice come indicibili, essa è presenza dell’assenza degli dei e, in tale assenza, essa tende a rendersi essa presente, a divenire non più Zeus, ma statua ... , e quando gli dei sono rovesciati, il tempio non sparisce con loro, piuttosto esso comincia ad apparire, si rivela continuando ad essere ciò che prima non era a sua insaputa: il soggiorno dell’assenza degli dei”. L’opera è un Trauerarbeit, un travaglio, un lavoro di lutto. Il puro frammento, gli oggetti virtuali, il passato puro delle forme pure – come il cimitero di Altilia, vicino Catanzaro in Calabria, disegnato da Alessandro Anselmi, Giuseppe Patanè e Giovanni Angotti – dicono: cominciamento. Esiste la Trauermusik. Inventiamo la Trauerarchitektur. Qualche cosa è andato perduto, forse non è neanche mai stato posseduto. L’oggetto perduto esiste nell’inizio, ma quest’inizio è nell’oblio. Né fondamento, né origine, esso è irreale. Presenza dell’assenza. Scriveva Valéry in Eupalinos che il costruttore “prende come origine del suo atto il punto stesso dove il dio si era fermato”, e così tracciava un preciso limite alla tentazione demiurgica. Tuttavia, una saggezza, insieme antica e moderna, ci insegna che ciò che rimane non è un residuo, ma ciò a partire dal quale le cose possono cominciare a essere. Emmanuel Levinas – citiamo il suo libro su Blanchot, appunto – ha colto una distinzione fondamentale fra quelli che praticano le poetiche odierne della rammemorazione: “L’arte secondo Blanchot, lungi da illuminare il mondo, lascia intravedere il sottosuolo dissestato, chiuso ad ogni luce che lo sottende e rende al nostro soggiorno la sua essenza di esilio e alle meraviglie della nostra architettura la loro funzione di capanne nel deserto. Per Blanchot, come per Heidegger, l’arte non conduce – contrariamente all’estetica classica verso un mondo dietro il mondo, verso un mondo ideale dietro il mondo reale. Essa è luce. Luce dall’alto per Heidegger, che fa il mondo, che fonda il luogo. Luce nera per Blanchot, notte venuta dal basso, luce che disfa il mondo, riconducendolo alla sua origine, al rimuginare, al mormorio, allo sciabordio insistente … La ricerca poetica dell’irreale è la ricerca dell’ultimo fondamento di questo reale”. Già nelle opere - non più classiche - neoclassiche il mondo ideale dietro il mondo reale è diventato virtuale, perduto. Per questo, nel 1933, Osbert


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Sitwell poteva scrivere di Canova: “ciascuna delle magnifiche tombe da lui scolpite fu un mausoleo delle sue proprie speranze e degli ideali che egli rappresentò con tanta bellezza”. Quatremère de Quincy, grande sostenitore del Canova, si prefigge di “riaccendere la fiamma dell'Antichità”. Con ciò riconosce che essa si è spenta. Egli apprezza il monumento funerario di Maria Cristina d’Austria nella Augustinerkirche di Vienna, eseguito “nel gusto dell'Antichità” dal Canova. Eppure, non può fare a meno di aggiungere questa sconsolata riflessione: “Di antico, i nostri mausolei non hanno che il nome che portano”. Ormai, dell’antico non si può più che rammemorarne l’oblio, parlandolo. Così si spiega perché si siano spesso associate le caratteristiche dell’arte neoclassica al lavoro di lutto. “Dovendo conformare la sua arte alle esigenze dell’ideale - nota Jean Starobinski - Canova vi introduce un elemento di violenza, vi fa affiorare la morte, come a compensare, d’istinto, l’acquietamento e la placidità che il ricorso alle forme pure rischiava di imporre alla sua modellatura”. Prima ancora, Starobinski aveva immaginato che, solo, poteva salvare quell’arte dalla purezza inconsistente, il ritorno dell'ombra, appunto. Il lugubre, la malinconia, il lutto Attraverso l’utilizzazione di contrasti architettonici (ombra e luce, pieni e vuoti, prospettive esagerate ... ) ed ornamentali (tonalità della pietra nera e bianca, fiamme e lumi, luce nera e ambrata, il drappeggio), si riesce a definire una categoria precisa ed immediata in una estetica della morte: il lugubre. Nel lugubre, non è la cosa stessa che appare lugubre, ma la sua intensità aberrante. Il lugubre è l’ornamento scuro del nostro ambiente, fisico o psicologico. Il lugubre nasce dalla promozione d’un carattere secondario di una cosa alla qualità di essenza, di primordiale. Nell’effetto lugubre, la struttura della cosa non è trasformata: sono cambiati solo alcuni aspetti dei suoi dati fenomenici. Così con il tema del muro del cimitero, che funziona come una “condensazione della distanza”: si veda, ad esempio, la riaffermazione del ruolo del muro nel recinto e nel cubo centrale del cimitero di Modena di Aldo Rossi e Gianni Braghieri (non condividiamo la critica di J.D. Urbain). Così con il tema mortuario della porta aperta, chiusa o socchiusa nei mausolei, nei cenotafi e nelle tombe. Pensiamo ai Monumenti funerari del Canova: il monumento a Clemente XIV nella basilica dei Santi Apostoli (1783-1787), il monumento a Clemente XIII (1784-1792) e il cenotafio degli Stuart (1817 -1819), questi ultimi due nella basilica di San Pietro, tutti a Roma. Pensiamo anche al motivo delle false porte attorno al mausoleo nella Dulwich Gallery (1811-1812) di

John Soane. Citiamo ancora, fra mille esempi, il monumento ai morti del cimitero del Père Lachaise (1899), di Paul-Albert Bartholomé, l’amico di Degas. Soglia dell’aldilà, simbolo del limite fra due mondi per Bernardin de Saint-Pierre, la porta del monumento funerario è un oggetto dello spazio quotidiano trasposto in un altro contesto e, così, reso inquietante e strano, insomma, “perturbante”. La porta socchiusa del sepolcro è una breccia simulata: suggerisce un contatto immaginario con 1’estinto e annuncia possibilmente la sua resurrezione futura. Il lugubre e l’aspetto inquietante ed insolito dell’apparato funerario corrispondono ad attitudini ben precise davanti alla morte. Michel Guiomar ne ha enumerate cinque: il Divertimento, che è un rifiuto agnostico dell’idea di morte; il Crepuscolare, dove la morte è insieme non rifiutata e non accettata; il Funebre, che corrisponde ad un riconoscimento passivo dell’idea di morte e il Lugubre, appunto, processo che proietta nel futuro e nell’azione il lutto e la morte; infine, l'Insolito, una adesione all’idea di morte sotto il velo di un Fantastico imminente, che ne è separato da un limite da Guiomar definito “ Soglia dell'Aldilà”. Gaston Bachelard ha mostrato che il socchiudersi della porta apre ad un cosmo del socchiuso, fatto di tentazioni e di desideri. I padri della Chiesa, dopo Aristotele, avevano condannato la propensione nell’acedia - il demone meridiano - e nella malinconia, a contemplare amorosamente i propri fantasmi e a mantenere nell’inaccessibile i propri desideri. Agamben ricorda che, secondo Freud, la libido in lutto reagisce alla prova della realtà, che mostra che la persona amata ha cessato di esistere, fissandosi su ogni ricordo e su ogni oggetto che si trovano in relazione con essa. Così la malinconia è una reazione alla perdita d’un oggetto d’amore, alla quale non fa seguito un trasferimento della libido su un nuovo oggetto, ma un ritrarsi nell’io, narcisisticamente identificato con l’oggetto perduto. Con un effetto di double bind, ciò che non poteva essere perduto (perché mai posseduto) appare come perduto, mentre ciò che non poteva essere posseduto (perché irreale) può essere appropriato in quanto oggetto perduto (Agamben, in Stanze). La malinconia viene tradizionalmente associata alle attività artistiche ed erotiche: la capacità fantasmatica e di simulazione è loro comune. La perdita immaginaria che occupa con tanta ossessione l’intenzione malinconica non ha alcun oggetto reale, è all’impossibile cattura del fantasma che è diretta la sua strategia funebre. Ricoprendo il suo oggetto con l’apparato funebre del lutto, la malinconia gli conferisce la realtà fantasmagorica dell’oggetto perduto, ad un tempo reale ed irreale, affermato e negato (Agamben). Da questo commercio ambiguo


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con i fantasmi, deriverebbe il carattere erotico che presenta spesso la scultura neoclassica e la scultura funeraria in generale. (Questo era stato anticipato da Bernini nel suo Apollo e Dafne). Gustave Flaubert, in visita a Villa Carlotta durante il suo soggiorno in Italia, davanti al gruppo scultoreo L 'Amore e Psiche di Canova, non può trattenersi dal dire: “Ci son tornato a parecchie riprese e l'ultima volta ho baciato sotto l'ascella la donna in deliquio che tende verso l'Amore le lunghe braccia di marmo. E il piede! e la testa! il profilo!” Mario Praz, che riporta questa citazione, vede come Flaubert soccomba ad un male ben diagnosticato: quello della agalmatofilia (dal greco agalma, "statua", e philos, "amico"). L'arte neoclassica è raggelata in referenza all’ideale della bellezza antica, perduta per sempre. Parafrasando Freud: dopo essere stato ritirato dall’ideale, l’investimento libidico ritorna nell’io narcisistico e simultaneamente, l’ideale è incorporato nell’io, come frammento o come “perversione”. Una sensualità perversa si insinua

nella linea pura, un elemento di turbamento che agisce “come un'oscena rivincita della materia” (Starobinski). La figura femminile, nel gruppo che commuove Flaubert, è sulla soglia della morte. Amore è sceso dai cieli per liberarla e riportarla via. Oggetto di desiderio, ma freddo come il marmo, la donna è situata ad una frontiera, fra il reale e l’immaginario. Nello stesso tempo, è conturbante perché familiare, troppo umana, quasi come le tombe del cimitero di Père Lachaise a Parigi di cui Flaubert sottolinea la stranezza perturbante: “le tombe erano erette in mezzo agli alberi, colonne spezzate, piramidi, templi, intravedevano specie di boudoirs funebri, con poltrone rustiche e sgabelli. Delle tele di ragno si erano appese come cenci alle catenelle delle urne e la polvere ricopriva i mazzi dei nastri di raso e i crocefissi”. Funebre, lugubre ed erotica, la malinconia crea luoghi epifanici e forme simboliche.

“L’architecture et la mort”, Monuments Historiques, n. 124, 1982-1983. Il cimitero sepolto, un progetto di Arnaldo Pomodoro per Urbino, a cura di F. Leonetti, Milano, 1982 (con testi di G.C. Argan, C. Aymonino, G.C. De Carlo, J. Risset). “La mort: licux et objets de la mort”, Traverses, n. 1, 1975. L’opera complete del Canova, presentazione di M. Praz, Milano, 1976. “Le sains et le malsain”, Dix-huitième siècle, n. 9, 1977 (a cura di J. Guillerme). G. Agamben, Stanze, la parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, 1977. G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Torino, 1982. P. Ariès, Essai sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen Age à nos jours (1975); trad. it. Storia della morte in Occidente, Milano, 1978. Aristotele, La ‘melanconia’ dell’uomo di genio, Genova, 1981. R. Azuelle, Demeures éternelles, conception, composition, realization du cimetière contemporain, Parigi, 1965. M. Blanchot, L’espace littéraire, Parigi, 1955; id. L’entretien infini, Parigi, 1969. J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Parigi, 1976. J. Curl, A celebration of dealth, an introduction to some of the buildings, monuments and settings of funerary architecture in the Western European tradition, Londra, 1980. G. Deleuze, Différence et répétion, Parigi, 1968, 1976 (2). R.A. Etlin, “Landscapes of eternity”, in Oppositions, n. 8, 1977, pp. 15-31. W. Fuchs, Todesbilder in der modernén Gesellschaft, 1969; trad. It. Le immagini della morte nella società moderna, Torino, 1973. M. Guiomar, Principes d’une esthétique de la mort, Parigi, 1967 E. Levinas, Sur Maurice Blanchot, Montepellier, 1975. E. Panofsky, Tomb sculpture, New York, Londra, 1964. M. Praz, La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, 1966; id. “E non riposano in pace” e “L’amore delle statue”, in Fiori Freschi, Milano, 1982. A.C. Quatremère de Quincy, Réflexions critiques sur les mausolées en général, s.l.n.d. R. Rosenblum, Transformations in Late Eighteenth Century Art, Princeton, 1970. G. Simmel, “Metafisica della morte”, in Arte e Civiltà, Milano, 1976. J. Starobinski, 1789. Les emblèmes de la raison, Parigi, 1979; trad. it. 1789. I sogni e gli incubi della ragione, Milano, 1981. A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Torino, 1957. J.D. Urbain, La société de conservation. Etude sémiologique des cimetiéres d’Occident, Parigi, 1978; id. voce “Morte”, Enciclopedia Einaudi, Torino.

* Tratto, per gentile concessione dell’autore, da: Lotus n. 38, 1983.


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PERMANENZE DI SEGNO, CASI PARTICOLARI. La civiltà etrusca ed il culto dell’abitare. Riccardo Renzi “La casa italiana non è il rifugio , imbottito e guarnito, degli abitatori contro la durezza del clima... la casa all’italiana è come il luogo scelto da noi per godere la vita nostra, con lieta possessione, le bellezze che le nostre terre e i nostri cieli ci regalano in lunghe stagioni...” Gio’ Ponti, Editoriale Domus n°1 1928

Partendo dal concetto che nel tempo, l’abitazione umana ha rappresentato spesso la massima espressione di permanenza terrena e di memoria di passaggio, così come ha individuata la collocazione sociale negli usi e nei modi a partire dalle popolazioni più antiche, questo breve scritto cercherà di tracciare un filo rosso di collegamento tra la rappresentazione della vita attraverso alcune architetture dedicate alla arte funeraria ed alla ipotetica sintesi di segno tra due specifiche condizioni sociali. Per un toscano come me è assai difficile non pensare alle necropoli etrusche come primo riferimento carico di spunti e di multiformi sintesi espressive, ad oggi apparentemente lontane e distanti dai canoni a noi contemporanei. La realtà è che il tipo di vita etrusca, così come quella romana e precedentemente quella greca, è un esempio dai chiari sistemi formali e compositivi , le cui matrici rimandano ad un mondo puro ove al centro appare il culto della vita nella sua interezza, poco confrontabile con il nostro impalpabile senso delle cose, così spesso impercettibile a causa della continua accelerazione sistematica della odierna società. Passeggiando in cima alla rocca di Populonia, che sovrasta il golfo di Baratti e si affaccia sul mare aperto, si ha la sensazione di trovarsi perduti in un periodo epico , in cui si respirano i passi di una delle gioventù della specie umana, raccolti e circondati dai venti che portano i profumi ed gli echi della altre popolazioni mediterranee i cui influssi hanno sempre fatto sentire il loro peso. Così, sospesi nel tempo e cullati dai rumori lontani delle onde e dal frusciare degli aghi dei vicini pini marittimi,è facilmente immaginabile che un luogo così evocativo, sia stato scelto dai primi etruschi come l’unico insediamento costiero sul mare. La civiltà etrusca ha lasciato proprio in questo particolare paesaggio, a cavallo su due specchi di acqua, in alto e ben riparato da una fitta pineta, un meraviglioso esempio di architettura costruita. La necropoli di San Cerbone, risalente al VII sec.a.C., la cui forma rimanda a contemporanei esempi di mimesi progettuale, porta l’attenzione non

solo a sistemi di sepoltura particolari e diffusi in molti casi, ma tramanda un continuum rispetto alla concezione del divino che molto ha a che vedere con il mondo greco. La mitigazione con il sistema naturale appare qui sapientemente portata ad ricreare un microcosmo naturalizzato e, insieme all’intero sistema di paesaggio, così fortemente caratterizzato da elementi specifici, definisce un singolare rapporto con la rupe su cui si trova, che con una ipotetica grotta (la cui sintesi prima rintracciabile nei miti greci e successivamente anche nei ninfei dello spazio romano) ripara e protegge nel tempo i preziosi resti custoditi all’interno. La forma a tumulo con base circolare e con timpano alla base, nasconde al suo interno un corridoio rettilineo con copertura piana, ed un vano centrale a base circolare sovrastato da una copertura a volta. La particolare connotazione progettuale dell’intero sistema rimanda ad una evidente similitudine con il mondo ellenico, dal quale gli etruschi potrebbero discendere, secondo alcune delle ipotesi sulle origini. Il rapporto con il cosmo nel mondo greco nasce dai miti e dal culto degli dei, rappresentato dai sacerdoti attraverso il tracciamento di un cerchio a terra durante le prime funzioni, come proiezione della sfera celeste che ad occhio nudo prende forma di circolo. Seguono, nella continuità di ricerca del segno circolare, le tholos, in cui l’oracolo prevede ed indica scenari di vita fornendo risposte a domande precise, e vi si possono trovare ancora tracce nel mondo del teatro, che mutua da parte del culto sacro questa forma per definire l’orchestra ed il golfo mistico, in cui appare il coro che annuncia e guida lo spettatore nella narrazione della rappresentazione. Dunque convenzionalmente il mondo ellenico assimila la forma del cerchio come una unica convenzione per lo spazio della divinità, intesa non solo come culto, per il quale definisce i templi a derivazione ortogonale con celle centrali, bensì come onniscenza e strumento indicatore delle gesta umane, che in effetti ha molto a che vedere con il sistema di culto poi rintracciabile nel mondo

Necropoli di San Cerbone, Populonia, VII sec. a.C.

Necropoli di San Cerbone, Populonia, VII sec. a.C.: pianta e sezione di una tomba tumulo

Urne cinerarie etrusche


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etrusco. Un altro caso assai interessante risultano poi le urne cinerarie che si ritrovano si nella vita etrusca, ma la cui derivazione originale è dovuta alla civiltà villanoviana, che già dal VIII sec.a.C. occupava le zone del centro Italia mediterraneo e che esprimeva proprio grazie alla decorazione superficiale del vaso funerario una raffigurazione della casa appartenuta al defunto a testimonianza di vita. La civiltà villanoviana ha lasciato documenti fondamentali per la individuazione di tipi architettonici del tempo, grazie alle urne a capanna (tutte con base circolare) si possono chiaramente leggere sistemi decorativi e materiali di costruzione impiegati al tempo, mentre diviene quasi impossibile carpire il sistema distributivo che articolava le abitazioni. Diversa la situazione invece per il mondo etrusco. Essi infatti , sebbene colgano questa tipologia di conservazione dei resti come tramandazione di una memoria sociale, ne fanno un uso più raffinato, personalizzando le urne non solamente con forma a capanna e con base circolare , ma introducendo una vera e propria raffigurazione volumetrica delle architetture rappresentate, oltre a fornire informazioni sulle decorazioni superficiali. I sistemi distributivi degli spazi abitativi sono stati poi parzialmente rintracciati grazie alla scoperta di successive necropoli rispetto a San Cerbone, che hanno svelato proprio porzioni di spazi domestici ricostruiti a rappresentazione della casa del defunto, la cui memoria di vita veniva garantita proprio grazie alla tramandazione degli ambienti interni della propria casa. Proprio grazie al concetto di abitazione risulta necessaria una digressione di approfondimento della vita etrusca, verosimilmente unica nel modo di concepire il rapporto con il Divino, poi capace di influenzare il successivo mondo romano nella interpretazione dei segni e dei presagi per la predizione di eventi futuri. I tre libri che regolavano la vita, l’haruspicini, il fulgurales ed il rituales, tracciano un ben preciso sistema al quale la popolazione è soggetta nello svolgimento stesso della vita e fa si che vi siano delle importanti similitudini tra il cosmo Divino ed la sfera mortale. In particolare il primo libro introduce al culto della interpretazione delle viscere delle vittime sacrificali (di solito pecore o montoni) delle quali veniva analizzato il fegato. L’organo, diviso in sedici partizioni interne, veniva considerato come ospitante altrettante “case” delle divinità, la cui lettura era riservata agli Haruspicini in grado di decifrare futuri eventi e prevedere scenari possibili. Interessante

collegamento poi veniva fatto tra le sedici case interne al fegato con sedici porzioni della volta celeste anche esse appartenenti a sedici divinità. Dunque il concetto di abitazione si lega fortemente al mondo del culto Divino così come poi si lega nel culto dei defunti ai quali , viene restituita e tramandata la rappresentazione del proprio spazio occupato in vita sulla terra, appare chiara la enorme importanza data da questa popolazione al culto dell’abitare, fortemente compromesso nella contemporaneità recente, dopo un passaggio fondamentale nel movimento moderno e forte nella illusione razionalista , poi definitivamente perso nella evoluzione delle attuali città e nella loro espansione incontrollata del dopoguerra.

Urne cinerarie della popolazione villanoviana, VIII sec.a.C.


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LUOGHI DELLA MEMORIA Luigi Coccia La memoria non serve tanto a rappresentare il passato, quanto a costituire il permanente, il senza-epoca, all’occasione, sotto lo stimolo del presente. Paul Valéry

La rete dei cimiteri militari anglosassoni progettati da Louis de Soissons nel secondo dopoguerra sul territorio italiano costituisce il palinsesto di una storia recente, intessuta di eventi che ancora permangono nella memoria collettiva, ma che sono destinati inevitabilmente a svanire di pari passo con la scomparsa di chi ne fu protagonista. L’azione progettuale attribuisce una forma architettonica ai luoghi in cui si svolsero gli eventi bellici: attraverso un esercizio di astrazione, il progetto opera un distacco dalle vicende accadute e materializza il ricordo senza ricorrere ad una scontata ricostruzione storica. Contrastando la naturale evanescenza degli eventi, il progetto introduce elementi di richiamo per la memoria che, come sostiene Paul Valéry, muove sempre dal presente producendo nuova materia di memoria. In tutto ciò si comprende la concatenazione inestricabile tra la nostra memoria e l’affermazione della nostra identità, individuale e collettiva, giungendo dunque a ritenere che prescindere dalla memoria significa rinunciare all’identità1. A volte la memoria si associa al gesto, si ancora al concreto, allo spazio costruito. Nei territori coinvolti dalla guerra, i cimiteri militari diventano espedienti evocativi, forme architettoniche capaci di trasformare in eterno presente il ricordo dell’evento che ancora aleggia in quei luoghi. Gli impianti cimiteriali si radicano al suolo, assecondano l’orografia, interpretano quei segni che in passato hanno avuto la forza di condizionare la dislocazione delle linee difensive e lo spostamenti delle truppe militari confermandone la persistenza. Nascono in tal modo dei veri e propri monumenti alla geografia, strutture concepite come riserve spaziali in grado di custodire alcune porzioni di suolo dai rapidi mutamenti degli insediamenti contemporanei che coinvolgono territori sempre più vasti in un processo di urbanizzazione omologante basato su una ottusa dimenticanza del passato. “Il territorio è il luogo dell’apprendimento e del ritrovamento degli antecedenti”, scrive Gianni Vattimo; il progetto dei cimiteri militari consta di un attento e puntiglioso recupero degli antecedenti, 1

P. Valéry, Quaderni. Volume terzo, Alelphi, Milano 1988.

al fine di restituire identità e riconoscibilità ai luoghi avvalendosi della memoria, che, rinviando agli eventi trascorsi, ha la capacità di riscattare alcuni spazi dall’anonimato2. I valori attivi della memoria diventano per Louis de Soissons elementi propulsori per l’immaginazione, stimoli per l’attività progettuale, che produce isole figurativamente compiute, "città silenziose", come Rudyard Kipling amava chiamare questi cimiteri, sottratti al frastuono della contemporaneità. I luoghi cimiteriali manifestano come carattere precipuo quello della fissità, una sorta di sospensione temporale che, a prescindere dal contesto in cui sono collocati, sembra preservarli da qualsiasi intrusione esterna, li rende insensibili a qualsiasi trasformazione, a meno del mutamento stagionale delle essenze vegetali che restituisce vitalità a questi luoghi dell’eterno riposo. La tradizione anglosassone dei giardini pittoreschi, accompagnata da un atteggiamento di serena accettazione dell’ineluttabilità del destino umano, si respira negli scorci paesaggistici, nella composta e ariosa geometria di ogni ambito spaziale, sia esso vegetale o architettonico, nella cura maniacale dei dettagli, nella manutenzione meticolosa e costante che nulla lascia al caso. Ciascuno dei 42 cimiteri progettati da de Soissons sul nostro territorio nel secondo dopoguerra presenta una sua connotazione, un carattere specifico desunto dalla geografia e dalla memoria storica del sito, dal ricordo di un evento singolare, dall’asprezza di uno scontro, da uno spostamento del fronte di combattimento, in taluni casi dalla provenienza dei soldati caduti. Louis de Soissons, il cui nome rimane per lo più legato storicamente alla progettazione della new town Welwyn Garden City, fondata nel 1919 nei pressi di Londra sulla base delle teorie di Hebenezer Howard sulla città giardino, ricevette nel 1944 dalla Commonwealth War Graves Commission l’incarico di realizzare sul suolo italiano i cimiteri militari destinati ad accogliere le spoglie dei soldati del Commonwealth, caduti 2

G. Vattimo, Postmodernità e fine della storia, in G. Mari (a cura di), Moderno e postmoderno, Feltrinelli, Milano 1987.

Louis de Soissons, pianta di Welwin Garden City

Linea Gotica e Linea Gustav

Gradara War Cemetery, lungo la Linea Gotica (foto di Peppe Maisto)


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durante l’aspra campagna di liberazione dell’Italia dalla dominazione nazi-fascista. La localizzazione dei cimiteri militari anglosassoni definisce una mappa che consente di ricostruire le manovre militari delle truppe alleate: a partire dallo sbarco in Sicilia, nel luglio del 1943, ha inizio la campagna militare in Italia che procede fino al maggio del 1945, quando gli Alleati, attraversando il fiume Po, costrinsero le truppe tedesche ad arrendersi. Le aree di sepoltura coincidono con i principali campi di battaglia e si addensano pertanto in prossimità delle più importanti linee difensive tracciate dai tedeschi, la Linea Gustav al di sotto di Roma e la Linea Gotica, a cavallo dell'Appennino Toscano, che tagliavano trasversalmente la penisola dall'Adriatico al Tirreno, definendo un sistema fortificato di sbarramento che avrebbe dovuto impedire l'avanzata delle truppe alleate. Lungo tali linee difensive i cimiteri rimangono come testimonianza di ciò che è accaduto, affermando lo stretto legame che si stabilisce ogni volta tra la vicenda e la costruzione, tra l'avvenimento e il segno che lo ha fissato. Un frammento di storia italiana si lega quindi indissolubilmente alla costruzione dei cimiteri militari, in cui l'architettura si vincola strettamente alla geografia. L’architettura di ogni cimitero è il risultato di un’attenta indagine condotta sul sito, una ricerca che scava nella storia dei luoghi tirando fuori indizi su cui sviluppare l’idea progettuale. Elementi naturali, segni artificiali, echi di storie antiche diventano materiali per la progettazione dei parchi cimiteriali, che registrano in modo attento la specificità di ciascun contesto. Tra il disegno di impianto e la topografia dei luoghi si stabilisce una profonda relazione che genera un forte radicamento dei parchi cimiteriali anglosassoni al territorio italiano, nonostante le evidenti e inequivocabili distanze culturali impresse nell'immagine architettonica di questi campi di sepoltura. La realizzazione di ciascun cimitero può essere interpretata come un atto fondativo, come un processo sistematico di costruzione e di riscrittura dei luoghi che, seguendo un disegno prefissato, sperimenta l’adattamento al sito, con un metodo per certi versi analogo a quello adottato per le fondazioni urbane. Nel disegno dei grandi spazi verdi in forma di boulevard o di parchi ad emiciclo che organizzavano i luoghi pubblici di Welwyn Garden City, una città dispersa nella natura, si riconoscono alcune soluzioni che de Soissons riproporrà qualche anno dopo nella progettazione dei parchi cimiteriali. La pianta di questa città giardino, composta da parti formalmente autonome isolate nel verde e articolate intorno all'asse ferroviario della Great Northern Railway, rimanda ad una sorta di "città analoga" nella quale è

possibile ritrovare frammenti di impianto di diversi cimiteri militari3. L'abilità progettuale di Louis de Soissons si scopre nelle variazioni proposte sullo stesso tema architettonico: la realizzazione dei cimiteri militari diventa per l'architetto una occasione per mettere a punto una teoria della progettazione che si fonda sulle relazioni tra le cose, piuttosto che sulle cose stesse. Partendo da una precisa indicazione della Commissione del Commonwealth, de Soissons basa il disegno d’impianto di ogni cimitero su due elementi fissi, che conservano la stessa forma e sono realizzati con lo stesso materiale: la Croce del Sacrificio, sovrastata da una spada metallica che simboleggia il sacrificio della guerra e la speranza della resurrezione, e la Pietra della Rimembranza ideata da Lutyens, grosso monolite in forma di altare sul quale sono incise le parole tratte dal Libro dell'Ecclesiastico "Their Name Liveth for Evermore”, il loro nome vivrà in eterno. I due elementi monumentali vengono sempre collocati nei punti focali del disegno d’impianto e in ogni parco cimiteriale sono legati da una percepibile tensione visiva e compositiva. Ad essi si aggiungono di volta in volta piccoli padiglioni o tempietti di forma e dimensioni variabili, o panche e pergolati che connotano i luoghi di sosta, oltre alle file ininterrotte di lapidi bianche, tutte rigorosamente uguali ma disposte secondo tracciati sempre diversi in modo da assecondare la morfologia del sito. Seguendo le piste battute dalle truppe alleate nella liberazione dell’Italia, dal sud al nord della penisola, di tanto in tanto scorci chiaramente riconoscibili di questi luoghi della memoria, con i loro elementi ricorrenti, si offrono inaspettatamente allo sguardo all’interno di paesaggi agrari o di periferie urbane caotiche e indefinite, mostrandosi attraverso varchi di recinti visivamente permeabili, ma tali da definire inequivocabilmente il limite di uno spazio altro. La singolarità che connota ogni parco cimiteriale si associa ad un inconsueto utilizzo del suolo, non adoperato come semplice piano di appoggio ma come materiale della costruzione. Per questo gli interventi di Louis de Soissons si configurano come "earthworks", opere che utilizzano la terra come materia prima: livellamenti, piccoli scavi, riporti di terra sono operazioni ricorrenti all'interno della vasta casistica dei cimiteri militari italiani.

3

Per un quadro completo dei 42 cimiteri militari realizzati in Italia da Louis de Soissons, si rimanda a L. Coccia, Le città del silenzio, in Area n. 53, Federico Motta, Milano, 2000.

Gradara War Cemetery

Gradara War Cemetery

Sangro River War Cemetery, lungo la Linea Gustav (foto di Peppe Maisto)


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Oltre a queste piccole opere di manipolazione del suolo, a volte si rendono necessari degli interventi più consistenti: muri di contenimento lungo i salti di quota, canali di raccolta delle acque meteoriche, cordonate per superare agevolmente le pendenze. Più che nel carattere architettonico e stilistico dei piccoli manufatti che emergono dal disegno di impianto, è in queste operazioni di manipolazione del suolo4 che consiste la vera specificità dei cimiteri militari. Tali operazioni partecipano ad una sorta di manutenzione del territorio che si fonda su una attenta lettura della morfologia luoghi, su uno sguardo analitico che si traduce in una riscrittura dei luoghi stessi. Pertanto la figura di Louis de Soissons si associa a quella di un architettotopografo, che riesce ogni volta a sottolineare un disegno già dato, insito nel luogo e che attende semplicemente di essere svelato. Nella costruzione dei 42 cimiteri militari, la memoria degli eventi diventa tutt’uno con la memoria dei luoghi, fissando degli imprescindibili punti di riferimento sul territorio, monumenti dispersi nella dimensione estesa della città contemporanea.

Sangro River War Cemetery

Sangro River War Cemetery, ridisegno di Luigi Coccia

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Il tema della manipolazione del suolo come risultato dell’applicazione, semplice o combinata, di azioni elementari sul terreno è sviluppato in: L. Coccia, L’architettura del suolo, Alinea, Firenze 2005.


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ESISTE ANCORA L’ARCHITETTURA… Francesca Buonincontri

Esiste ancora l'architettura? A questa domanda un giovane architetto sa che potrà rispondere solo discutendo dell'architettura di altri perché la possibilità di veder costruita una propria opera è estremamente limitata. Leggerà con stupore ed amarezza di quando gli architetti credevano di poter migliorare la vita degli altri uomini con il proprio lavoro, che era quello di "progettare dal cucchiaio alle città" (secondo la formula di Herman Muthesius) adottata dal movimento moderno e di come molti, basti pensare ad Alvar Aalto, siano riusciti davvero a confrontarsi con ogni tema progettuale. Per rispondere alla domanda se è ancora viva l'architettura occorre prima capire che cosa è l'architettura oggi, mutate come sono le relazioni con la società, le condizioni tecniche alla base della progettazione, le procedure e lo stesso ruolo dell'architetto; occorre poi chiedersi che cosa non è più l'architettura, una volta che si è persa ogni speranza sulla funzione sociale e culturale sua e dell’urbanistica. Possiamo dichiarare sicuramente finita l'architettura come mestiere civile di lotta e di proposizione di modi di vivere più giusti ed egualitari. Da quando si è lasciato operare solo il mercato, l'identità e i compiti dell'architettura si sono confusi, i confini tra le diverse arti sono diventati più incerti, prevale spesso l'individualismo e la ricerca della propria autocelebrazione che, indifferente al contesto sociospaziale, trasforma l'architettura nella nuova disciplina dell'estetizzazione che, come scrive Gregotti, fa coincidere abusivamente le nozioni di arte e comunicazione e propone i mezzi stessi come fini. Il Movimento Moderno insegnava che l'architettura doveva essere sociologia, economia, politica ed arte, basti pensare a Le Corbusier, secondo cui tecnica e arte rappresentavano due caratteri paralleli, non in antitesi, e l'architettura era lo strumento capace di migliorare la condizione umana attraverso una razionale e funzionale organizzazione degli spazi. Oggi sembra che il mestiere del fare Architettura sia ridotto ad artistica esercitazione fine a se stessa esercitata da pochi architetti famosi, che appaiono sulle copertine delle riviste, mentre la maggioranza rimane avvilita da una professione di cui spesso ha perso anche la capacità di utilizzare gli strumenti di lavoro, con il computer che ha sostituito tecnigrafi e matite, e a cui, specie ai più giovani, non riconosce più il ruolo di progettazione di un futuro diverso e migliore. Partendo dalla presa d'atto che "stiamo perden-

do" l'Architettura, le analisi e i possibili rimedi vengono proposti da più parti. Vittorio Gregotti, nel saggio Contro la fine dell’architettura denuncia la profonda crisi dell'architettura in seguito ai mutamenti della produzione e riproduzione delle immagini e indica, come via di superamento della crisi, l'urgenza di recuperare le finalità sociali e gli obiettivi disciplinari. Tra le cause della "liquefazione" dell'architettura Gregotti individua una sovraesposizione dell'immagine dell'architettura a scapito della sua finalità e identità. «Il nuovo diventa novità... Tutto è sostanzialmente fermo pur nell’incessante turbinio delle proposte, fermo in un tempo che si pretende senza storia» occorre al contrario interrogarsi sulle proprie radici e sul proprio passato e, attraverso la rilettura delle opere della classicità, comprendere in modo più chiaro i problemi della contemporaneità e individuare la loro possibile soluzione. Gregotti ritiene anche che i grandi cambiamenti architettonici possono essere provocati non tanto da megacostruzioni caratterizzate da scelte stupefacenti (fatte per stupire) ed eccezionali. ma da episodi “minimi” come per esempio è accaduto con il Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe o la Casa Elettrica di Figini e Pollini. Per Gregotti" l’immagine sorprendente si è posta progressivamente per necessità di sopravvivenza mediatica (cioè oggi professionale) al centro di ogni attività di figurazione architettonica trasformata in evento eclettico per necessità. Il paradigma della nozione mercantile di “opera d’arte” è diventato per l’architettura disastrosamente fatale." Anche per Siza l'architettura è in crisi, "è in crisi la sua qualità", il ruolo dell'architetto è diventato ambiguo, ed ha perso la funzione di coordinare esigenze diverse. Nell'architettura contemporanea viene esaltata la specializzazione, ma "l'architetto è lo specialista del non specialismo" e non può limitarsi a diventare l'artefice dell' involucro, "dell' immagine che promana dall' esterno, ignorando che l'esterno è l'effetto dell'interno». Secondo Siza l'architettura è arte, un edificio pubblico, il municipio o un museo, deve emergere nella città, ma questo non significa dominio: "significa giustezza nella scala, nel rapporto con l'intorno e con la memoria del luogo". L'esempio di architetture spettacolari non può rappresentare una soluzione neanche per Arata Isozaki che individua le ragioni della crisi dell'architettura nell'allontanamento "dall'idea più classica, quella della tradizione", con i giovani architetti interes-


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sati soprattutto al design, e lontani perciò da "quell'idea di progetto classico, alla Brunelleschi che non a caso costruiva i propri edifici guardando alla classicità e direttamente sul cantiere». Isozaki fa partire l'inizio della crisi dell'architettura dalla Biennale di Venezia (direttore Aldo Rossi) del 1985, anno in cui si è cominciato a costruire tutto al computer. "Così i giovani architetti non disegnano più, creano bellissime archisculture che nella maggior parte dei casi sono destinate a rimanere tali solo nell'immaginazione, senza diventare realtà". I tentativi per uscire dalla crisi dell'architettura sono tuttavia diversi, a volte anche contradditori, ed infatti proprio all'immaginazione e all'utopia affida la possibile risoluzione Aaron Betsky, direttore della XI edizione della Biennale di Venezia (2008) dal titolo Out There: Architecture Beyond Building, secondo cui l'architettura non deve mettere in scena progetti e modellini ma è un modo di pensare e parlare degli edifici e desiderare di costruire un altro mondo. Secondo Betsky, gli edifici sono la tomba dell'architettura che è stata soffocata da monumenti di vetro e titanio, dalle troppe norme e regole e, soprattutto, dal successo mediatico di edifici stupefacenti e costosissimi. Prende atto che l'architettura è in agonia e ritiene che l'unica speranza di sopravvivenza stia nel tornare a progettare l'impossibile, riprendendosi la vocazione utopica. Per Betsky "la vera architettura è fatta di utopia e immaginazione", ma oggi. alla fine del primo de-

cennio del ventunesimo secolo, incalzati dal rapido susseguirsi di cambiamenti radicali, queste riflessioni ci possono apparire già superate. Nell'attuale periodo di recessione globale che ha ridimensionato tutti i grandi progetti e ci spinge a tenere ben saldi i piedi per terra, preferiamo rivolgerci all'architettura più come portavoce di nuovi valori e come strumento capace di dare forma al desiderio di mutati stili di vita. Questo sembra essere il senso della XII Mostra di Architettura della Biennale di Venezia (29 agosto - 21 novembre 2010), trasformata dalla sua direttrice Kazujo Sejima in una riflessione sull'architettura, e in un'occasione per sperimentare le sue possibilità attraverso interventi, non di pochi e illustri archistar, ma di una generazione di architetti 40-50enni provenienti da tutto il mondo che riflette sullo spazio e i luoghi abitati dalla gente comune. Per interrompere l'agonia dell'architettura occorre che la disciplina progettuale ritorni ad essere utile e diffusa, occorre che esamini i cambiamenti della società, del mondo produttivo e culturale con cui si deve continuamente confrontare ed assuma infine una posizione critica nei confronti della globalizzazione, ridefinisca gli ambiti della propria pratica artistica, nel contesto dell'interdisciplinarietà, e crei una immagine architettonica che torni ad essere "sostanza che produce interpretazione".


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LA FINE DELL’ARCHITETTURA MATERICA E L’INIZIO DELL’ARCHITETTURA DEI CINQUE SENSI Nello Luca Magliulo

L’occhio umano, macchina impeccabile e senza limiti, che riesce a inquadrare e definire un oggetto all’interno di uno sfondo caotico alla velocità media di quattro movimenti al secondo. Alla percezione segue la conoscenza e l’elaborazione dei dati e delle immagini. La conoscenza diventa, quindi, il momento fondamentale in cui riconosciamo, quasi in una sorta di risveglio della nostra coscienza primordiale, le forme e le immagini a noi familiari. Di fronte ad un’opera architettonica tale processo, se si verifica e va a buon fine, ci pone in uno stato d’animo di “sicurezza” e di “familiarità". “Per lunghi periodi intermedi una sequenza formale (spazio architettonico) può apparire inattiva, semplicemente perché non esistono ancora le condizioni tecniche per il suo risveglio... In qualsiasi momento, l'originalità, è limitata entro questi stretti confini, cosicché nessuna invenzione oltrepassa il potenziale della propria epoca. Può accadere che, un'invenzione (intuizione) sembri toccare il limite massimo delle possibilità, ma se oltrepassa quella zona di penombra essa è destinata a restare un giocattolo curioso o a scomparire nel mondo dei sogni".1 Le nuove frontiere dell’architettura ci propongono oggigiorno immagini spettacolari che riescono a dare alle opere oltre che una valenza architettonica una componente iconografica, artistica e spettacolare. Il prospetto diventa un mezzo di trasmissione, un elemento trasparente, una facciata interattiva che sembra far scomparire l’architettura cambiando la sua forma, il suo aspetto quasi in una sorta di combinazione camaleontica. Una smaterializzazione che sembra porre le basi per una fine dell’idea tradizionale di architettura, del concetto di forma e funzione strettamente legati e interconnessi. Sembra quasi che la funzione specifica del luogo progettato si fonda con la funzione collettiva della percezione e dell’interattività del pubblico trasformando gli spettatori (non utenti) in utenza di altra natura. La stessa idea di contestualizzazione viene negata e rielaborata ed il “contesto” non è più il paesaggio all’intorno (naturale o artificiale che sia) ma le persone che colloquiano con l’architettura e tutto ciò che è in movimento. Ma, come è possibile donare materialità ad un’opera architettonica utilizzando 1

Dal saggio "La forma del tempo", di George Kubler, 2002

suoni e immagini virtuali? Come si possono realizzare architetture monumentali (che hanno come prima caratteristica la durabilità nel tempo) che siano mutevoli? Probabilmente queste sono le stesse domande che Toyo Ito, pioniere di questa “nuova” architettura, si è posto nel 1986 per progettare la sua famosa “Tower of Winds”. Si trattava di una torre in cemento armato alta ventuno metri costruita negli anni ’60 come serbatoio dell’acqua per l’impianto di condizionamento del centro commerciale sottostante a Yokohama. Toyo Ito, con il suo intervento, trasformava l’involucro di cemento dandogli una veste mediale fatta di luci che di notte illuminavano in maniera differente a seconda dei dati sonori che raccoglieva nel suo spazio urbano. La stessa torre diventava un elemento di unione tra lo spazio reale urbano e lo spazio virtuale dando la possibilità agli utenti di percepire attraverso la vista il suono, trasformando il caos urbano in immagine visiva. Oggi la torre è stata demolita ma rappresenta ancora un simbolo di un nuovo modo di fare architettura e di comporre il prospetto. Negli anni a seguire, Toyo Ito realizzerà una serie di opere come l’ ”Egg of winds” (1991) e la Mediateca di Sendai (2000) che rappresentano ulteriori risultati nel campo applicativo delle metodologie progettuali in esame. La mediateca di Sendai è probabilmente il più significativo progetto basato sulla comunicazione visiva realizzato dall’architetto giapponese. Il concetto di base dell’edificio ruota attorno a tre elementi compositivi principali: I sei livelli fuori terra, Le tredici colonne realizzate con elementi reticolari, una pelle trasparente esterna di rivestimento. I piani si presentano come fogli sottili che si incastrano nelle colonne, tutti di forma quadrata e sospesi nel vuoto. I solai si trovano tutti ad altezze diverse per adattarsi alle esigenze ed alle richieste dei committenti allo scopo di evitare un banale ritmo continuo di facciata. Le “colonne reticolari”, realizzate con elementi tubolari in acciaio, perforano l’edificio in senso verticale attraversando tutti i solai, dal livello interrato fino all’ultimo piano. Le colonne svolgono una tripla funzione: quella strutturale sostenendo l’edificio, quella impiantistica facendo da cavedio per gli impianti e quella mediatica attraverso i corpi illuminanti contenuti all’interno. Infatti, questi enormi elementi reticolari, danno vita ad un’illuminazione naturale delle parti centrali dei vari piani e sono vi-


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sibili dall’esterno in quanto la “pelle” esterna di rivestimento, composta da quattro facciate e da una copertura piana reticolare, le rende visibili dall’esterno. I giochi di luce generati all’esterno rendono la mediateca di Sendai un sistema di prospetto “variabile” e che da vita a giochi di colore notturni che danno l’idea, come lo stesso Toyo Ito ha sostenuto, di una sorta di acquario gigante. Realizzando un parallelepipedo di vetro, la cui immagine è estroflessa dall’interno, si ottiene un risultato in cui ogni prospetto è caratterizzato da soluzioni architettoniche diverse che ne accentuano e ne evidenziano il valore grafico bidimensionale. Con questo modo di risolvere la composizione architettonica saltano gli schemi compositivi tradizionali della facciata che non è più il ritmo di pieni e vuoti, ma immagine interattiva, che perde materialità o che per assurdo, anziché di pietra o di intonaco, potremmo dire fatta di questo nuovo materiale che, provocatoriamente, risponde al nome di “dissolvenza” o “immagine”. Si perde così l’idea della materia nel suo peso, nella possibilità di toccarla. Cambia il modo di percepire la materia perché il tatto è sostituito dalla percezione visiva o uditiva. A decenni di distanza dalla realizzazione del Centre Pompidou, che esprimeva una primordiale idea di prospetto in movimento, Renzo Piano realizza la sua idea di facciata mutevole e mediatica con il progetto per il KPN Telecon Office Tower di Rotterdam. Un prospetto visibile fino a due chilometri di distanza che si sviluppa su di una superficie di 3.600 metri quadrati e che, con una capacità di accendimento e spegnimento pari a due volte al secondo, riesce a trasmettere immagini all’interno di un contesto metropolitano. La tradizionale idea di prospetto fisso e monumentale della tipologia a torre cade per fare spazio ad un’immagine mediatica che diventa quasi una sorta di omaggio alla cinematografia urbana. Il prospetto inclinato in avanti e poggiato su di un unico pilone centrale sembra quasi un invito a guardare come accade per uno schermo su cui si proietta una pellicola cinematografica. Si tratta di una metodologia compositiva che dona all’oggetto architettonico una bivalenza funzionale: spaziale all’interno, mediatica all’esterno. Ma, la forza di un tale sistema compositivo risiede negli strumenti e nella tecnologia oggi a disposizione dei tecnici. L’uso avanzato dei computer, delle luci e dei nuovi materiali hanno permesso un avanzamento in termini progettuali che affiancato alla creatività dei progettisti ha prodotto risultati stupefacenti. Ma, tutto ciò è anche espressione di nuove esigenze della società, come la necessità di luoghi dell’incontro che siano caratterizzati da nuovi metodi di comunicazione e socializzazione. Una società caratterizzata da un’utenza che cerca nell’architettura un effetto di

stupore. Ma un’architettura fatta di immagine e di percezioni visive e sonore non nasce solo dalle nuove esigenze dell’utenza e dall’innovazione tecnologica. Un altro fattore sicuramente influente è la velocità della vita e delle azioni quotidiane cui siamo sempre più indotti e abituati dai media. Del libro di Robert Venturi, “Learning from Las Vegas. The forgotten symbolism of architectural form”, ritroviamo oggi in atto la vera essenza del simbolismo. Come in Las Vegas ogni cosa era al suo posto per un suo preciso motivo e significato simbolico, oggi l’architettura mediatica fa lo stesso. Trasmette immagini e suoni come per inneggiare ad un significato comunicativo o interattivo. Ma l’architettura attuale, riesce oggi a sfruttare l’immagine non solo per interagire o per creare piazze multimediali, ma anche per parlare di se e riesce a superare la facciata entrando anche nelle scelte compositive interne. E’ il caso di Neutelings Riedijk Architecten che in Olanda ad Hilversum, con il loro Istituto dell’immagine e del suono, hanno costruito quella che si può oggi definire la “cattedrale” degli edifici mediatici. Hilversum, spesso denominata "media city" per le infrastrutture tecniche e tutte le sedi radio-televisive che vi si trovano, era il luogo ideale per accogliere un progetto del genere. Si tratta di un edificio con una facciata che propone dall’esterno una doppia lettura: da lontano crea un gioco di colori vividi e alterati e modificati dall’intensità della luce esterna, mentre da vicino offre la lettura di una serie di fotogrammi di film famosi serigrafati su pannelli che rivestono l’intera facciata. Anche in questo caso, il forte simbolismo corre in parallelo con le scelte progettuali e prospettiche. La stessa funzione della facciata assume la bivalenza funzionale di essere immagine all’esterno e creatrice di giochi di luce soffusi all’interno con scopi anche funzionali non legati solo ed esclusivamente al problema illuminotecnico. L'Istituto Olandese è oggi l’archivio nel quale è conservato tutto il materiale audiovisivo olandese dalla nascita della radio e della televisione fino ai giorni nostri. Nelle richieste iniziali, in più della metà del programma funzionale, erano previsti spazi per magazzini e stanze per gli archivi, con la richiesta specifica di riuscire a ottenere delle condizioni climatiche regolabili e costanti ed una buona illuminazione senza il bisogno di luce diretta. Il risultato finale è stato quello di un edificio che si sviluppa totalmente attorno ad un pozzo centrale che riesce a filtrare la luce, anche se riflessa, fino ai piani più bassi. Da un punto di vista funzionale l’intero complesso è nettamente diviso in due parti: i piani superiori al livello del terreno sembrano essere specchiati in positivo rispetto a quelli inferiori. Il vuoto impresso per svuotare i livelli inferiori danno origine ad un sistema di gradoni capovolti che di-


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ventano dei terrazzamenti decrescenti in direzione del cuore centrale affacciandosi sul pozzo centrale e ospitando luoghi come il museo, gli uffici e spazi di ricevimento per i visitatori. Il piano terra è il punto in cui avviene l’accesso all’edificio attraverso una reception, corridoi e zone di servizio. I magazzini e gli archivi si trovano nei piani più in basso. Tutto si sviluppa attorno al pozzo centrale che diviene il fulcro dell'intero edificio. La corte è stata orientata a sud in maniera tale che il sole delle ore pomeridiano riesca ad entrare fin dentro l'edificio e da ottenere una riflessione di quest’ultima sulle facciate interne degli uffici. Il tutto a ricordare una sorta di edificio sacro accentuato ancor di più dalle trame realizzate in cemento come gli elementi cruciformi che si sovrappongono ai vetri dell'auditorio. Il tema della facciata mediatica può essere, oltre ad uno stile compositivo o ad una scelta funzionale per un edificio, il sistema per il recupero di un edificio o di una piazza esistenti. Molti sono stati gli esperimenti in questo senso realizzati attraverso la realizzazione di installazioni temporanee che hanno dimostrato il potenziale di queste soluzioni mediatiche ed interattive. E’ il caso di Blinkenlights. Si tratta è un’installazione urbana temporanea realizzata ad Alexanderplatz a Berlino dal CCC(Chaos Computer Club). L’installazione fu realizzata il 12 Settembre del 2001sulla facciata della Haus des Lehrers (casa degli insegnanti), un vecchio edificio utilizzato in

passato dal governo della Germania dell’est che affaccia sulla famosa piazza di Berlino. Il prospetto dell’edificio venne trasformato in una matrice mediatica inserendo dietro ognuna delle 144 finestre degli otto piani fuori terra una lampada collegata ad un relè a sua volta attivato da un computer. I passanti potevano inviare sms con il proprio cellulare e visualizzarlo su questo schermo gigante interagendo così con l’edificio che trasformava le parole in animazioni ed immagini. Ma, la sorpresa più grande per il pubblico fu sicuramente la possibilità di poter giocare sullo schermo al classico gioco arcade pong utilizzando il proprio telefono cellulare come joystick. L’installazione, durata fino al 23 Febbraio 2002 (giorno della sua dismissione) ha attirato circa diecimila visite giornaliere, dimostrando come un intervento del genere riesca a dare ad un luogo pubblico una marcia in più per la fruibilità degli utenti offrendo oltre come uno spazio visivo anche uno spazio interattivo. Se queste realizzazioni, che venti anni fa sembravano essere il futuro utopistico, sono oggi il presente e, considerando la velocità sempre maggiore del progresso tecnologico, fra non molti anni potremmo assistere a risultati sempre più spettacolari in grado di definire a pieno la nuova metodologia progettuale e compositiva che rafforzerà sempre di più il legame tra le capacità relazionali dell’uomo e la produzione architettonica.


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ARCHITETTURA SACRA CONTEMPORANEA: IL LINGUAGGIO DELLA DECADENZA Massimo Squillaro

Per formulare un pur breve discorso intorno all’odierna condizione delle arti e dell’architettura sacra, credo sia necessario partire da una premessa largamente condivisa: le arti liturgiche e l’architettura chiesastica vivono oggi uno dei più gravi periodi di crisi nella storia del Cattolicesimo. Consapevoli di una tale oggettiva realtà, non possiamo far altro che cercare di individuare le ragioni di una simile crisi, svilupparne una critica fondata e formulare, infine, delle proposte che consentano alla Chiesa di ritornare ad esser autentico faro del bello per mezzo del quale risplende la Verità di Cristo per i cristiani. Anche se tutti possiamo convenire sull’attuale decadenza delle arti sacre, probabilmente a non tutti noi è chiaro il senso di questo termine: decadenza. Decade ciò che per processo fisico e naturale passa da una condizione di pienezza, di fiorita vigoria, ad un’altra miseranda, fatta di vecchiaia e deperimento. Le arti e l’architettura sacre sembrano invece decadere per un atto volitivo e programmatico, non per inerzia o fisica reazione. E siccome gli atti di volontà nella Chiesa sono eminentemente personali e non impersonali o stratificati in ciò che siamo soliti definire “tradizione” è agli uomini che ci tocca guardare. Le chiese moderne non persuadono. Visitandole si percepisce la difficoltà dei contemporanei di esprimere il trascendente nelle opere d’arte sacra. I fedeli sono condannati a frequentare chiese che assomigliano spesso a palestre, garage, supermercati, scuole, o addirittura piscine. Forse chi le ha disegnate intendeva riprodurre le situazioni della vita quotidiana nei luoghi demandati all’incontro con la Trinità. Eppure in questi ambienti stranianti non si riesce a instaurare alcun rapporto né con Dio né con gli uomini. A volte ,si avverte la solitudine come in nessun altro spazio. E pensare che la chiesa, ormai, non è più il luogo dove si prega, ma dove si fa l’assemblea, proprio come avviene nelle aule di culto protestanti. Diversamente da una moschea o una sinagoga o un edificio di culto protestante, una chiesa è anzitutto, il luogo della presenza fisica di Dio: la fede nell’Eucaristia fa sì – o dovrebbe, per i cattolici – che quanti entrano nello spazio sacro si trovino in un “cielo aperto”, una dimensione che è diversa da quella mondana ma non meno reale e fisica, oltre che spirituale. L’architettura moderna del Novecento ha prodotto opere d’arte anche in questo ambito. Il guaio è che sono un monumento che l’architetto fa a se stesso,

come il santuario di Ronchamp di Le Corbusier, o le chiese di Alvar Aalto. Da questo punto di vista non sono architetture riuscite, perché le si potrebbe utilizzare per altri scopi, operazione che risulterebbe impossibile nel caso della cattedrale di Chartres o della chiesa di S Maria del Fiore a Firenze. È comprensibile l’insoddisfazione che dette origine più di venticinque anni fa a movimenti come quello dell’”Architettura tradizionale”, una corrente artistica che propugna un ritorno alle forme del passato. Ma il rimedio è peggiore del male, poiché è piuttosto irragionevole riproporre in cemento armato stilemi nati in altre epoche, in altre culture, con altri materiali e differenti soluzioni tecnologiche. Da dove ripartire, allora? Da un lato occorre che gli edifici per il culto siano belli, tenendo comunque sempre presente che “il bello”nell’architettura sacra , ad esempio di una chiesa, è in stretta connessione a ciò che una chiesa radicalmente è, dall’altro bisogna che tali edifici assolvano adeguatamente alla funzione per la quale sono progettati quindi in questo caso edifici con l’obbiettivo di esprimere sacralità. Le due esigenze quindi, bellezza e sacralità sono strettamente collegate. Consideriamo innanzitutto le difficoltà in ambito estetico. Dalla sintassi dell’architettura moderna è stato escluso per principio il decoro, componente indispensabile per progettare le chiese cattoliche. È questa la ragione essenziale per cui le chiese moderne sono spoglie, quasi fossero sottoposte a una furia iconoclasta preventiva. La concezione di Dio dell’architetto, di solito astratta, viene espressa con una magniloquenza dei volumi ingiustificata. Un edificio non è una scultura. Fare irrompere sulla scena urbana una chiesa a forma di barca o di tenda non contribuisce a mettere ordine in un paesaggio caotico né a organizzare l’aula di culto. Il tempio cattolico è affatto diverso dal tempio greco, giacché lo spazio interno è più importante del volume esterno e va studiato con enorme cura. Alle nude pareti vengono addossate immagini spaesate delle Tre Persone divine, della Madonna e dei santi, che potrebbero essere rimosse o spostate senza modificare l’effetto dell’insieme. Si entra in ambienti anodini, senza sapere dove dirigersi, dato che non c’è un motivo particolare perché il crocifisso o il tabernacolo stiano in un posto anziché in un altro. Le architetture religiose contemporanee denunciano l’assenza di fede e sembrano negare il mistero, la predilezione per le scatole porta alla ricerca di un “linearismo funesto”poco incline al messaggio cristiano. Non bisogna essere un sottile

Chiesa di Ronchamp - Francia

Chiesa di S. Donato - Arezzo

Chiesa S. M. del Fiore - Firenze


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critico d’arte né un raffinato intenditore per rendersi conto del brutto che ci circonda. Che ciò riguardi poi anzitutto e soprattutto l’arte sacra, in specie quella cattolica, è davvero troppo. L’arte, infatti, è da sempre l’espressione massima della spiritualità, quale che essa sia, e della cultura umana. Quella cattolica, poi, è stata nel corso della storia la rappresentazione visibile, fin tangibile, dell’Incarnazione del credo in una civiltà fatta d’istituti, d’istituzioni, persino di politiche. Catechismo dei poveri e lectio per i dotti, l’arte sacra è la meditazione costante dell’uomo sulla imprescindibile carnalità della fede, la reificazione liturgica del bello, la lettura sacrale del tempo, il ringraziamento permanente al Creatore. Erwin Panofsky ha suggerito che esiste un intimo legame tra il modo di costruire una chiesa e il modo di pensare e di vivere degli uomini. Non ci deve quindi meravigliare se Klaus Gamber afferma che l'edificio di Ronchamp non è una chiesa come detto in precedenza. Vivere al di fuori del cristianesimo o in una forma alterata e secolarizzata di cristianesimo produce più o meno gli stessi risultati. Si deve affermare che quando nasce da artisti e architetti non cristiani potrà essere anche molto interessante, ma non sarà mai espressione del cristianesimo. Cerchiamo ora di comprendere perché la chiesa, come edificio, sia sacra. La nostra cultura moderna ha perso di vista il concetto di sacro, perché ha perso di vista la realtà di Dio e il senso della vita umana. E' stata spinta a far ciò anche da sbagliati presupposti teologici che definivano le realtà di fede così asetticamente da far sembrare che la verità non avesse alcuna relazione con gli uomini. In questo senso, il sacro per se stesso, staccato da qualsiasi relazione con i credenti, non ha senso. E' puro delirio affermare, dunque, che una realtà creata è sacra per se stessa concependola priva della sua reale relazione con il mondo. Sulla base di questo presupposto si giunge a due contraddittorie conclusioni: ogni cosa è sacra; nulla è sacro. Come l'oggettività, per essere eloquente, ha bisogno d'essere colta dal soggetto e quindi deve essere soggettivizzata, così il sacro ha il suo senso quando è posto in relazione con la persona, quando interagisce con il credente. Molte chiese realizzate negli ultimi decenni dalle archistar nell'interno o sono spoglie, perché hanno soltanto l'architettura della luce, o hanno immagini di cattivo gusto, oppure hanno la presenza dell'artigianato soltanto, e non invece, come accadeva in passato, grandi opere d'arte. La liturgia cattolica ha bisogno dell’ornamento simbolico perché i segni evocano e attualizzano

eventi storici. Inoltre la Rivelazione attribuisce un grande valore al corpo e alla materia. L’arte moderna non ha le risorse per esprimere queste verità, fra l’altro perché si rivolge a un’élite di intellettuali e non a una variegata comunità di fedeli comuni. Chi volesse imboccare nuovi percorsi di sviluppo dell’architettura e delle arti figurative dovrebbe entrare nel merito delle ragioni che hanno spinto le avanguardie a rifiutare la rappresentazione del corpo. È questo il problema centrale, non quello delle tecniche, considerato che il programma iconografico dello spazio liturgico si presta a complesse installazioni, molto attuali. Che oggi essa scelga dunque di farsi incomprensibile, sciatta e caricaturale è allora un triste ma anche allarmante segno dei tempi. Intanto nella Città Eterna brulicano le consacrazioni di nuove chiese e se non fosse per il segno riconoscibile della croce svettante nessuno si accorgerebbe di esse. Nel 2009 sono state ultimate due nuove chiese già nel mirino della critica formale;la chiesa di Santa Edith Stein,ribattezzata la chiesa ufo,per la sua singolare forma circolare e la chiesa di S. Maria Madre dell’Ospitalità che riecheggia un tempio svettante. Foto sconvolgenti di questi templi cristiani dell’orrore sono sempre in aumento in rete nel tentativo di informare e ravvivare il dibattito sul rapporto fra arte e architettura sacra, fede cattolica e tradizione millenaria della Chiesa. In Italia la Chiesa cattolica è rimasta l’unica committenza che abbia fiducia e interesse per il lavoro degli architetti. Non esistono una classe politica, una dirigenza o un ceto di mecenati che vogliano la qualità. Esistono casi isolati di incarichi che dimostrano il desiderio di apparire e un discreto complesso di inferiorità nei confronti dei progettisti di grido, ma sono eccezioni che non aiutano a uscire dal vicolo cieco. La progettazione dello spazio sacro costituisce una sfida intrigante non solo per gli architetti, ma anche per artisti, artigiani e liturgisti. Paradossalmente le risorse finanziarie ci sono, quelle che mancano sono le idee. Per trovare la strada giusta serve a mio avviso un sapere multidisciplinare raggiungibile solo con un chiaro contributo dei filosofi, degli storici, degli archeologi, dei teologi.

Chiesa di S. Donato - Campi Bisenzio

Chiesa di S. Edith Stein - Roma

Chiesa di S. Maria dell’Ospitalità - Roma


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L’ARCHITETTURA CIMITERIALE. IL CIMITERO DI SAN CATALDO DI ALDO ROSSI Gaetana Laezza

Agli inizi dell’Ottocento si diffonde anche in Italia, così come avvenuto già in Inghilterra, l’idea di progettare i cimiteri come giardini paesistici, luoghi non solo destinati alla sepoltura. Siamo negli anni in cui il cimitero si trasforma in un’immagine simbolica per la città, costruito in modo da concorrere con le altre maestose opere cittadine, laddove in passato esso veniva considerato un mondo a se stante, progettato, simbolicamente, come un hortus conclusus, che si isola dal mondo dei vivi per accogliere quello dei morti. Questa visione del cimitero considerato non più come spazio estraneo al paesaggio circostante, ma, secondo molti critici dell’architettura, esso stesso paesaggio, si discosta dalla struttura dei cimiteri precedenti al XVIII secolo. In questo periodo i cimiteri veniva realizzati come luoghi spogli, privi spesso di ogni forma vegetale, realizzati con un’estrema essenzialità nella composizione dello spazio. Nell’Ottocento lo spazio cimiteriale subisce una grande evoluzione non solo di carattere compositivo ma anche dal punto di vista prettamente simbolico. Da questi profondi cambiamenti, differentemente dai secoli scorsi, oggi molti progetti di cimiteri vengono ripensati come luogo dei ricordi, custodi del passato e della memoria, dotati di una propria identità, divenendo spazi fruibili da chi desidera immergersi nella storia e nella vita eterna di una comunità. Prima dell’Ottocento, il cimitero, era quasi sempre ubicato nel cuore della città, posto nei pressi di chiese, solo successivamente viene espulso e collocato fuori dall’abitato; era considerato esclusivamente la residenza dei morti, e di conseguenza, veniva isolato dalla città dei vivi. A partire da questo secolo diviene un luogo di meditazione per i vivi e di consolidamento dei vincoli familiari e nazionali, meta di edificanti passeggiate e fonte di educazione morale. La scelta di inserire viali alberati, luoghi destinati al raccoglimento e alla riflessione, zone destinate alle sculture,è segno di questa nuova interpretazione del giardino cimiteriale. Il cimitero, nella sua struttura e nella rigida separazione delle aree, ha riprodotto, in una immagine atemporale, la società dei vivi con le sue divisioni di censo. Con l’espandersi delle città, le periferie lambiscono e ben presto circondano e inglobano i cimiteri nel tessuto urbano che, solo un secolo prima, li aveva spinti fuori di sè. E’ pertanto durante

il XIX secolo che abbiamo assistito ad una precisa definizione dell’architettura cimiteriale, vista anche come occasione di sperimentazione e di esercitazione accademica: “Luogo architettonico, dove la forma e la razionalità delle costruzioni, interpreti della pietà e del significato del cimitero, siano un’alternativa alla crescita brutta e disordinata della città moderna. Un luogo architettonico, il cimitero come gli altri edifici pubblici, capace di costruire la memoria e la volontà collettiva della città. Così il cimitero, articolato attorno ai campi centrali di inumazione, all’edificio degli ossari, ai colombari perimetrali, offre i suoi elementi dominanti nelle due costruzioni del cubo sacrario e della torre conica della fossa comune. Questi, superando la linea del muro di confine, sono riferimenti al paesaggio urbano esterno ed indicano il cimitero”.1 L’idea progettuale da cui nasce il cimitero è quella di una operazione negativa, una sottrazione, e non una costruzione dove lo spazio viene generato da uno squarcio nel terreno, la cui conformazione viene fatta nascere dalla topografia del luogo e non dalla mano dell’architetto. In realtà, così come accade spesso la sua architettura non ha lo scopo tanto di trasformare, quanto di esplorare e scoprire, spesso sotto nuovi punti di vista o inedite prospettive, gli aspetti del sito. Il ruolo dell’architetto sembra essere quindi solo quello di adattare il progetto del cimitero al rispetto del genius loci. Il cimitero nel suo complesso non deve essere concepito come un insieme di tombe, ma come un giardino dal ruolo e dal significato sacro, per essere vissuto come un luogo di pace che, pur avendo in sé una connotazione principalmente drammatica, deve risultare uno spazio che offre serenità. Questa interpretazione dello spazio cimiteriale (non solo come luogo di riposo eterno) fa si che il cimitero venga visto non come un edificio, ma come uno spazio ottenuto da un taglio nella terra. Il cimitero cerca altresì di evidenziare come sia capace di esercitare stimoli l’architettura sensoriali e di far instaurare un rapporto fra le sue forme ed il visitatore, non dovuto esclusivamente al valore puramente estetico. La stessa scelta delle specie arboree cerca di 1

A. Ferlenga (a cura di), Aldo Rossi, architetture 1959 – 1987, Electa, Milano, 1987.


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stabilire una rapporto con il paesaggio circostante, introducendo, non solo per il movimento cui sono disposte le aree cimiteriali, quanto per il variare dell’aspetto, la condizione temporale del luogo. Cimitero di San Cataldo, Modena Il progetto di ampliamento del cimitero di San Cataldo a Modena, ad opera di Aldo Rossi, con la collaborazione di Gianni Braghieri, sembra abbia raggiunto la perfezione dell’architettura cimiteriale attraverso la composizione di volumi perfetti e puri che proiettano ombre nette e che, come meridiane, segnano il trascorrere delle ore. Aldo Rossi scrive del progetto: “Il cimitero deve essere considerato come un edificio pubblico, i cui percorsi abbiano la chiarezza e la razionalità necessaria … All’esterno, è recintato da un muro in cui si aprono delle finestre. Di conseguenza, non si differenzia molto da altri spazi pubblici. Per il suo ordine e la sua posizione, esso riflette anche l’aspetto che gli è proprio come un ricordo della città moderna. Il cubo è una casa abbandonata o non finita e il cono che sovrasta la fossa comune come un grande camino, non può forse sembrare la cappa di un’officina deserta?” Del progetto Paolo Portoghesi scrive sulla rivista Controspazio:“…il Comune di Modena ha compiuto un atto di coraggio e di sensibilità culturale. È andato controcorrente, perché non si tratta certo di un tema alla moda in un’epoca di consumismo e di tecnologismo imperante; ma si è acquistato dei meriti oltre che nei confronti della cittadinanza, nei confronti della cultura architettonica italiana invitata a cimentarsi nella soluzione di un problema inconsueto, per il quale mancano indicazioni pregnanti nella tradizione dell’architettura moderna e che non di meno costituisce parte integrante e non marginale del problema della nuova città”. Il progetto è inserito, del resto, nel tessuto urbano della città ed è situato nella periferia di Modena con il preciso compito di rivalutare e valorizzare una zona urbana in fase di degrado. Il fatto di aver pensato ad un cimitero per riqualificare un’area degradata è stato considerato, alla fine del secolo, come un segno di rinnovamento: il cimitero come polo di attrazione per questa area periferica. Per quanto riguarda la cromia, tutto è caratterizzato dai toni del grigio, utilizzati nei diversi prefabbricati realizzati in cemento, e nelle pietre lisce; le coperture sono realizzate con sistemi a capriata metallica a vista, ricoperte con falde in alluminio preverniciate di colore azzurro; nei portici i colori sono ancora quelli del grigio, con alcuni elementi azzurri e la presenza del rosso adoperato per il cubo, analogo al colore utilizzato per le pareti che pure è un rosso di tonalità molto chiara. La scelta dei colori è stata dettata dagli stessi progettisti

e sembra volutamente riprodurre una tela di Giorgio De Chirico. Rossi descrive così il suo progetto: “La forma tipologica del cimitero è caratterizzata da percorsi rettilinei porticati. Lungo lo sviluppo di questi sono ordinate le salme. I percorsi porticati sono perimetrali e centrali. Essi si svolgono sia al pianoterra sia ai piani superiori, sia interrati. Questi edifici sono costituiti prevalentemente dai colombari: si accede ai piani inferiori dai vani perimetrali. Al piano interrato i colombari si sviluppano secondo un disegno reticolato che forma grandi corti. Le corti sono costituite dalla terra delle quadre di inumazione. Ai lati delle corti stanno le rapporto è rovesciato: al centro dell'area sono collocati gli ossari con successione regolare iscritte in un triangolo; questa spina centrale o vertebra si dilata verso una base e le braccia dell'ultimo corpo trasversale tendono a richiudersi. All’estremità di questa spina centrale si trovano due elementi con una forma definita: un cubo ed un cono. Nel cono e al di sotto di questo si trova la fossa comune; nel cubo, il Sacrario dei morti in guerra e delle salme trasportate dal vecchio cimitero. Questi due elementi monumentali sono collegati alla spina centrale dai bersari mediante una configurazione osteologia. Sono in un rapporto dimensionale, monumentale; qui monumentale significa il problema della descrizione del significato della morte e del ricordo: questi elementi definiscono la spina centrale”. Emerge come il progetto nasca da un’attenta analisi dei temi legati all’architettura funebre, non tralasciando l’importanza che esercita il luogo in cui il progetto si inserisce e prende forma. Le due parti del cimitero presentano altresì legami e forti analogie, pur conservando una propria autonomia e mantenendo i propri caratteri, laddove il nuovo cimitero si relaziona al vecchio attraverso un elemento architettonico che collega i due opposti. Rossi riprende cioè, dallo schema del cimitero ottocentesco, il carattere suggestivo che deriva dall’incompiuto, recuperando schemi dell’arte funeraria di epoca romana in modo da offrire valore all’area centrale caratterizzata dal grande vuoto viene definito dai portici predisposti secondo uno schema triangolare. Appare evidente quindi come l’intenzione dei progettisti sia di coniugare forme e tipi, che pure caratterizzano storicamente e simbolicamente le aree cimiteriali, in termini si direbbe urbani, dove le diverse parti alimentano un fitto colloquio che renda la morte alla vita, al sociale. Del resto nella relazione allegata al progetto si sottolinea come tutto il gruppo di edifici voglia dar vita ad una città, se, come è scritto, attraverso il nuovo cimitero,“… nella città il rapporto privato con la morte torna ad essere rapporto civile con l’istituzione”.


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I LUOGHI DEL SILENZIO Giovanni Bartolo

Edgar Morin nel suo libro L’Homme et la Mort dedicato alla morte, afferma che c’è qualcosa che segna drasticamente il passaggio da uno stato di natura a quello pienamente umano: nel capitolo Ai confini della terra di nessuno, viene fuori il primo segno che testimonia la nascita di una umanità consapevole: «la sepoltura, come prima e sensibile prova della preoccupazione di una comunità e dell’individuo per la morte»1. Fin dalla preistoria si avvertiva un segno di rispetto e mistero verso la morte, la non conoscenza di questo fenomeno spingeva gli uomini a sotterrare i morti a immagine e somiglianza dei vivi. I loro resti, dal momento che «una nuova vera vita li attende come prolungamento indefinito dell’esistenza», venivano trattati con colori, unguenti, dipinti spesso con il colore del sangue. Accanto a loro venivano conservati cibo, oggetti di uso comune come vestiti, armi poiché questi defunti nell'immaginario collettivo conservano il desiderio, la rabbia e risentimenti. La morte viene quindi intesa non come la fine della vita ma come un sonno, un viaggio, un trapasso nella dimora degli antenati; un passaggio da un mondo ad un altro sconosciuto, si avverte come un evento che produce un vero e proprio cambiamento di stato, un qualcosa che modifica la sequenza normale della vita2. Il defunto non è più un essere vivente, o meglio si percepisce che non è un essere comune a gli altri: lo si prepara con riti speciali, lo si sotterra, lo si brucia, lo si ricopre di terra e di pietre avendo cura di ricoprire tutto il corpo soprattutto piedi e testa - in modo da celare agli occhi quello stato deforme e orrendo che man mano appare nel ciclo inarrestabile della decomposizione del corpo. La civiltà greca, attraverso Omero, ci tramanda il gesto simbolico di disporre due monete sugli occhi del defunto per il traghettatore nella terra dei morti. Un altro esempio può essere il trattamento dei defunti nella civiltà Egizia. I morti venivano mummificati, imbalsamati ecc. Gli imbalsamatori Egizi, che univano conoscenze di anatomia umana e chimica a rituali religiosi, dovevano agire con rapidità per evitare che il cadavere iniziasse a decomporsi a causa del clima caldo dell'Egitto. Questo lavoro era affidato a specialisti che lavoravano in laboratori appositamente attrezzati, in prossimità del Nilo o di uno dei suoi canali (per i diversi lavaggi che subiva il corpo durante le diverse fasi del lavoro). Il

completamento del processo di imbalsamazione richiedeva circa 70 giorni, circostanza che permetteva anche di completare la tomba del defunto. Quindi ci si doveva adoperare e proteggersi da quell'orribile fenomeno della decomposizione, infatti, da questo hanno origine tutte le pratiche cui ricorse l’uomo, sin dalla preistoria, per accelerare e celare agli occhi dei vivi il processo di disfacimento: imbalsamazione, cremazione ed endocannibalismo; inumazione e tumulazione per nasconderla in seno alla terra; abbandono in balia delle acque e negli infiniti spazi dei deserti per allontanarla. Perché questa eliminazione si compia, come afferma Gaston Bachelard in La poétique de l’espace, «occorre restituire la carne a uno degli elementi originari, riconducendo la parte materiale del cadavere a una delle quattro patrie della morte: aria, acqua, terra e fuoco»3. Questa concezione dell'impurità del processo di decomposizione del corpo determina, lungo il tempo che lega inseparabilmente la morte alla vita, i modi e le tecniche con cui venivano trattati i defunti. Queste tecniche hanno lo scopo di proteggere la vita dalla morte contagiosa per assicurare la decomposizione della carne. Ma c'è dell'altro che produce turbamento, angoscia e terrore: è la presenza ossessiva dei morti nella quotidianità dell’esistenza. Questa sensazione obbliga l’uomo a convivere con la paura del ritorno, dal momento che gli spiriti ovvero i morti, «sono in effetti presenti nella vita quotidiana e decidono della buona o cattiva sorte, della caccia, della guerra, del raccolto, della pioggia»4. Questa eterna onnipresenza dei cadaveri e dei loro spiriti determina l’incredibile necessità «di erigere depositi compensatori, di innalzare o incavare le case dei morti, spesso più sontuose e in un numero maggiore delle case dei vivi». Questo non solo per la paura degli spiriti, ma per conservare anche un rapporto con i propri cari addormentanti. L'esigenza quindi di costruire case per i morti identiche a quella dei vivi ed a volte i cadaveri sono deposti nella solennità di un sepolcro immagine del mondo, a volte gli vengono dedicate delle città, a volte addirittura - gli si lascia la loro dimora. Depositati in luoghi santi, isolati in recinti, ridotti in cenere e dispersi nell’inconsistente materia del ricordo o ricongiunti nel patto naturale che lega vita e morte,

1 E. Morin, 1976, trad. it. L'uomo e la morte, p. 33, ed. it. Meltemi, 2002, Roma. 2 Ibidem, p. 35.

3

G. Bachelard, 1957, trad. it. Ettore Catalano La poetica dello spazio, p. 14, Dedalo Libri, 1975 , Bari. 4 E. Morin, op. cit., p. 40.

Aria: le torri del silenzio

Aria: le torri del silenzio

Fuoco: Rito funerario Vichingo e Celtico in mare appiccando il fuoco


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comunque immaginati, per essi vengono destinati luoghi per la sepoltura che vengono necessariamente distinti, con dimensioni spaziali diverse, specifiche e riservate, e segnali per la rappresentazione di statuti particolari, dei marcatori territoriali che introducono confini entro cui il comportamento dell’uomo è ordinato da rituali e ordinamenti specifici. Nascono le tombe come edifici e maestosi templi, dove si svolgo riti religiosi e esoterici, come ad esempio le Piramidi, o scavati della roccia e nella terra come le necropoli greche e le catacombe. Essi rappresentano i luoghi dove avviene la conservazione dei resti, sia polveri che ossa, la memoria delle civiltà, il rango d'appartenenza, e dell’identificazione dove poter praticare il culto familiare e di gruppo. I luoghi di sepoltura sono destinati a diffondere e proteggere il sentimento di pietà e di lutto legato alla perdita e a indicarne, attraverso una rappresentazione simbolica ed estetica, una via possibile di consolazione, di speranza, di consolazione o di un sereno sentimento di ricordo, di memoria che custodisce e rassicura. A testimonianza delle diverse identità culturali, religiose, filosofiche, che legano l’uomo al suo destino tra i diversi modi di rappresentare la morte, in particolare, possono essere sintetizzate le estetiche che legano il tema della morte al paesaggio della vita: il cimitero come paesaggio naturale, come spazio urbano, immerso nella natura, e i luoghi della memoria.

Il cimitero inteso come paesaggio naturale

Come scrive Simon Schama in Paesaggio e Memoria è dalla primordiale materia vegetale santificata da Dio, e dalla presenza perturbante e decadente della rovina, «segno della civiltà ricondotto alle sue origini geologiche e botaniche»5, che si forma l’immagine di un luogo di sepoltura e di una estetica, metafora della precarietà del destino dell’uomo. La morte viene rappresentata come prologo di una nuova vita, analogia tra il ciclo della vegetazione e «la teologia del sacrificio e dell'immortalità». Il sepolcro, parte integrante della natura, tempestato da licheni o inghiottito nella rigogliosa vegetazione irrefrenabile espressione della forza naturale sprofondato nella terra, in una splendida solitudine circostante, «con la pallida croce che si leva dal verde dell’erba», è quasi parte di un paesaggio naturale elevato a santuario, ad asilo sacro. Segue un visione del sepolcro come restituzione della vita

alla natura intesa come paesaggio naturale, come parte integrante di essa. Se in vita l'essere umano distaccato e manipolatore dispone del paesaggio e della natura come meglio crede attraverso la morte si restituisce alla vita della terra concludendo un ciclo biologico che irreversibilmente restituisce l'uomo e i suoi resti alla terra. Ma questa rappresentazione della morte, densa di sentimenti che muovono dalla nostalgia di una primitiva Arcadia e dal romantico e struggente riconoscimento di un passato naturale, si afferma dentro il palcoscenico artificiale del giardino recinto, bosco primordiale dove le fronde che stillano luce incontrano l’architettura sacra: una scena governata dalla maestria dell’artificio, dall’illusione, dalla metafora e da un ideale sublime e pittoresco.

Acqua: Cimitero sull'isola di San Michele a Venezia

Il cimitero inteso come spazio urbano

Considerando i morti come viventi che dormono un riposo eterno questi riposano in giardini fioriti perché «Dio riceve tutte le nostre anime nei Santi luoghi fioriti, in luoghi votati al silenzio, in luoghi dai freschi prati, bagnati dai ruscelli»6, in attesa della salvezza e della resurrezione. La morte quindi è considerata un sonno temporaneo o eterno, in rapporto alla fede nella resurrezione del giudizio finale. I luoghi di sepoltura non sono più riproduzione sotterranea della città dei vivi; non sono più le lunghe file di monumenti allineati o ammassati lungo le strade fuori dalle mura urbane; è dentro la città e intorno ai campanili, a ridosso e dentro le chiese, in recinti santi e consacrati, in campi santi chiusi da mura che si attende l’evento della salvezza e della resurrezione. Questo giardino recinto e ordinato in campi, «trascrizione terrestre dell’Eden perduto e promesso», si offre come modello per divenire l’archetipo del cimitero moderno, il cimitero urbano. Il clima scientifico e filosofico dell’illuminismo, dallo spietato rigore critico «capace di scardinare millenarie consuetudini religiose», ha allontanato dalla città la morte, consegnandola a un nuovo ma radicato ordine formale, espressione di una nascente cultura laica e civica. Questo nuovo impianto, recinto e tessuto7 secondo una razionale suddivisione in parti gerarchicamente strutturate, ripercorre gli accenti, le ripetizioni, i meccanismi caratteristici della forma urbana. Assi, piazze, slarghi e giardini, camere, gallerie, sepolture individuali e collettive riuniti entro un unico disegno, riproducono topograficamente «la

Fuoco: Urna cineraria rito della cremazione asiatico

Fuoco: Cremazione, cartolina turistica Vietnam

6 5

S. Schama 1955, trad. it. Paesaggio e memoria, p. 36, 1997, Mondadori, Milano.

P. Ariès, 1977, trad. it. di M. Garin, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, p. 32, Laterza, 1980, Bari. 7 P. Grimal, op. cit.

Terra: Cimitero campo santo a Pisa


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società globale come una carta riproduce un rilievo o un paesaggio. Tutti sono riuniti nel medesimo recinto, ma ognuno al suo posto, a seconda della nascita, della notorietà, della ricchezza, e della povertà».

Il cimitero immerso nella natura

Alle concezioni religiose, ai miti, alle filosofie della morte che celano una spinta verso un aldilà superumano, verso l’infinita ciclicità metamorfica della morte-rinascita, verso la salvezza eterna, si contrappone «l’impulso a rendere la morte universale universalizzando la natura»: la natura della morte è puramente biologica. L'atto del morire non è meno naturale di quello del nascere ed è accettato come un evento ordinario e termine ineludibile della vita. «La fusione di anima e corpo ha raggiunto un punto tale da far sì che la sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo appaia ormai impossibile. La loro unione è ormai totale e indissolubile»8. Lo scenario entro cui si rappresenta questa morte è la natura stessa: una morte semplice, egualitaria, essenziale, serena, sacra nel ricomporre in unità anima e corpo. Nei suoi spazi, per nulla scossi dall’evento, si ricompone la materia in un ciclico rinnovarsi della vita.

I luoghi della memoria

Qualunque sia il modo di ricordare i morti, è comunque indubbio che il tema riguardante la necessità di porre luoghi in memoria di ciò che è stato oltre che di chi è stato continua a segnare la nostra esistenza: le immagini delle città, delle periferie, dei piccoli centri urbani ci raccontano ancora di necropoli, di campi recinti, di radure strappate al bosco destinate al ricordo; immagini che testimoniano spesso l’incapacità della nostra civiltà nel ricomporre un dialogo consapevole con la morte riconoscendola come parte essenziale dell’esistenza. Le trasformazioni sociali in atto nel mondo impongono oggi indispensabili occidentale adeguamenti e miglioramenti delle strutture cimiteriali: se da una lato la società globalizzata e multireligiosa richiede una nuova capacità di convivenza in uno stesso spazio, in una stessa terra tra diverse identità culturali, spirituali e rituali, dall’altro le stesse abitudini così profondamente radicate nelle consuetudini religiose dei Paesi occidentali stanno rapidamente mutando. C’è urgenza di nuove sensibilità, di nuove spazialità 8

P. Ariès, op. cit., p. 32.

destinate a rappresentare il luogo della comprensione e del dialogo religioso e civile tra le diverse forme di spiritualità, radicate ai confini della terra di nessuno e riservate all’aver cura delle voci che descrivono il silenzio. Un segno di come la stessa vita, con i suoi luoghi, possa essere teatro di morte sono quei luoghi dove si sono consumati i più atroci dei delitti, l'olocausto degli ebrei in Polonia nei 39 campi di sterminio di Auschwitz Birkenau, in Italia le Fosse Ardeatine, è, in ultimo, l’immagine commemorativa dell’enorme luogo cimiteriale che è stato, per sciagura dell’uomo, Ground Zero, che in inglese, è il termine con il quale si designa lo spazio perpendicolare all’epicentro di una esplosione atomica o in generale,quello dove è avvenuta una massiccia deflagrazione. In italiano, il termine è divenuto per antonomasia l’area nella parte meridionale di Manhattan sulla quale, prima degli attacchi terroristici alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, sorgevano gli edifici WTC1 e WTC2, appartenenti al complesso del World Trade Center. Per il riassetto dell’area e la nuova edificazione di edifici è stato indetto un concorso, vinto dall’architetto polacco-americano, di origini ebraiche, Daniel Libeskind. Vi sorgerà il grattacielo 1 World Trade Center, anche conosciuto come “Freedom Tower”, che fino al tempo del progetto era destinato a diventare l’edificio più alto al mondo, in un primato virtuale non durato molto, in quanto altri progetti sono stati sviluppati per grattacieli più alti (es. Burj Dubai). Il 20 aprile 2008 Ground Zero è stato teatro della prima visita di Papa Benedetto XVI negli Stati Uniti, che dinanzi alle autorità e a numerosi familiari delle vittime degli attentati, ha pregato ed ha acceso un lume di candela al centro della piazza in memoria delle vittime. Oggi sono accesi due enormi fasci luminosi che squarciando il cielo ricordano e commemorano le numerose vittime come monumento alla memoria. Il rito della commemorazione della morte si mescola quindi con la vita e, qualunque cosa si costruisca a Ground Zero, in tale luogo fonderanno sempre i gesti dell’esistenza con la memoria di ciò che è stato.

Terra: Cimitero nel Bosco a Stoccolma

Terra: Cimitero nel bosco a Stoccolma

Fasci luminosi commemorativi per 11 settembre "ground zero" NY



Paolo De Lucia La via verticale, Aracne 2010

Alessandro Colombo La disunità del mondo, Feltrinelli 2010

La crisi nella quale versa l'uomo contemporaneo tende nientemeno che alla dissoluzione dell'umanità e può essere intesa come la nullificazione dei valori che provengono dalla tradizione dell'Occidente, frutto della straordinaria confluenza di rivelazione ebraicocristiana, pensiero greco e diritto romano: la religione, la patria, la famiglia, il lavoro. In questo libro, dopo aver esaminato a fondo le dinamiche nichilistiche contemporanee, l'autore elabora un'originale filosofia dell'esperienza ulteriore, vale a dire la proposta di una ricostruzione verticale dell'esistenza, che possa indurre a guardare alla vita non come a una lunga preparazione alla morte, ma come al denso spazio dell'attesa.

Le rappresentazioni più comuni del contesto internazionale attuale insistono sul restringimento del mondo prodotto dalla crescita delle relazioni economiche e finanziarie e dallo sviluppo delle tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni. Ma, quasi sempre, esse trascurano il fatto che il passaggio al ventunesimo secolo ha seguito un andamento opposto sul terreno diplomatico, strategico e ideologico. Su questo terreno, il vero secolo globale è stato il Novecento: il secolo delle due guerre "mondiali", appunto, della guerra fredda, della decolonizzazione, dello scontro tra due ideologie di portata universale quali la democrazia liberale e il comunismo. Mentre, con la chiusura di queste vicende, l'eccezionale coerenza del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell'economia e dell'informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Tale scomposizione è un potentissimo fattore di instabilità: accentua le differenze istituzionali e culturali tra le diverse regioni, aumenta il peso delle gerarchie di prestigio e potere al loro interno e, in questo modo, apre la strada a nuove diffidenze e competizioni sulla sicurezza. Ma, soprattutto, tale scomposizione rende sempre più inadeguate le risposte di portata globale, anzi rischia di trasformarle da fattori di ordine in fattori di disordine.

Amartya Sen Globalizzazione e libertà, Mondadori 2006 (I ed. 2002) Il mondo in cui viviamo ci appare diviso tra una degradante miseria per la maggioranza del genere umano e un'opulenza senza precedenti per pochi privilegiati, una situazione che, favorita dal dispiegamento su scala planetaria dell'economia di mercato, ci costringe in modo sempre più pressante a riflettere sull'odierna concezione del 'mondo globale'. In questo libro Amartya Sen, premio Nobel 1998 per l'economia, ci aiuta ad analizzare la cosiddetta globalizzazione, senza demonizzarla né esaltarla, ma descrivendola quale essa è: una straordinaria opportunità che tuttavia, per essere colta appieno, deve essere accompagnata da una promozione altrettanto globale di ogni forma di libertà politica e sociale. Perché il vero sviluppo consiste non tanto nel possesso di tecnologie o beni materiali, quanto in un processo di trasformazione sociale che elimini le principali fonti di 'illibertà': fame, povertà, ignoranza, malattia, mancanza di democrazia e sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali.

John Kampfner Libertà in vendita, Laterza 2010 “Questo libro non tratta di quei regimi tirannici che governano con la canna del fucile. Questo libro non parla dello Zimbabwe, della Corea del Nord o della

Birmania. E neanche di paesi come Israele, 55o il Venezuela di Hugo Chávez, o il Sudafrica del dopoapartheid. Il mio viaggio comincia da Singapore, paradiso dei consumatori. Poi vado in Cina, dove negli ultimi trent’anni i progressi sono stati notevoli e sono avvenuti all’interno di un sistema che interpreta la teoria della democrazia in base alle proprie esigenze. Da lì in Russia e poi verso il mondo arabo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti e la sfrontata e vistosa città di Dubai. Infine analizzo quei paesi che sostengono di aderire ai valori democratici. Fra tutti i paesi del mondo, l’Italia. Perché l’Italia conta, non per una qualche rilevanza geostrategica, ma perché funge da esempio di una democrazia posticcia”. John Kampfner, uno dei più autorevoli autorevoli e brillanti commentatori politici inglesi, studia questi paesi per affrontare il dilemma che oggi attanaglia l’Occidente: perché così tanta gente sembra disposta a rinunciare alla libertà in cambio di sicurezza o prosperità? I governi di tutto il mondo hanno hanno stretto un nuovo patto con i loro cittadini: la repressione è selettiva, limitata a chi contesta pubblicamente e ‘causa problemi’. Il numero delle persone che ricade in questa categoria è molto basso. Il resto della popolazione può vivere più o meno come desidera, guadagnare e spendere i propri soldi. Questa è la differenza fra libertà pubbliche e private. Siamo noi che dobbiamo scegliere a quali libertà rinunciare.



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