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Traducción

Questa pubblicazione Reactivando Videografías è il risultato di un progetto che ha cercato di superare le difficoltà imposte dalla pandemia che ci ha devastato dal 2019, cambiando inoltre il paradigma del settore culturale attraverso la creazione di sportelli digitali e fisiche che sono servite, e continuano a servire, come spinta alla creatività e alla diffusione delle arti e della cultura, sia nel nostro Paese che nei luoghi in cui collaboriamo.

Il contesto digitale costituisce un’opportunità unica per molti creatori di contenuti grazie all’accessibilità del mezzo; ma in molti casi favorisce la precarietà del lavoro culturale e creativo in assenza di risorse e tecnologie disponibili. In risposta a questo problema, l’idiosincrasia di quest’epoca testimonia la natura e gli obiettivi della mostra online Reactivando Videografías, promossa dall’artista Estíbaliz Sádaba, a cui hanno aderito 18 team curatoriali provenienti dai diversi Paesi della Rete dei Centri Culturali della Cooperazione Spagnola. Inoltre, la mostra è stata accompagnata da tavole rotonde e dalla sua post-produzione, itinerante o in loco, in alcuni spazi della Rete dei Centri Culturali di Cooperazione Spagnola. Ne è un esempio quella tenutasi presso la Real Academia de España en Roma, che ha promosso questo progetto e ha proposto una nuova lettura delle opere nell’ambito del suo Programma 150° Anniversario, intitolato El privilegio de la imagen. 64 miradas de época.

Tutte queste iniziative sono segnate dalla necessità e dall’esigenza di un coordinamento tra gli attori, con la consapevolezza che la migliore azione culturale esterna è quella che ha strumenti per dinamizzare la confluenza dei contributi e stabilire forme di complementarità. Artisti, curatori e centri provenienti da contesti molto diversi come la Guinea Equatoriale, l’Italia e alcuni

Paesi dell’America Latina hanno dialogato e intessuto relazioni con l’obiettivo di consolidare i termini di innovazione culturale e sviluppo sostenibile.

Reactivando Videografías, quindi, manifesta l’unanimità delle parti e delle controparti nei confronti della dignità e dell’accesso alla cultura come condizione essenziale per uno sviluppo umano sostenibile, promotore di inclusione, costruzione attiva della pace e promozione e rispetto della diversità. Si configurano così punti di vista che riflettono sul nostro presente e si posizionano verso un futuro tra pari.

Come conseguenza di tutto questo processo e di queste azioni, vorrei concludere ringraziando ognuno degli oltre settanta artisti, i diciannove team curatoriali, i direttori dei centri culturali, Academia de España en Roma e tutti coloro che hanno preso parte a questo progetto, contribuendo a rendere possibile uno sviluppo umano sostenibile.

Segretaria di Stato della Cooperazione Internazionale

RIATTIVANDO IL LAVORO IN RETE.

Letture incrociate, convergenze e divergenze dalla videoarte.

L’Agenzia Spagnola di Cooperazione Internazionale per lo Sviluppo (AECID) vanta una prolungata traiettoria di successo in materia di cooperazione culturale in America Latina e Guinea Equatoriale. Direttamente correlato a questo progetto –e nella sua missione di promozione e diffusione internazionale dell’arte e delle nuove tecnologie– la Cooperazione Spagnola, soprattutto attraverso la sua rete di Centri Culturali e l’Academia de España en Roma, da anni scommette fermamente sulla video arte e i suoi creatori. Due degli esempi più rilevanti e che è doveroso menzionare come retroscena sono Videografías Invisibles (Videografie Invisibili) e la triade di progetti sviluppati qualche anno fa da Laura Baigorri.

Videografías Invisibles (Videografie Invisibili) è stato e continua a essere un punto di riferimento, un caso esemplare principalmente per il carattere orizzontale dell’iniziativa congiunta di Alta Tecnología Andina di Lima, il Museo Patio Herreriano di Valladolid, el Centro Atlántico de Arte Moderno di Las Palmas e l’AECID. Questa mostra, curata da Jorge Villacorta e José Carlos Mariátegui, è riuscita a dare visibilità a un corpus significativo di opere prodotte tra il 2000 e il 2005 da artisti latinoamericani di traiettorie e contesti molto diversi, con una particolare enfasi su quelli che provenivano da regioni tradizionalmente poco rappresentate. D’altro canto, Laura Baigorri, con il sostegno della Rete dei Centri Culturali, ha proseguito questa missione con il suo triplice programma sulla videoarte in America Latina e nei Caraibi tra il 2008 e il 2011, con la pubblicazione di un libro (Vídeo en Latinoamérica. Una historia crítica), l’organizzazione di convegni e laboratori locali (intitolati Vídeo Expandido) e la curatela di una mostra (Videoarde).

Nel 2015, la Real Academia de España en Roma ha avuto l’occasione di presentare un progetto che ha visitato diversi musei e centri d’arte internazionali e seguiva questa stessa linea: Ibi et Nunc: Sobre paradojas democráticas (Ibi et Nunc: sui paradossi democratici ), nel quale venne ospitata a Roma una selezione di dodici opere audiovisive di artisti latinoamericani. Questa mostra è stato il risultato di un lungo viaggio nel continente americano di un’iniziativa precedente di Inma Prieto, progetto nato a Barcellona nel 2013 con il titolo Hic Et Nunc, nel quale si era puntato a evolvere verso un’apertura attiva a sguardi di altre geografie: artisti spagnoli e latinoamericani in dialogo attraverso la videoarte. In un modo analogo e con lo stesso spirito, nasce Reactivando Videografías (Riattivando Videografie), un progetto con una propria microstoria che vale la pena spiegare. Nel 2019, dalla Direzione di Relazioni Culturali e Scientifiche dell’AECID è stata richiesta a Estibaliz Sádaba una mostra di lavori audiovisivi di artisti spagnoli alla quale, avendo luogo nell’Academia, si è proposto di aggiungere video artisti italiani. L’intenzione era, e per certi versi è tutt’ora, che la mostra si materializzasse fisicamente nei Centri Culturali della Cooperazione Spagnola, con il doppio fine di continuare a mettere in dialogo diverse prospettive e ampliare una riflessione che si trovava latente nello sviluppo del progetto: la situazione attuale dei creatori nel settore della video arte. In questo modo, si amplia la prospettiva e si superano le frontiere, approfittando delle opportunità offerte dal video.

Quando questo progetto si è visto inevitabilmente interrotto a causa della pandemia del Covid-19, dall’Accademia ci si è proposti una riattivazione dello stesso, non soltanto per renderlo possibile tramite il lancio di una mostra virtuale, ma anche per rafforzare la sinergia con la Rete dei Centri Culturali: ogni Centro avrebbe selezionato un curatore, il quale a sua volta avrebbe proposto tre artisti locali per unirsi alla mostra. La ricezione di questa idea da parte dei responsabili della Direzione di Relazioni Culturali e Scientifiche, nonché dai Centri Culturali, è stata al tal punto entusiasta che la collaborazione non ha tardato a consolidarsi e ampliarsi. Pertanto, nel corso del 2021 sia i curatori menzionati che gli artisti hanno usufruito di residenze bisettimanali all’Academia, dove hanno avuto l’opportunità reciproca di creare valide reti con i nostri stessi borsisti residenti e con agenti dell’ambito culturale a Roma. Un altro dei pilastri che sostengono e che hanno dato/danno significato a questo progetto è la ricerca e il dibattito sulla situazione della produzione artistica nel digitale. Le opere degli oltre 70 artisti riuniti in questa selezione offrono uno spaccato dell’eterogeneità e delle contraddizioni del tessuto virtuale in cui si muovono l’arte e le sue pratiche, mostrando diversi esercizi di ibridazione e resistenza in cui si intravedono le forze complesse a cui sono sottoposti i creatori del settore della videoarte. Per riflettere su questi problemi comuni e con l’aspirazione di trasferire proposte ai responsabili delle politiche culturali, una professionista di riferimento in materia è stata Remedios Zafra, che ha svolto il ruolo di curatrice scientifica delle tavole rotonde che si sono tenute per tutto il 2021 e il 2022 sotto il titolo generico di Videografías: la cultura entre las cámaras (Videografie: la cultura tra le telecamere). Vi hanno preso parte sia gli artisti e i curatori che hanno partecipato alla mostra, sia altri attori rilevanti del settore. I testi dei partecipanti e i relativi link sono consultabili in questa pubblicazione.

Inoltre, come culmine del progetto e parte essenziale di esso, nel dicembre 2022 è stata inaugurata una mostra fisica presso l’Accademia con tutte le opere che hanno articolato il progetto e che è servita come punto di partenza per la celebrazione del 150° anniversario dell’Academia de España. Un’istituzione creata nel 1873 e che nei suoi primi 150 anni di vita ha accolto più di 1050 ricercatori e creatori. A queste 1050 donne e uomini si sono aggiunte per la prima volta, in modo simbolico, le micro-residenze di cui sopra, che hanno reso possibile ognuno dei Centri Culturali di questa imponente rete di Cooperazione Spagnola e dei centri associati. Per la prima volta nella storia, sono arrivati artisti e curatori dalla Guinea Equatoriale. Per la prima volta, la cooperazione culturale ha favorito, nell’ambito delle pari opportunità, l’utilizzo delle possibilità offerte dall’Accademia come spazio di innovazione culturale, in quanto istituzione culturale con la traiettoria più lunga del Ministero degli Affari Esteri, dell’Unione Europea e della Cooperazione. Per la prima volta, inoltre, i direttori e le direttrici di tutti i centri culturali di questa Rete allargata hanno partecipato, dibattuto e affrontato di persona a Roma le nuove sfide della cooperazione culturale. Presieduti dal direttore dell’Agenzia spagnola per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo e con lo sfondo della mostra nata da questo progetto incredibile e sviluppata nel corso dei tre anni dello stesso. Così, nel dicembre 2022, le opere degli artisti e dei gruppi che hanno partecipato alla mostra virtuale sono state riordinate sotto cinque temi definiti dalla stessa Remedios Zafra e sono diventate una nuova mostra, questa volta fisica, a Roma, presso l’Accademia e intitolata: El privilegio de la imagen. Sesenta y cuatro miradas de época (Il privilegio dell’immagine. Sessantaquattro sguardi d’epoca), di cui si possono apprezzare i testi e le immagini nelle pagine seguenti. Queste righe servono non solo come ringraziamento, ma soprattutto come riconoscimento a chi ha reso possibile tutto questo, a chi con il suo impegno quotidiano ci permette di continuare ad andare avanti.

In breve, Reactivando Videografías (Riattivando Videografie), ispirandosi alla tradizione del sostegno ai creatori iberoamericani, alle arti visive, in generale, e alla videoarte, in particolare, da parte della Cooperazione

Spagnola e con l’Academia de España en Roma come coordinatrice, ha promosso un progetto di rete che parte dalle differenze di meridiani e latitudini per analizzare in comune una serie di inquietudini che ci riguardano tutti. In questo modo, riattiviamo le letture incrociate, le convergenze, le divergenze e le sfasature di un gruppo di artisti che condividono i vantaggi e i pericoli di vivere nel secondo decennio del XXI secolo e di abitare l’era digitale. Un tempo e uno spazio in cui il team dell’Academia de España en Roma ha dato il meglio di sé per integrarsi pienamente e senza sfumature, con generosità ed entusiasmo, in una rete che promuove nuovi modi di fare cultura. Una cultura di tutti e per tutti. Per questo motivo, i miei ringraziamenti e le mie congratulazioni anche a tutti coloro che da Roma hanno reso possibile questo progetto.

Ángeles Albert de León

Direttrice della Real Academia de España en Roma

VIDEOGRAFIE:

LA CULTURA TRA LE VIDEOCAMERE avere più la vecchia prerogativa di essere i “produttori di immagini”. Al giorno d’oggi qualsiasi soggetto con un telefono cellulare fotografa, filma e pubblica, diffonde e condivide i propri lavori facendo convergere ambiti che fino a poco fa erano differenziati come pratica amatoriale e professionale. Le stanze tutte per sé connesse sono diventate studi di registrazione e di facile accesso a strumenti di edizione e distribuzione di opera audiovisiva. E non è l’unico territorio ad essere stato trasformato da Internet, anche le sfere di produzione, ricezione e distribuzione prima distinguibili in spazi e lavori vincolati, oggi li fanno confluire sullo schermo. Va notato che questa sfocatura dei limiti avviene allo stesso modo in cui convergono la presentazione e la rappresentazione soggettiva e identitaria nelle affascinanti cornici di fantasia degli schermi.

Questo progetto nasce dall’avvio della mostra web Riattivando Videografie e mira a configurare una cornice teorica di riflessione sul progetto e sulla creazione in video nell’epoca contemporanea. A tale scopo si basa su diversi dibattiti online realizzati nel marzo e nel settembre del 2021 e nel marzo del 2022, nonché su lavori di riflessione e ricerca paralleli che si concluderanno con la proposta espositiva fisica delle opere in diverse istituzioni e spazi di Roma nel 2023.

Da quando Internet è diventato quotidiano nelle nostre vite gli artisti sembrano non

Fatto sta che gli artisti non hanno più il vantaggio di avere l’esclusiva nel padroneggiare le tecniche creative più abituali, oggi accessibili a ogni persona che sia connessa e abbia voglia di imparare. Ma è vero anche che da tempo gli artisti (almeno quelli che chiamiamo contemporanei) non si caratterizzano necessariamente per la padronanza formale di una tecnica, bensì perché hanno scelto modi creativi rispetto a modi di addomesticamento. Con questa premessa sarebbe più facile capire che dalla creazione contemporanea non ci aspettiamo le stesse cose di qualche decennio fa, dato che il mondo è diventato un altro dopo Internet. Forse sarebbe di qualche aiuto coltivare le aspettative di un’arte capace di aizzare la domanda scomoda, là dove la cultura diventa più frammentaria e precaria. Un’arte come contropotere dell’egemonia simbolica del mercato come struttura dell’immaginario predominante. Un’arte per l’infiltrazione riflessiva e la trasformazione del mondo attraverso l’universo simbolico che ideano, gli ambienti che ci suggeriscono, le luci e ombre che proiettano e le idee con le quali possono turbarci. Perché l’arte d’epoca che interpella la propria epoca sembra ricevere il mandato di non limitarsi agli effetti catartici o estetici dell’arte vecchia, ma di agire per disordinare ciò che tranquillizza mentre – paradossalmente – sfrutta la sottomissione delle persone. Non servirebbero a tale scopo delle maniere creative che issino bandiere di qualsivoglia verità, ma che aiutino a mostrare le forme in cui quelle verità vengono costruite. Non servirebbe un discorso vuoto, luminoso e pubblicitario che reiteri “arte” o “creatività” e che cerchi di circoscriversi in parole come “video creazione” o “video arte”, opere che rifiutandosi di essere recintate, diversificano i propri nomi, evidenziando un terreno dinamico e volubile della cultura sul quale proponiamo di fermarci a pensare.

In questo scenario, quali potenze e valori possiamo trarre oggi da questo fare creativo rispetto all’esubero di produzioni che inonda la rete? Il contesto è complesso e le ragioni non sono chiaramente definite, poiché in ogni spazio culturale e personale si fondono e mescolano con i limiti di produzione, le condizioni di precarietà del lavoro creativo, i sostegni dell’istituzione artistica, l’accompagnamento di strutture e circuiti e molte altre.

Problematizzare questo territorio di produzione e definizione creativa audiovisiva in cui la cultura si vede trasformata è uno degli obiettivi di questo progetto. Un progetto che guarda l’arte mentre gran parte delle opere che lo ispirano guardano il sud dell’America, il sud dell’Europa e il sud del pianeta.

Quest’impalcatura teorica, che sarebbe piuttosto un esoscheletro, inserendosi in un corpo già esistente, si costruisce sul progetto espositivo online chiamato Riattivando Videografie, curato da Estíbaliz Sadaba e patrocinato dalla Red de Centros Culturales de la Cooperación Española e dalla Real Academia de España en Roma. Un progetto composto da una selezione di opere videografiche che offre alla società lo sguardo di artisti e curatori di diversi paesi dell’Ibero-America, Guinea Equatoriale, Spagna e Italia in cui ritraggono mondo ed epoca, dall’intimità biografica e dalla cultura locale, fino all’identità globalizzata, dalla violenza singolare ai frammenti sincronici di un mondo e di vite che diciamo parlano del tempo che abitiamo.

Questo insieme di diversità di voci e culture aveva bisogno di una stanza tutta per sé, un contesto di concentrazione che permettesse di guardarle da sole o in gruppo, potendo approfondire ciascuna e stabilendo nessi e legami silenziosi tra le loro narrative, modi di dire e questioni che le mobilitano. Ma ci sembrava che meritassero anche il regalo dell’osservazione e della riflessione al di là della contemplazione e valorizzazione estetica o critica. Per questo l’archivio web di Riattivando Videografie è accompagnato da una serie di riflessioni e ricerche che intendono problematizzare e rendere riflessiva questa confluenza creativa.

Nell’articolazione tematica di suddetto lavoro di ricerca, dibattito e scrittura, si differenziano tre nodi di intensità sui quali delimitare le riflessioni: la complessità e il contesto della cultura-rete per la pratica videografica, i soggetti creatori e le loro condizioni di produzione oggi e, infine, le culture e i soggetti che parlano uniti in gran parte da una lingua comune ma singolarizzati nei conflitti e negli sguardi. Le intestazioni che fungono da punto d’accesso, raccogliendo dibattiti, saggi e ricerche ad hoc, sono le seguenti:

(VIDEO)CREAZIONE ED EPOCA

(dopo Internet)

La (video)creazione contestualizzata nella cultura-rete, rispondendo ai più recenti cambiamenti nella sfera culturale e artistica, e in particolar modo alle domande derivate dal vivere in una società connessa, eccedentaria nel visivo e in cui si posizionano nuovi sistemi di valore sostenuti dalla visibilità online e singolarmente condizionati dal mercato, in cui pensare l’epoca in termini di creazione e mediazione tecnologica implica pensare alla normalizzazione delle forme di produzione e immagine e alla invisibilizzazione delle videocamere e delle tecnologie come “lenti”. Renderle pensanti implica anche riflettere sulle attuali architetture mercantilistiche di controllo e anticipazione dei soggetti attraverso i loro dati, impronte e immagini. In questa cornice ci chiediamo quali sono gli aspetti che sul piano culturale e artistico più influiscono sulla creazione nelle attuali trasformazioni derivate da un mondo mediato da videocamere e schermi? Quali sfide presuppone per l’Istituzione-Arte (formazione, produzione, divulgazione…) l’attuale scenario di produzione culturale in rete? Come si rapporta questa produzione con l’industria, le piattaforme e il mercato? Come confluiscono, si fondono e rapportano le opere audiovisive creative nella cultura-rete? D’altro canto, se gli artisti non hanno più il vecchio privilegio della creazione di immagine, ma hanno la sfida di rispondere alla complessità della loro epoca, qual è il loro ruolo e il loro significato in una cultura online?

CREAZIONE COME LAVORO (contro la precarietà)

Come si trasformano le condizioni di creazione, lavoro e vita di chi oggi crea attraverso il video in contesti di indefinitezza creativa, in cui spesso la stessa pratica è denominata in modi diversi? Le condizioni di precarietà, plurilavoro e indeterminatezza della loro opera come lavoro sono sfide centrali in queste riflessioni, con interrogativi del tipo: chi può creare nei contesti culturali e socio-economici che osserviamo? Come lo fa? Che difficoltà riscontra? Ma, soprattutto, quali sono le attuali condizioni di produzione e lavoro di questi creatori?

Quali contraddizioni riscontrano nella loro pratica, nella considerazione del loro fare come lavoro retribuito, nella sua diffusione, nell’habitat della rete, nei circuiti artistici…? In che modo è percepito e valutato il loro lavoro dai contesti sociali e culturali? Si tratterebbe pertanto di un dibattito intimamente legato al lavoro sulle testimonianze di artisti che hanno fatto parte del processo di dialogo e ricerca e che si raccolgono in gran misura in un testo che segue.

VOCI E CULTURE REGISTRATE

(ripetizione e differenza)

Quali sono le tematiche che si reiterano e si singolarizzano nelle opere che compongono Riattivando Videografie? A priori pensiamo che siano molto presenti le identità, la decolonizzazione, il femminismo, le violenze, l’intimità, la cultura… Ma la ricchezza e la diversità di approcci, forme e voci del lavoro videografico di questa mostra la trasformano in un significativo e suggestivo ritratto della complessità di mondi di vita. Dalla registrazione documentale ed etnografica fino alle forme ibride di fiction e auto fiction, le possibilità della creazione audiovisiva si muovono in un ricchissimo gradiente in cui c’è posto per la realtà senza filtri e l’infiltrazione di una videocamera che vede senza essere vista, fino alla complicità della storia creata, rappresentata o immaginata a partire da ciò che pungola chi crea, sia intimo o culturalmente condiviso. Nei dibattiti e nei testi proposti per questa linea cerchiamo l’opportunità di parlare delle nostre culture parlando delle loro creazioni. Che cosa diciamo e che cosa mostriamo in queste opere? Che cosa nascondiamo? Che cosa reiteriamo e che cosa ci differenzia? In che misura gli interessi e le tematiche su cui lavorano artisti e curatori ci permettono di conoscere la complessità che abitiamo nelle sue sintonie globali e punti di intensità locale? Chi sono i soggetti di questi discorsi? In che modo dialogano con altre pratiche creative che si diffondono e abitano la quotidianità delle reti? Di questo lavoro vedremo successivamente come germinano idee chiave per l’articolazione della proposta espositiva del progetto in Accademia e in altri possibili spazi fisici.

Le opere selezionate nel progetto artistico parlano partendo da sguardi artistici e di curatela in cui confluiscono sensibilità molto diverse ed enfasi culturali, identitarie, estetiche, politiche ed esperienziali localizzate, nonché metodologie e vissuti diversi di sostegno alla video creazione da parte di ambiti istituzionali di promozione e diffusione culturale che li promuovono e sostengono, fino ad altri in cui primeggia la motivazione attivista e l’azione diretta in rete o, molto diversamente, orientati all’industria audiovisiva o che fanno parte di proiezioni e dibattiti in luoghi alternativi e periferici che appoggiano la creazione. Per tutto ciò, l’oggetto di riflessione, il lavoro artistico audiovisivo, non si può distaccare dai contesti di produzione e lo scenario di trasformazione culturale che si distaccano da un mondo irreversibilmente connesso. Mondo in cui la cultura osservata non è soltanto “ciò che si vede” attraverso le videocamere, ma ciò che sta tra, prima e dopo le videocamere.

Remedios Zafra Comisaria Científica

L’ARTE COME LAVORO

(Sulle testimonianze degli artisti di Riattivando Videografie)

Come parte della ricerca che accompagna il progetto espositivo Riattivando Videografie, tra il 2021 e il 2022, ventisei artisti dell’America Latina e della Spagna hanno condiviso esperienze e testimonianze su pratica creativa, audiovisiva, lavoro artistico e istituzione-Arte. Questi racconti si articolano attorno ai loro processi e itinerari artistici, permettendoci di riflettere su reiterazioni e singolarità comuni attorno al loro fare creativo come lavoro. I quesiti che fungono da mappa alle testimonianze sono segnati da interrogativi riguardanti: come si forma oggi un artista, in che modo si arriva all’audiovisivo, in che modo la pratica creativa è inscritta come lavoro e quali difficoltà comporta, di che cosa e come vive oggi chi crea, quale ruolo hanno le istituzioni culturali e quale dialogo e risposta vi si trova. Queste motivazioni sono alla base delle interviste1 semi-strutturate agli artisti partecipanti e ci permettono di proporre un percorso possibile e relazionale attraverso le loro riflessioni e le loro esperienze in prima persona.

1 I frammenti estratti dalle interviste scritte appaiono tra virgolette e sono identificati da lettere diverse assegnate a ciascuna/o delle/degli artiste/i partecipanti. Sebbene in gran parte abbiano accettato di pubblicare il proprio nome, si adotta un criterio uniforme di anonimato per tutte le testimonianze. Al contempo, le parole in grassetto “non” sono ad opera delle persone intervistate, ma fanno parte dell’enfasi che si vuole dare in ogni sezione in base alle linee di riflessione che si cercano di affrontare.

L’inizio: di vocazioni, formazione e motivazioni artistiche

Può darsi che chi di noi si dedica alla grande diversità dei lavori creativi e culturali oggi predominante non ponga l’attenzione sul fatto che in tutti i casi osservati l’orientamento artistico nascesse come vocazione o come abitudine reiterata sin da quando erano bambini. Come se la necessità dell’espressività fosse sempre stata presente, un qualcosa che pungola e ci spinge a ritornare, qualcosa che si cerca di materializzare aiutati da una formazione specifica o dal tempo per plasmare sensazioni e idee, per lasciar crescere quel seme di curiosità che induce a mettere in relazione, a cercare, a smontare, a stabilire dialoghi attraverso il disegno, la poesia, la pittura, la musica o la creazione libera e scevra di disciplina.

“La vocazione creativa è nata dal desiderio di mettere in relazione. Per esempio, pensare al ritrovamento di oggetti in un contenitore, l’arbitrarietà dell’ordine e del disordine, l’incrocio tra persone, la polifonia, il rapporto della parola con la “cosa” che descrive, l’origine delle forme del rappresentare.” (Testimonianza A)

“Sin dalla tenera età, tutto mi suscitava curiosità, guardavo le cose per ore, mi ponevo domande, etc.” (Testimonianza Q)

“La mia vocazione creativa nasce nell’infanzia. Sin da bambino sono stato stimolato e incoraggiato a esplorare diversi linguaggi e mezzi espressivi. A due anni ho cominciato ad andare alla scuola materna che prevedeva laboratori di arti plastiche e di espressione musicale, alle elementari frequentavo parallelamente la scuola di musica, e nel corso dell’adolescenza e della giovinezza ho partecipato a diversi laboratori e gruppi legati alle arti visive”. (Testimonianza U)

“Da sempre ho cercato con irrequietezza altre letture rispetto a quelle che mi proponevano, una necessità di costruire, smontare e riformulare le domande partendo da parametri diversi. I miei genitori mi hanno sempre incoraggiato, mi sono formato come artista e mi sono laureato in Belle Arti.” (Testimonianza B)

“A diciotto anni studiavo per la maturità e lavoravo come animatrice per bambini. Mi chiedevo se dovessi iscrivermi a Belle Arti, ma qualcosa mi diceva (da quanto avevo capito e in base alle mie ricerche) che mi avrebbero deformato, che mi avrebbero levato la freschezza di quegli anni. (…) Non avevo paura di sbagliare, ma di perdere tempo e non fare opere, perché ritengo che l’errore faccia parte del lavoro artistico. Non penso di fare grandi opere, penso di dire o fare qualcosa. È stato allora che ho deciso di studiare arte contemporanea (…) Finora non me ne sono pentita”. (Testimonianza Q)

Per D, che condivide la sua testimonianza attraverso un audio, nella sua formazione e orientamento ha avuto una grande importanza lo scambio domestico con i saperi, le pratiche, le tecniche che lì emergono, come i mestieri legati al cucito e al tessile, ancor prima di essere nominati come artistici o creativi. Ma anche se una volta orientati a un lavoro artistico prevale questa forma del nominare, per lei continuano ad appartenere a questi altri ambiti del lavoro condiviso tra persone e case, e hanno inoltre a che vedere con “l’andare a casa di chi cuce”, “bere il tè”, “immergersi, uscire ed entrare”. **

Disegnare. Il tratto che spande fino a una formazione

La maggior parte degli artisti che condividono le loro testimonianze risalta il valore che ha la possibilità di disegnare e scarabocchiare come punto d’ingresso in un’espressione prima soggettiva e poi simbolica, forse estetica e magari artistica. In quei casi, il riconoscimento dell’altro che guarda e dice o avalla “ti riesce bene”, contribuisce a rafforzare un’attività che reiterata diventa necessaria per chi la sviluppa. Proprio questa pratica del disegno, insieme a quelle che richiedono la manualità del lavoro plastico ed espressivo, vengono spodestate negli ultimi anni dall’irruzione tecnologica che in maniera intrusiva e naturalizzata porta ad appropriarsi di molto del tempo di bambini e adolescenti. Per contrasto, negli artisti la materialità del toccare, sentire, macchiare ed esprimere è solitamente l’inizio, e diventa via via protagonista in momenti definitori quando si tratta di orientarsi e continuare a propendere per professioni o lavori che li mobilitano.

“A scuola ero portato per il disegno e le attività manuali (…) e mi sembrava interessante lavorare nell’ambito dell’insegnamento del disegno e della pittura; feci delle ricerche per sapere che cosa dovevo fare per dedicarmi a questo, e scelsi la facoltà di Belle Arti come il tragitto più immediato per riuscirci. Devo dire che era un percorso universitario molto diverso dagli altri, e questo mi attirò particolarmente: si trattava per me di un nuovo spazio, nel quale non avevo nessun punto di riferimento”.

(Testimonianza I)

“Da giovane mi piaceva disegnare e dipingere e a 14 anni sono entrato nella Scuola Nazionale delle Arti (…). Dopo 5 anni (la durata del corso di laurea), nel 2005mi sono laureato in Arte specializzazione Incisione”.

(Testimonianza O)

Anche Z, che condivide la sua testimonianza con un audio, è entrata sin da piccola nel mondo dell’arte attraverso il disegno. Ora, sebbene lavori con diversi formati, continua a ritenere il disegno fondamentale per pensare e trattare determinate idee, che siano già definite o ancora vaghe. In particolar modo in quest’ultimo caso il disegno aiuta a materializzare ciò che si fatica a esprimere e comunicare in modo fluido.

Questo gusto per il tratto viene spesso accompagnato da una suggestiva sensibilità poetica. Nell’ineffabilità che riscontrano le persone dinanzi a ciò che racchiude contraddizione e oscurità, dinanzi a ciò che, essendo confuso, suscita emozioni chiare e intense, la risposta cerca di materializzarsi ed essere articolata attraverso l’espressione prima e lo strumento poi. Una matita, una mina, aiutano a tracciare linee e parole, disegni o poesie, separatamente o in modo integrato. Perché la classificazione palpita con intensità in chi guarda e interpreta, ma non necessariamente in chi crea, soprattutto quando non ha ancora conosciuto le discipline e si muove nella libertà del non (voler) identificare i limiti. Nel gioco estetico e sperimentale ben presto arrivano i nomi e molti vengono assaliti con passione da parole che sono contemporaneamente lenti, e mi riferisco alla sensibilità poetica.

Poesia e altre arti “Ho cominciato con la poesia, quando ero adolescente volevo diventare un poeta. Vengo dal Nicaragua, qui la poesia è stata per molti anni il mestiere o la vocazione creativa più diffusa. Inizialmente non mi sono formato come artista. Ho studiato Comunicazione Sociale e ho cominciato la mia vita adulta come giornalista. Il mio primo lavoro è stato in un giornale in cui ho fatto il giornalista culturale. Poi ho lavorato in un canale televisivo. Lì ho imparato il mestiere del montatore e a forza di farlo l’audiovisivo è diventato un’ossessione. Sentivo che era come scrivere ciò che non si poteva scrivere”. (Testimonianza R)

“Sono arrivato in un modo molto inaspettato, come chiarisce l’equazione di un amico poeta: PROBLEMA – RBL = POEMA. Uno sciopero a tempo indeterminato dell’università pubblica che mi preparavo a frequentare (architettura), mi porta a cercare alternative per occupare il tempo. Il ritardo dell’inizio della ricerca mi lascia un’unica opzione possibile, l’unica in cui restavano posti liberi (letteratura). Pertanto, in modo del tutto fortuito, ho scoperto la poesia. Ho cominciato a scrivere e a pubblicare libri nei generi della poesia e del racconto breve e quest’attività si è sviluppata simultaneamente come l’ormai ripreso corso di laurea in architettura. Qualche anno dopo ho cominciato a fare degli incroci e a utilizzare gli strumenti del render e dell’animazione

3D tipiche del bagaglio di architettura, per materializzare visivamente alcune delle idee che avevo scritto nei libri. Questa è diventata una modalità di lavoro artistico che continuo a sviluppare ancora oggi”.

(Testimonianza K)

La mescolanza, l’integrazione e la sfocatura disciplinare

Se la delimitazione disciplinare è una convenzione nelle culture, organizzata e reiterata secondo una tradizione, non è banale percepire in molti artisti l’incrocio di formazioni diverse, fino ad arrivare in alcuni casi a sentire il disagio della pressione dell’incastro. Un disagio che tuttavia funge da stimolo creativo.

“Ritengo che la mia decisione di dedicarmi all’arte sia scaturita da un’esperienza di formazione che ho avuto da adolescente e poi da più grande in un laboratorio di teatro dove eravamo sottoposti a un serio allenamento fisico. Quando ho concluso il percorso scolastico ho deciso di entrare all’Università, alla Scuola delle Arti, e lì ho scoperto la Pittura, fortemente influenzata dal processo creativo della mia formazione attoriale. Come tesi di laurea ho ripreso quell’esperienza per me fondamentale attraverso il lavoro con il corpo e l’azione che mi aveva offerto il teatro e ho trovato nel mezzo del video una tecnica che univa entrambe le conoscenze: la composizione di un’immagine (colori/tensioni/luci) in un’esperienza vissuta.” (Testimonianza H)

“La mia vocazione è nata dalla decisione di abbandonare dopo tre anni di studio il primo corso di laurea che avevo scelto, architettura, per spostarmi nell’ambito dell’audiovisivo, focalizzandomi nello specifico sul corso di fotografia. Me la sono sempre cavata in ambito artistico, ma ritengo di essere versatile e per realizzarmi come artista non mi limito a un mezzo specifico”. (Testimonianza W)

“Quando ero adolescente, l’istruzione formale non soddisfaceva le mie aspettative, non mi stimolava, la mia psicologa consigliò a mia Madre di avviarmi al mondo dell’arte, ed è stato nell’accademia delle arti che è nato l’amore sia per la conoscenza che per lo sconosciuto. Pur provenendo da una formazione accademica-artistica, i miei studi sono multidisciplinari, ho studiato Arti plastiche alla Scuola Nazionale (…)”

(Testimonianza W)

“Ho sempre manifestato interesse per l’espressione creativa nelle sue diverse declinazioni, e non mi sono mai limitato o definito attraverso nessuna tecnica in particolare, il che mi ha facilitato il passaggio nelle più svariate espressioni e nell’incrocio tra le stesse: arti visive, musica, teatro, narrativa, poesia, nuovi media, illustrazione, umorismo grafico, interventi urbani, etc. Accademicamente mi sono formato in Disegno Industriale (laurea) e poi mi sono diplomato in Gestione culturale e Curatela d’Arte. Attualmente frequento un master in Comunicazione Corporativa e Imprenditoriale. Del design mi è sempre interessata la gestione di progetti, e una volta che ho cominciato a esercitare la mia attività all’interno del mondo dell’arte, l’ho sempre fatto da entrambi i “lati del bancone”: sviluppando progetti personali, e lavorando per altri artisti e istituzioni. Sebbene non abbia frequentato l’università d’arte, mi sono formato (e continuo a formarmi) attraverso workshop, gruppi di discussione teorica e filosofica, laboratori, incontri e seminari. Mi sembra fondamentale il costante aggiornamento, la tensione e l’approfondimento di idee e tematiche, e sono un avido partecipante di gruppi e spazi germinali di scambio, produzione e riflessione sull’opera”.

(Testimonianza U)

“Ho studiato in una scuola secondaria con orientamento artistico, in quegli anni sono passata dalla danza classica alla musica e infine alle arti visive. Quando ho finito pensavo di studiare biochimica, ma un amico si iscrisse a cinema e io lo seguii, senza essere una cinefila e senza avere chissà quali conoscenze. Pur avendo concluso il corso di laurea e aver studiato animazione in un workshop annuale non mi sono mai sentita a mio agio con quelle formazioni e mi sono buttata a capofitto nelle arti plastiche, seguendo laboratori con persone che mi interessavano per le cose che facevano e così sono rimasta un periodo, finché non sono riuscita a connettere le due cose, fare video come disegnavo, con gli strumenti che avevo, sempre in modo ludico ma con una qualche sfida da superare”.

(Testimonianza S)

“Sono sempre stato legato alle arti in generale, praticando la fotografia amatoriale e il teatro sin dall’adolescenza. Tuttavia, ho deciso solo dopo due anni di giornalismo che avevo bisogno di legarmi in modo diretto e non più da spettatore, o da estimatore, bensì come uno che crea oggetti o situazioni artistiche. Fondamentalmente ho lasciato da parte il giornalismo, ho cercato una borsa di studio in una scuola d’arte in cui mi sono inserito perfettamente perché la linea era più tecnologica, legata all’immagine tecnica, nello specifico all’immagine fotografica”. (Testimonianza N)

“Nel 2007 sono entrato nella Facoltà di Architettura (…), successivamente mi sono laureato come Architetto. Questo corso di laurea ha influito formalmente e concettualmente sul mio lavoro come artista visivo, indagando temi relativi all’architettura e alle problematiche legate all’urbanistica; la crescita della macchia urbana, l’inquinamento visivo, la crescita demografica, lo spazio che contiene l’architettura, il paesaggio urbano, l’impatto dei veicoli, le strutture urbane come ponti e arredo urbano”. (Testimonianza O)

“Ricordo che all’asilo nido avevo una fissazione per i colori, rimanevo ore a disegnare ma mi piaceva anche odorarli. Quando hanno cominciato a trasmettere serie di anime, mi piaceva guardare attentamente la televisione e ricopiare a mano libera i personaggi che vedevo, su carta, ero molto precisǝ. Ben presto ho sviluppato un’ossessione per quei disegni. È stato così che dal disegno ho sviluppato la mia inclinazione. Una cosa che non mi ha mai lasciato, quando ho deciso di studiare medicina, i locali degli ospedali e tutto ciò che c’era dentro mi sembrava stimolante dal punto di vista visivo, e prendevo molti appunti di disegno sul mio quaderno, a matita, come quando guardavo lo schermo della tv, ma stavolta i personaggi erano i pazienti, mi interessava trovare un’espressione plastica nella malattia. Ero anche cinefilǝ, cercavo film che mi stimolassero dal punto di vista emotivo e intellettuale. Dopo tre anni di medicina, ho preso la decisione di cambiare università, ero indecisǝ tra il cinema e le arti visive. Ho optato poi per le arti visive perché mi sembrava un campo più ampio, con possibilità di sperimentazione di diversi mezzi. È stato per la mia passione per il cinema, e per la mia ossessione per il disegno, che sono arrivatǝ alla sperimentazione con l’animazione, andando a produrre fotogrammi e dando loro movimento con il programma di editing”.

(Testimonianza M)

Videocamere e schermi

Tenendo conto del predominio di questa cornice di integrazione disciplinare e formativa che tanto aiuta a creare forme interdisciplinari che permettano di aggiungere e integrare conoscenze, nonché a metterle in discussione con formule decostruttive che permettano di rivelare ciò che passa inosservato, abbiamo chiesto alle artiste e agli artisti partecipanti di dirci come arrivano o passano per la pratica audiovisiva che è nella mostra Videografie un nodo di tensione primario. La questione diventa essenziale contestualizzata in uno scenario di normalizzazione globale digitale in cui gli strumenti di produzione e circolazione sono accessibili da parte di una grande maggioranza attraverso i dispositivi mobili. Se da loro sprigiona una progressiva circolazione di video nelle pratiche di rapporto quotidiano mediato da macchine, allora quale luogo, quale potenza, quale senso ha la pratica audiovisiva per loro in quanto artisti?

“Sin da quando ero molto piccolo mio padre mi ha stimolato nella costruzione delle immagini. Mi ha regalato una macchina fotografica quando avevo sei anni e condividevo la camera oscura con lui che mi ha insegnato a sviluppare e a stampare su carta. La mia prima incursione nel video è avvenuta quando avevo dodici anni, a scuola, un genitore aveva portato un registratore che attraverso un cavo si collegava a una videocamera. A quattordici anni mi sono riproposto di frequentare sale cinematografiche tre volte alla settimana, nonché di leggere sul cinema tutto quello che mi capitasse sotto mano. Stavano arrivando sul mercato i primi homevideo e quando compii diciott’anni la nostra famiglia acquistò un videoregistratore e potemmo accedere al noleggio dei film in video. A sedici anni ho fatto il mio primo film (super 8). Finite le scuole superiori sono entrato nella scuola di cinema della mia città, ma è stato molto frustrante perché io non avevo alcuna velleità accademica e inoltre scoraggiavano gli studenti. Dopo quattro mesi mi sono ritirato e mi sono dedicato a lavorare nel cinema e nel video svolgendo diversi ruoli per imparare la professione. Nel corso della mia vita ho fatto seminari che mi hanno fornito strumenti per pensare alla produzione audiovisiva. L’evento più accademico al quale ho partecipato ha avuto luogo nel 2003-2004 attraverso una borsa di studio nell’Accademia di Arti e Media di Colonia, in Germania. Potremmo dire che è grazie alla scelta dei miei genitori di mandarmi in una scuola che dava la priorità all’educazione all’arte che sono arrivato in modo naturale alla creazione audiovisiva”.

(Testimonianza X)

“La prima volta che ho visto un’opera di video arte è stata alla prima Biennale di Lima (1997). Avevo 17 anni e fino ad allora credevo che l’arte fosse solo pittura, scultura e incisione. Capire che anche il video poteva essere arte mi sembrò incredibile. Sono cresciuta con il fascino per i videoclip che vedevo su MTV negli anni Novanta (MTV latinoamericana, ovviamente, io vivevo a Lima), il video mi era sempre sembrato un mezzo molto versatile e suscitava la mia curiosità.

Per cui una volta che ho allargato il concetto di ciò che poteva considerarsi “arte”, il video è diventato un’ulteriore possibilità per formalizzare un progetto”. (Testimonianza J)

“Nell’adolescenza ho frequentato una scuola con un orientamento all’arte e alla comunicazione, c’erano laboratori audiovisivi e facevo anche teatro. Poi ho deciso di studiare arti visive all’Universidad Nacional di Rosario, in Argentina. Sono approdatǝ al video attraverso la performance e l’archivio. Ho imparato a filmare e montare con amicǝ e tutorial. Osservo molto il modo in cui lavorano amicǝ e altrǝ artistǝ”. (Testimonianza K)

“Mi sono formato nella facoltà di architettura e l’ho lasciata a tre semestri dalla laurea. Lì ho capito che potevo avvicinarmi a molte discipline che mi interessavano, nel cortile sul retro, nello spazio meno ovvio, nel giardino che collega, un marciapiede, un passaggio. Il primo impulso è stato scrivere – senza molto senso – poi disegnare – senza sapere che cosa – e poi sono apparse la macchina fotografica e il cinema, quest’ultimo come luogo di incontro in tutti i sensi. (…) Con questi strumenti gioco a far camminare testo e fotografia, a dar loro non solo un luogo ma anche un tempo. Li faccio andare”. (Testimonianza A)

“Come arrivo alla creazione audiovisiva? Necessità che questo processo (…) avesse un REGISTRO che non fosse statico, che non fosse oggetto. Il video poteva funzionare. Il formato audiovisivo parte dalla disponibilità dei cellulari affinché ciascuno possa registrare ciò che gli interessa di ogni momento. È un registro dinamico sotto molti punti di vista e in molti racconti, anche da editare (…). A volte le telecamere sono testimoni delle situazioni”.

(Testimonianza D)

“L’interesse per il mezzo audiovisivo nasce dalla sperimentazione con i media digitali e l’animazione. Successivamente, la nostra ricerca artistica è sfociata nell’utilizzo dei mezzi tecnologici nel nostro linguaggio artistico”. (Testimonianza E)

“Ho fatto un cortometraggio classe Z, la sceneggiatura mi ronzava in testa… Non avevo soldi ma non importava, non avevo la videocamera ma non importava. Avevo degli amici che mi aiutavano. Non avevo una formazione cinematografica oltre a quella vista al cinema”. (Testimonianza Q)

“Il formato audiovisivo mi permette di registrare gran parte di tutto questo, fa sì che l’azione performativa perduri nel luogo, un registro che funziona come opera autonoma all’interno dell’installazione e che accompagna il resto delle opere, siano disegni, incisioni o sculture”. (Testimonianza B)

“Ho avuto la fortuna di essere stimolata sin da molto piccola, disegnavo, dipingevo, scolpivo e ballavo ancor prima di parlare. La creazione audiovisiva è sempre stata un interesse, non appena i mezzi per filmare sono diventati accessibili ho cominciato a lavorarci”. (Testimonianza G)

“Mi sono specializzata in Pittura, non mi piaceva l’idea di stare nello studio a dipingere aspettando che un curatore mi toccasse con la bacchetta magica e mi legasse a una galleria. Lavorare in quel modo così gerarchico, classista e quattrocentesco alla fine degli anni Ottanta ha fatto sì che io guardassi altrove. In quel momento ero circondata da persone che lavoravano nell’audiovisivo sperimentale (video arte), alla fine degli anni Ottanta, e mi attrasse quel modo (…) trasversale che offriva il mezzo, sempre alla periferia del mondo dell’arte, e mi motivò, dato che ciò che conoscevo delle gallerie e dei musei era per me un mondo molto retrogrado”.

(Testimonianza I)

“A partire da lì, il mio avvicinamento all’audiovisivo è sempre stato un bacino naturale.

Passare dall’immagine fissa all’immagine in movimento, l’immagine tempo… l’ho fatto precocemente. Sempre sperimentando con gli schermi, con le videocamere e tutta la tecnologia inerente”. (Testimonianza N)

“Comprai una videocamera Mini DV che mi stava in una mano. Ero basito perché in tv lavoravano con videocamere Betacam che erano gigantesche. Presi le poesie che avevo scritto durante l’adolescenza e le trasformai in video, un video per ogni poesia. Qualcuno a me vicino che aveva studiato in Colombia e che era un video artista conosciuto in America Centrale mi invitò a partecipare a un laboratorio di video sperimentale che impartiva. Gli dissi che volevo fare video poesia, e lui mi spiegò che quella cosa lì la potevo chiamare video arte. A quel punto mandai due dei miei video alla Biennale di Arti Visive del Nicaragua e ottenni una menzione speciale. Impazzii e lasciai il giornalismo, dico che impazzii perché ero brava, avevo vinto il premio nazionale di giornalismo e facevo quel mestiere da dieci anni. Concorsi per una borsa di studio e andai a studiare un Master in Belle Arti, incentrato sul cinema, a San Francisco, negli Stati Uniti. Rimasi lì due anni, imparai a lavorare con il cinema analogico di piccolo formato, sviluppato a mano, fatto a mano, era come un culto. Lasciai il video, volevo soltanto usare le mani, cominciai a disegnare, dipingere, a lavorare con il corpo. All’epoca ormai lavoravano tutti con videocamere DSLR, ne comprai una ma non mi sentii mai a mio agio. È stato così fino a poco fa, quando con gli smartphone sono tornata al video, perché la videocamera mi sta in una mano”. (Testimonianza R)

“Sono arrivato all’audiovisivo perché studiando fotografia ci hanno insegnatoad approfondire tutte le modalità possibili: fotografia, interventi artistici, audiovisivo, ricerca, scrittura, etc., anche se brevemente, penso che sia una risorsa utile per chi decida di farne uso. Nel mio caso, nello specifico per quanto riguarda il video con cui ho partecipato al progetto Riattivando Videografie, mi interessa utilizzare materiale audiovisivo e fotografico d’archivio per generare il mio contenuto artistico, dato che esploro questi mezzi da circa un anno e mezzo”.

(Testimonianza Y)

“La creazione audiovisiva arriva a me perché ho idee e opere che richiedono questo formato per esistere. Nel corso della mia vita e nelle mie esperienze ho lavorato nella produzione audiovisiva: ho lavorato come produttore di un reality show, ho girato un videoclip e ho fatto da consulente a produttori nei loro lavori. Nella mia pratica artistica appare quando l’opera così lo ha richiesto. Nel mio caso, il contenuto è sempre subordinato alla forma. A sua volta, come artista mi interessano molto i social network come spazio di esistenza e relazioni, e l’audiovisivo si insinua in questo interesse. Infine, lavoro molto con la performance, e in molti casi (come nel lavoro che presento a Videografie) l’audiovisivo appare non soltanto come una registrazione di un’azione presenziale, ma come un ulteriore mezzo nel quale l’azione si sviluppa, apportando altre informazioni e problematiche al tema su cui sto lavorando”. (Testimonianza U)

“Nel caso della video arte per noi è di primaria importanza l’estetica non come fine ma come mezzo, oltre all’uso corretto del linguaggio di luce, inquadratura, suono etc. Per noi un prodotto di video arte non è una serie di immagini in movimento volte a una narrativa specifica, è piuttosto una sorta di performance concepita per essere video, preciso e veloce (non più lungo di tre minuti) che si possa vedere mentre si cammina nel corridoio di un museo o di una sala espositiva e ancora più importante che inneschi una riflessione o, nel migliore dei casi, delle domande”. (Testimonianza T) **

Singolarità biografica

Gli artisti condividono esperienze biografiche singolari che si vedono enfatizzate nelle loro traiettorie come punti senza ritorno per la loro pratica creativa. Esperienze che hanno a che vedere con le loro famiglie, la loro formazione o il loro intenso vissuto, a volte violento o drammatico, in cui l’arte funge da corda che salva, che accoglie e tira su, o come una tana che offre riparo e dà senso.

“Nel mio caso la creatività era ed è fondamentale nella vita quotidiana. Sono nato a Panama attanagliato dalle restrizioni economiche e dalla povertà, per cui per sopravvivere la creatività era indispensabile. Com’è ovvio, sono passato dal quartiere degradato alla prigione per una rapina in banca ed è stato lì che paradossalmente ho incontrato l’arte. In prigione la creatività era più che indispensabile, una questione di vita o di morte (…). D’altro canto è stato grazie agli sforzi di una grande donna e artista, che si era impuntata a dimostrare che l’arte è la miglior sostituta del crimine e che a dispetto della totale apatia dell’istituzione penitenziaria aveva creato dei laboratori, che ho trovato un modo per essere coerente con la mia natura di trasgressore ovviamente senza danno a terzi”. (Testimonianza T)

“Mio padre era docente di disegno e architetto, io sono nato nell’ultima dittatura militare e lui era stato prigioniero politico. Io e mia sorella non potevamo frequentare la scuola pubblica, perché avremmo ricevuto un trattamento diverso rispetto alle bambine e ai bambini “normali”. La mia casa era il luogo più sicuro in cui stare e, da quando ho memoria, la parete della mia stanza è stata la mia prima tela, senza alcuna censura. Trascorrevo molto tempo a graffiare, a disegnare. Osservando il lavoro di mio padre come architetto (proiezione geometrica), ascoltando le sue letture e i suoi gusti artistici. E tante ore passate con un caffè nei bar in cui si parlava di arte. Io guardavo e ascoltavo”.

(Testimonianza Q)

Rispetto ai racconti biografici che accompagnano le testimonianze raccolte nelle interviste, la maternità e l’assistenza sono temi ricorrenti nelle persone che hanno figli o persone a carico. In tutti i casi questa questione, che a quanto pare sembra interpellare soltanto le donne, emerge come una complessità aggiuntiva nella difficile gestione dei tempi di una pratica che si fonde con la vita (“non si smette di essere artisti quando si dorme o si passeggia”).

Nella testimonianza audio di Z, per esempio, si ribadisce che la creazione è un costante problema di tempi, in cui conciliare la prole è complicato e fuggire dall’autosfruttamento e il senso di colpa anche.

“Lavoro quando posso”. **

Gli altri nella formazione

La maggior parte degli artisti intervistati sono nati e vivono in diversi paesi dell’America Latina. Una peculiarità delle loro testimonianze è stata risaltare il valore che nella loro formazione e traiettoria hanno avuto altri artisti di prestigio con i quali hanno studiato o lavorato e che sono evidenziati nelle loro testimonianze con “nomi propri”. Il loro ruolo di professori o la loro vicinanza o consulenza come mentori e maestri nell’ambito dell’istruzione non formale si posiziona come tratto distintivo rispetto ad altri artisti, per esempio spagnoli, nei quali la formazione è inscritta in ambiti di apprendimento, quasi sempre disciplinare, in cui i nomi propri sono vaghi e spariscono dai riferimenti.

“Ho cominciato facendo teatro. Poi ho studiato arti plastiche e quando sono andato all’Accademia (…) a Milano, ho avuto la fortuna di avere come maestro l’artista B. M. che teneva un corso di video. Successivamente in Messico sono stato assistente dell’artista R. O., che veniva dal cinema come direttore della fotografia e aveva svolto un lavoro molto interessante collaborando con artisti plastici.”

(Testimonianza C)

“Da bambina ho frequentato il conservatorio e non riuscivo a immaginare di poter fare altro. Mi sono formata come ballerina (…) e poi in modo autonomo, cercando professori, corsi, laboratori, ho fatto l’apprendista per un anno in una compagnia indipendente nella città di L’Avana, Cuba (Compagnia di N. M.). All’Università ho studiato antropologia ed è stato dopo vent’anni di danza che ho deciso di prendere una postlaurea. Mi sono sempre piaciuti il cinema e il teatro, ho fatto molte collaborazioni con persone di teatro; tuttavia, è stato solo quando sono andata a studiare a Buenos Aires che mi sono approcciata alla creazione audiovisiva”. (Testimonianza F)

“In questo lasso di tempo ho avuto la fortuna di studiare parallelamente con due maestri che hanno influito enormemente nella mia formazione di artista visivo (D. S. e M. B.). Quando mi sono laureato, sono andato a lavorare in (…) un’azienda che si dedicava alla produzione di effetti speciali per l’industria di produzione e regia di cinema e televisione; sono entrato come illustratore e lì ho imparato a usare strumenti digitali per l’editing di immagini e l’image tracing dei miei disegni. In quel periodo è nato il mio interesse per l’animazione 2D, 3D e l’editing video. (…) Nel 2005, ho studiato (…) in un laboratorio di realizzazione cinematografica. Lo stesso anno ho seguito un workshop di sceneggiature cinematografiche, impartito dalla sceneggiatrice colombiana S.M. Da lì in poi la mia formazione nella produzione di animazione e video arte è stata da autodidatta”. (Testimonianza O)

“Poi ho studiato Disegno Grafico all’Universidad Politécnica, lì ho sperimentato con l’animazione e le narrative audiovisive, poi ho studiato alla scuola indipendente di arte contemporanea (…) diretta da P. B.” (Testimonianza W)

** L’arte come lavoro

Tradizionalmente il lavoro artistico è stato considerato un’attività più legata all’essere che al fare. Essere artista e non fare arte alluderebbe a una pratica che non si distacca dal soggetto quando non vi è espressamente, vale a dire un’identità che si è tutto il tempo. I miti e le idee implicite che, in particolar modo nella cultura occidentale, hanno predominato riguardo all’artista, hanno contribuito a legittimare la povertà e il coraggio come tratti propri dell’artista bianco, europeo e maschio. Un artista disposto a tutto per la sua arte, anche a sacrificare la propria vita per la sua passione. Lo smontaggio decoloniale e femminista di questa mitologia è stato abituale nella seconda metà del Novecento e in anni recenti, dove l’arte “come lavoro” è stata un reiterato oggetto di lavoro estetico e politico nella pratica recente da parte degli stessi artisti. Rendere riflessive le loro condizioni di lavoro in un mondo che riconosce sia il valore simbolico dell’arte che il valore economico tratteggia uno scenario in cui convivono forme molto diverse di intenderne il ruolo e l’importanza sociale.

Nelle testimonianze che seguono le artiste e gli artisti riflettono se la loro pratica debba funzionare come pratica economica e vitale esclusiva o se debba essere integrata come parte, o a volte complemento, di altri lavori e attività dai quali si ricava una base economica. La diversità culturale dei paesi in cui questi artisti lavorano contribuisce ad ampliare le letture, anche se sembra che un tratto comune condiviso nei loro racconti sia la necessità di conciliare diversi lavori per potersi dedicare alla pratica artistica.

Lavorare/fare arte, ma non soltanto

“Mi dedico alla pratica artistica ma non soltanto nell’ambito della creazione, anche della pedagogia, della ricerca (scrittura) e della gestione, all’occorrenza. Attualmente faccio lezione tutti i giorni in scuole diverse. Faccio poco meno di mezza giornata, con orari fissi, e nel resto del tempo mi organizzo per dedicarmi alla mia pratica e al mio allenamento come ballerina, al lavoro ad altri progetti e opere”.

(Testimonianza F)

“Non mi dedico soltanto alla pratica artistica, sono docente alle elementari, alle superiori e all’università. Questo è il principale sostegno, poi richiedo borse di studi, sussidi, partecipo a bandi culturali… È complesso per i trasferimenti e la mobilitazione dei laboratori. Noi (siamo un gruppo di donne)… è come un bancone della produzione che si sposta e si trasforma a seconda del luogo (trapunte, tovaglie, piatti… che comportano delle spese per le quali serve partecipare a dei bandi)”.

(Testimonianza D)

“Da quando mi sono laureato ho lavorato con il disegno grafico alle scuole medie, e l’ho conciliato con borse di studio e residenze grazie alle quali ho potuto lavorare ai miei progetti audiovisivi. In questo momento “vivo” soltanto dei miei progetti artistici, e quindi male, molto male. (…) Lavoro in casa e non ho un laboratorio visto che non ho entrate fisse per pagarmi uno studio, a volte ne sento la mancanza, ma normalmente preferisco lavorare da casa con i miei libri eccetera…” (Testimonianza I)

“Lavoro ad argomenti relativi alla mia pratica, che per me sono una continuità. (…) Faccio interviste ad artisti e cineasti. Collaboro con alcune riviste o istituzioni scattando foto o elaborando testi. Organizzo seminari e workshop. Collaboro con amici in laboratori o ricerche. Tutto all’interno della pratica artistica. Ma se questo viene meno, e viene meno molto spesso, e gli introiti sono bassi, faccio quel che tocca, ovviamente”.

(Testimonianza A)

“Ho diversi lavori, la pratica artistica è uno di questi. Sono anche docente e lavoro in modo autonomo ad altri progetti di formazione artistica. È molto comune trovare ostacoli economici per realizzare un progetto artistico, soprattutto se è su grande scala, le risorse economiche sono esigue e bisogna escogitare continuamente strategie per mettere su progetti che possano trovare finanziamenti. Nei miei lavori spesso mi aiutano colleghi, amiche, artisti o familiari. In un certo modo il risultato finale si deve al lavoro collettivo, e altrettanto succede con i progetti di altri colleghi. Ci aiutiamo sempre quando mancano le risorse tecniche, di montaggio, diffusione, o materiali, anche condividendo idee e metodologie di produzione”.

(Testimonianza K)

“Devo conciliarlo con altri lavori. Ho sempre fatto così, anche se è da molti anni che l’idea di dedicarmi soltanto all’arte mi ronza in testa. Ad ogni modo, e forse per autocompiacermi, riscontro dei vantaggi nell’avere un lavoro che mi garantisca la sussistenza e mi dia la libertà di non pretendere dall’arte che mi dia dei soldi”.

(Testimonianza K)

“Fondamentalmente la mia quotidianità consiste nel lavorare in un ufficio, dalle 8 alle 10 ore al giorno, e durante questo tempo, oltre a quello che resta del giorno, non smetto mai di pensare all’arte… A come e che cosa fare con quelle idee o progetti che assorbono la mia volontà. Quando un progetto è sufficientemente maturo, generalmente cerco l’opportunità per mostrarlo, che sia tramite concorsi, bandi o una mostra. Lì, con la data di inaugurazione stabilita, lavoro in modalità consegna, concentrandomi e a volte anche prendendo del tempo dall’ufficio per poter raggiungere l’obiettivo. La difficoltà di sviluppare di più e meglio, consiste proprio in questo, nel tempo libero, nel tempo a disposizione per non essere obbligato a “consegnare” tutto quello che faccio e poter creare senza una meta e senza un senso”. (Testimonio K) “Oltre a essere artista sono accademico. Impartisco un laboratorio nella scuola d’arte in cui ho studiato e in un’altra università. L’ho fatto anche in altri contesti. Oggi, per esempio, con la pandemia, mi sono associato a un’altra amica artista e stiamo offrendo dei workshop online di editing video per artisti. Oltre a tutto ciò, lavoro nella postproduzione di video digitale per diverse istituzioni o persone tutte impegnate nel campo dell’arte contemporanea. Penso che la difficoltà principale sia stata imparare a calibrare i tempi. Ci sono mesi in cui mi scollego dal fare e poi ritorna tutto. Non mi lascio sopraffare dalla catena produttiva del lavoro artistico perché non mi interessa. Ci sono momenti in cui hai bisogno di riposare e contemplare, rimanere in silenzio, e poi riprendere da altre prospettive. Per la stessa ragione, non mi dedico al 100% a produrre opere artistiche perché il Cile è un Paese difficile. Con un collezionismo ridotto all’osso, fondi pubblici molto legati alla burocrazia, un Paese, come tanti, che non è stato in grado di ripagare gli artisti per il loro contributo alla cultura. Ma non per questo bisogna smettere di creare. Nel mio caso diventa anche una necessità, come tante altre, e che bisogna rendere compatibili per ottenere risorse e continuare a creare cose”. (Testimonianza N)

“Oltre alla mia carriera di artista visivo, lavoro anche come architetto. In Guatemala ci sono alcune gallerie commerciali, ma non si può parlare di un mercato dell’arte. Il Paese non dispone di un’infrastruttura statale o privata per fomentare l’arte contemporanea, e tantomeno se si tratta di arte digitale o nuovi media. Il Paese non prevede nemmeno borse di studio o sussidi statali per gli artisti. Essere artista in Guatemala è una lotta costante. Come conseguenza della pandemia, hanno chiuso alcune gallerie commerciali, spazi alternativi e fondazioni. Istituzioni come il Centro Cultural de España de Guatemala, La Alianza Francesa e alcune Fondazioni; (…) che sostengono l’arte, hanno cancellato e riprogrammato le attività a causa della pandemia”. (Testimonianza O)

“Devo conciliarlo con diversi altri lavori: impartisco laboratori d’arte in scuole pubbliche e un laboratorio d’arte nel mio studio (…) Amo gli altri lavori che non riguardano la mia opera, ma mi prendono tanto tempo. Inoltre sto studiando Scienze della Comunicazione (…) e Docenza di Comunicazione Visiva (…). Un altro aspetto rilevante è che sono madre… (Le mie grandi difficoltà sono) trovare tempo e soldi. Il mio computer è un vecchio trattore, è complicato fare editing, etc., e non ho una videocamera per filmare, le mie ultime creazioni sono fatte con un cellulare”. (Testimonianza Q)

“Non vedo l’ora di andare in pensione per potermi dedicare al cento per cento all’arte. Lavoro da quando avevo vent’anni a tempo pieno. Come donna, mi è sempre sembrato importante essere autonoma, non ho ancora trovato il modo di sentirmi emancipata senza soldi. Quando ho completato gli studi artistici ho dovuto affrontare la precarietà, per un periodo ho voluto provare a dedicarmi soltanto all’arte e alla docenza, ma il salario era troppo basso. Da sette anni lavoro come specialista in comunicazione per progetti di sviluppo. Voglio dire che mi sono impegnata in diversi campi: l’accademia, la pubblicità, il giornalismo e l’arte. In nessuno dei mercati in cui ho lavorato sfruttano tanto la gente quanto nel mondo dell’arte. Non soltanto non c’è una paga, non c’è un salario, a volte bisogna perfino sovvenzionare il collezionista, il museo, etc. Una volta ho lasciato la mia famiglia senza televisore per due mesi per poter esporre in una biennale. Biennale organizzata dalla fondazione di una famiglia miliardaria proprietaria di banche in tutta l’America Centrale. Avevo richiesto lo schermo troppo tardi ed erano finiti. Fu incredibile perché l’opera fu poi premiata, e il premio consisteva nella possibilità di esporla in un’altra biennale, in un altro Paese dove invece mi prestarono uno schermo e mi diedero un rimborso spese, ma l’idea di retribuire una persona per il suo tempo, come succede nel mondo reale, non è mai passato per la testa ai “mecenati dell’arte”. Quest’idea che il premio o il pagamento consista in un viaggio mi sembra un’infantilizzazione. I fondi per produrre la mia opera provengono dal mio lavoro in altri campi, dove invece percepisco un salario, godo di ferie, benefici, etc. Uso i miei giorni liberi, i fine settimana, i giorni di vacanza o i permessi per poter lavorare, esporre e rimanere il più attiva possibile. Ho venduto opere soltanto in tre occasioni tra il 2005 e il 2021. Per questo all’inizio ho detto: quando andrò in pensione”. (Testimonianza R)

(mi dedico all’arte) “(…) e inoltre all’assistenza. Per il momento la difficoltà più grande è gestire la pandemia e le sfide che ci pone. (…) Non mi dedico esclusivamente all’arte. Devo lavorare come docente alle superiori, insegno materie relative all’arte.

(…) Lavoro regolarmente nel campo della docenza, che è ciò che mi offre una stabilità economica di base e alla pari di ciò che potremmo dire la gestione e la circolazione dell’opera”. (Testimonianza H)

“Non mi dedico esclusivamente alla pratica artistica, per decisione personale. Mi imbarco in progetti di design quando sono motivato. Lavoro però quasi interamente all’interno del mondo dell’arte, in modo autonomo, da diverse prospettive: a volte come artista, a volte come curatore, gestore, produttore, etc. Contemporaneamente lavoro al Centro di Fotografia (…). La mia pratica artistica varia a seconda del luogo in cui la realizzo, giacché do la priorità al mio interesse e valuto l’impatto che può avere. Per me è molto importante produrre con senso, e farlo all’interno di ambiti e contesti che mi permettano di introdurre nella sfera pubblica tematiche che ritengo opportune da ampliare, discutere, e oltre. Ad ogni modo, sono sempre lì a scrivere, ad abbozzare idee, e consapevolmente scelgo quando è necessario uscire sul palco come artista e quando è meglio spingere da altri luoghi”. (Testimonianza U)

Le testimonianze di chi prova a dedicarsi o si è dedicato esclusivamente alla pratica artistica riferiscono quanto segue:

“Mi dedico esclusivamente alla mia pratica artistica, ma questo è possibile solo perché c’è uno stipendio fisso nella mia unità familiare. (…) La mattina lavoro al computer, faccio ricerca e le faccende di casa. Vado allo studio tutti (o quasi tutti) i pomeriggi. Condivido lo studio con un’altra artista. (… difficoltà?) L’instabilità economica. Non so se avrò mai i soldi per produrre”. (Testimonianza J)

“Ci siamo dedicati esclusivamente alla creazione artistica come collettivo (…), attualmente, da un anno, conciliamo questa attività con la pratica della docenza e la ricerca (…). Il nostro contesto lavorativo come creativi è molto versatile, perché a volte i nostri progetti richiedono la collaborazione di attori di altre discipline (programmatori, disegnatori, etc.)” (Testimonianza E)

“Attualmente mi dedico soltanto alla pratica artistica. Per l’ultimo progetto che ho presentato, ho lavorato come docente in un centro penitenziario (…) Vivo e lavoro nel mio laboratorio, è un’antica proprietà di famiglia. È ampio e ha un soffitto alto. Lì resto una decina di ore circa, a sviluppare il processo del progetto, compro i materiali con i soldi delle opere che vendo attraverso una galleria con cui ho esposto due anni fa e anche in modo autonomo. Ho vissuto difficoltà economiche in altri periodi, quando non vendevo tanto spesso, e quando non riuscivo a comprare materiali, ho ricevuto l’aiuto della mia famiglia. (…)”.

(Testimonianza M)

“Mi dedico soltanto alla pratica artistica perché non so fare altro, e perché mi rifiuto di provare a vivere di altro. (…) Normalmente lavoro a progetto, per cui ne metto uno in agenda e lavoro per lunghi periodi alla ricerca. Li mescolo ad altri processi creativi, come suonare la batteria con il mio gruppo (…), guardare cinema sperimentale, leggere, ritrovarmi e parlare con persone che si legano al mio progetto, visitare luoghi, scrivere, scattare foto, guardare cazzate su TikTok, vedere Euronews, cose su Internet. E inoltre sperimentare con materiali relativi agli avvenimenti quotidiani, etc.” (Testimonianza W)

“Cerco di dedicarmi esclusivamente alla pratica artistica, ci vuole tempo e conciliarlo con altri lavori fa sì che il progetto si dilati e abbia altre intensità. Così com’è organizzato il sistema non sempre è possibile. Nel mio caso la mia quotidianità è piuttosto solitaria, ci sono fasi di molto ufficio e ricerca e altre di laboratorio e lavoro sul campo che mi permettono di imparare da altre discipline e conoscere gente meravigliosa con altri interessi che danno un senso al progetto a cui si sta lavorando.” (Testimonianza B)

“È uno stile di vita, ritengo che sia importante avere il tempo affinché ogni processo si sviluppi in accordo con le sue caratteristiche. Il mio contesto quotidiano di lavoro è legato al lavoro in laboratorio, alla lettura, alla scrittura e anche ai processi propri di ogni progetto che coinvolge registro fotografico, video ed editing, nonché una porzione relativa a questioni relative alla produzione delle opere, che sia acquisto di materiali, interviste, riunioni, mail, etc.”

(Testimonianza C)

Nonostante tutto, nel diffuso sentire che è necessario avere uno o più lavori aggiuntivi a quello artistico per potersi dedicare anche alla creazione, prevale la sensazione che optare per un’attività inerente, come per esempio la docenza o la ricerca in aree affini, può essere il percorso più ragionevole per proiettare l’energia creativa su un campo comune. Tuttavia, c’è da chiedersi se le esigenze crescenti che i lavori accademici e di docenza richiedono in una competitiva cornice di capitalismo culturale permettano di disporre di un tempo realmente libero per la creazione in quei contesti, o se invece, al contrario, dedicarsi a lavori non legati all’arte e più meccanici nella loro risoluzione non possa aiutare a disporre di un tempo pulito per la concentrazione creativa. Quest’ultima questione emerge nella testimonianza Z e in diverse conversazioni con gli artisti.

Tra il predominio di chi concilia la docenza con la creazione troviamo chi ricava soldi e tempo da lavori non relativi alla propria pratica come si narra nella testimonianza S: “Lavoro due volte alla settimana in un’edicola e da freelance realizzo animazioni per progetti altrui, in generale mi chiamano per questi lavori perché gli piace ciò che faccio ma alla fine sono sempre animazioni generiche, un lavoro più tecnico che creativo, più di adorno che di concetto. Sempre sottopagati. Ad ogni modo, cerco di goderne e di ricavarne un qualche apprendimento, quantomeno tecnico. L’animazione richiede molto tempo difficile da calcolare e, per la mia personalità, è difficile anche riorganizzare gli orari quando i progetti si protraggono nel tempo e richiedono bozze e materiali nuovi. (…) So che non è una cosa che capita soltanto a me e che ne patiscono anche i colleghi animatori, ma se dovessimo aspettare di incassare il giusto non lavoreremmo mai e staremmo perennemente a contrattare”.

(Testimonianza S)

Tuttavia, nel contesto accademico, in particolar modo quello universitario, l’aumento delle pressioni amministrative, di gestione e di valutazione derivanti dalle maggiori esigenze di connessione e dalla mercantilizzazione della conoscenza, favorisce sentimenti di autosfruttamento come in quello narrato nell’intervista registrata con Z a cui facevo riferimento prima: “Diciamo che è insostenibile. Dobbiamo lavorare ma non autosfruttarci, anche se ci sono delle contraddizioni”. Come risposta l’artista cerca di legarsi a progetti e persone che le interessano, decidendo di non presentarsi a tutte le borse di studio e a tutti i bandi in cui vorrebbe tentare la sorte ma che probabilmente la porterebbero a depersonalizzare il proprio lavoro inquadrandolo in budget restrittivi. La terrorizza perdere il senso e il valore che proietta nella sua pratica perché in molti casi in quei bandi c’è soltanto un pagamento simbolico e non pecuniario, né necessariamente un progresso artistico. Scartate le opzioni di vivere economicamente della propria opera e quella di ottenere un prestigio duraturo per la volatilità con cui tutto sembra muoversi ultimamente, l’artista da un lato conta di districare il conflitto di tempo ed energie richiesti dal lavoro accademico e quello artistico, e dall’altro rivendica il diritto a lavorare ai progetti che le interessano, con le persone che le interessano e per i valori dell’arte che la smuovono.

Mi sembra interessante la precedente riflessione e quelle che seguono poiché la catena di pratiche incluse nel lavoro creativo e che, come un ritornello, ripetono molti degli artisti, “fare ricerca, leggere, cercare testi, scrivere, vedere, ascoltare…”, corrono il rischio di essere occupate dalle attività di gestione crescente nei contesti accademici e anche in quelli delle procedure per la richiesta di aiuti culturali. “Corrono questo rischio” quando la loro pratica viene burocratizzata e dipende dalla concatenazione di bandi, sussidi e borse di studio la cui gestione amministrativa (preparazione, processo e giustificazione) può neutralizzare gran parte dei tempi che garantirebbero la concentrazione e la libertà del loro lavoro.

“La mia quotidianità prevede: sfogliare immagini, fare ricerca, leggere, cercare testi e proposte relative a ciò a cui sto lavorando, scrivere, vedere e ascoltare, camminare, leggere. Non ho uno studio, lavoro sempre a casa tranne quando sono in residenza: lì funziona molto bene perché mi dedico in modo spaziale al progetto, non sono distratto dal mio spazio quotidiano, cambiano i “rituali ossessivi” e si trasformano in un “fare continuo”, altrettanto ossessivo, concentrato. Il tempo è più denso, si circoscrive.” (Testimonianza A)

Vivere di arte. Quanto vale il lavoro artistico?

La preoccupazione per il tempo e i soldi in questo senso è una costante, più marcata nei Paesi e nei contesti in cui non esiste una struttura di sostegno culturale, istituzionale ed economico della pratica artistica come lavoro. Le domande sul valore dell’arte lì dove si ritiene che un artista possa essere pagato per essere selezionato per una mostra (in cui deve occuparsi di tutte le spese) o con la soddisfazione di veder pubblicata la sua opera, è una questione che si reitera nelle conversazioni e interviste.

“Per il lavoro creativo tutto comporta una difficoltà. (…) L’economia è una follia. (…) Guadagniamo meno di dieci o quindici anni fa. Tutto è più difficile. Si accettano peggiori condizioni, pur di ricevere “qualcosa”. I soldi non bastano. Penso sempre al libro L’orrore economico, di Viviane Forrester. Ora quel libro è superato dalla realtà, già annichilente.”

(Testimonianza A)

“(…) Il mio conto è bloccato perché il fisco ha ritenuto che le entrate come borsista erano lavoro “non dichiarato” e non c’è verso di uscire da questa situazione. Ho mandato un reclamo due mesi fa e ancora non ho ricevuto risposta, nonostante sia evidente che non percepivo contributi. Eppure eccolo lì, un debito che non ha senso e che cresce mese dopo mese. Inoltre, per una sorta di politica che mira solo a torturare, ricevo una domenica al mese la notifica di un’inadempienza che risponde così: mastica qualsiasi entrata finisca sul mio conto. Mi viene in mente il film di Bresson, L’argent. A forza di sospettare e di renderti la vita impossibile, l’istituzione burocratica ti trasforma in un delinquente.”

(Testimonianza A)

“Le difficoltà quando si tratta di realizzare il lavoro creativo sono, fondamentalmente, l’instabilità economica che caratterizza questo lavoro, e che a lungo andare pesa. E poi, la tipica frase di “gara di fondo”, in parte vera, in parte no, credo che ci afferriamo a essa per trovare una motivazione e continuare a creare (…). Questo fa sì che si tiri la carretta “fin quando è necessario”. D’altra parte, credo che sia una fortuna avere delle cose da apportare, un linguaggio con cui farlo e libertà per realizzarlo, essere creativo è uno strumento spettacolare, e non concepisco la mia vita senza di esso”. (Testimonianza B)

“Il problema fondamentale che riscontriamo nella nostra pratica artistica è la ricerca di finanziamenti per la produzione di opere complesse. Nel caso del nostro processo creativo come collettivo, ben lungi dal presupporre problemi di ego, ci garantisce un certo stimolo ed energia quando si tratta di creare. La nostra ricerca artistica individuale si completa e potenzia molto bene nella messa in comune. Questo fatto forse si deve a una certa ricettività che abbiamo sviluppato nella collaborazione con persone che non appartengono al mondo dell’arte”. (Testimonianza E)

“La mia professione è l’audiovisivo, questa è stata la mia scelta, coprendo diversi ruoli per potermi mantenere. Per tutti i miei progetti ho cercato finanziamenti con diversi livelli di risultati. Do anche lezione in diverse istituzioni della città di Rosario e programmo cicli di cinema da vent’anni in diversi spazi della città. Scrivo sporadicamente su giornali e riviste. Negli ultimi anni è stato molto difficile il mantenimento della mia economia familiare”. (Testimonianza X)

“Tra le difficoltà o problematiche che potrei menzionare per le artiste e gli artisti a San José citerei la mancanza di risorse economiche come un sostegno da parte del governo per il settore artistico a livello pubblico, mancanza di chiarezza e di diffusione nei bandi, siano questi pubblici o di enti privati, una percezione da parte della società costaricana (parlando a livello generale) che promuove la pessima retribuzione dei lavori artistici proprio perché gli artisti non vengono valorizzati né gli si dà lo spazio che gli spetta. Una mancanza di risorse materiali per rendere effettivi alcuni progetti potrebbe essere considerata come un’ulteriore problematica, che finisce per influire sulla qualità finale del prodotto. Il senso di individualismo e la mancanza di collaborazione potrebbe essere un’altra ragione che si può menzionare per i progetti in collaborazione”. (Testimonianza Y)

“Le difficoltà del lavoro creativo sono il tempo, gli spazi e i soldi. Cioè, ci sono pochi spazi che aprono un luogo di sperimentazione senza richiedere previamente dei risultati, e in questo senso è difficile giustificare ciò che facciamo senza presentare a priori gli obiettivi che si perseguono. La maggior parte delle proposte è per artisti che già sanno o immaginano i loro risultati e a me costa tantissimo immaginare tutto prima di ritrovarmi nello spazio, l’ispirazione per me sorge durante il lavoro”.

(Testimonianza F)

“Il mio lavoro creativo ha due fasi e avviene in un modo piuttosto irregolare. Da un lato, quando nasce un’idea o un interesse mi dedico a filmare e a produrre immagini grezze, e questo dura un periodo breve e intenso, durante il quale ottengo parecchio materiale. Poi sopraggiunge la fase di editing del lavoro che può durare diversi mesi, tra periodi di dedizione intensa e altri in cui non posso fare nulla finché il lavoro non decanta da solo. La difficoltà consiste nella quantità di lavoro, quando devo svolgere il mio lavoro abituale in contemporanea con la produzione creativa, quando devo viaggiare e devo sistemare le mie mancanze nelle istituzioni in cui sono docente. Sono anche madre e l’organizzazione in questo senso è complessa per processi creativi o mostre che richiedono viaggi, assenze da casa che devo conciliare con il prendermi cura di mia figlia e i miei lavori fissi”. (Testimonianza H)

“La questione dei finanziamenti delle opere è sempre un problema per risorse economiche come le mie che sono striminzite. (…) Credo anche però che le difficoltà o il conciliare la mia vita quotidiana lavorativa extra-artistica, a meno che non si tratti della mera produzione, siano uno strumento chiave della mia creatività. Ovviamente sarebbe meglio se fosse meno complesso! Ma la mia opera parla del mio contesto quotidiano, delle mie lotte e delle mie felicità nel tessuto della vita che si allontana dal sistema dell’arte ed è in questo spazio che spesso trovo il senso della creazione, quello dell’arte attraversato dalla vita stessa: registrandola, rendendola strana/ osservabile/comica/meravigliosa/drammatica”. (Testimonianza H)

“Per quanto riguarda i miei progetti personali per fortuna ho sempre diverse idee che mi ronzano in testa e opere a diversi stadi, in post produzione, in via di sviluppo che muovo con diversi bandi per ottenere un finanziamento. Questo in realtà lo fanno due amiche, una è produttrice e l’altra distribuisce perché io sono pessima in queste cose, soprattutto perché per il tipo di opera, sperimentale, esperienziale, che cerco di sviluppare non ci sono linee specifiche nei concorsi, e quindi cercare di adattarsi ai requisiti classici è un lavoro extra. Per quanto riguarda i festival e la distribuzione, vedo che l’ambiente è più progredito e credo che il fatto di essere stata tanto tempo insieme a disegnatori o artisti plastici mi abbia aperto anche la possibilità di esporre in gallerie e musei, cosa che adoro perché si stabilisce a partire da questi inviti una lettura dal linguaggio grafico più che cinematografico… sono entrambe, ma il contesto è sempre stato quello del disegno. Per quanto riguarda i compensi, in questi circuiti è tutto molto aleatorio, ma in generale o sono bassi o non ci sono proprio”. Testimonianza S)

“Attualmente frequento l’ultimo anno di università, per cui il mio modo di generare entrate consiste in lavori freelance che mi procuro, oppure partecipando a bandi artistici svolti nel mio Paese, anche se in precedenza ho dovuto lavorare in altri ambienti per avere più entrate. (…) Il mio contesto quotidiano di lavoro si incentra in due ambiti che si dividono in progetti personali, i quali sono redditizi se per esempio partecipano a bandi o a concorsi artistici e quello direttamente relativo alle entrate economiche, che in generale sono lavori commerciali nei quali svolgo solitamente il ruolo di direttrice artistica per video musicali, fotografia e materiale audiovisivo di prodotti e ritratti. Solitamente lavoro in collaborazione con altrǝ artistǝ nel settore commerciale della fotografia e/o l’audiovisivo. Per i progetti personali l’architettura e la costruzione del progetto si realizza a livello individuale e con l’aiuto di altrǝ professionistǝ si finisce di montare e rifinire”.

(Testimonianza Y)

“Normalmente la cultura non viene percepita come una professione e in questi tempi di crisi economica, sanitaria, etc. è la cultura a essere sempre la prima vittima, per cui dobbiamo sempre trovare maniere alternative di vivere facendo arte e pagare le bollette con altri lavori”.

(Testimonianza T)

“Paradossalmente la nostra più grande difficoltà a volte arriva dall’istituzione arte che non è arte, che sia chiaro. Dalla sua indifferenza o dal modo in cui si privilegiano certi snobismi (…). L’arte è una cosa seria, inoltre nel mio caso io applico alcune regole personali che mi porto dietro dalle precedenti professioni, vale a dire che sono guidato dalla lealtà nei confronti di me stesso e di chi amo, (…) l’arte è una “ragione” e in quanto tale mira a essere coerente con quella ragione”.

(Testimonianza T) **

Che ci aspettiamo dall’istituzione-Arte?

Uno dei propositi delle interviste realizzate è stato quello di conoscere i vissuti e i racconti delle artiste e degli artisti partecipanti alla ricerca e alla mostra Riattivando Videografie. Conoscerli con l’obiettivo di aiutarci a comprendere le attuali trasformazioni che il settore sta vivendo, non soltanto come campo creativo e simbolico ma come ambito economico e lavorativo. Identificare le percezioni e le difficoltà che hanno i creativi per far conoscere il loro lavoro richiede l’osservazione del tessuto istituzionale che da musei, fondazioni, centri culturali, accademici e artistici, favorisce l’esposizione e la circolazione di opera artistica, ma anche il modo in cui Internet viene strumentalizzato e percepito dai creativi. Quando si realizzano queste interviste nei contesti artistici si comincia a parlare di NFT (non fungible token) ma sono una cosa estranea alla maggior parte delle persone intervistate, di modo che la gestione sui social di un materiale audiovisivo con diritti di autore genera le diffidenze proprie di un mezzo caratterizzato dalla facile appropriazione e decontestualizzazione delle opere, nonché da un uso incurante del lavoro altrui. In ogni caso, la sottovalutazione reiterata del lavoro creativo e culturale proiettato come “un qualcosa che è già stato pagato dalla soddisfazione di averlo fatto” ha inciso su artisti abituati a considerare che partecipare a una mostra, o essere selezionati per un determinato sito web, costituisce di per sé un pagamento, un capitale simbolico che si reitera come pagamento sufficiente.

Il ruolo che le istituzioni hanno in questo conflitto è fondamentale per capire la forma di sussistenza degli artisti che in gran parte producono grazie ai sostegni delle borse di studio e le residenze. Pertanto, la rete di appoggio istituzionale, pubblico e privato, che contribuisce a promuovere la pratica culturale è qui oggetto di riflessione e anche luogo dal quale si riflette in un progetto chiaramente incentivato da questa cornice istituzionale. Di fatto, nelle testimonianze condivise in riflessioni precedenti è stata frequente l’apparizione di questo tema per fare riferimento al sostegno o all’ostacolo che può supporre nei diversi Paesi in cui lavorano gli artisti.

“Ho il sostegno di istituzioni in alcuni progetti puntuali (…) Essendo il mio lavoro, è ciò a cui mi dedico: lo faccio e poi vedo come posso farlo circolare: borse di studio, residenze, mostre, pubblicazioni, incontri, seminari… Ci sono periodi molto brutti, in cui sembra che tutto si paralizza”.

(Testimonianza A)

“Spesso i miei progetti si sviluppano a partire da bandi e borse di studio in gran parte presso istituzioni pubbliche, e da lì prendo i miei onorari con cui provo a vivere. In questo modo, quando concludo un progetto (a volte si sovrappongono nel tempo), ne comincio un altro, e via di seguito… E perciò non trovo il tempo per diffondere il mio lavoro una volta che è concluso.”

(Testimonianza B)

“Sostegno istituzionale, festival, mostre. (Sulle) difficoltà di trovare il posto in cui fare una mostra e diffondere i tuoi lavori, credo che le curatrici e i curatori e le istituzioni artistiche includano nelle loro mostre e collezioni “i principali 40” per incrementare il loro curriculum, senza svolgere un lavoro di ricerca del lavoro realizzato da moltissimǝ artistǝ”. (Testimonianza I) (Circolazione?) “Gallerie e un po’ di sostegno istituzionale. (…) Siccome non mi piace diffondere il mio lavoro sui social è come se non esistesse”. (Testimonianza J)

“Ho cominciato a esporre la mia opera, poco più di un decennio fa, quando al governo in Uruguay c’era la sinistra. La cultura era diventata un tema importante e tutti i musei che fino a quel momento erano stati gestiti su invito hanno cominciato a fare bandi aperti. Parallelamente si sono creati spazi di arte contemporanea e fondi per finanziare progetti o per incentivare l’appoggio di progetti artistici da parte di imprese private. È così che ho cominciato a diffondere il mio lavoro. Presentandomi e vincendo premi, ottenendo fondi per opere più ambiziose. Oggi come oggi non mi presento più ai concorsi nazionali, lo ritengo un percorso già battuto e sto cercando opportunità all’estero. Con i viavai politici si cominciano a intravedere i segni che stiamo per assistere alla perdita di alcuni dei sostegni creati. Inoltre, ho cominciato a ricevere inviti a biennali e residenze per aver mostrato il mio lavoro fatto precedentemente. Non credo che ci sia tanta difficoltà sul dove diffondere l’opera quanto nell’avere capitale da investire e non essere limitati dal punto di vista economico”.

(Testimonianza K)

“Vivo e lavoro in Nicaragua. Sono consapevole che la decisione di rimanere qui, di non espatriare, ha influito anche sul fatto che non possa vivere di arte. Assumo le conseguenze di questa decisione e per il momento mi concentro sul lavorare il più possibile per costruire la mia opera. Per ora mi interessa migliorare e portare la mia opera a un punto in cui sento ancora che non è arrivata. Per me ha funzionato essere legata ai collettivi. Qui non c’è un mercato sviluppato Per esempio, c’è soltanto un collezionista (il proprietario di banche che ho già menzionato) e le gallerie non sono di arte contemporanea. Una volta molti anni fa sono andata in una galleria di quelle teoricamente “importanti”, con l’idea di affittare lo spazio per una mostra. La proprietaria mi ha detto: “Qui esponiamo soltanto i grandi maestri dell’arte plastica nicaraguense”. Ricordo che sono andata anche al Ministero della Cultura ma mi hanno detto che lo spazio che mi interessava a me non era disponibile. Allora ho fatto la mostra nel mio appartamento, un evento veramente underground. Mi sono seduta sul mio letto e da lì ho gestito il proiettore 16 millimetri. Il film si vedeva sulla parete sopra il letto, la gente entrava a turno nella mia stanza per vedere i lavori. Mi sento molto orgogliosa di quell’evento e quando lo condivido con curatorǝ e artistǝ suscita sempre una bella reazione. Qui ci sono artisti incredibili che hanno trasgredito negli anni Novanta e che poi hanno formato gruppi con artisti di diverse generazioni. È grazie alla connessione con queste persone che ho potuto esporre, conoscere curatorǝ e impostare il mio lavoro per trovare opportunità di esporre. Cioè, le artiste e gli artisti sono, almeno qui, quelli che mi hanno appoggiato, sostenuto, motivato e connesso. Devo anche dire che in questo momento siamo tutti come in pausa, per la violenza di stato e non tanto per la pandemia. Le mostre già erano poche prima, ora praticamente non esistono”. (Testimonianza R)

“(…) relativamente alle difficoltà, mi si mescolano un po’ le mie difficoltà personali con quelle istituzionali. Adoro fare immagini, mi piace meno editarle, mi pesa farle vedere alle persone perché mi vergogno, non mi sento a mio agio a parlare dei miei film e non mi piace per niente pensare a liste di festival o a strategie di distribuzione, preferisco pensare a nuovi progetti e ciò che mi dà piacere di quei progetti è il processo di come porto un’idea, un tema, nelle immagini, ed è praticamente istantaneo il fare ricerca e provare e quelle prove quando mi piacciono le metto su Internet, è una specie di compromesso che stabilisco con il progetto che dopo si può trasformare, ma già lì c’è un germe”.

(Testimonianza S)

“Ci sono progetti che dipendono da un sostegno istituzionale o un bando per potersi materializzare, altri da un’alleanza, e altri ancora dall’auto-gestione e dalla creazioni di rete con altri artisti e attori del mezzo. Mi avvalgo delle diverse possibilità che il contesto permette per generare proposte e portare avanti le mie idee”.

(Testimonianza U)

“Internet è stato uno spazio incredibile che mi ha permesso di generare legami, vincoli e complici nei progetti. A sua volta è stato uno spazio nuovo per pensare l’opera, non soltanto come spazio per la sua archiviazione e registrazione, ma per pensare opere, pratiche e interventi sulle proprie piattaforme virtuali. (…) La difficoltà che riscontro maggiormente è quella del finanziamento dei progetti. Qui ci avvaliamo di tanta creatività e autogestione per materializzare e produrre, ma a volte serve un po’ più di questo per portare avanti i progetti. Un’altra delle difficoltà che riscontro a volte è nella mancanza di comunicazione e nell’arrivo al pubblico; sebbene io creda che la cosa importante non sia la quantità del pubblico ma la qualità del pubblico e il poter arrivare al pubblico oggettivo di ogni progetto, trovo qui barriere per rendere effettivo ed efficiente quel canale di comunicazione e l’arrivo al pubblico desiderato”.

(Testimonianza U)

“I mezzi di cui mi avvalgo sono le istituzioni, le mostre, i festival a cui vengo invitata o concorsi ai quali partecipo.”

(Testimonianza H)

“Sostegno istituzionale: i problemi principali sono la mancanza di spazi museali, e d’altro canto, anche nei pochi spazi che abbiamo, i budget e l’accessibilità sono piuttosto difficili, la burocrazia e la mancanza di empatia con l’opera è un altro fattore che per me complica il processo”.

(Testimonianza W)

“I mezzi a cui ho avuto accesso per la diffusione della mia opera sono stati bandi per festival svolti a livello locale come il festival di cortometraggi Shnit (…), il festival virtuale Espacio Lumínica (…), il bando creato dal Museo de las Mujeres de Costa Rica, che mi ha aperto la strada per la partecipazione a Videografie a livello internazionale, per esempio.”

(Testimonianza Y)

“Noi facciamo parte del circuito artistico. Nel corso di tutta la nostra traiettoria ci siamo avvalse della sua struttura, sia negli appoggi pubblici che quelli privati. Abbiamo esposto in spazi istituzionali: musei, fondazioni, etc., nonché gallerie, ferie d’arte, festival, etc. (…) Le difficoltà più importanti che abbiamo riscontrato sono la mancanza di un collezionismo solido in Spagna e la sconnessione tra il mondo della creazione artistica e il pubblico in generale, che sfocia nelle poche scommesse che si fanno sull’istruzione”.

(Testimonianza E)

Nella testimonianza Z si critica la dipendenza attuale che hanno gli artisti dai bandi istituzionali e che porta a diventare “artista concorrente”, adattandosi alle condizioni delle borse di studio e correndo il rischio di ipotecare la propria libertà creativa, questione che le sembra demoralizzante e perversa. Nonostante aver ricevuto diversi aiuti li critica e difende una visione della pratica lavorativa della ricerca e dell’istruzione artistica come una possibilità di liberare il proprio lavoro dalle zavorre dei bandi in una cornice di generazione di conoscenza, ma che nel modo in cui si sviluppa oggigiorno porta con sé anche rischi di saturazione e burocrazie e che limitano moltissimo il tempo creativo.

Esporre in uno spazio fisico, esporre su Internet

Da quando Internet ha cominciato a introdursi nella vita umana l’arte è stata vicina, dentro, accanto, davanti, non soltanto per usare il mezzo come supporto espositivo ma anche per pensare a Internet come agente trasformatore dell’umano e dell’artistico nelle sue forme di produzione, ricezione e distribuzione. Alcuni dei più interessanti dibattiti speculativi sulle potenzialità di Internet negli anni Novanta vennero dai contesti sperimentali e critici dell’arte. Già all’epoca si avvertivano delle speranze democratizzanti della rete rispetto ai rischi di oppressione simbolica dell’immaginario promosso dal mercato, nonché delle possibilità che l’arte uscisse dalla (e cambiasse la) istituzione per svolgere un ruolo distinto, finalmente più integrato nella cittadinanza. Direi che dopo Documenta di Kassel del 1997 sono rimasti soltanto gli echi di alcuni festival e mostre in corrispondenza con il cambio di secolo, perché non appena il mercato ha cominciato a territorializzare Internet e a creare spazi e vie di circolazione apparentemente pubbliche ma ideate da aziende con fini mercantilistici, le reticenze a cambiare (migliorare) mercato e istituzione per forme giuste di pagamento degli artisti, ha spinto a tornare alle solite cose, le mostre, i circuiti in uno spazio fisico e le strutture già solide, limitando la potenzialità di Internet a mezzo che rafforza le solite cose e non vero agente trasformatore. È accaduto allora che la pratica artistica audiovisiva ha convissuto in diversi habitat più o meno commerciali, più o meno istituzionali, ma stando a quanto riferito nelle testimonianze che seguono, il riconoscimento e il sostegno economico continuano a essere per il formato espositivo.

“Faccio lavori molto dilatati nel tempo e alcuni curatori li seguono e mi invitano a mostre o pubblicazioni. Mi piace molto il dialogo in cui nascono riferimenti che fanno sì che il lavoro abbia più spessore. È uno scambio in cui mi sento a mio agio, quando ci sono conversazioni, sperimentazioni e linguaggi in comune (…) (Testimonianza A)

(diffusione?) “Tramite gli strumenti offerti dai social network. La difficoltà che riscontro è che non conosco benissimo i social e la comunicazione e questo porta via tanto tempo. Per cui la circolazione spesso dipende dal tempo che ha a disposizione l’artista per la diffusione e la registrazione della sua stessa opera”. (Testimonianza F)

“Mostre. Nel caso del Nicaragua le mostre si limitano a pochissimi spazi con un pubblico ridotto. Mancanza di esposizioni curate per mancanza di curatori locali che intessano una mostra che adempia le necessità degli artisti e dell’opera e che abbiano un impatto fuori dal contesto locale. C’è anche una carenza di mostre importate di bravi artisti che dialoghino con le pratiche locali. In molti casi la mancanza di spazi istituzionali e budget che possano accogliere queste mostre si limitano a farsi mostre modificate pop-up e si mostra per esempio un’intenzione o la registrazione di un’opera originale che è stata fatto o pensata in un altro contesto”. (Testimonianza W)

“Inviti a esporre non mancano, a volte la difficoltà più importante è ottenere il patrocinio per realizzare progetti un po’ più ambiziosi”. (Testimonianza G)

“Le difficoltà sono anche nel mercato, capire come circolare, poter equilibrare l’energia dedicata a un altro lavoro remunerato, gestire e viaggiare, cercando di sforzarmi per stabilirmi in soglie in cui vita e arte occupino meno tensione, e non siano disgregate.” (Testimonianza D)

“Molti lavori che ho realizzato sono stati esposti in gallerie e musei. Ho anche partecipato a festival e a residenze artistiche. Faccio parte dello staff di artisti di due gallerie d’arte (…) Attualmente sono stata selezionata per realizzare un progetto fotografico murale nello spazio pubblico. L’opera sarà per strada e tutti quelli che passeranno in quel posto potranno vederla, mi piace che si allarghi il pubblico e che le immagini circolino”. (Testimonianza K)

“Non sono solito lavorare con gallerie a meno che non mi interessino delle collaborazioni puntuali. Non mi identifico con loro. Mi interessa il progetto e la linea di ricerca.” (Testimonianza Z)

“La prima cosa che ho fatto al riguardo è stato tenere un archivio del mio lavoro e della mia opera per via del volume e della quantità di anni. Presentarmi a bandi, accettare inviti a mostre ma solo quelle che mi interessano. Il grande problema della maggior parte delle artiste e degli artisti uruguaiani è non poter uscire dal paese a mostrare la propria opera, né a venderla. Riconosco anche di non dedicare il tempo sufficiente a cercare fondi, cosiddetti internazionali, presentare il mio lavoro alle gallerie, etc. È un lavoro molto difficile”.

(Testimonianza Q)

“È la parte che considero il “punto cieco” della catena: la distribuzione dei miei lavori. Non è mai stata soddisfacente. Fondamentalmente sono stati mostrati ai festival, ma negli ultimi dieci anni si sono visti in televisione. È talmente ardua la ricerca di finanziamenti e produzione, talmente magri i budget che quando arriva il momento della distribuzione, le energie e le risorse sono esigue e rimangono alla mercé del vento del momento. Faccio parte di due spazi di produzione attualmente. In una cooperativa e in un’altra azienda produttrice di audiovisivi, per cui tutti i progetti che stiamo sviluppando vengono concepiti sin dall’inizio con accordi con i distributori”. (Testimonianza X)

“Nel processo della pandemia le difficoltà sono state le stesse per la maggior parte degli artisti, mancanza di interazione con il pubblico e di accesso a spazi espositivi. La necessità di ripensare i processi espositivi in questa crisi ha disarticolato e rallentato la mia pratica creativa. Per cui questa fase l’ho presa per 1. Guarire i miei traumi personali. 2. Spostare il processo di lavoro in spazi più controllati dal mio corpo. 3. Sviluppare processi creativi digitali per accedere e permeare in un qualche modo il modo dei social network dove si trovano i ‘nuovi pubblici’”. (Testimonianza W)

“Nei processi precedenti alla pandemia, le principali difficoltà si devono alla repressione governativa e alla crisi sociale ed economica che c’è in Nicaragua, e di conseguenza la produzione creativa passa spesso in secondo piano per cercare una maniera sicura e di sopravvivenza nella quotidianità”. (Testimonianza W) **

Quel gradiente di opportunità e minacce dei social e Internet

È diverso il modo in cui i creativi si stanno avvalendo di meccanismi online per la circolazione delle loro opere in un mondo in rete. Ciò che per alcune persone che si dedicano alla creazione audiovisiva è una piattaforma che funge da altoparlante del loro lavoro e un contesto stimolante per la creazione, per altre è un mezzo ostile che scandisce ritmi accelerati che, in molti casi, sono oggetti di critica dell’arte. Tuttavia, è forse la resistenza a claudicare dinanzi a un mezzo che, presentandosi come demolitore di strutture di intermediari, si carica di nuovi compiti e gestioni che si aggiungono ai tempi di lavoro e produzione, trasformando gli artisti in soggetti multifunzione che devono investire nell’autopromozione a ritmi di un capitalismo scopico, quello che dà più valore a ciò che è visto. Di fatto, l’immagine che oggi prolifera sui social del “io come prodotto” risulta più che familiare per chi crea e ha imparato che la firma è parte essenziale dell’opera. Nel momento in cui questa firma-io è la porta d’ingresso sulla vetrina pubblica online, diventa un ostacolo che richiede più tempo e che genera la vulnerabilità di sentirsi sotto lo scrutinio pubblico costantemente. I rischi di cessione all’impostura e di estetizzazione, facilmente conducono alla messinscena così caratteristica dei social che, curiosamente, è la più menzionata nei loro racconti: Instagram.

“Pubblico il mio processo e la registrazione della mia opera sulla piattaforma Instagram, dove ha una buona diffusione e visibilità, dal mio profilo privato, e anche da altre piattaforme d’arte. Ho fatto mostre personali in diverse gallerie locali, nonché collettive e fiere internazionali”.

(Testimonianza M)

“Principalmente il modo di piazzare i miei lavori ha avuto (…) varianti. Attraverso i curatori che mi hanno invitato a esporre in diversi contesti, fosse una biennale, mostre collettive, all’estero. Anche perché ho fatto richiesta di certi spazi per allestire delle mostre. E, infine, attraverso il mio sito web e Instagram dove carico informazioni, immagini e tematiche su cui faccio ricerca, sperimento, creo. In nessun caso ho avuto esperienze con gallerie. A quanto pare ho un corpus di opere poco vendibile, questione che non mi preoccupa, perché non ho mai sentito questa pressione, ed è bello vivere così. Ho ricevuto il sostegno più da persone che da istituzioni e il mio lavoro ha preso forma in luoghi come musei d’arte contemporanea e spazi collettivi, più che in gallerie”. (Testimonianza N)

“Praticamente non uso i social network (guardo ma non pubblico quasi niente) ma ritengo molto importante aggiornare il mio sito web”. (Testimonianza K)

“Internet: anche se gli algoritmi si collegano secondo gli interessi di ricerca personale, spesso si limitano in modo regionale, le informazioni generali si perdono e non arrivano e, di conseguenza, in paesi piccoli come i nostri gli algoritmi sono limitati perché non rientriamo negli interessi di ricerca dove la cultura ha una maggiore diversità o rilevanza. (…) Anche se lo spagnolo è una delle lingue più parlate nel mondo, le informazioni culturali transitano in gran parte in inglese. (…) Nel mio caso personale la diffusione sui social network di un lavoro artistico si limita spesso all’autocensura a causa della repressione e delle persecuzioni politiche in cui ci troviamo attualmente in Nicaragua. Ci sono leggi approvate dal governo per cui loro possono avere il controllo su Internet e possono anche arrestare le persone per “fake news” o “terrorismo digitale”. (Testimonianza W)

Su Internet, nella testimonianza Z si identificano diverse difficoltà come la saturazione, la difficoltà di aggiungere l’autopromozione al lavoro artistico. “Viviamo in un momento in cui i social implicano un’immediatezza che non mi interessa, questa idea della visibilità non mi interessa”. Quando riporta conversazioni con altre persone dell’ambito culturale, quando si presenta come persona senza social, rileva che alcuni si mettono a ridere: “Ma come fai a non avere Instagram?” “Bisogna scegliere se vuoi e se puoi starci, ritorno all’idea dell’autosfruttamento. Preferisco l’indipendenza, e non dipendere economicamente dalla pratica artistica per renderla più libera”. (Testimonianza Z)

“Entrambi collaboriamo con alcune gallerie, a volte con i festival quando è possibile e chiaramente è su Internet che diffondiamo il nostro lavoro, in particolar modo in tempi in cui la virtualità è l’unica possibilità. (…) La difficoltà più grande è la totale assenza di materialità. Il contatto fisico con il pubblico è fondamentale, i gesti, il linguaggio corporeo, e tutto ciò che prova una persona davanti al nostro lavoro sono i momenti che in gran misura ci gratificano.”

(Testimonianza T)

“Il social network Instagram costituisce uno dei miei maggiori spazi di diffusione per far conoscere il mio lavoro al pubblico sia a livello nazionale che internazionale.

(…) Come difficoltà menzionerei nuovamente la mancanza di diffusione di spazi in cui i festival si possano promuovere in modo più ampio, questo perché solitamente si fanno conoscere grazie alla divulgazione che gli stessi follower dei festival gli danno e non perché esista una piattaforma specifica che raccolga queste informazioni. Un’altra problematica che riscontro è che gli enti pubblici realmente non danno un seguito alla promozione dei loro bandi, rendendo poco accessibili suddette informazioni da parte del pubblico”. (Testimonianza Y)

“La mia strategia principale per proiettare la mia opera all’estero è l’arte digitale, per esempio: posso caricare un video su Internet e nel giro di qualche minuto lo scaricano in qualunque punto del mondo per mostrarlo. Proprio come con le fotografie di grande formato. Il che si traduce in un minor costo di produzione, e una maggiore facilità per la mobilità dell’opera. Per lo sviluppo e la diffusione della mia carriera sono stati molto importanti anche il mio sito web e i social network”. (Testimonianza O)

“Internet è lo strumento chiave per diffondere attraverso i social. Non li uso regolarmente per condividere i processi creativi ma soltanto quando devo diffondere un evento o un’opera specifica. In questo senso, riscontro delle difficoltà perché non uso molto i social né ho tempo a disposizione per pubblicare in modo costante. Ritengo che non mi interessino le tempistiche e le dinamiche attuali che propongono i social, soprattutto Instagram, e questo comporta una difficoltà per la diffusione della mia opera più consona ai tempi che viviamo”. (Testimonianza H)

Questo progetto nasce dalla mostra web Riattivando Videografie e mira a configurare una cornice teorica di riflessione sull’esposizione e sulla creazione artistica audiovisiva nell’epoca contemporanea. A tale scopo si basa su diversi dibattiti realizzati nel marzo e nel settembre del 2021 e nel gennaio del 2022, nonché su lavori di riflessione e ricerca via via pubblicati sul sito web del progetto.

CURATRICE

Remedios Zafra

PARTECIPANTI

Laura Baigorri

Gabriela Golder

Jacqueline Lacasa

José Luis de Vicente

Remedios Zafra

Marta Azparren

Milena García

Jorge Linares

Kontxa Elorza (Prekariart)

Itziar Zorita (Prekariart)

Iris Lam

Estibaliz Sádaba Murguia

Gladys Turner Bosso

TESTI

Remedios Zafra

Laura Baigorri

Gabriela Golder

Jacqueline Lacasa

José Luis de Vicente

Remedios Zafra

Marta Azparren

Milena García

Jorge Linares

Concepción Elorza Ibáñez de Gauna e Itziar Zorita-Agirre (Prekariart)

Remedios Zafra

Iris Lam

Estibaliz Sádaba Murguia

Gladys Turner Bosso

Saggi

Tavola rotonda[01]

(Video)Creazione ed epoca

Dopo Internet

Laura Baigorri

Gabriela Golder

Jacqueline Lacasa

José Luis de Vicente

(VIDEO)CREAZIONE ED EPOCA

DOPO INTERNET

Remedios Zafra

Evoluzione della prospettiva critica nell’autorappresentazione audiovisiva: partecipazione, condivisione, individualismo ed estimità.

Laura Baigorri Ballarín

Luglio 2021

L’evoluzione dei nuovi media tecnologici non soltanto sta rendendo possibile il mostrarci in modo sempre più diverso e più complesso, ma anche il considerare il mondo da una prospettiva differente. La tecnologia sta modificando il nostro atteggiamento, la nostra personalità, la nostra etica e morale; innanzitutto, il nostro modo di mostrarci agli altri, ma anche il modo di concepire noi stessi. Come afferma Bauman (2005), la costruzione dell’identità è sfociata in una sperimentazione senza freno, diventando, inoltre, un campo particolarmente fertile per la creazione artistica. In questa prospettiva, il territorio dell’arte è quello idoneo per appurare il modo in cui vengono intaccate l’identità, l’individualità e la privacy dalle dinamiche sociali e collettive instaurate attraverso il video e la sua diffusione su Internet e sui social network.

Quest’analisi affronta l’evoluzione degli interessi critici degli artisti audiovisivi nel campo concreto della concezione e dell’autorappresentazione identitaria, distinguendo tre periodi diversi relativi agli ultimi progressi tecnologici della nostra era che coinvolgono l’immagine audiovisiva: la fase dei pionieri della video arte negli anni ‘60/’70, l’irruzione di Internet alla fine degli anni ’90 e l’esplosione dei social network dal 2005 in poi. Ciascuno di questi periodi ha comportato un progresso esponenziale per quanto riguarda accesso e diffusione delle opere che è stato decisivo nella modifica di questa percezione e concezione identitaria e, di conseguenza, del focus critico degli artisti.

Partecipazione E Condivisione

COLLETTIVA: PRIMA VISIONE CRITICA

DELL’AUTORAPPRESENTAZIONE

L’avvento del video a metà degli anni ’60 favorì una trasformazione sociale decisiva e sostanziale, sia nell’arte che nella comunicazione: il suo utilizzo promosse una prospettiva critica (di carattere rivoluzionario) in entrambi gli ambiti che incideva sui valori di partecipazione, condivisione e collettività. Sotto lo slogan L’Accesso è Potere, artisti e attivisti svilupparono le loro opere audiovisive enfatizzando la diffusione, dato che il video permetteva a entrambi i collettivi (spesso le persone stesse) di divulgare più facilmente le loro opere e le loro idee tramite la videocassetta e la televisione alternativa. Di conseguenza, la critica si incentrò in particolar modo sul mezzo di comunicazione di massa per eccellenza, vale a dire la Televisione, mettendone in discussione il potere alienante – consumismo e violenza, – la visione unica e la manipolazione politica. Questa posizione fu difesa da teorici come Marshall McLuhan (1964) con il suo slogan “il medium è il messaggio”, fino al movimento Guerrilla Television composto da diversi gruppi americani ed europei. Artisti e attivisti si misero davanti alla telecamera per realizzare performance antitelevisive in cui, oltre ad annichilire o maltrattare fisicamente l’oggetto televisivo, ne mettevano in discussione l’unidirezionalità e incitavano alla partecipazione: tra queste spiccano Electronic- Opera nº1 (1968) di Nam June Paik – “Close your eyes… Open your eyes…” -, Hello! I See You (1969) di Allan Kaprow, The Austrian Tapes (1977) di Douglas Davies, o le numerose video-performance di William Wegman con il suo cane Man Ray (alter ego dello spettatore telecomandato). Crearono anche dei programmi di televisione alternativa come “The Medium is the Medium” (1969) o “New Television Workshop” (1974-1993), entrambi della WGBH di Boston, dove promuovevano la partecipazione dello spettatore e la creazione collaborativa.

Quando alla fine del secolo scorso irrompe Internet, si crea una situazione molto simile e riprende slancio quest’idea di condivisione collettiva facilitata dalla permanente possibilità di accesso e connessione che comporta il nuovo mezzo (nuovamente, L’Accesso è Potere). In totale coerenza con i loro presupposti, i primi attivisti, artisti e teorici della rete si raggrupparono in forma anonima in diversi tipi di associazioni orientate alla lotta collettiva, valorizzando in particolar modo questo potenziale unico che per la prima volta Internet offriva, e influendo sulle idee di condivisione, cooperazione collettiva, uguaglianza e degerarchizzazione. Geert Lovink, McKenzie Wark, Hakim Bey, Cornelia Sollfrank, Ricardo Dominguez, Pekka Himanen, Wolfang Staehle, Beatriz da Costa, Steve Kurtz, Josephine Bosma, Tilman Baumgaertel,

Alex Galloway e Mark Tribe, tra gli altri, fondarono l’innovatrice mailing list di Nettime, il collettivo Critical Art Ensemble e la casa editrice Autonomedia, e le emblematiche organizzazioni irational.org, The Thing, Rhizome, ®TMark e Old Boys Network . A quel punto l’attenzione tornò a focalizzarsi sullo stesso mezzo attraverso il quale si stava esercitando la critica: Internet. In quest’occasione, quando era ancora tutto da consolidare, gli artisti già intuivano il potenziale prevalentemente commerciale della rete in un futuro molto prossimo e proponevano un mezzo orientato in modo specifico allo scambio culturale e al progresso sociale. I pionieri della net.art, anche loro appartenenti ai precedenti collettivi, crearono le loro opere con le stesse premesse; tra queste emergono quelle di Heath Bunting, Vuk Cosic, Olia Lialina, Natalie Bookchin, Jenny Marketou, Minerva Cuevas, Alexei Shulgin, Antonio Mendoza, Josh On e i gruppi sero.org, Mongrel o VNS Matrix.

In entrambi i casi, le imposizioni della realtà economica finirono per prevalere su ogni sorta di contestazione utopica e, sia la prima ondata di video antitelevisivo che quella della net.art critica nei confronti di Internet, finirono per diluirsi tra le onde e il cyberspazio.

INDIVIDUALISMO ED ESTIMITÀ:

CAMBIO DI PROSPETTIVA CRITICA SULL’AUTORAPPRESENTAZIONE

Nell’era post-Internet, questo desiderio di comunità e collettività non è più un obiettivo, ma una realtà… che a tratti ha finito per diventare un problema. Essenzialmente, i social network si costituiscono come processi di reciprocità comunitaria in cui gli utenti si raggruppano in funzioni di interessi comuni; di fatto, questi sono il paradigma dello scambio collettivo. Tuttavia, l’utilizzo massiccio del video nei social network ha comportato una sforamento delle frontiere dell’intimità e il conseguente inizio dell’era dell’esibizionismo. Appare dunque il concetto di estimità, definito dallo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron (2001) come la tendenza delle persone a rendere pubblica la propria intimità, o come “l’esibizione degli aspetti più intimi di una persona”, aggiungendo immediatamente la particolarità che qui l’individuo non si espone con l’intenzione di condividere le proprie esperienze, ma utilizza gli altri come uno specchio per riaffermarsi. Il capovolgimento è sorprendente, giacché è un paradosso che vede in questo anelato e idealizzato contesto comunitario non un obiettivo di condivisione o collaborazione, ma di riaffermazione personale. Pertanto, anche se in teoria vennero creati per la connessione e la comunicazione, la maggior parte delle interazioni che si creano sui social network si fondano sul narcisismo e si usano prevalentemente per l’autocompiacimento: in ultima analisi, il rapporto non si stabilisce con l’altro, ma con sé stessi. Di conseguenza, nel contesto dell’arte, questa peculiare trasformazione si concretizza in un cambio di prospettiva critica (di carattere identitario) il cui focus incide e mette in discussione l’apice dell’individualismo.

Se nel secolo scorso gli artisti e gli attivisti del video e della net.art sviluppavano le loro proposte puntando a un bene comune, ad apportare un contributo alla comunità basato sulla condivisione collettiva, oggi come oggi sono molti i creativi che segnalano le problematiche derivate da un’autoesibizione permanente e indiscriminata che provengono da Internet e i social network, quel contesto comunitario teoricamente utopico. L’artista Natalie Bookchin, pioniera della net.art, le affronta nella sua opera più attuale, composta da diverse serie di installazioni audiovisive che riflettono sulla paradossale mescolanza di connessione simultanea e isolamento che si crea nei rapporti sociali online. Si tratta di grandi pannelli di video presi da Internet in cui le persone si filmano facendo o dicendo le stesse cose, ma… dalla solitudine dei loro spazi intimi, senza alcuna connessione reale con il resto; in teoria un “parlare con il mondo”, ma in pratica dalla solitudine della propria stanza. Nel suo saggio

Un cuarto propio conectado, Remedios Zafra (2010) analizzava il modo in cui la mediazione delle industrie tecnologiche

– e in particolar modo di Internet – abbia ridefinito gli spazi privati trasformandoli in nodi di una società-rete e condizionando il modo in cui il soggetto connesso articola la propria sfera intima e la costruzione dell’“io”. In questo caso, la ripetizione degli stessi schemi provoca la sensazione letterale che tutti i soggetti siano connessi nella solitudine delle proprie stanze, il che riecheggia quella forma ibrida che Sherry Turkle (2011) definisce “alone together”. Il repertorio contempla persone che fanno ginnastica davanti alla telecamera – Mass Ornament (2009) –, che pontificano sull’identità sessuale – I Am Not “I am not… gay”, o recitano la lista di medicine che consumano – My Meds – quest’ultime dalla serie Testament (2009-2017). Sono tutte immagini di attività sconnesse eseguite in solitudine (uno a uno) che Bookchin estrapola da YouTube o da video blog e monta insieme, creando degli impressionanti cori artificiali che mettono in evidenza questo accumulo di individualità. Nonostante le apparenze, non si tratta più di comunità, ma di individualismo, essendo questa l’essenza, il mero funzionamento dei social network che attualmente sono alla base del contatto tra utenti nella sovraesposizione personale e si costruiscono a partire dalla somma di individualità.

Questo è lo stesso presupposto di ricerca svolto dall’artista Virginia Paniagua (2018) nella sua tesi di dottorato Hello, i am art. Las autorrepresentaciones artísticas en redes sociales en Internet. Per sviluppare le sue ipotesi ha realizzato alcune opere della serie HelloIAmArt che si basano su sessioni di Chatroulette e che incidono in particolar modo su questa idea di narcisismo e solitudine. L’opera Me And My Partners (2021), per esempio, si formalizza in un pannello di grandi dimensioni in cui le fotografie degli schermi dei suoi partner compongono il ritratto del suo volto. Durante l’esperienza Paniagua ha rilevato che: “in queste comunicazioni ludiche tra persona e persona, si iniziava, piuttosto, un dialogo con sé stessi. (…) La comunicazione con sconosciuti era, dunque, un ulteriore tentativo dell’autorappresentazione in solitudine in cui il partner sosteneva il nostro ego durante quel processo di autoriconoscimento”. Anche trattandosi di gruppi di chat, le sessioni sono più terapeutiche – condivisione e sfogo – delle sessioni di unione collettiva per il conseguimento di un fine, proprio come ci ricorda Žižek (2004): “Il cyberspazio è sia una forma di fuga dai traumi che un modo per formularli”. In definitiva, questa ricerca artistica riafferma anche che, nella pratica, i social network non si poggiano soltanto sui presupposti di connessione e stabilimento di vincoli, o di scambio di esperienze e reciprocità, di affinità, del banale desiderio di conoscere l’altro, ma in gran misura sulla coscienza e l’esibizione della propria identità; puro ego.

PRECEDENTI DELL’AUTOESIBIZIONE: DALL’ESTETICA DEL NARCISISMO AL LIFECASTING

Anche se queste sono le tendenze critiche più rappresentative sviluppate dagli artisti, nessuna delle due avviene in forma pura e assoluta in ognuno di questi periodi. La nozione di estimità prevalente nei video dei social network riscontra un simile antecedente in una significativa corrente del decennio degli anni ’70 che insisteva sulla vocazione di autoreferenzialità dei videoartisti. La maggior esponente fu la critica d’arte Rosalind Krauss (1976) che, analizzando la produzione che si stava realizzando in quel momento, sostenne che l’essenza del video era narcisista per natura nel suo saggio “Video: The Aesthetics of Narcissism”. Vito Acconci, Bruce Nauman, Linda Benglis, Marina Abramović, Bill Viola o Peter Campus, tra gli altri, furono i videoartisti che consolidarono questo ragionamento tramite gli insistenti protagonismi dei loro video performativi. Tuttavia, non sempre c’era quell’intenzionalità di fondo: a volte usavano strumentalmente loro stessi perché erano le uniche persone che avevano a portata di mano per realizzare le proprie idee, dato che, in quegli anni, il carattere innovativo del mezzo imponeva la sperimentazione continua. In questo caso, apparivano nei loro video svolgendo azioni più o meno stravaganti con l’obiettivo di scoprire le possibilità innovative del linguaggio audiovisivo, che fossero narrative o tecniche – Bruce Nauman lavorò con il campo/fuoricampo in Bouncing in the Corner (1968), Bill Viola con il tempo congelato in The Reflecting Pool (1977), Peter Campus con il chroma key in Three

Transitions (1973) –. Altri invece esibivano intenzionalmente sentimenti e intimità sfidando i limiti della tolleranza di vicinanza dello spettatore – Vito Acconci in Centers (1971) e The Red Tapes (1976-77), Linda Benglis in Female Sensibility (1973) e Marina Abramović e Ulay in AAAAAA (1978) o in Ligth/Dark (1977).

Il passo successivo, vincolato a sua volta all’evoluzione tecnologica, lo fece Lynn Hershman con Lorna (1979-1983), il primo LaserDisc di video arte interattivo in cui gli spettatori interagivano e prendevano decisioni per Lorna, una donna agorafobica che fu uno degli alter ego dell’artista. La sua navigazione da controllo remoto permetteva fino a trentasei sequenze labirintiche, ottenendo una visione voyeuristica della sua vita: paure, sogni e conflitti, nonché la sua storia personale e il suo futuro. Quando la tecnologia cambiò, l’opera migrò su una piattaforma DVD nel 2004, sebbene questa esperienza atipica, ma altamente rappresentativa, venne diffusa unicamente in musei e centri d’arte2 .

Come abbiamo argomentato, l’autoesibizione nella video arte esplose con la sperimentazione con la video performance e proseguì poi con video in cui gli artisti puntualmente si esibivano o mostravano aspetti intimi ai visitatori di gallerie e musei, vale a dire in un contesto specializzato e delimitato. Tuttavia, con l’avvento di Internet questi cominciarono ad allargare il raggio d’azione al pubblico connesso, cioè a tutti quanti. Il collegamento tra una e l’altra generazione, tra una e l’altra forma di autocontemplarsi o esibirsi, lo dobbiamo alla pioniera Jennifer Ringley, che già nel 1996 lanciò su Internet il sito JenniCam, permettendo agli utenti di accedere alla sua vita quotidiana attraverso una webcam connessa 24 ore al giorno. Lei fu la prima lifecaster3 del web, visionaria anche in termini di rimuneratività, dato che arrivò ad avere più di 5.000 abbonati che pagavano per il privilegio di vederla a qualsiasi ora. Rimase online per più di 7 anni finché nel 2003 non spense la telecamera e, semplicemente, scomparve (non ha Facebook, né Instagram, né Twitter…)4 .

2 Sulla stessa linea di contatto personale e intimo, Hershman avrebbe poi creato su Internet Agent Ruby (1998-2002) per il SFMOMA http://agentruby.sfmoma.org/, in cui Ruby chiacchierava con gli utenti online mediante una chat in tempo reale (stavolta senza immagine).

Nell’ultimo decennio si sono viste diverse esperienze orientate alla spettacolarizzazione della vita quotidiana. L’attualizzazione più recente, sulla scia di JenniCam, la troviamo nei VTubers di origine orientale che all’inizio erano anime nice girls, wayfus, o furris5. La prima a usare il termine “virtual YouTuber” nel 2016 è stata la giapponese Kizuna Ai, molto rinomata sul suo A.I.Channel di YouTube. Sono famose anche Gawr Gura, Inugami Korone e Kiryu Coco, le tre di Hololive Channel, dove sviluppano diversi stili e contenuti. Virginia Paniagua descrive così queste figure:

“I VTubers trasmettono la loro quotidianità, dalla loro casa, per piattaforme video come Twitch, Facebook Gaming e, ovviamente, YouTube, ma con uno skin in 3D; hanno cioè sembianze di bambine, ma sono geeks di ogni genere. Trasmettono in diretta, interagiscono, e continuano a lavorare dallo stesso scenario, quello domestico, e la stessa narrazione, la presunta vita quotidiana di una giovane, rispondono a richieste o si svagano in casa davanti agli occhi di chiunque li guardi. Ma non si tratta soltanto di gente giovane, ci sono anche rappresentanti di tutte le età che sviluppano la propria creatività o partecipano come pubblico a queste azioni artistiche online così innovative. Al di là della parte creativa, questa pratica è diventata anche una fonte di reddito, poiché le piattaforme su cui si trovano agevolano i contributi dei sottoscrittori, room private e donazioni. Attualmente ce ne sono circa 10.000 attivi.”

Ovviamente, e proprio come la net.art all’epoca, questa pratica è nuovamente tracimata fuori dal contesto dell’arte così come è tradizionalmente considerato. E in proposito Paniagua propone un’idea interessante: entrambe le pratiche provengono dalla cultura underground di ogni periodo – online e manga –, cercando di dissociarsi dall’arte contemporanea perché non si sono sentiti apprezzati, o perché, semplicemente, non si identificano con quel contesto. In ogni caso, i VTubers si autodefiniscono artisti del manga.

INTERNET: UNA QUESTIONE DI TEMPO E RAGGIO D’AZIONE.

C’è un prima e un dopo, un cambiamento sostanziale di coscienza e autopercezione tra le autoesibizioni artistiche (video-performance) di carattere puntuale che sono state pensate come messa in scena per un contesto preciso, e la sovraesposizione personale che dipende dalla connessione permanente garantita da Internet e dai social network e che, indipendentemente dall’intenzionalità artistica, irradia sempre oltre questo ambito. Le prime sono azioni che si mostrano soltanto per un tempo ridotto e concreto, sono rivolte a un pubblico specifico e saranno viste nel contesto dell’arte – proiezione in sala o visioni private –: si tratta di performance puntuali concepite e rappresentate in funzione di un’idea o una riflessione. Nelle seconde non c’è una performance, ma si mostra la propria vita (al limite si fa una performance della propria vita). Di continuo, davanti a tutti.

3 Il lifecasting è la denominazione che si dà alla trasmissione della propria vita quotidiana mediante l’uso di telecamere attraverso Internet.

4 Successivamente, Josh Harris avrebbe ideato Quiet (1999) e We Live in Public (2000), due esperimenti sociali di sovraesposizione personale orientati alla condivisione online. Il primo Big Brother, ideato da John de Mol, venne trasmesso dalla televisione olandese nel 1999 e fu simultaneo a Quiet.

5 anime nice girls https://animemotivation.com/beautiful-anime-girls/, wayfus https://animeyfanfics.com/top-waifus-del-anime/ y furrys https://quegamer.com/ animes/14-mejores-animes-furry-de-todos-los-tiempos/.

“Ciò che ho fatto è stato filmare la mia faccia in relazione alla faccia degli spettatori. Quando utilizzavo il video, quando utilizzavo la performance, c’era sempre una relazione. In relazione ad altri. Questo ha senso alla fine degli anni ’60 e all’inizio dei ’70. Ma ha senso solo in quel periodo…”

Vito Acconci (1991)

EPILOGO. NUOVE SVOLTE TRA INDIVIDUALISMO E COLLETTIVITÀ, TRA ESTIMITÀ E INTIMISMO

Per concludere, puntualizzerò molto brevemente alcune nuove direzioni verso cui potrebbe dirigersi questo tipo di video creazione in un futuro molto prossimo e che verrebbero a mediare in questa oscillazione polarizzata tra intimità ed estimità, individualismo e collettività; lo farò attraverso un caso e una tendenza, entrambi paradigmatici. Il protagonista del caso è l’artista iracheno americano Wafaa Bilal con un’opera volta a criticare la violenza e il razzismo – una forma estrema di individualità – e che finì sfociando in un’azione di unione collettiva. In Domestic Tension (Shoot an Iraqi) (2007), Bilal visse per un mese nello spazio ridotto di una galleria di Chicago, esposto 24 ore al giorno davanti a una webcam che permetteva agli utenti di Internet di sparargli addosso con una pistola di paintball azionata da remoto. Sapendo che l’essere umano è in grado di fare tutto quello che può fare, il risultato sacrificale dell’azione era prevedibile. In quel periodo vennero sparati un totale di 60.000 colpi di pittura da shooters provenienti da 128 Paesi e il sito ricevette 80 milioni di visite. Alcuni si diedero i turni alla pistola in un modo molto aggressivo e piratarono il sistema in modo tale che l’arma sparasse senza sosta: la pittura gialla finì per ricoprire tutto e gli spari produssero ematomi sul corpo dell’artista, oltre a non permettergli di riposarsi. Tuttavia, negli ultimi giorni si verificò un cambiamento: Bilab percepì che l’arma andava da destra a sinistra e gli spari non lo colpivano. Era successo che un gruppo di 39 persone aveva unito le forze per evitare che altri sparassero all’artista; si autodefinivano “lo scudo umano virtuale”6.

A priori si può pensare in un modo più o meno peggiorativo all’utilizzo dei social network e ai cambiamenti che ciò ha comportato sul piano individuale e generazionale: dipendenza, banalità, sovraesposizione… Ma è altrettanto vero che stiamo assistendo a una situazione socialmente critica in cui persone emarginate o stigmatizzate per questioni sociali, psicologiche

6 Da questo sito dell’artista si può accedere a un riassunto quotidiano dei video del progetto https://wafaabilal.com/html/ domesticTension.html o di genere, utilizzano la propria immagine sui social come mezzo per ottenere una maggiore visibilità. D’altro canto, l’isolamento imposto dalla pandemia del COVID-19 ha favorito l’incremento esponenziale di autorappresentazioni mediate dalla tecnologia, di modo che, durante questo periodo, l’unica possibilità di contatto è avvenuta attraverso i corpi connessi online.

La tendenza, dunque, è rappresentata dal tipo di produzione videografica realizzata durante le restrizioni della pandemia, molto dipendente dall’autoesibizione. In questo lungo periodo in cui lavoro, mobilità e progetti sono stati troncati, gli artisti potevano puntare la telecamera soltanto sul loro ambiente più privato (casa, famiglia, animali…) e su loro stessi. Inevitabilmente questa è stata la tendenza di numerose opere prodotte nella reclusione, ma la tipologia dei video risultanti ci induce a pensare che la durezza della situazione abbia stimolato a lavorare più sull’introspezione che sull’esibizionismo; vale a dire che si tratta di opere che partendo dall’esposizione personale si distanziano paradossalmente dall’estimità, mantenendosi nella condivisione di intimità; sembrano uguali, ma l’inclinazione, lo sguardo, l’intenzione sono molto diversi. La rappresentatività di questa tendenza si trova sulla pagina web mirarnos a los ojos (volver a)7 dell’eccezionale progetto espositivo della BIM 2020, in cui i direttori Gabriela Golder e Andrés

Denegri hanno chiesto agli artisti di inviare dei video realizzati durante la pandemia. Paz Encina, Javier Olivera, Gustavo Galuppo, Melina Server, Juana Miranda o Hernán Kourian hanno assunto la prima persona realizzando opere intimiste che fornivano una riflessione lenta in cui non soltanto si esprimevano individualmente, ma riuscivano a stabilire un legame che coinvolgeva lo spettatore: la voce dell’artista, le sue immagini e i suoi pensieri, le sue paure e i suoi dubbi, diventavano, anzi, erano anche i nostri. Sebbene siano loro i protagonisti, in queste opere non appare il minimo accenno di esibizione personale, di narcisismo, di provocazione o smania di riconoscimento, bensì la profondità di un’immersione introspettiva che anela con nostalgia la connessione perduta con l’altro.

RIFERIMENTI

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7 mirarnos a los ojos (volver a) https://bim.com.ar/mirarnos-a-los-ojos.

BILAL, Wafaa. Domestic Tension (Shoot an Iraqi) (2007) Opera: https://wafaabilal. com/html/domesticTension.html

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BOOKCHIN, Natalie. Testament (20092017) Opera https://bookchin.net/ projects/testament/

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- Last Week at Jenni’s Place”, ArtTech Design. http://www.arttech.ab.ca/pbrown/ jenni/jenni.html (consultato 15/06/2021).

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Montreal: Fondation Daniel Langlois. https://www.fondation-langlois.org/html/e/ page.php?NumPage=167 (consultato 18/07/2021).

RINGLEY, Jennifer. JenniCam (1996-2003) Opera https://blog.worshiptheglitch.com/ post/29136828967/2007-02-jennishow-episodes-41-43-html

SHAMBERG, Michael & Raindance Corporation (1971). Guerrilla Television. New York: Holt Reinhard & Wilson. Tisseron, Serge (2001). L’intimité surexposée. Paris: Hachette.

TURKLE, Sherry (2011). Alone Togehter. Why we expect more from technology and less from each other. New York: Basic Books. [ed. it. Insieme ma soli, trad. di S. Bourlot, L. Lilli, Einaudi, 2019] ZAFRA, Remedios (2010). Un cuarto propio conectado. (Ciber)espacio y (Auto) gestión del yo. Madrid: Fórcola. [ed. it. Sempre connessi, trad. di E. C. Vian, Giunti Editore, 2012].

ZIZEK, Slavoj e Daly, Glyn (2004). Conversations with Zizek. London: Polity Press. [ed. it. Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Conversazioni con Žižek, trad. di G. Senia, Edizioni Dedalo, 2006]

UN PALAZZO DI VETRO

Gabriela Golder Settembre 2021

1 – Le immagini insorte

MI TROVO A DIRE. Questo testo si è scritto nel corso dei mesi. Questo testo si è scritto nello spazio/tempo della incertezza nel quale risulta impossibile enunciare qualsiasi concetto con certezza. Tempo di revisione. E così sia.

Il video non ha più bisogno di pensare alla sua identità, il video è.

Tuttavia, ho fatto quest’affermazione in un’intervista che ho rilasciato di recente. Leggendola mi sono sorpresa. Precedentemente avevo accennato, parafrasando Duchamp è video tutto quello che diciamo che lo è.

Probabilmente volevo dire che il video smette di pensare a sé stesso perché è già cresciuto e non ha bisogno di riaffermare la sua identità.

A SPERIMENTARE.

Sperimento nell’incertezza. Il video nelle sue estetiche e poetiche, nei suoi modi di produzione, nelle sue operazioni, nei modelli egemonici

TROVARSI A DIRE TROVARSI A PENSARE a ciò che si è fatto. In quello spazio ibrido in cui è nato il video, senza obiettivi chiari né capitalistici, IL VIDEO SI È ANDATO FACENDO. Potrei osare e dire che il video si è costruito a partire da necessità. PER VEDERSI, PER VEDERE, PER RIVELARE, PER AGITARE O FERMARSI. Sgrovigliarsi per guardare verso fuori, vedere cosa succede e poi tornare al punto di partenza per uscire di nuovo. Tentativi per tornare a guardare sempre in modo diverso e non abituare lo sguardo. Tornare al futuro.

[Parlare, fermarsi bruscamente, fare una pausa breve, enunciare una qualche domanda ad alta voce, fare un passo indietro, trovare ciò che si cercava e riprendere risposte con fiducia. Diffidare. Da una domanda ne nascono molte altre].

Qui un respiro, la scoperta di uno spazio, un interstizio intanto, in tanto stordimento e schermi brillanti e piattaforme glamour. In tanto movimento un po’ di quiete. Nel frattempo, un’immagine che ha nostalgia – un’immagine che ha nostalgia di un’altra immagine. E che si infastidisce per tante. Si infastidiscono i corpi e gli occhi delle immagini che infastidiscono. Si infastidiscono le immagini stesse. Nelle istanze di arresto è possibile che qualcosa emerga, altri modi di dire, altre narrative.

CAUTAMENTE AD ANDARE, CAUTAMENTE A DIRE. DISPERATAMENTE A TRAMARE. A INSORGERE.

Concetto da riscattare: l’urgenza di creare un altro tipo di percezione per le immagini e i suoni, e di conseguenza una riflessione più profonda.

A FARE. A ESSERE.

In diversi momenti, territori e a causa di determinate circostanze, quando diviene urgenza, artiste e artisti accettano la necessità di usare il video per pensare. E allora pensano e fanno. Pensano con immagini. E così è il video, e ciò che ne possiamo dire.

Il video pensa. Il video sentipensa.

Il video è membrana, estensione e testimone. Il video è scoperta, spazio/tempo di ricerca, di azione ed enunciazione. Il video è il luogo di costruzione di quell’immagine intensa che vede di più, che si ferma di più, che interpella. Il video raccoglie vestigia. Il video revisore, di fatti, memorie e immagini. Di costruzioni di pensiero e sentimento. Costruzione sentipensante. Facciamo appello a una coscienza che ci permetta di guardare in modo diverso. Il video ha memoria

Il video è politico

CI STIAMO EDUCANDO.

[Io mi sono educata così, con tanti video europei, fondamentalmente di uomini bianchi. Essendo questo ciò che impariamo, ciò che facciamo avrà a che vedere con certe poetiche ed estetiche. Poi, ho visto di più e ho ascoltato altre voci, e questo si replica in quanto segue. Se giovani artistǝ e studentǝ cominciano a vedere altre narrative, voci e desideri, si aprono nuove domande. E questo va cambiando ed è un effetto che cresce esponenzialmente, appaiono sempre più cose e i dialoghi sono più profondi, più potenti e arricchenti].

CI STIAMO POTENZIANDO. Un video è un’immagine che pensa. Ogni video è un pensiero.

È – PENSA – RIVEDE

Questo non basta. C’è una grande parte della produzione videografica che si ritrova vicino ai modi di produzione industriale. Leggiamo i credits delle opere.

NUOVO ESPERIMENTO.

Insisto con le immagini vulnerabili, con le immagini che tremano, con le immagini dialettiche. Vedere e potere. Vedere Vedere Vedere. Dire per tornare a vedere

Immagini Mentali Di Mondi

Il video trema, respira. Il video è un continente. Contiene memoria, stanchezza, euforia, rabbia, parola. E intensi desideri di catturare un raggio di luce, la polvere sospesa nello spazio. Fare luce. Il video è anche strumento, è linguaggio, è un tra, è in un interstizio.

È – PENSA – RIVEDE – TREMA

[Al video quando non è prefisso]

Non è rispetto per la pittura. Né rispetto per il cinema. Né rispetto per la letteratura. Né rispetto per la performance. Non è rispetto per la TV. La vidéo est contre la TV, tout contre, disse Jean-Paul Fargier. Oppure è, ma non è necessario difendersi.

Vedere Per Vedere Meglio

Una forma che pensa le immagini è a sua volta forma e pensiero. E modi di dire. Una forma che pensa l’immagine che pensa, il dispositivo e l’occupazione dello spazio. Occupare lo spazio o non lasciarlo respirare.

aprire gli occhi – chiuderli – aprire gli occhi

PRE-VEDERE.

POST-VEDERE.

VEDERE DAL FUTURO ALL’INDIETRO.

UN’IMMAGINE CHE RIVELA

UN’IMMAGINE CHE SI RIVELA

[“Ti scrivo da un altro mondo, un mondo di apparenze. Per certi versi, i due mondi comunicano tra loro. La memoria è per uno ciò che la storia è per l’altro. Un impossibile. Le leggende nascono per decifrare l’indecifrabile. La memoria deve svilupparsi nella sua stessa confusione, secondo il proprio impulso. Un momento di respiro la distruggerebbe come si consuma un fotogramma davanti al proiettore”. Chris Marker, Sans Soleil, 1982].

Tornare a dire per cambiare, e scorgere la possibilità di un futuro diverso.

2. Tornare al futuro

Virus, lockdown, internet, social, video, e poi, dove siamo? Alla ricerca di certezze. Definendo identità o momenti di passaggio. Congiunture o stabilità. Nostalgia o indovinello.

Concetto da riscattare: È necessario arrestare l’ansia.

ANDARE A.

Attraversare il complesso passaggio, quello della traduzione impossibile. Evidenziare il conflitto. Essere aspecificǝ. Inventare e raccogliere altri modi di fare, di vedere, di essere parte. Costruire in modo diverso.

LA TRAMA – IL TESSUTO – I LEGAMI – LE COSTRUZIONI COLLETTIVE PAUSA.

(In questa prospettiva, dove sta il mercato?) tante fallacie. fermare la riproducibilità seguire le leggi del mercato invocare l’aura.

La questione del mercato. Il mercato e il video.

Il feticismo di un oggetto non oggettuale, di riproducibilità infinita.

E i festival che chiedono l’esclusiva

TOLGA LA SUA OPERA DAI SOCIAL

E il mercato che chiede di enumerare

E l’artista che vuole circolare

Mettere una password o liberare

Emancipare o Privare

Mentre più in qua, l’imperiosa necessità di abitare con il corpo. Di stare.

DOVE STIAMO SE NON STIAMO?

VIDEO – IO VEDO – IO ESISTO

Nativi youtube, nativi di social. Se tutti facciamo video, che facciamo noi che facciamo video? Prendere i social d’assalto. Un’azione lenta e persistente.

Parlare piano, ascoltare, tessere lentamente.

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