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VEDERE PER COMPRENDERE
2. Al terreno dell’azione
LA BIENNALE DELL’IMMAGINE IN MOVIMENTO EDIZIONE 20208 Sul complesso momento di passaggio.
Caso di studio. Marzo 2020: Decisioni da prendere.
Il 2020 ha sorpreso tuttǝ con una pandemia inedita che ci ha obbligato ad accantonare tutto quello su cui si era lavorato nel 2019 e pensare a una biennale completamente diversa. Non avremmo potuto incontrarci, né fare proiezioni, né mostre. Nessun tipo di incontro sociale sarebbe stato possibile. E quello, l’incontro, è un fattore determinante della BIM. Abbiamo preso in considerazione di non farla.
Che fare?
O che fare nonostante tutto?
Non volevamo fare quello che stavano facendo gli altri festival, condividere link di opere audiovisive. Abbiamo deciso che non era possibile tradurre le proiezioni in auditorium, le installazioni, le performance in un formato virtuale. Provavamo diverse risposte che tentavano di pensare le produzioni audiovisive contemporanee in tempi di pandemia. Non si trattava di una traduzione, sapevamo di dover pensare a qualcosa di diverso.
Avevamo poche certezze. Questa era una. Allora abbiamo pensato di creare una forma diversa di incontro, di condividere le nostre visioni su ciò che stava accadendo. È così che è nato mirarnos a los ojos (volver a)
8 Biennale dell’Immagine in Movimento (bim.com.ar). Creata e diretta da Andrés Denegri e Gabriela Golder
[guardarci negli occhi (ricominciare a)]. Ed è diventato l’asse principale della BIM, la BIM.
Mentre stava accadendo.
COMINCIA LA TRAMA.
Abbiamo cercato di far sì che si costruisse in consonanza con le caratteristiche della situazione globale e che raccogliesse le nostre esperienze quotidiane di interazioni digitali. Ma che soprattutto dialogasse con le pratiche che si erano incrementate esponenzialmente prima del lockdown generalizzato, il passaggio delle nostre attività quotidiane all’interfaccia virtuale. Con queste poche coordinate è nato questo nuovo progetto. È nato nell’incertezza con un po’ di intuizione. Mirarnos a los ojos (volver a)9 è sorto come un gesto di sopravvivenza.
Concetto da riscattare: la rete affettiva come spazio di resistenza.
Con la pandemia il peso della sfera affettiva è diventato centrale e abbiamo capito che la BIM si era sempre fondata su questo. L’abbiamo riconosciuto quando credevamo di non avere nessuna certezza. Quando è diventato urgente riflettere sullo stato delle cose. Riflettere, e non cercare di comprendere oltre.
L’INTRECCIO S’INTRECCIA
Abbiamo reso la BIM un social.
mirarnos a los ojos (volver a) è un progetto audiovisivo corale, un universo di video realizzati in tempi di pandemia da artisti di diversi angoli del mondo. In esso si può trovare un’estesa diversità poetica. Sono opere semplici, sensibili e riflessive messe
9 https://bim.com.ar/mirarnos-a-los-ojos in dialogo attraverso una piattaforma appositamente disegnata. È un paesaggio storico, un documento artistico che attesta il modo in cui il divenire delle cose ha visto interrompere la propria inerzia. È una testimonianza di fare, di dire, di intessere, di intesserci in corpi e in immagini.
La quinta edizione della Biennale è diventata una trama a partire da un’immensa rete di tessuti invisibili. Una trama di sguardi e di affetti, la possibilità di ricominciare a guardarci negli occhi. In essa si organizzano più di 200 lavori audiovisivi di 700 artisti di tutto il mondo. Si tratta della creazione di un mondo caotico ma sicuro, contenuto ed espanso al tempo stesso, che si può percorrere in diversi modi e che sarà sempre diverso.
Alice, devi solo attraversare lo specchio!
Chi accede, invitatǝ, curiosǝ (mai spettatori/trici) si ritrova davanti a quattro percorsi possibili: “Guardare il cielo”, “Guardare dalla finestra”, “Guardare verso dentro”, “Guardare lo schermo”. Secondo dove si sceglie di entrare, si aprirà un percorso singolare. Guardare il cielo implica un rapporto con la natura, la contemplazione di un paesaggio, dialoghi con animali, la cattura della luce. Guardare dalla finestra è guardare l’altrǝ, simili e diversǝ, uscire, trovare la strada. Guardare lo schermo è penetrare in un mondo di specchi, di media e tecnologie, affacciarsi al cuore della trama, al controllo e al virus. Infine possiamo guardare verso dentro e penetrare nel mondo domestico, la nostra casa, la nostra intimità, i nostri affetti, il piccolo mondo divenuto immenso in tempi di lockdown. di creare mondi dentro mondi e di invitare ad abitarli.
Artefici, creativǝ di mondi, desideranti, amanti, abitanti. Immagini, suoni, testi e corpi che hanno nostalgia e in quella nostalgia si incontrano. Prendere coraggio e aggrovigliarsi, non c’è dentro e fuori, né qui e lì, né nessun luogo in cui andare.
SIAMO SOLƎ
SIAMO TUTTƎ
SIAMO LÌ
3. CODA (ricominciare)
Il mio corpo è qui (-34.6336786, -58.4278231), una finestra, una tazza di caffè, davanti alle mie piante, computer, parlanti, libri, il mio telefono, una penna, dei fogli, appunti, sento i miei figli in classi virtuali. Dentro il mio schermo, una casa, diverse stanze, una camera, una scrivania piena di cose, il cielo, edifici attorno, latrati di cani, voci di figlǝ, la gatta. Torno, torno al monitor, la tastiera, cerco un URL sul browser, le mie mani sulla tastiera, le mie dita sentono la tastiera calda. Alzo lo sguardo, ancora il riflesso di alzare lo sguardo: questo ci salva, il vento muove le piante, torno, provo a percorrere un’esperienza immersiva.
Il mio corpo, il mio corpo che emerge in mezzo a tante altre cose, tanti odori, suoni. Il mio corpo scisso, ma eccomi, ed entro nell’esperienza. I miei occhi sullo schermo, i miei piedi sul pavimento, io seduta, il mio movimento immobile, il mio cervello si immerge. NO non si immerge, i miei occhi ci provano, ma il mio schermo è di 15 pollici e allora vedo (i libri, i parlanti, la gatta, le piante, gli odori l’ho già detto). Entro comunque, e percorro, un’interfaccia tra le migliori che ho visto per queste esperienze di mostre online ma il mio corpo non si immerge, ci sono ma mi sforzo. Il fatto è che non abito lo spazio, non abito quel territorio, non sento nessuno mentre arrivo, una voce lontana, dei passi che si avvicinano, la complicità del vedere insieme ad altrǝ, che lo schermo ecceda il mio corpo, la mia altezza. Un tema di dimensioni, di scale rispetto al mio stesso corpo, ora è tutto così minuto, dovrei avere uno schermo gigante, mi dico, e sperimentare ma mi dico anche che non è una questione di schermi ma di corpi che abitano.
CI MANCANO I CORPI.
ci stanno mancando.
Gabriela Golder
Artista
Co-direttrice della Biennale dell’Immagine in Movimento
Docente
Curatrice
Riflessioni per una drammaturgia visiva dirompente
Jacqueline Lacasa
Settembre 2021
Sperimentare la scena degli avvenimenti dalle arti visive, nel poderoso assemblaggio dei social network e della sofisticazione dei mezzi di produzione di massa, offre sfide permanenti agli artisti contemporanei.
Esiste un io produttore di senso che, con pensiero critico, genera immagini, avvenimenti e nuove risonanze per incidere in un mondo di spettatori globali. In questo modo mette in campo una nuova ingegneria di questo io provocatore del proprio presente, in definitiva, delle condizioni dell’esistenza.
Si cerca di commuovere i sensi, esperienze che distolgano la nostra attenzione, che ci forniscano nuove vie per accettare la vita contemporanea. Mentre gli assi politici ed economici permeano i circuiti corporativi e la digitalizzazione permanente di dati, gli Stati per il controllo, si servono dell’operatività maggiore: la velocità è il mezzo, la sicurezza è la meta.
Proponiamo di pensare a una drammaturgia visiva dirompente10, in modo tale che ciò ci offra la possibilità di interrogarci sulle strategie produttive dell’arte contemporanea in un contesto multidimensionale, vale a dire in un campo di forze che ha origine nelle complessità di nuova costruzione dell’io.
Un io che renda trasversali gli effetti dei processi globali sul piano del piacere o del dispiacere, come transito verso una desoggettivazione11 dell’io.
In concreto, la costruzione di questa drammaturgia visiva si sviluppa in scene in cui la visibilità delle frontiere tra corpi, origini e miti, si rieditano e si narrano costantemente.
Il Nostro Scenario Di Tutti I Giorni
Dall’America del Sud, nello specifico dall’antico centro storico di Montevideo, i movimenti ci sorprendono in mezzo ai tempi pandemici. Tuttavia, gli artisti cominciarono già un quarto di secolo fa a seguire il flusso di altri avvenimenti. Le piattaforme di Internet insieme ai procedimenti tipici di un
10 Con dirompente e perturbatore (disruptive) si intende ciò che causa un cambiamento determinante, che dimostra l’insoddisfazione o la disillusione. D’altro canto la disruptive innovation (l’innovazione dirompente e perturbatrice) si associa a un cambiamento drastico che può causare la scomparsa di determinati prodotti.
11 Secondo Pascal Quignard, citato da Sergio Blanco (2020): “La desoggettivazione è il sé stesso restituito allo stato del corpo che muore. La desoggettivazione fu appassionatamente cercata durante la disumanizzazione del Novecento. La desoggettivazione originaria è essere riconosciuto da un altro animale con un pezzo di carne.” campo emergente forniscono estetiche che espletano una funzione disseminatrice di concetti e che, a nostro vedere, moltiplica gli effetti di nuove scene per pensare l’arte. Le forme di abitare, in gran parte dell’America del Sud, sono sempre a discapito di un mercato incipiente, di un’accademia rigidizzata, del classismo, e delle grandi utopie che verranno. Questi effetti sarebbero devastanti se non colpissero il bersaglio del desiderio, della possibilità di riarmarsi finché un nuovo scenario non convocherà a nuove vie di accesso e a politiche dell’affettività.
Le comunità esplorano nuovi sensi nelle loro pratiche e questo si genera su piattaforme di azione che cercano evidenze. L’arte contemporanea non funziona più come nucleo chiuso di sperimentazione concettuale, bensì esplora il modo in cui dichiararsi al di fuori dei vecchi nuovi ruoli. Gli artisti cercando di riprendere l’autonomia delle regole dell’arte da spazi impensati, che dipendono in gran parte dai flussi del mondo digitale, dei social e delle transazioni di senso estetico tra contesti.
In mezzo alle onde controverse che a livello mondiale viviamo su regimi militarizzati, articolazioni del controllo dell’io e delle sue tecnologie, che materializzano e incarnano i modelli di vita, c’è un modo di rendere effettivi i progressi sui conflitti. È necessario servirci dei conflitti di quegli io, che in scena chiamano a un dramma, a una sequenza concettuale di idee, di rapporti mitici tra gli agenti provocatori della massa di artisti e delle loro forme di rapportarsi con il mezzo.
È in questi scenari che si attivano i fluidi che permettono di stabilire evidenze, una base di memorie descrittive sulle nostre pratiche attuali, in cui il corpo politico in scena recupera la capacità di essere nominato.
In questo scenario possiamo trovare l’opera dell’artista uruguaiano Vladimir Muhvich Meirelles il quale, nella cornice della Plataforma Engrama (ricerca su Modelli di Visualizzazione Morfologica ed Evolutiva di Collezioni, Archivi e Patrimoni Artistici), sviluppa un’applicazione che ha la capacità di misurare, modellare e classificare il campo dell’arte. Pertanto genera mappe di mezzi espressivi, sensoriali e di strategie di conservazione che, attraverso uno strumento informatico di interfaccia ottiene l’inserimento di dati estrapolati dalla sfera ontologica dell’arte, plasma gli schemi di comportamento artistico di diverse dimensioni analizzando il grado di incidenza nel mezzo economico, culturale e politico e perfino il grado di subordinazione rispetto ai centri egemonici. Il procedimento dell’artista consiste nel plasmare in opere le visualizzazioni dei risultati in questi engrammi, in questo modo crea evidenze e lascia tracce.
Il Disordine Cos Necessario
È pertinente disegnare un piano in cui la produzione visiva ed estetica si configuri come sintesi delle variabili di velocità, tempo e spazio, per generare analisi comparative con altri contesti, tornare all’essere, comprendere il confinamento dell’io come parte dell’alienazione necessaria e limitante, di quella reificazione opportuna, in cui la mercanzia funge da conduttrice ideologica del movimento. Ci riferiamo all’elaborazione delle informazioni riguardo a un’opera visuale, alla sua materializzazione, all’identificazione proiettiva delle parti che quelle comunità personificate connettono in settori o moltiplicano poi per essere associazioni. Si cerca disperatamente un senso, l’accelerazionismo, il post-umanesimo, il trans-umanesimo, la futuribilità, sono tutte drammaturgie valide, ma i loro scenari sembrano offrirsi da compartimenti isolati.
La disruption di senso in mezzo a questi scenari offre nuove platee con spettatori e spettatrici, che hanno uno stato di situazione e un piano nel loro progetto artistico. Da che luogo operano, e quali saranno le strutture ingegneristiche che mettono in scena disordini, a mo’ di conflitti, per rivedere e avanzare?
È possibile continuare a operare in una drammaturgia scissa tra nord e sud, è possibile seguire le tensioni controverse dell’arte o del conformismo estetico, le bandiere dell’arte attuale vanno addomesticando i sensi del gusto.
Placano la ribellione dell’io, e più che un gioco narcisista di senso acritico si tratta della nascita di uno stato di coscienza che, importato dalla sfera del teatro, allarghi l’interrogare dei corpi mediatici, delle estetiche che tracimano senza ricettori che le interroghino.
L’IO IN COSTRUZIONE
C’è un mondo di messinscene possibili, operare sull’io in costruzione, fare autofiction per trovare nuove forme speculari, fare specchio e trovare evidenze che producano filtrazioni e modifichino le strategie prevedibili.
È nel gioco estetico e in presenza di quell’io che si producono accordi per creare metafore possibili. Ci sono discorsi i cui enunciati fanno parte di voci segmentate, che non sopravvivono alla fobocrazia, si immergono in litanie subalterne, non fanno crepe e spariscono senza morire. In questa cornice si trova l’opera dell’artista uruguaiana Ana Aristimuño, che lavora sul tema della connessione con la natura, la vita e la morte che sono in gioco, dunque il lavoro di convivere con altre specie è rilevante accanto al tema dei desaparecidos (le persone che sparirono durante la dittatura in Uruguay tra il 1973 e il 1984) dato che la vita nasce ovunque, sebbene si nasconda in un qualche modo.
La disruption creativa deve partecipare al delicato assemblaggio della costruzione dell’io e alla sua capacità di autofiction di una realtà per portarla in quei luoghi complessi, in cui il silenzio è il prodotto della subalternità, della sottomissione in tutti gli ordini.
Per evocare questa possibilità nelle nostre pratiche quotidiane, è necessario utilizzare un set di strumenti che operi per riscattare quegli avvenimenti che rendono visibili regimi di sensibilizzazione. È necessario pensare a una riorganizzazione delle risorse che godano di una certa plasticità, vale a dire che, messe in tensione, evochino la capacità di pensarsi in comunità o interazione permanente con altre comunità per la loro preservazione.
Tornando agli strumenti, possiamo utilizzarli in modo dirompente, quasi fino alla loro sparizione, per vedere che il vuoto è un luogo possibile. Mi riferisco all’effetto di conversione, come formula che mi permette di leggere costantemente le pratiche nelle loro pieghe e come forma di alterare la realtà, giacché ci si aspetta che quasi tutte le nostre messinscene, posizioni o comportamenti siano prevedibili. Voglio chiarire che l’alterazione della realtà non vuol dire accantonare le nostre convinzioni o le posizioni che accompagnano i nostri processi affettivi, ma accettare il confine rischioso delle nostre pratiche, andare a nuovi racconti di questo circuito ingegneristico. Abbiamo bisogno di rivedere i patti con la verità, gli effetti delle verticalità nel dire di suddette pratiche, intendendo che in quel processo di autofiction c’è un io che lotta per essere emancipato da una realtà che lo soffoca o in cui è imperioso avanzare a costo di perdersi nella folla. C’è da chiarire che dobbiamo analizzare e ristabilire connessioni con piattaforme attive e distruttive che non evitino le dimensioni delle molteplici abitabilità distopiche, ma che si aprano per rivedere i tessuti striati o le arborescenze nei territori delle pratiche biopolitiche.
In questa elaborazione di desoggettivazione che incarnano popolazioni intere in ogni angolo del mondo, i progetti gestiti dalle piattaforme artistiche possono promuovere filtrazioni vincolate alla rotta del prodotto “opera d’arte” e le nuove tecnologie dominanti della “educazione all’arte”, vale a dire tutto quello che fa la formazione accademica e il mezzo. In questo senso la scoperta quasi forense (mi riferisco alle prove che lascia la memoria nella nostra costruzione quotidiana), è una via importante che ci connette alla capacità di evocare, lavorare sulle barriere della quotidianità, di quell’io e delle sue alterità che si vedono anestetizzate o ostacolate da regimi di taglio burocratico-istituzionale. Anche in zone in cui l’attivismo corporativo in nome del diverso spesso funziona cooptando la circolazione di senso critico.
Circolazione Digitale E Caduta Libera
Quando penso alla configurazione dei processi creativi, alla forma politica delle azioni quotidiane, all’emorragia affettiva provocata da questi processi e leggo autori e autrici (con cui mi diverto e litigo quotidianamente), intendo che c’è un insieme di segni che denotano un campo di azione possibile a nuovi incontri. Ma i piani di produzione delle opere artistiche hanno il potenziale di svolgere un atto di resistenza e queste confezioni sottili e spesso codificate ci mettono davanti all’ingegneria di un io o di uno spazio multiple, di io che convivono in caduta libera, cito Hito Steyerl12.
È questa caduta libera che usiamo come strumento per poter circolare nel mondo delle emozioni. Tuttavia, è il senso delle politiche dell’affettività nelle nostre piattaforme creative, che elaborano strategie per cercare evidenze su luoghi comuni. Mi identifico profondamente con il concetto dell’immagine povera di Steyerl13, perché in essa c’è il germe della disruption, per negazione o per l’oblio contro una forma di controllo.
12 Steyerl (2016): “Questo instaura una nuova normalità visiva: una nuova soggettività visiva: una nuova soggettività attentamente incorporata nelle tecnologie di sorveglianza e nelle forme di distrazione basate sugli schermi. Si potrebbe concludere che si tratta in realtà di una radicalizzazione – ma non di un superamento – del paradigma della prospettiva lineare”.
13 Secondo Steyerl (2016): “L’immagine povera è una copia in movimento. Ha una pessima qualità e una risoluzione scadente. Si deteriora se accelerata. È il fantasma di un’immagine, una miniatura, un’idea errante in una distribuzione gratuita, viaggiando a pressione in lente connessioni digitali, compressa, riprodotta, rippata, remixata, copiata e incollata in altri canali di distribuzione.”
C’è una nuova linearità rispetto alla riproduzione delle immagini, quelle connessioni digitali con imperativi chiave come riprodurre, rimescolare, copiare, incollare, come vie di circolazione. Siamo in dimensioni simultanee e sembra che dobbiamo optare per processi identificatori di massa che a tratti si muovono e ci portano a uno scontro con posizioni schizo-paranoide.
Il vuoto come luogo da abitare, come specchio che condensa il desiderio e precipita il godimento, come stato dirompente. E lo affermo, perché si ubica in una molteplicità di allarmi sociali, comunitari, in politiche globali di accesso e di segregazione.
Torno dunque a percorrere questo spazio che abito nella dimensione di tempi pandemici, e risuona ancora una volta la costruzione di questa drammaturgia. Mi riferisco alla concezione e alla circolazione di video-saggi, intendendo questi saggi come accesso alla produzione di immagine, che marchino un corpo a corpo con la materialità delle inquadrature politiche ed economiche per generare una massa informe. Sono difficili da afferrare in un unico punto, una cartografia dalla quale derivino spazi comuni tra pari, in una cartografia di nostre azioni che assuma le immagini povere come tesori di questo viaggio e ci portino semplicemente in un futuro.
Bibliografia
BLANCO, Sergio (2020), Autoficción, una ingeniería del yo. Punto de vista Editores.
· Steyerl, Hito (2016), Los condenados de la pantalla. Caja Negra Editora.
DALLA MILITARIZZAZIONE ALLA
VIDEOCAMERA:
NARRATIVE DELL’IMMAGINE NELL’ERA
DELLA VISIONE ARTIFICIALE
José Luis de Vicente Settembre 2021
Scrivo questi appunti a mo’ di prolungamento di una conversazione a quattro voci che si è svolta il 24 marzo 2021, come parte del ciclo di attività “Videografie: la cultura tra le videocamere” organizzato dalla Real Academia de España en Roma e l’Instituto de Filosofía del CSIC. Proprio come la stragrande maggioranza di conferenze, tavole rotonde e presentazioni che si sono svolte tra il marzo del 2020 e il momento in cui scrivo questo testo, la conferenza non è avvenuta in presenza in una sala convegni o in un’aula, bensì all’interno dei nostri rispettivi domicili in due continenti diversi, nello spazio distribuito e immateriale di una stanza di Zoom. Come tutti sappiamo, la pandemia del COVID ci ha rinchiuso nelle nostre case, ha reso impossibili i viaggi e ha estremamente ostacolato la coesistenza di corpi estranei nella stessa stanza. Ci ha inoltre abituato a trascorrere i giorni perennemente davanti a una telecamera, situata al centro della parte superiore dello schermo dei nostri portatili, più piccola di una moneta da un centesimo.
In questi mesi mi sono poi abituato all’esercizio forzato di puntare lo sguardo nella luce della telecamera, invece di cercare gli occhi dei miei interlocutori nello schermo. È uno scomodo pedaggio da pagare per convincere i tuoi accompagnatori che li stai guardando direttamente, stabilendo un finto contatto visivo che ti fa sembrare più attento. Nonostante la scomodità, è preferibile all’alternativa, quell’espressione afflitta che assumi chinando la testa quando cerchi i volti dall’altra parte del monitor. Già nel primo trimestre della pandemia, lo scrittore e analista culturale Jorge Carrión pronosticava che quando raccoglieremo le immagini più rappresentative di questo momento storico, una delle prime che ci verranno in mente sarà quella della grata rettangolare di volti nelle interfacce di Zoom, Microsoft Teams e altre piattaforme di videoconferenza14.
Nel corso dei suoi quindici anni e più di storia, la tecnologia della videochiamata aveva relegato in realtà la dimensione visiva a un ruolo secondario. Alla fin fine, la voce è il canale di trasmissione di informazioni egemonico, e la trasmissione di immagini in movimento richiedeva una larghezza di banda e una risoluzione che fino a non tanto tempo fa erano una risorsa preziosa. Ma la necessità di vederci e riconoscerci nella solitudine delle nostre reclusioni, in un momento in cui la prossimità fisica e la vicinanza erano proscritte, ha finito per conferire al visivo una centralità nei sistemi VoIP di cui precedentemente era carente.
Insieme alla videocamera del computer, è una consuetudine che ormai la maggior parte di noi non si trovi mai troppo distante da almeno altre due lenti; quella davanti e quella dietro a ogni smartphone, spesso ancora più piccole di quella del portatile. La videocamera dietro ha la funzione di trasformare a tutti gli effetti il telefono intelligente in una macchina fotografica e video, e di fatto nel mercato dell’elettronica di consumo le ha sostituite quasi completamente. Lo Smartphone è diventato il dispositivo di rappresentazione più comune del nostro tempo. Quella che è posizionata sullo schermo, che ci guarda direttamente, è più recente. Gli iPhone, per esempio, non l’hanno integrata fino alla quarta generazione, nel 2010. La videocamera frontale in molte funzioni è analoga a quella del portatile, ed è quella che si utilizza nelle videochiamate. Ma se identifichiamo la videocamera frontale nel telefono con qualcosa di concreto e specifico in realtà è per la sua capacità di trasformarlo in uno specchio, e in un dispositivo di autorappresentazione. La macchina da selfie è innanzitutto un’arma per costruire un senso di identità propria nei servizi che costituiscono l’esperienza di Internet per la maggior parte dei suoi utenti.
Se le videocamere si sono moltiplicate nella nostra sfera domestica è perché si sono moltiplicate ovunque. Sono sempre più piccole, più economiche, ed è possibile trasferirle a sempre più generi di dispositivi, come se fossero appendici visuali. Ma non è detto che la maggior parte delle lenti che guardano il mondo catturandolo in molteplici maniere siano, in senso stretto, videocamere. O piuttosto, se le intendiamo semplicemente come prolungamenti storici della macchina fotografica, la cinepresa o la videocamera, mere ereditiere della loro funzione e modalità d’uso, avremo solo una comprensione parziale della loro natura.
In questo, le videocamere non sono da sole. Negli ultimi anni, il mondo si è riempito di prodotti e dispositivi che preservano ancora l’apparenza e la funzione di oggetti familiari, sono fondamentalmente diversi nelle loro capacità, nella loro maniera di operare e nel genere di rapporto che stabiliscono con i loro utenti.
Pensiamo, per esempio, alle reti di bike sharing, di biciclette pubbliche che
14 https://www.nytimes.com/es/2020/05/09/espanol/opinion/zoom-coronavirus.htm nell’ultimo decennio si sono sparpagliate nella maggior parte delle grandi capitali europee. Queste reti permettono ai cittadini di noleggiare per un breve periodo di tempo i veicoli legati a svariate stazioni distribuite in giro per la città, a patto di avere una tessera utente che li identifica e che si assicura che il sistema addebiti sul loro conto in banca l’importo del tragitto quando vengono restituite. Come veicoli, le biciclette delle reti di biciclette pubbliche non sono essenzialmente diverse da quelle tradizionali. Ma l’infrastruttura di gestione dell’informazione e di produzione di dati necessaria affinché operino in modo efficace, le rende qualcosa di radicalmente diverso. Quando un utente ritira una bicicletta da una stazione, comincia un processo che lascia una traccia permanente in un database. Il sistema dovrà registrare che in una data e in un orario concreto, nella stazione con un numero concreto situata in una determinata strada, un utente determinato con un numero identificativo unico ha ritirato un veicolo. Quando qualche minuto dopo la restituirà in un’altra stazione situata in un altro punto della città, chiuderà il tragitto che ha realizzato in modo espresso, lasciando sul database l’itinerario del viaggio completo.
Se si fosse realizzato quel percorso con la propria bicicletta, ogni prova del tragitto sarebbe completamente svanita nell’esatto istante in cui fosse stato completato. Ma nella memoria del sistema di informazione che gestisce le biciclette della rete pubblica, quel tragitto rimarrà registrato, associato alla persona che l’ha realizzato, insieme a decine di migliaia di altri tragitti quotidiani. È per questo che è possibile sapere, per esempio, che alle 20:46 del 24 gennaio 2020, due mesi prima che il mondo si fermasse completamente, ho preso la bicicletta con l’identificativo 7770 a calle Joan de Austria numero 31 a Barcellona, per restituirla dodici minuti dopo nella stazione situata all’angolo di Via Laietana con Paseo de Colón.
In un altro esempio forse più vicino a quello della telecamera, pensiamo a un lettore di libri elettronici Amazon Kindle, il prodotto più di successo all’interno della categoria dell’eBook. Quando sorreggiamo tra le nostre mani i 182 grammi di policarbonato, diossido di titanio, polimero di litio e altri materiali che costituiscono questa simulazione di libro di carta stampata, percepiamo l’atto di leggere i caratteri che appaiono sullo schermo non sostanzialmente differente dall’atto di leggere lo stesso testo su una pagina di carta vegetale segnata dall’inchiostro. Ma proprio come nel caso delle reti di biciclette, il Kindle è un’appendice di un’immensa infrastruttura di computazione, cosciente che in quel momento il lettore ha iniziato la lettura di un libro concreto. Tiene conto di quante pagine ha completato, se è riuscito ad arrivare alla fine o se l’ha abbandonato prima. Di ogni passaggio sottolineato. Proprio come le biciclette delle reti pubbliche di biciclette europee e i testi dei lettori di libri elettronici, la maggior parte delle videocamere che operano nel mondo nel 2021 – che sia da uno smartphone, un portatile, un sistema di videosorveglianza o un drone – non lo fanno in modo indipendente: sono anche appendici di grandi infrastrutture di computazione. La videocamera è semplicemente l’ultimo tentacolo o la pupilla di architetture di controllo e di strumentazione del mondo sempre più presenti.
In una delle sue citazioni più ripetute, l’accademico britannico Stafford Beer, una delle figure fondative del campo della cibernetica, affermava che “il proposito di un sistema è ciò che il sistema fa”15. Vale a dire che il miglior modo di leggere l’impatto di una tecnologia determinata sul mondo è attraverso i suoi effetti, più che nelle intenzioni dichiarate dei suoi disegnatori o dei suoi utenti. Da questa prospettiva, la maggior parte delle videocamere che operano nel mondo lo fanno con un impatto e un obiettivo radicalmente diverso da quello della macchina fotografica e della telecamera. Esiste una profonda discontinuità storica con la telecamera come produttore di rappresentazione.
Il fotografo, artista visivo e ricercatore Trevor Paglen ha esplorato da molteplici angolazioni il nuovo status della telecamera nel XXI secolo. Nelle sue parole:
Nel corso dell’ultimo decennio, è successa una cosa drammatica. La cultura visiva ha cambiato forma. Si è svincolata dallo sguardo umano ed è diventata nella stragrande maggioranza invisibile. La cultura visiva umana è diventata una categoria speciale di visione, un’eccezione alla regola. La sconvolgente maggioranza di immagini che si producono sono realizzate da macchine e sono destinate a macchine, con un intervento umano in pochissimi casi. (…) I nostri ambienti urbani sono pieni zeppi di esempi di architetture di visione di macchina a macchina: lettori automatici di targhe, installati sulle auto della polizia, edifici, ponti, autostrade e veicoli su gomma scattano foto di ogni automobile che entra nel loro campo visivo (…)
Nell’ambito del consumo, compagnie come Euclid Analytics e Real Eyes, tra molte altre, installano telecamere in centri commerciali e grandi magazzini volte a rintracciare il movimento dei loro visitatori in questi spazi con un software concepito per identificare in che direzione stanno guardando e per quanto tempo, e a rintracciare le espressioni facciali per rilevare lo stato emotivo degli umani che osservano. (…) Nel settore industriale, compagnie come Microscan forniscono sistemi fotometrici concepiti per individuare difetti di fabbricazione, e supervisionare l’imballaggio, il trasporto e la logistica in industrie come quella farmaceutica, elettronica o automobilistica. Tutti questi sistemi sono possibili soltanto perché le immagini digitali possono essere lette da macchine, e non richiedono l’intervento di un essere umano16.
In “The Robot Readable World” 17, un’opera video elaborata nel 2012 dal regista e designer britannico Timo Arnall, possiamo situarci nel luogo dello sguardo della macchina che produce immagini per il consumo e la presa di decisioni di altre macchine. Questa raccolta di found footage di dimostrazioni di applicazioni industriali ci addentra nell’estetica della visione artificiale, l’insieme di tecnologie che trasforma la videocamera in uno strumento di identificazione, monitoraggio e controllo. Le immagini si utilizzano nel controllo del traffico, analisi di movimento nello spazio pubblico, o monitoraggio di prodotti in una catena di produzione industriale.
15 https://en.wikipedia.org/wiki/The_purpose_of_a_system_is_what_it_does
16 Trevor Paglen, “Invisible Images (Your Pictures Are Looking at You)”. The New Inquiry, 8 de diciembre de 2016. Accesible en https://thenewinquiry.com/ invisible-images-your-pictures-are-looking-at-you/
17 https://www.elasticspace.com/2012/02/robot-readable-world
Oggi giorno sono molteplici le comunità di artisti che lavorano in collaborazione con accademici, scienziati e attivisti per rintracciare e rendere visibili i profili di queste architetture di potere emergenti, che abitualmente sono state rese invisibili in maniera deliberata. In “Drone Vision”, un’opera video monocanale del 2010, Trevor Paglen ci segnala ancora una volta lo spazio in cui appare la maggior parte delle innovazioni tecnologiche nel terreno dell’immagine: quello militare. L’opera presenta una trasmissione di video che è stata intercettata da hacker, proveniente dalla videocamera installata in un veicolo aereo militare non pilotato. Questo flusso di immagini è il filo che connette un operatore situato in una base militare negli Stati Uniti con il drone che dall’altra parte del mondo sorvola una zona di conflitto. Attraverso le informazioni che la videocamera capta si prendono decisioni letteralmente di vita o di morte. In questa infrastruttura composta da veicoli aerei non pilotati, lenti di videocamera, onde radio trasmesse da satelliti, sistemi di identificazione di movimento o di riconoscimento facciale, l’operatore umano è soltanto uno dei molteplici attori partecipi del processo di identificazione, valutazione ed esecuzione di ordini.
Forse il primo artista ad aver identificato e mappato il nuovo regime visivo emergente a partire dal XXI secolo è l’imprescindibile regista tedesco Harun Farocki. Farocki chiama “immagini operazionali” il tipo di immagini che emergono come sostituto dell’occhio umano, come parte del nuovo ordine tecnologico dell’era della visione artificiale. Per Farocki, le immagini non si limitano più a rappresentare cose nel mondo, e cominciano a “fare” cose nel mondo, a cambiare i rapporti che si instaurano al suo interno. Nella sua serie di tre opere “Eye / Machine” (20012003)” 18 Farocki traccia l’evoluzione dalla Guerra del Golfo in poi della telecamera come estensione della bomba intelligente, componente dell’architettura di distruzione che non comincia con la detonazione dell’esplosivo, ma con il sistema di identificazione visivo che etichetta, insegue e inquadra nel bersaglio. In altre opere, Farocki cataloga e racconta l’estensione delle immagini operazionali in ogni genere di ambito, dalle prigioni (Prison Images19 , 2000) al calcio professionistico (Deep Play20, 2007).
Se nell’era delle immagini operazionali le macchine guardano per prendere decisioni, l’oggetto osservato per eccellenza è il volto umano. Se il ritratto attraversa la storia completa della rappresentazione visiva, il corrispondente al ritratto nell’era della visione artificiale sono le applicazioni di riconoscimento facciale. L’obiettivo di queste applicazioni è permettere al sistema di capire che sta osservando un volto, e a partire da qui estrapolare diversi tipi di dati: l’età, il genere, la razza, o se la persona osservata è un individuo concreto. Si sono infiltrate in molteplici ambiti della quotidianità, dalle telecamere di videosorveglianza nello spazio pubblico fino all’applicazione che organizza le nostre foto sul cellulare.
Come guarda un sistema di riconoscimento facciale? Come disegna i contorni e i limiti della sua forma di percepire il mondo? Questa è stata una preoccupazione
18 https://www.harunfarocki.de/installations/2000s/2003/eye-machine-iii.html
19 https://www.harunfarocki.de/films/2000s/2000/prison-images.html
20 https://www.harunfarocki.de/installations/2000s/2007/deep-play.html costante dei nuovi esploratori della cultura visiva durante l’ultimo decennio. In “Face Cages”, (2012- 2014)21, l’artista statunitense Zach Blas ha prodotto una serie di maschere che riducono il volto di diversi modelli a un’astrazione geometrica: i lineamenti fondamentali che l’algoritmo cerca per riconoscere che, effettivamente, quello che sta osservando è un volto. In un gesto di resistenza inversa, Adam Harvey sviluppa in “CV Dazzle”22 un insieme di stili di trucco e acconciature che “disattivano” i sistemi di riconoscimento facciale, tracciando linee sul volto che lo rendono irriconoscibile alle videocamere che cercano facce da classificare.
La logica divoratrice dell’era del Big Data e del Machine Learning ha reso le collezioni di volti etichettati e classificati un elemento prezioso per le organizzazioni che sviluppano e realizzano tecnologie di riconoscimento facciale. Alla fine, come se si trattasse di un archivio di polizia, il modo in cui il sistema è capace di classificare una faccia all’interno di diversi parametri è paragonandola a migliaia di altri volti precedentemente classificati. Nel suo libro Atlas of AI: Power, Politics, and the Planetary Costs of Artificial Intelligence23 la ricercatrice esperta in Intelligenza Artificiale Kate Crawford ripercorre la lunga e complessa storia delle collezioni di immagini di volti utilizzate come strumenti di potere attraverso l’analisi fisiognomica o la cosiddetta sentiment analyisis, discipline che vogliono ascrivere qualità emotive a
21 https://zachblas.info/works/face-cages/
22 https://cvdazzle.com tratti facciali. Nella sua collaborazione con Trevor Paglen, “Training Humans”, una mostra per la Fondazione Prada di Milano24, Crawford disseziona la complicata storia di Imagenet, una collezione di immagini facciali utilizzata per addestrare sistemi di intelligenza artificiale con molteplici applicazioni. Le immagini contenute in Imagenet sono state classificate ed etichettate da lavoratori precari attraverso web di micro lavori, come il servizio di Amazon Mechanical Turk. Per Crawford e Paglen, in queste classificazioni di immagini di volti che proiettano giudizi morali su espressioni e fisionomie, risiede il pericolo di creare architetture della discriminazione, sistemi automatizzati di distorsione presenti in migliaia di applicazioni, i cui effetti possono influire sulle vite e i diritti della cittadinanza in modo grave. La domanda finale ovviamente è se l’era delle immagini operazionali, oltre a consolidare le forme di potere già esistenti, a progettare nuove forme di controllo sul corpo sociale, apra alcune possibilità nuove per l’emancipazione e la giustizia. La mia risposta personale mi porta a pensare a organizzazioni che, significativamente, hanno deciso di collocarsi nello spazio tra l’arte, la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’attivismo per i diritti umani. L’esempio per eccellenza sarebbe il lavoro di Forensic Architecture25. Nella cornice dell’Università di Goldsmiths sotto la direzione del famoso architetto e attivista Eyal Weizman, Forensic Architecture indaga sulle violazioni di diritti umani in zone di conflitto a
23 Kate Crawford. Atlas of AI: Power, Politics, and the Planetary Costs of Artificial Intelligence. Yale University Press, 2021.
24 https://www.fondazioneprada.org/project/training-humans/?lang=en
25 https://forensic-architecture.org partire dalla ricostruzione digitale della scena in cui sono avvenuti i fatti, e presenta queste ricostruzioni come prove in corti internazionali, come pezzi di giornalismo investigativo su quotidiani come The Guardian o The New York Times, o all’interno di mostre in centri d’arte contemporanea. La molteplicità di videocamere presenti in qualsiasi ambiente contemporaneo, dalla videosorveglianza ai video realizzati con gli smartphone dai testimoni dei fatti, offrono a Weizman e le sue équipe di forensi digitali molteplici punti di vista di una stessa situazione, come l’attacco di un drone o il bombardamento di una città. Con meticolosa cura, le registrazioni di tutte queste videocamere diverse – in molti casi provenienti dai social network – si intrecciano e si sovrappongono a un modello tridimensionale della scena e una sequenza temporale dell’avvenimento. Questa ricostruzione forense dell’evento può servire a stabilire una versione dei fatti che contraddica le narrative ufficiali e offra, attraverso la memoria digitale distribuita in dispositivi, memorie e data center, la possibilità di un antiracconto. Forse la nozione emergente dell’ipercamera, una possibile videocamera costituita da molteplici videocamere diverse, distribuite attraverso innumerevoli cittadini e in diversi punti nel tempo e nello spazio, ha un potenziale trasformatore che si sta cominciando a rivelare.
Saggi
Tavola rotonda [02] Creazione come lavoro Contro la precarietà
Marta Azparren
Milena García
Jorge Linares
Prekariart
Creazione come lavoro Contro la precarietà
Remedios Zafra
“Credo
IL RUMORE,
LA VELOCITÀ E LA RIPETIZIONE.
Sulla condizione operaia audiovisiva
Marta Azparren
Settembre 2021
“Crec que es tractava d’aixo, de que no pensessim”26
Lidia Ortega, ex operaia di fabbrica tessile Fabbrica di prodotti fotografici, 1897: si sta girando quella che sarà la prima sequenza proiettata della storia del cinema. Un portone grande sulla destra e una porta più piccola sulla sinistra incorniciano l’uscita degli operai, poco più di un centinaio e, in gran parte, donne. Come provano le tre versioni che i fratelli Lumière fanno di questa scena, non si tratta della registrazione di un’uscita spontanea dopo una giornata lavorativa, bensì le operaie e gli operai “rappresentano” suddetta uscita seguendo, probabilmente, istruzioni o ripetendo alcune indicazioni suggerite precedentemente. Louis e Auguste in quel momento dirigono sia il film che la fabbrica, pertanto è lecito immaginare che quel centinaio di operai ubbidisca a quelle istruzioni di movimento davanti alla telecamera con la stessa disposizione di altre relative al loro lavoro. E pur non avendo questa informazione, possiamo intuire inoltre che non abbiano ricevuto alcuna remunerazione per la loro partecipazione al breve filmato.
Fabbrica di creazione, 2020: “E non abbiamo un artista che ce lo faccia gratis?” Questa domanda è stata formulata durante una riunione tra gestrici culturali in un’antica fabbrica riconvertita in installazione culturale, in cui si trattavano questioni di budget e, più concretamente, relative alla creazione di contenuti audiovisivi per social network. Suddetta domanda è stata posta mentre a quel tavolo erano seduti due artisti che in quel momento stavano usufruendo della residenza di audiovisivi in suddetta istituzione.
Tra queste due scene trascorre poco più di un secolo, che corrisponde al tempo di storia della produzione di immagini in movimento. Che percorso ha seguito il rapporto telecamera/fabbrica perché l’artista/ creatore di immagini è passato dalla parte della regia alla parte dell’operaio dell’industria culturale?
Prima dell’invenzione del cinema, nel suo semino cronofotografico, Charles Fremont, uno degli assistenti di Marey, applicò l’analisi fotogramma per fotogramma del movimento all’ottimizzazione del lavoro per calcolare la traiettoria più efficace del martello del fabbro. Gilbreth e Moller filmarono 76.200 metri di pellicola 35 millimetri mettendo delle lampadine in mano agli operai di fabbrica e registrando, in immagini sia poetiche che pratiche, le partiture di movimento più efficaci per ogni attività. Le tecnologie che aiutarono a creare il cinema contribuirono al tempo stesso ad affinare lo sfruttamento del gesto ripetuto. Si potrebbe pensare che il cinema, dai suoi inizi e perfino prima, abbia posizionato la sua telecamera dalla parte dello sguardo del padrone della fabbrica, di quello della produzione. Con gli anni la telecamera girerà sul suo asse per puntare sul controcampo di quella scena fondativa davanti alla fabbrica Lumière: lo sguardo verso il lavoro.
“Ingrid Bergman venne in fabbrica un giorno e quando entrò apparve sul suo volto un’espressione di terrore sacro, come se stesse scendendo nell’inferno.”
Così descrive il regista Harun Farocki una scena del film di Roberto Rossellini Europa ’51; il momento preciso in cui il personaggio di Irene Girard, interpretato da Ingrid Bergman, guarda verso le porte della fabbrica in cui entrerà per trascorrere un’intera giornata alla catena di montaggio. Irene Girard è una donna dell’alta borghesia che, per aiutare un’altra donna in difficoltà, la sostituisce sul posto di lavoro per un giorno. Ciò che produce l’orrore nello sguardo di Irene non è altro che la contemplazione della grande bocca della fabbrica come un demone medievale che inghiotte centinaia di lavoratori verso l’inferno della ripetizione. La telecamera/sguardo del cinema, con delle origini tanto borghesi quanto quelle di Irene, accede finalmente alla comprensione dell’inferno reale della ripetizione fordista.
Hito Steyerl ci segnala che non è un caso che la prima scena del cinema sia l’uscita da una fabbrica; per lei, l’inizio del cinema coincide simbolicamente con quello dell’esodo degli operai dai modi e dagli spazi della produzione industriale. La telecamera ha accompagnato da allora quell’esodo con diverse percentuali di coinvolgimento. Con un percorso quasi simile a quello di Irene Girard dalla sua lussuosa casa del centro fino alla periferia più estrema, la telecamera ha transitato dallo sguardo dei padroni Lumière per tutti i percorsi possibili del rapporto con la fabbrica e il lavoro. Dallo sguardo paternalistico e compassionevole allo sfruttamento, passando per il crudo realismo, fino a cedere via via ai lavoratori l’autonomia della propria rappresentazione.
Dopo la proiezione del suo film À bientôt, j’espère, Chris Marker riunì le lavoratrici e i lavoratori della fabbrica Rhodiaceta de Besançon che avevano partecipato alle riprese. La critica reazione degli operai portò Marker alla decisione di cedere loro il rimontaggio del film e di stimolare la creazione dei Gruppi Medvedkine, in cui i lavoratori avrebbero realizzato dei documentari e dei notiziari tutti loro. In Numax presenta, documentario di Joachim Jorda del 1980, le operaie e gli operai in sciopero della fabbrica Numax investono le ultime 600.000 pesetas della loro cassa di resistenza alle riprese di un film in cui loro stessi, come protagonisti, avrebbero interpretato il reenactment delle loro giornate di lotta. La festa finale con cui concludono sia il film che lo sciopero appare come una chiusura tanto malinconica quanto simbolica dell’epoca di certe lotte operaie, la finedell’idea del proletariato e l’inizio della sua rappresentazione.
Come ad alzare un ultimo velo, la rivoluzione femminista avrebbe scoperchiato anche il denso bagaglio del nascosto lavoro domestico. Chantal Akerman in Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles o Martha Rosler in Semiotics of the kitchen, come tante altre, registreranno gli infiniti loop quotidiani dei gesti dell’assistenza. “Questi movimenti ripetitivi della fabbrica rendevano la vita una sorta di specchio, ripetere, ripetere, ripetere… La donna prima di me si dedicava alla casa, e allora anch’io…” ci dice Lidia Ortega, ex operaia di fabbrica tessile negli anni ’70 a Barcellona: ripetere un gesto è anche ripetere ruoli.
La particolare discesa agli inferi della telecamera finisce, pertanto, per cedere lo sguardo allo sfruttato, al soggetto che subisce il gesto ripetuto. L’operaia/o diventa cineasta, diventa artista. Il film Il cineamatore, di Krzysztof Kieślowski, ci mostra questa trasformazione in un modo estremamente lucido. Il lavoratore di un’impresa che compra una cinepresa per filmare sua figlia appena nata finisce per diventare regista di cinema amateur. Il fascino che suscita in Filip la capacità di captare la realtà attorno a sé, di emozionare, di prolungare la memoria dei morti, di denunciare… assorbe la sua vita a tempo pieno, allontanandolo dalla famiglia e dagli amici. La scoperta della “missione simbolica” della produzione di immaginario lo porta a distaccarsi da qualsiasi altra azione della propria vita. In un atto finale sublime, da solo, nella sua casa ormai vuota, punta l’obiettivo della cinepresa sul proprio volto come la canna di un fucile e spara (shoot) per rendere sé stesso il soggetto della sua osservazione e costruire il proprio racconto.
“Ma dove vengono condotti quegli operai? Nello spazio artistico, dove l’opera è installata.”
Hito Steyerl
La fabbrica Lumière dalla quale uscivano le operaie e gli operai di quel primo film è ora un museo del cinema e l’antico portone è stato trasformato in una porta d’accesso di vetro trasparente, decorato con un pannello su cui c’è il fotogramma con le sagome dei lavoratori. Quelle operaie e quegli operai di Lione tornano ora nella fabbrica trasformati in oggetto di contemplazione. Non soltanto la fabbrica fordista è diventata spazio di ozio culturale, ma la stessa industria culturale diventa museo di sé stessa.
Hito Steyerl ci parla di un nuovo operaio spettatore, quello che entrando nel museo comincia ciò che lei definisce il “lavoro di montaggio dello sguardo”. La dissolvenza realizzata dallo spettatore stesso che dota di senso la successione di stimoli/schermi guidati dal percorso dello spazio di esibizione. I bisnipoti di quegli operai di Lumière tornano ad accalcarsi alle porte trasparenti per entrare nelle fabbriche dell’industria culturale e riprendere la loro antica attività, riconvertita in un ozio trasformato.
Nel 1977, quasi un secolo dopo la scena dei Lumière, lo stesso Rossellini, che aveva filmato lo sguardo di orrore di Ingrid Bergman, dirige, in quello che sarebbe stato il suo ultimo film, una sequenza visivamente molto simile. Un gruppo di visitatori si accalcano trepidanti per, in questo caso, entrare nel recentemente inaugurato Centro Pompidou, un museo d’arte contemporanea disegnato come un’enorme fabbrica nel centro di Parigi. In questa sequenza, alcuni visitatori che entrano nel museo/fabbrica, al quale mancano ancora dei dettagli per essere ultimato in vista dell’inaugurazione, si fermano a contemplare come se fosse una delle tante opere del museo degli operai che saldano dei pezzi. L’illuminazione speciale per l’inaugurazione e il posizionamento degli operai al centro di una sala circolare, a un piano inferiore, conferisce alle azioni del loro lavoro una strana apparenza di rappresentazione teatrale che cattura l’attenzione degli spettatori che vagano per le sale.
All’architettura trasparente dall’estetica industriale del Centro Pompidou si ispirarono i disegnatori della Fabbrica Invisibile della Volkswagen, inaugurata nel dicembre del 2001, qualche mese dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Si tratta di uno stabilimento di assemblaggio di automobili, un grande capannone invetriato, con un pavimento di parquet canadese, illuminazione scenica e aperta a un pubblico che osserva ammirato il modo in cui operai vestiti con guanti e tute di un bianco immacolato producono la fase finale dei modelli di lusso della marca. Nei testi pubblicitari che ne annunciavano l’apertura si menziona la fabbrica come dimostrazione dello state of the art dell’industria automobilistica, espressione inglese che solitamente si riferisce all’uso della tecnologia che più eccezionale non si può, ma a che noi suona, nella sua accezione più letterale, come un autentico stato dell’arte. La fabbrica del primo mondo ha smesso di essere quell’inferno opaco e sinistro che inghiottiva Irene Girard e diventa uno spettacolo performativo a cui vale la pena di assistere. Non sarebbe assurdo immaginare certi spettatori che visitano nella stessa giornata e con identico interesse la fabbrica invisibile della Volkswagen e la Kunsthaus della stessa città di Dresda.
Che cos’è cambiato dallo sguardo d’orrore di Ingrid Bergman allo sguardo attento degli spettatori della Volkswagen? Che cos’è cambiato nella fabbrica da quando i suoi operai correvano verso l’uscita ai performer di lusso del 2001? Il movimento, la direzione del desiderio.
Per il personaggio di Irene Girard, Rossellini si ispirò a Simone Weil, che lavorò come operaia in officina negli anni 1934 e 1935; un’esperienza che cercò per mettere le sue teorie sulla condizione operaia a confronto con la realtà. Nel suo Diario di fabbrica, in cui mostrava con un’estrema minuziosità ogni singolo processo meccanico del suo lavoro e la progressiva degradazione dei suoi sentimenti di dignità, coscienza e stima a causa di un’attività alienante, scrive a proposito del desiderio: –Nella natura umana l’unica fonte di energia per compiere uno sforzo è il desiderio. Il desiderio è un orientamento, un principio di moto verso qualcosa. Il moto si dirige verso un punto nel quale non si è. Se il moto appena iniziato si ripiega sul punto di partenza, si rigira come uno scoiattolo nella gabbia, come un condannato nella sua cella. Rigirarsi senza sosta genera ben presto lo scoramento.– Nulla dunque sarebbe più estraneo al desiderio del gesto ripetuto.
Ma nel postfordismo, ci dice Franco Berardi Bifo, l’antica produzione industriale è passata a essere produzione immateriale, digitale, semiocapitalista. La catena di montaggio del desiderio si sposta da quell’eterna ripetizione industriale della fabbrica all’estrema differenza, alla specializzazione creativa. La produzione di valore è ora nella differenza, nella massima individuazione del semiolavoro; il desiderio si insinua nell’autorealizzazione attraverso il lavoro. Lo –sfruttamento dell’anima–, per usare le parole di Bifo, non è altro che l’attività mentale trasformata in capitale; tutta l’energia creativa e desiderosa intrappolata nell’autosfruttamento. Ora il contenuto del lavoro è immateriale e i limiti del tempo produttivo sbiadiscono.
Pochi anni dopo che Rossellini filmò i visitatori che entravano al Pompidou, l’artista taiwanese Tehching Hsieh realizzava la sua opera One year performance, in cui, vestito in uniforme, si scattava una foto all’ora per un anno. Hsieh alludeva già allora a un lavoro artistico impossibile da quantificare secondo i parametri lavorativi, in cui la produzione poteva estendersi senz’altro limite se non quello del desiderio e diluendo la già fragile frontiera tra la produzione artistica e la vita quotidiana. Arte come lavoro e lavoro come vita, senza separazione.
Ma questo modello dell’attività artistica come fusione di vita personale e lavorativa in un flusso illimitato, autoprodotto, impegnato come un’attività affettiva e in cui la precarietà non viene percepita sempre come valore negativo risulta al semiocapitalismo un paradigma interessante. Come sottolinea Lazzarato, le caratteristiche del lavoro contemporaneo portano il lavoratore ad adottare quelle che definivano l’attività artistica: i termini creazione e creatività avrebbero smesso di essere patrimonio esclusivo dell’ambito della creazione e sarebbero passate a far parte di tutto il corpo di lavoro. La tradizione di una certa immagine idealizzata dell’artista è stata sfruttata dal capitalismo postfordista per creare il profilo del nuovo lavoratore del primo mondo: flessibile, eternamente disponibile e autosfruttato. L’artista contemporaneo, dal canto suo, diventa operaio subappaltato precariamente dall’apparato della gestione (industria) culturale, che funge da filtro non soltanto delle risorse di terzi, ma anche di quello che la Grande Fabbrica Trasparente permette di vedere; che, proprio come alla Volkswagen, non è mai tutto il processo completo.
In una di quelle fabbriche di quelle zone gentrificate dagli artisti negli anni ’70-’80 e trasformate in spazi di produzione ed esposizione di prodotti culturali, si è aperto di recente un bando per residenze artistiche di creazione. Il bando, ampiamente condiviso sui social network, stabiliva un prezzo di 8 euro all’ora della ricerca artistica: una quantità che non sorprende tanto per la precarietà quanto per essere la prova schiacciante del valore che la stessa istituzione conferisce all’artista come lavoratore all’interno dell’ingranaggio dell’industria culturale.
Simone Weil credeva che esistessero almeno tre condizioni che rendevano impossibile il pensiero all’interno di una fabbrica: il rumore, la velocità e la ripetizione. Questi tre ostacoli sono familiari ai nuovi abitanti delle vecchie fabbriche, che sebbene lontani dalle terribili condizioni lavorative del fordismo, vediamo come si perpetuano antiche dipendenze, sfruttamenti del desiderio e sottomissioni, non tanto estranee (almeno in cadenza) a quelle conosciute da Simone Weil:
Rumore: “Il suono è talmente forte che copre la realtà”, spiega un operaio di fabbrica in un documentario sulla condizione operaia. L’immenso frastuono audiovisivo in cui siamo immersi e del quale la produzione con intenti artistici è soltanto una piccola parte, ci si presenta come una macchina insaziabile che va alimentata con una costante attualizzazione e con una costante richiesta. Quale può essere la necessità di apportare anche una sola altra immagine?
Velocità che è potere, come ci ricorda Virilio, e velocità di produzione ci richiede il semiocapitalismo che, come sottolinea
Bifo, si muove alla velocità del contagio, del virus… Allo stesso modo in cui la delocalizzazione è talmente rapida nelle fabbriche ancora fordiste che impedisce l’organizzazione di una qualsiasi lotta operaia, la velocità di produzione e di consumo del prodotto artistico rende impossibile qualsiasi capacità critica. Quale può essere l’apporto al tessuto culturale di progetti (che devono essere inediti) generati in residenze artistiche a scadenza brevissima come una settimana o quindici giorni, con l’esigenza di “devoluzione” sotto forma di esposizione?
Ripetizione non solo nel gesto dell’artista, quel compositore di dossier, nel suo loop infinito di progetto, processo, mostra, memoria e daccapo. Se non ripetizione di ruoli come costruzione identitaria da un modello di artista legittimato da una precarietà idealizzata, compensata dal privilegio di realizzare la propria attività artistica. Un movimento circolare del desiderio di essere come quello di cui parlava Weil nella catena di montaggio, quello che si chiude su sé stesso e rimanda in eterno la sua realizzazione.
Il diagramma potrebbe essere dunque il seguente: le fabbriche trasparenti sono diventate musei/teatri della performance del lavoro, in cui il lavoratore copia il modello di produzione/vita dell’artista; l’antica fabbrica viene quindi occupata dall’istituzione culturale, e nella sua catena di montaggio del desiderio, lavora uno spettatore autosufficiente e un artista che ha preso il testimone dell’operaio nell’industria della produzione di immaginario. Tutti, artisti/ operai e operai/artisti lavorano ora per la grande fabbrica trasparente immateriale globale del rumore, della velocità e della ripetizione e contribuiamo in un modo o nell’altro ad alimentare l’apparato di produzione collettivo audiovisivo in una misura proporzionale alla nostra cyber-visibilità. La differenza nel valore di scambio dei nostri rispettivi prodotti audiovisivi rimane nel filtro, sempre meno insormontabile, dell’istituzione culturale, che decide chi può essere mostrato sul parquet canadese illuminato e chi resta alle tute blu macchiate di grasso della periferia immateriale. Osservare criticamente quel filtraggio e i suoi dispositivi dovrebbe forse essere una delle più urgenti attività dell’arte. Ma è possibile quella contemplazione critica dell’istituzione quando da essa dipende la sussistenza di una gran parte degli artisti?
Tutto quel che si può fare, provvisoriamente, è il titolo di uno dei saggi sulla condizione operaia di Weil. La proposta sarebbe dunque intuire alcune possibili dissidenze del sistema attuale di autosfruttamento nella produzione artistica o, perlomeno, nel settore basato sull’individualismo e la competitività. Se, come afferma Bifo, il presente contiene la tendenza, si tratterebbe di scrutare questa tendenza nel presente. Potrebbe passare per il gesto di I would prefer not di Hsieh, l’artista di One year performance, che interrompe la sua produzione artistica nel 1999; oppure, forse, da strategie di disconnessione, come propone Zafra; o, magari, come l’operaio Charlot di Tempi moderni, l’operaio-artista, che con la sua velocità dissidente finisce per scombussolare quasi involontariamente la catena di montaggio. Nel frattempo, assumendo che non c’è un “fuori” e che ogni metamorfosi può venire soltanto dall’interno dell’ingranaggio, possiamo ripetere in loop, come uno dei tanti gesti, la formula brechtiana: non rifornire l’apparato di produzione senza allo stesso tempo trasformarlo, nella misura del possibile.
Con Adorno, pensiamo che nel piccolo squilibrio della ripetizione possa esserci una speranza.
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Filmografia
AKERMAN, Ch. (dir). Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles, 201 min. Paradise Films, UNITE 3, 1975.
BONFANTI, A; CEBE, P, La charnière, 13 min. ISKRA & SLON, 1968. [Audio documentario]
FAROCKI, H. (dir.). Arbeiter verlassen die Fabrik. 40 min. Harun Farocki Filmproduktion, 1995. [Film cinematografico].
JORDA, J. (dir.) Numax presenta..., 115 min. Asamblea de Trabajadores de Numax, 1980. [Film cinematografico].
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LUMIERE, L. (dir) La sortie des usines Lumière, 1 min. Lumiere, 1895. [Film cinematografico].
MARKER, C. ; MARRET, M., À bientôt, j’espère, 55 min. Iskra, Societe pour le Lancement des Oeuvres Nouvelles (SLON), 1968. [Film cinematografico].
MARKER, C. ; GROUPE MEDVEDKINE DE BESANCON, Classe de lutte, 40 min. Societe pour le Lancement des Oeuvres Nouvelles (SLON), 1969. [Film cinematografico].
NEUMANN, S., Historia del movimiento obrero, Canal Arte, 2020. [Film cinematografico].
ROSLER, M. Semiotics of the Kitchen, 6 min. Electronic Arts Intermix, 1975.
ROSSELLINI, R. (dir) Europa ‘51, 113 min. Ponti de Laurentiis, 1952. [Film cinematografico].
ROSSELLINI, R. (dir) Beaubourg, centre d’art et de culture Georges Pompidou, 56 min., 1977. [Film cinematografico].
Lungo respiro
Milena Garcia
Settembre 2021
All’arte sono arrivata tardi, quasi a 30 anni. Mi sono lasciata trascinare da ciò che ingenuamente ho interpretato come l’inizio di un percorso di gratificazioni. Non mi sono fermata a pensare alle implicazioni economiche. Vivo e lavoro in Nicaragua, il secondo Paese più povero dell’America Latina, dove il mercato dell’arte è quasi inesistente: forse sette gallerie (quasi tutte dedicate a vendere dipinti a banche e ad agenzie immobiliari) e un unico museo–collezione con alcune opere d’arte contemporanea. Ma di artisti ce ne sono sempre stati molti e di poeti non ne parliamo. Società premoderna, Stato totalitario. Posso ancora vivere e lavorare qui perché non mi dedico soltanto all’arte, e perché ciò mi permette di percepire dei guadagni che sono al di sopra della media. Da questa posizione privilegiata posso continuare a fare l’artista e a usare l’arte per studiare e provare a comprendere la violenza. Ma titubo. Riconoscermi e accettarmi come artista è complicato quasi quanto il mio rapporto con il Paese in questi giorni: migliaia di persone fuggono dalla rovina e io posticipo i miei piani di fuga, come se volessi vederla da vicino.
Artisti Ed Elettricisti
Ho raggiunto la maggiore età negli anni ’90, dopo la guerra civile e la sconfitta di una rivoluzione che istituzionalizzò la poesia. I libri di poesia, stampati su carta da giornale dalla casa editrice statale rivoluzionaria, si vendevano ancora a pochi soldi nei mercati e alle fermate dell’autobus. Mio padre amava la poesia e conservo ancora i libri della Editorial Nueva Nicaragua. Impressionata dall’archivio e la propaganda (Il sorriso del giaguaro di Salman Rushdie fu determinante) riempii quaderni di poesia dai 17 ai 25 anni.
Feci le mie prime opere con quelle poesie. Con una piccola telecamera filmai casa, letto, stanza, acqua, albero, cielo, strada, come alla ricerca di pagine nuove da scrivere. Con questi primi video (video-poesie, dicevo io) mi presentai a una biennale nazionale e con mia grande sorpresa (fu come la mia personale favola delle fate), non soltanto mi accettarono ma mi diedero pure un premio.
Emozionata per il riconoscimento (la collezione di arte contemporanea del Paese stava acquisendo i miei video) pensai che se avevo fatto qualcosa di abbastanza buono da vincere quel premio, forse potevo anche pensare di guadagnarmi da vivere con l’arte. Dopotutto, l’avevo già sperimentato con la mia prima carriera, il giornalismo: scrivendo e facendo interviste ero riuscita a diventare autosufficiente e perfino a versare i contributi.
Optai dunque per ripetere il ciclo: studiare, lavorare fino ad avere delle buone opere, concorrere a mostre e cercare riconoscimenti e retribuzione. Riuscii ad entrare in una scuola in cui avevano studiato artisti importanti. Nuovamente, che mi avessero accettato e dato una borsa di studio mi fece credere di poter vivere dell’arte. Ma dai primi mesi mi resi conto che la questione era più complicata. Il mio professore di storia del cinema, un artista brillante, oltre a impartire lezioni e a creare i suoi progetti, era tecnico video in un ospedale. Mi colpì sentire la mia tutrice, il cui nome appare nei libri di storia del cinema sperimentale degli Stati Uniti, darci il seguente suggerimento prima della laurea: conseguite una laurea tecnica, tipo da elettricista residenziale, con questo potrete guadagnare bene e, cosa più importante, avere tempo e pace mentale per lavorare ai vostri progetti.
Avendo già una professione e una traiettoria segnata, optai per riprenderla e specializzarmi in comunicazione e sviluppo. Grazie a questo sono riuscita a mantenermi. Con quello che guadagno con questa professione produco la mia opera e ogni tanto sussidio enti del mondo dell’arte che hanno istituzionalizzato l’odiosa pratica di non pagare le artiste e gli artisti che espongono.
Infantilizzazione E Povert
In 24 anni di vita lavorativa ho lavorato in diversi mercati o industrie: giornalismo, istruzione superiore, pubblicità, cooperazione allo sviluppo e arte. Il più precario e il più ingiusto è stato indubbiamente quello dell’arte. È stato l’unico settore che ho conosciuto in cui giorno lavorato non equivale a giorno pagato e in cui un prodotto presentato o esposto non sempre equivale a prodotto pagato.
Proseguo con gli aneddoti. Mi selezionarono per esporre in una biennale regionale. Gli organizzatori pagarono il biglietto aereo, una camera d’hotel in condivisione, e rimborsi spese per pranzi e cene. Seguii l’allestimento della mia opera, andai alle inaugurazioni, conferenze, scatti foto con colleghi e fui felice, come una studentella che portano in gita perché è la prima della classe. L’unico problema è che ero una donna di 37 anni, che aveva lasciato la sua casa per andare a lavorare in un altro Paese, che era stata fuori per più di una settimana e che era rientrata senza aver guadagnato un centesimo. Sono sicura che gli organizzatori, i curatori, le persone che lavorarono all’allestimento ricevettero eccome un onorario e poterono portare dei soldi a casa. Due cose dedussi da questa pratica:
1. Pensano che siamo (o vogliono che siamo) bambine e bambini per sempre; l’unico pagamento di cui abbiamo bisogno è la riaffermazione del nostro talento, che sentiamo che ci vogliono bene e che siamo importanti.
2. Pensano che siamo abituati a non guadagnare e cavalcano quest’abitudine affinché i redditi percepiti dagli altri attori del mercato si mantengano sempre i più alti possibile.
In 16 anni come artista ho venduto un disegno, due video e una videoinstallazione e soltanto in due occasioni ho ricevuto un pagamento o una tariffa per la mostra. L’arte è dovuta diventare dunque una carriera parallela o parassita.
A volte è estenuante. Primo perché bisogna lavorare comunque tutto il giorno e nei giorni di riposo continuare a lavorare. Secondo perché avere due lavori suscita dilemmi e preoccupazioni esistenziali: senso di colpa per non avere la stessa convinzione e dedizione di colleghi che si dedicano all’arte anima e corpo, nonostante le ristrettezze; insicurezza, perché se l’opera non è abbastanza buona forse è perché non ci dedico il cento per cento del mio tempo.
Potrei dire che il problema è il Paese, che il mercato in Nicaragua è troppo piccolo e limitato. Ma conosco eccellenti artisti a New York e San Francisco che sono stati costretti a cercare altre occupazioni per sopravvivere. Potrei anche dire che non sono molto brava a instaurare rapporti, o che non ho talento per partecipare a bandi e procurarmi incarichi. Ma accettare questo implicherebbe che non tutti i lavori meritano di essere remunerati, e che anche se lavorano tutti quanti, soltanto un gruppo illuminato, le stelle, hanno il diritto a una ricompensa.
Dopo La Pensione
Un altro aneddoto. Una curatrice venne a casa mia per conoscermi e vedere la mia opera. All’epoca ero in affitto in un appartamento in una casa grande, una sorta di condominio di campagna. La mia casa era la più piccola del complesso. Quando feci un commento sull’affitto e da quanto mi trovavo lì si sorprese. Aveva dato per scontato che la proprietà fosse dei miei genitori o della mia famiglia e che mi avessero ceduto l’appartamento per lavorare e vivere. In effetti quella era un’alternativa di vita e sussistenza per le artiste e gli artisti. Sono frequenti gli esempi di artisti che in mancanza di un mercato giusto ed equo devono ricevere appoggio da genitori, coniugi, fratelli, figli. Ci fu un periodo in cui anch’io valutai la possibilità di adottare questo schema di vita, ma furono proprio due colleghi con più esperienza a mettermi in guardia sull’altissimo costo che si paga seguendo quel cammino.
Un’altra possibilità era ottenere un posto di lavoro o un sussidio permanente dallo Stato. Questo può implicare, tuttavia, dover restituire il favore con militanza di partito e vedersi costretti a produrre propaganda. Nel 2018, nel bel mezzo di un’ondata di proteste anti-governative in Nicaragua, fu pubblicata una lettera in cui decine di artisti appoggiavano il Presidente, dissociandosi dalle rivolte. Tra i firmatari c’erano artisti lavoratori della scuola nazionale d’arte, di università statali e dell’orchestra nazionale.
A volte è inevitabile afferrarsi a punti di riferimento. Nei primi anni della mia pratica ebbi Chantal Akerman, Carolee Schneeman e Ana Mendieta. Ma con il passare del tempo, mi mossi verso Louise Bourgeois. Ne ho bisogno, perché la vedo luminosa e poderosa nella sua vecchiaia. A differenza della mia altra professione, in cui ho date di consegna, l’arte per me è una carriera di lungo respiro. Vedo con entusiasmo la vecchiaia e la pensione, per la possibilità di essere artista tutto il tempo e smettere di dividermi.
Dedicarmi unicamente all’arte sarebbe stato per me come lanciare una moneta in aria. Non l’ho voluto fare. Ho cominciato allora a erigere una colonna, per avere qualcosa a cui sostenermi. È ancora fragile ma mi ci aggrappo con forza. La cosa più pratica sarebbe continuare con l’altra mia vita, non investire neanche più un giorno in un qualcosa che non mi procura denaro. Ma la verità è che ho bisogno dell’arte per mantenermi critica e lucida. All’inizio ho detto che cercavo gratificazioni e le ho ottenute. La cosa più gratificante è stata il dialogo con colleghi e la formazione tra pari. In tutte le fasi, ho sempre conosciuto qualcuno con più strada alle spalle, disposto a insegnarmi. Concludo citando Gombrich: “Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti”.
Produzione audiovisiva/ Dall’America Centrale
Jorge Luis Linares
Settembre 2021
Le dittature militari hanno imposto una censura e una persecuzione totale, fino ad arrivare alla sparizione forzata e alla morte di individui con un’ideologia opposta a quella dello Stato guatemalteco, il che ha portato molti intellettuali all’esilio. Dopo 36 anni di guerra interna, si firma la pace, il 29 dicembre 1996; in Guatemala. Questo periodo storico è un punto di inflessione per la libertà di espressione nel Paese. Una volta firmata la pace, molti artisti ritornano e si verifica un auge nella produzione artistica in tutte le sue declinazioni. Gli artisti del dopoguerra che hanno vissuto gli orrori della guerra, cominciano a esternare nella loro opera questo peso emotivo e storico che hanno dovuto vivere in Guatemala e in esilio.
La mia formazione accademica nelle arti visive è stata tradizionale, ho studiato alla Escuela Nacional de Artes Plásticas (ENAP). Ho avuto la fortuna di studiare arte in un momento importante per la storia dell’arte guatemalteca. In questo processo formativo si è raggiunto un apice nella vita e nella produzione culturale del Paese; in tutte le arti, prodotto della firma della pace e il ritorno alla democrazia. In questo periodo, mi sono precocemente immerso nella vita culturale della città; con i miei compagni studenti ho visitato esposizioni, concerti, opere di teatro e danza. Ho cominciato a vedere cinema non commerciale e mostre nel circuito dell’arte, ho iniziato a vedere più spesso video arte, in particolar modo video performance o documentazione di una performance, il video come registrazione documentaria. In pochi casi, video in cui si indagasse sulle esplorazioni audiovisive, in cui si approfondissero le possibilità e le estetiche, all’interno delle potenzialità o dei limiti dei processi analogici.
Nel 1998, si presenta il primo festival di Cine Icaro, evento che ha promosso la produzione audiovisiva del Guatemala e dell’America Centrale. Questo festival è cresciuto nel tempo, sostenuto da Casa Comal; giunto ormai a 24 edizioni ha ampliato le proiezioni a tutta la regione centroamericana. Questo evento unisce i Paesi centroamericani tramite la produzione audiovisiva e la cultura. In tutta questa esplosione di progetti creativi, i creatori del dopoguerra cominciano a organizzarsi dalla controcultura, fondano spazi indipendenti in cui poter sperimentare nuove forme di esposizione e gestione culturale; un evento importante in quel momento è stato appropriarsi dello spazio pubblico, l’attivazione artistica e culturale di questi spazi. Tutto questo movimento si cristallizza con il Festival de Octubre Azul nell’anno 2000.
Lì si sono potuti apprezzare interventi di teatro, danza, letteratura, pittura murale, performance, azioni, dibattiti e concerti.
Le strade si sono trasformate in uno scenario multidisciplinare. Della generazione di Octubre Azul, spiccano due artisti molto importanti per l’arte in Guatemala: Regina José Galindo (1974) e Aníbal López (A-1 53167) (1964-2014). Gran parte della produzione di questi artisti è opera performativa, azioni e interventi nello spazio pubblico, tramite la fotografia e il video analogico come registro documentario.
All’epoca c’era un grande dibattito tra gli artisti e gli intellettuali, ci si chiedeva se il video, le installazioni, la performance, le azioni nello spazio pubblico fossero legittimamente delle opere d’arte. Queste posizioni venivano prese sempre da conservatori che, ai convegni o dibattiti di arte contemporanea, mettevano in discussione questi mezzi di espressione.
Nel contesto centroamericano, va menzionato il concorso Inquieta Imagen (ii) che è un programma del Museo de Arte y Diseño Contemporáneo di Costa Rica (MADC), nato nel 2002; inizialmente, per incentivare la video creazione: video-arte, video performance, video-danza, video-installazione, web-art, opere interattive con computer, etc. Questo concorso è nato con l’obiettivo di allargare le arti visive contemporanee ad altre aree su cui ancora non si lavorava nella regione centroamericana e dei Caraibi. Sin dagli inizi, si è rivolta ad artisti con proposte nuove, inserite in un contesto locale per una proiezione regionale e internazionale.
Mi sono avvicinato alla fotografia statica con un corso della ENAP, con una macchina fotografica professionale analogica Canon AE-1, ho lavorato con questo mezzo e ho esplorato le possibilità che la fotografia mi metteva a disposizione. Una volta laureato alla Escuela Nacional de Artes Plasticas (ENAP) ero interessato a studiare cinema, passare all’immagine in movimento, ma non esisteva in Guatemala questo corso universitario e non avevo le disponibilità economiche per studiare all’estero e tantomeno avevo accesso a una videocamera analogica e attrezzatura per poi editare quel materiale. Nel 2005 ho avuto l’opportunità di seguire dei workshop di produzione cinematografica e di stesura di sceneggiature cinematografiche a Casa Comal. Nel 2006-2007 ho lavorato per Studio C, l’unico studio nella regione che lavorava a progetti di effetti speciali per Hollywood, fondato dal guatemalteco Carlos Argüello
(1963-2001). Ho cominciato in questo lavoro come disegnatore artistico: disegnando scenari, personaggi e storyboard; in questo lavoro ho imparato a digitalizzare, a vettorizzare e a ritoccare fotograficamente i miei disegni. Ho imparato in questo studio i processi di produzione di materiale audiovisivo ed effetti speciali per cinema e televisione. Nel mio computer non entravano altri programmi di editing video, modellazione e animazione tridimensionale. Per questa ragione mi sono dedicato all’animazione vettoriale, grazie a Internet, sono riuscito ad accedere a dei tutorial. A questo punto ho cominciato a fare ricerca e a imparare per conto mio. Ho lavorato a piccole animazioni con narrative semplici che funzionavano in loop, con un computer e una tavoletta grafica di fascia bassa, aiutandomi con un programma per l’editing vettoriale, un editor di immagini e un programma di animazione 2D.
Una tappa importante nella produzione audiovisiva a livello mondiale è stata la progressiva transizione dall’analogico alla tecnologia digitale. Le prime macchine fotografiche e video digitali non potevano competere con la qualità dell’analogico, ma gradualmente hanno guadagnato in qualità e praticità, fino a primeggiare nel mercato per tutti i vantaggi tecnologi offerti dall’era digitale. Questa tecnologia è diventata anche via via più accessibile. Iscrivendomi alla Facoltà di Architettura della Universidad de San Carlos (USAC) nel 2007, ho sperimentato la transizione dall’analogico al digitale e con un computer migliore, da autodidatta, ho cominciato a cimentarmi con programmi di modellazione tridimensionale, editing video e di suono; ho trovato negli strumenti digitali un modo per affrontare la mia produzione audiovisiva, in mancanza di uno studio e avendo a disposizione uno spazio limitato. Senza quasi rendermene conto sono diventato un artista digitale, il che mi ha aperto un mondo di possibilità, potevo lavorare su una foto o un video e lo potevo mandare via Internet in qualsiasi punto del mondo, il che ha aiutato a diffondere la mia opera a livello internazionale.
In parallelo alla mia carriera come artista studiavo Architettura, e inevitabilmente sono stato influenzato da concetti architettonici e urbanistici; ho cominciato ad approcciare la concettualizzazione del mio lavoro da una prospettiva diversa; mi sono focalizzato su temi come: gli edifici in rovina, le costruzioni precarie che affollano la periferia, il trasporto pubblico e le costruzioni dissonanti; la mancanza di pianificazione urbana che si riflette nel caos della Ciudad de Guatemala. A questo punto ho cominciato a noleggiare un’attrezzatura professionale di video digitale per girare i miei primi progetti di video-arte (con una qualità migliore). Ho intrapreso una serie di sperimentazioni, a ogni nuovo video imparavo nuove tecniche e metodi di animazione ed effetti digitali. Questo mi è costato tante notti in bianco, dovevo impegnarmi nei miei studi di architettura e rispettare i miei impegni come artista. Mentre disegnavo piantine a mano, lavoravo su modelli e altri lavori accademici, simultaneamente facevo Render, che impiegavano diverse ore a processare.
Tante volte andavo all’università senza aver dormito. Con il tempo ho ottimizzato i parametri di animazione e ottenevo buoni render in meno tempo, un processo di prova ed errore. Ho imparato molto di più dai miei errori che dai miei traguardi.
Sono pochi gli artisti della regione che si dedicano esclusivamente alla video arte, la maggior parte degli artisti utilizza diversi mezzi, e il video è uno dei tanti strumenti di espressione. Ci sono altri gruppi di artisti che si concentrano sulla produzione di video arte di grande qualità concettuale e formale. Mi piacerebbe sottolineare il lavoro di Donna Conlon (Atlanta, 1966) & Jonathan Harker (Quito, 1975), un collettivo formato nel 2006 a Ciudad de Panama. “I loro video e installazioni utilizzano le proprietà degli oggetti scartati per trattare la conformazione delle identità, il consumismo, l’accumulazione di scarti e il clima”. Nei loro video possiamo apprezzare una grande qualità nel trattamento dell’immagine e del suono nella sua opera audiovisiva. Menziono anche il lavoro dell’artista guatemalteco Naufus Ramirez Figueroa (1978) che vive e lavora tra Berlino (Germania) e Ciudad de Guatemala. Ha usato nella sua carriera il video in molte delle sue opere, “esplora temi come La guerra civile guatemalteca, 1960 – 1996, è un tema ricorrente nella sua opera che, malgrado un approccio umorisitco e assurdo, non riesce a occultare la forza della storia che lo procede”. Infine, vorrei risaltare il lavoro di Manuel Chavajay, (Solola 1982), artista tz’utujil originario di Solola, Guatemala, diplomato alla Escuela Nacional de Artes Plasticas (ENAP). “La sua opera si basa sulla storia dei popoli originari del Lago de Atitlán”.
L’artista ha una serie di video molto interessanti e con un’estetica molto complessa a livello concettuale e con un grande riconoscimento storico dei popoli originari.
Molti realizzatori della regione lavorano con l’audiovisivo per la necessità di esprimersi con questo mezzo fantastico. Nell’America Centrale non esistono fondi pubblici o privati che fomentino o finanzino la video creazione. Ci sono spazi di diffusione come il festival Icaro, il concorso Inquieta Imagen e la Bienal Paiz, che sono piattaforme e punti di riferimento che nel corso degli anni hanno scommesso sui nuovi media nella regione. Molti artisti del video non vivono della produzione di audiovisivi. Spesso hanno altri lavori, o lavorano con video commerciali o istituzionali. Sono pochissimi i realizzatori che vivono della video arte o della produzione cinematografica.
A causa della pandemia, in Guatemala i musei, le gallerie e i centri culturali hanno cancellato agende e hanno reimpostato le attività con capienza controllata e realizzando attività in via telematica. Gli artisti continuano a produrre malgrado la situazione del Paese, ma i mezzi di diffusione sono cambiati. Personalmente, a causa della pandemia dal 2020 sono stati cancellati progetti a cui avrei partecipato, ma si sono anche aperti nuovi formati di esposizione, come proiezioni nello spazio pubblico e mostre virtuali.
Anche se negli ultimi anni vediamo sempre più video arte prodotta principalmente da artisti giovani, all’interno del circuito dell’arte contemporanea c’è una maggiore accettazione e diffusione di queste pratiche artistiche: la Bienal de Arte Paiz è stata, nelle sue ultime edizioni, una buona vetrina sia nazionale che internazionale, giacché ha incluso la video arte e le video installazioni, presentando video arte di artisti nazionali e internazionali di riconosciute traiettorie. Sono ben pochi i collezionisti che comprano video arte o video installazioni, non possiamo parlare di un mercato nella regione che consumi questi prodotti culturali.
Il contesto del Guatemala per gli artisti visivi è complesso, pochi artisti vivono di arte, molti si dedicano alla docenza o hanno altre occupazioni. Ovviamente ci sono delle eccezioni, esistono artisti molto riconosciuti che vivono di arte, che risiedono all’estero, che sono regolarmente rappresentati da gallerie internazionali, che presentano il loro lavoro in fiere d’arte, festival e biennali in tutto il mondo. La maggior parte degli artisti produce per la necessità di esprimersi, essere artista in Guatemala è un atteggiamento di resistenza, più che di interesse economico. Al Paese mancano fondi sia pubblici che privati per promuovere l’arte attraverso borse di studio o stimoli alla produzione. Negli ultimi anni sono sorti spazi indipendenti che si aprono per le mostre; ma nello stesso posto si trovano ristoranti o bar che sostengono economicamente lo spazio e rendono fattibili questi modelli di autogestione. Non dipendendo dalla vendita di opere d’arte, possono esporre progetti d’arte non necessariamente commerciali e appoggiano artisti giovani e dalle carriere consolidate.
Voglio infine riflettere sul futuro della produzione audiovisiva in Guatemala e negli altri Paesi dell’America Centrale. Attualmente sono state superate molte carenze grazie al mondo globalizzato e all’era delle telecomunicazioni; questo apogeo tecnologico permette agli artisti digitali e audiovisivi di mostrare il loro lavoro su piattaforme virtuali in giro per il mondo alla velocità della luce. Stiamo vivendo un momento molto interessante, il modo di creare arte e progetti audiovisivi cambia costantemente; disponiamo di un ampio spettro di possibilità che gli strumenti digitali ci offrono, gli artisti nel corso della storia si sono adattati ai nuovi media, che si aggiungono o si fondono con altre tecniche o piattaforme in cui si possono presentare nuovi modelli per fare arte.
Continuare a creare in condizioni avverse.
Nuovi vecchi problemi e possibilità per il cambiamento.
Concepción Elorza Ibáñez de Gauna
Itziar Zorita-Agirre (Prekariart)
Settembre 2021
INTRODUZIONE
Il seguente testo si struttura attorno alle questioni chiave che ci sono state comunicate insieme all’invito a partecipare a questo dibattito sulla creazione come lavoro. Al fine di fornire tramite la nostra partecipazione una chiara esposizione della ricerca svolta all’interno del Proyecto PREKARIART e del Grupo GizaArtea1, la stesura di questo testo si organizza attorno a quattro assi centrali: Chi crea? Come crea? Quali difficoltà riscontra? Quali contraddizioni riscontra nella sua pratica, nella considerazione del suo fare come lavoro retribuito, nella sua diffusione, nell’habitat della rete, nei circuiti artistici?
CHI CREA?
Una delle difficoltà che tendono a complicare la già di per sé complicata situazione delle artiste e degli artisti e, in generale, della comunità dei lavoratori della cultura, è la non corrispondenza tra formazione ed esercizio professionale. Vale a dire che non è artista per definizione qualsiasi persona istruitasi in una facoltà d’arte o in un’altra istituzione educativa. Di fatto, non è definito chiaramente che cosa permette di concepirsi o essere concepito all’interno della definizione di artista. La cornice di riferimento viene sostenuta da una serie piuttosto vaga di fattori che confluiscono e che in un qualche modo, congiuntamente, permettono di profilare certi tratti corrispondenti a ciò che intendiamo per artista professionale. Ma suddetta confluenza in nessun modo permette di stabilire una chiara mappa di creatori e creatrici. Marta Pérez Ibáñez e Isidro López-Aparicio fanno riferimento a questa problematica sia nella tesi di dottorato della prima come nelle pubblicazioni congiunte, in cui si raccolgono diverse forme di categorizzazione per artisti e stabiliscono una definizione che applicano nel contesto della loro ricerca (Marta Pérez Ibáñez e Isidro López-Aparicio, 2018; Pérez Ibáñez, 2018; Pérez Ibáñez e López-Aparicio, 2017). Riterrebbero necessario poter disporre di un censimento di artisti, per potersi avvicinare in modo più preciso alla realtà della situazione professionale.
Un’altra questione importante di cui tenere conto per quanto riguarda la possibilità di essere identificato come creatore ha a che vedere con i circoli di riconoscimento ai quali spesso si fa riferimento (Bowness, 1990; Heinich, 2002). Sebbene con variazioni in funzione di quanto proposto da diverse voci, abitualmente si enfatizza il fatto che l’artista può capire di esserlo realmente solo quando gli o le viene dato il consenso necessario tra diversi agenti, tra i quali si segnalano come prioritari il proprio collettivo di artisti, chi esercita la critica, l’organizzazione di mostre o la direzione di musei, e agenti nell’ambito del collezionismo e la compravendita. In ultima istanza apparirebbe il riconoscimento del pubblico. Tuttavia, Vicenç Furió (2012), tra altri ricercatori, ci ha insegnato che la fortuna critica degli artisti – nonché la loro postuma reputazione, anche se questo ora non è pertinente – è estremamente altalenante, sebbene una volta costruita la Storia naturalizziamo gli stati di riconoscimento di artisti consacrati. Questo autore segnala anche, fornendo dati concreti, l’importanza cruciale – determinante nella costruzione di una carriera di successo – di poter contare su appoggi potenti nel mondo del collezionismo e della critica, realtà abbondantemente conosciuta da chi svolge il proprio lavoro nel campo dell’arte. Il talento non è tutto, un grande peso di quel possibile successo oscilla attorno alle relazioni.
Pertanto, per quanto riguarda la domanda su chi crea, riteniamo necessario apportare altre sfumature, poiché sarebbe opportuno dire che per creare non basta la volontà di farlo ma sono necessarie una serie di circostanze materiali che permettono a tal desiderio di svilupparsi. In un certo qual modo, inoltre, producendosi spesso la creazione in avverse condizioni, forse dovremmo dire che chi crea è quella persona che ha la capacità non soltanto di arrivare (a essere artista) ma anche a rimanerlo nel tempo.
In tal senso, vogliamo fare riferimento a un’opera di Cristina Garrido che è stata inserita nella mostra curata dall’équipe PREKARIART, dal titolo Problemas en el Paraíso (2021). Questa installazione, alla quale Garrido ha messo il nome di El mejor trabajo del mundo, è integrata da testimonianze di artisti che hanno ottenuto un grande riconoscimento a un certo punto, ma che hanno dovuto abbandonare la carriera in risposta a diverse situazioni economiche, sociali, personali, o per motivi associati al riconoscimento e all’accettazione da parte del sistema dell’arte. L’installazione nella sua complessità espone molti dei segreti e delle contraddizioni di questo sistema ed evidenzia l’enorme dignità e presa di coscienza della loro collocazione da parte della serie di artisti che intervengono. Segnala comportamenti acquisiti e carenze e diventa uno strumento di primaria importanza per la messa in discussione del campo artistico.
Parallelamente, sono numerosi gli studi che indicano la necessità di un forte supporto economico per continuare a creare e si constata, da un lato, che sono gli artisti i loro stessi mecenati, e dall’altro, che la provenienza da classi sociali agiate è ciò che permette di dedicarsi ad attività creative e perdurare nella professione. Di fatto, come si segnala nella rivista The Stage (Masso, 2020) legata all’industria del teatro, l’intrattenimento e le arti sceniche nel Regno Unito, soltanto il 16% delle persone che si dedicano a lavori creativi fanno parte della classe lavoratrice. Pertanto, la rivista riporta uno studio del PEC (Creative Industries Policy and Evidence Centre), condotto da Nesta (agenzia di innovazione del Regno Unito per il bene sociale), che ha evidenziato “squilibri di classe generalizzati” nelle industrie creative (Carey, Florisson, O’Brien, Lee, 2020). In questo modo si dimostra che un importante sostegno economico è fondamentale per la permanenza, la resistenza, e queste a loro volta risultano imprescindibili per il consolidamento dello status acquisito. Non a caso, secondo Bowness, servono 25 anni per ottenere il riconoscimento pubblico.
Qualcosa di simile puntualizzava Ismael Manterola (2021) relativamente all’esposizione a cui facevamo precedentemente riferimento. Chi pretende di sviluppare una carriera come artista non parte da opportunità uguali. È un dato di fatto che molte artiste e molti artisti con traiettorie riconosciute e consolidate provengano da famiglie con una certa agiatezza economica. Pertanto la mappa di chi si dedica ad attività creative è molto diversa, proprio come lo sono le circostanze e le possibilità. Crea non soltanto chi è, ma, e forse soprattutto, chi sta, e quello stare risulta spesso molto difficile.
Ovviamente, tutti questi fattori condizionanti che definiscono l’eterogeneo ecosistema della creazione contemporanea influiscono anche sugli artisti che incentrano la loro pratica sulla video creazione. E il fatto è che il concetto stesso di video creazione, video arte o arti basate sul tempo, sono termini che sfumano nell’attuale panorama digitale e interconnesso e in cui il mezzo audiovisivo attraversa molteplici spazi sociali e culturali, superando abbondantemente l’impulso controculturale e alternativo degli inizi negli anni ’60-’70. Nel lavoro di molti artisti è comune anche l’utilizzo di diversi media in funzione delle necessità delle loro proposte, di modo che transitano per diverse discipline e modi di fare. Accanto a questa indefinitezza di ciò che abbraccia la creazione di video, è opportuno aggiungere che tutto il processo di democratizzazione delle tecnologie audiovisive mette in discussione la figura dell’artista come soggetto privilegiato per la creazione e la rappresentazione di immagini. Pertanto, quell’indefinitezza di ciò che è essere artista, unito all’era di Internet, sembra influenzare più intensamente quei creatori e quelle creatrici che scelgono il mezzo audiovisivo come spazio per la loro pratica artistica.
COME LO FA?
La pandemia ha reso di nuovo visibile il carattere di atto essenzialmente di dedizione alle pratiche artistiche. A volte con risorse minime, sfidando i limiti dello spazio domestico. Si sono condivisi contenuti senza chiedere nulla in cambio, per il piacere di dare. Ma dobbiamo essere coscienti del carattere eccezionale di quella dedizione. Non dobbiamo dimenticare l’importanza di pretendere la necessaria attenzione e cura nei confronti della cultura e della creazione. Se la cultura ci ha salvato in momenti difficili della solitudine, della tristezza e della disperazione, lei a sua volta deve essere supportata con strutture solide, con budget importanti, con un sostegno istituzionale senza crepe.
In questo contesto pandemico, dove l’interrelazione si è realizzata principalmente attraverso la rete, il video diventa il mezzo artistico che meglio si adatta a questa situazione di distanziamento sociale. La rete, di per sé satura di immagini, sperimenta un aumento esponenziale dell’audiovisivo, sia attraverso le videoconferenze che con l’incremento della produzione. Una produzione audiovisiva in cui l’autorappresentazione e l’esibizione degli spazi privati hanno messo in rilievo l’emancipazione tecnologica dei creatori audiovisivi amatoriali.
QUALI DIFFICOLTÀ RISCONTRA?
Non siamo ingenue, sono molte le difficoltà. La situazione che abbiamo descritto nel precedente paragrafo non è esente neanche dell’influenza delle disuguaglianze. Ci è assolutamente chiaro che se, come si è detto, la pandemia attacca indifferentemente gli uni o le altre, la situazione di lockdown dovrà risultare necessariamente più angosciosa, più problematica, e anche più pericolosa in un mini appartamento di pochi metri che in uno spazio ampio. Allo stesso modo, c’era un enorme ventaglio di diverse situazioni per quanto riguarda infrastrutture, materiali e risorse dietro alle creazioni che congiuntamente ci sono arrivate sotto l’ombrello di produzione realizzata durante l’isolamento. Produzioni che in un gran numero sono state audiovisive.
D’altro canto, la minaccia della chiusura di infrastrutture, del drastico taglio ai budget, della cancellazioni di programmazioni, dei passi indietro rispetto a quelle buone pratiche raggiunte tanto a fatica, del cambio di destinazione di voci di bilancio, in altro tempo legate a istruzione o mediazione, che allargavano la raggiungibilità del fare artistico, aprendolo a diverse comunità… le stesse minacce che conosciamo così bene, perché per certi versi non ci hanno mai abbandonato, tornano a oscurare l’orizzonte delle possibilità di sviluppo futuro di pratiche artistiche.
Ma tornando alla creazione, la situazione di pandemia ha accentuato anche differenze e l’abisso tra i generi. Non a caso, la disparità di genere sarà presente nella capacità di sopravvivenza a cui precedentemente alludevamo. Da diversi studi e approcci (Blas Brunel, 2014; Aliaga e Navarrete 2017; Pérez Ibáñez, 2019, Zafra 2019) si segnala che l’abbandono della carriera artistica è più frequente tra le donne ed è possibile dedurre che questo abbandono potrebbe avere molto a che vedere con l’assistenza. Di fatto la disparità di genere sarebbe risultata differenziale in fasi precedenti della carriera artistica, dato che, con le parole di Lourdes Mendez (2014):
Abbondano le dita di una mano per contare quanti, dalla loro posizione nel secondo cerchio di riconoscimento teorizzato da Bowness [quello riguardante la critica e la curatela e che in questo modo genera il linguaggio e il dibattito capace di stabilizzare la reputazione di una/o determinata/o artista] stanno contribuendo a creare quel linguaggio verbale che, incorporando gli artisti, raggiunga un consenso critico sul quale possa consolidarsi la loro reputazione.
Pertanto, sebbene avanziamo ogni giorno in presenza e capacità di enunciazione – e tutte dobbiamo assumere responsabilità dal nostro spazio, affinché quel processo non si fermi ma anzi si moltiplichi, come succede al tavolo che condividiamo – resta ancora molto da fare.
QUALI CONTRADDIZIONI RISCONTRA NELLA SUA PRATICA, NELLA CONSIDERAZIONE DEL SUO FARE COME LAVORO RETRIBUITO, NELLA SUA DIFFUSIONE, NELL’HABITAT DELLA RETE, NEI CIRCUITI ARTISTICI?
La nostra ricerca ci ha messo in contatto e reso partecipi, in gran misura, di una nuova consapevolezza che vogliamo valorizzare. La piena conoscenza delle difficoltà non può intendersi in ogni caso come sinonimo di sottomissione. Molti e molte artisti e agenti ne stanno facendo un punto di partenza per la presa di decisioni, per l’azione. La precarietà può essere un asse trasversale a posizionamenti che la integrano come risorsa, come luogo di enunciazione, di modo che può divenire produttiva. Lo vediamo nelle pratiche che, senza rinunciare a una giusta retribuzione, prospettano attitudini altre rispetto al sistema dell’arte. Si tratta di modi di agire collettivi da strutture che si riconoscono in un impegno con le comunità; artisti e agenti che stanno ridefinendo i circuiti artistici e generando nuovi sistemi. Ci sono diversi modi di fare nella precarietà, diverse pratiche che cercano un modo desiderato di essere instabili, partecipate, non autoriali, situarsi ai limiti ed espandersi ad altre sfere al di là del contesto artistico. Pratiche che fanno spesso uso di spazi non centrali e si basano su strutture e infrastrutture lontane dal modello più solido e impositivo dei centri mainstream. Si affrontano dalla multi e dalla interdisciplinarietà. Sono attraversate dalle ricerche femministe e postcoloniali. In mancanza di termini migliori parleremmo di estetiche o poetiche fragili o precarie. Crediamo nel potere di quelle estetiche che stanno tracciando nuovi profili della creazione artistica e provocando l’incontro e la complicità di molteplici agenti.
Nel caso della video creazione, nello specifico, da un lato spicca il suo carattere ibrido e indefinito, e dall’altro l’accessibilità di oggi per la sua produzione, realizzazione e diffusione. Entrambi gli aspetti non fanno altro che sottolineare le contraddizioni tra il collezionismo e/o logica di opere uniche e la natura del mezzo digitale che già individuava Walter Benjamin nel suo noto saggio sull’era della riproducibilità tecnica dell’arte. Nell’attuale cultura digitale, un mezzo come il video la cui idiosincrasia rifugge l’oggettuale, la nozione di opera unica, e che non impone limiti tecnologici alla sua riproducibilità, apre la possibilità per ripensare il circuito della diffusione dell’opera visiva.
Un’altra delle svolte che ancora si presta a continuare a evolversi e a offrire alternative al modello culturale, è il fatto che la legittimazione dell’artistico non proviene più soltanto da un riconoscimento da parte della critica, il collezionismo, l’istituzione culturale, i festival e i collettivi di artisti, ma deve anche piacere in rete, dev’essere visto, condiviso e commentato su siti web e social network. Un modello di funzionamento che premia la diffusione e la riproduzione senza frontiere. Ma rispetto a questo doppio filo della “apparente” libera distribuzione e la saturazione di immagini, la creazione di video dovrà enfatizzare il suo carattere dirompente per generare spazi di discussione critica rispetto al potere o i poteri stabiliti. Il suo vantaggio, a differenza di altri mezzi o linguaggi artistici, è che malgrado il suo carattere liminale, è capace di permeare in altre aree, andare oltre il contesto artistico e profilare nuovi circuiti che superino i canali tradizionali del sistema dell’arte.
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Questo lavoro si inserisce nelle ricerche svolte dall’équipe del Proyecto Prekariart della Universidad del País Vasco/Euskal Herriko Unibertsitatea UPV/EHU, finanziato dal Ministerio de Economía y
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Diálogos Críticos arte/sociedad. El arte contemporáneo como espacio de conocimiento, laboratorio de lo social, dispositivo y realidad (ref. GIU18/153).
Saggi
Tavola rotonda [03]
Voci e culture registrate
Ripetizione e differenza
Iris Lam Chen
Estibaliz Sádaba Murguia
Gladys Turner Bosso
Voci e culture registrate
Ripetizione e differenza
Remedios Zafra
Interpretazioni molteplici di una finestra sull’esterno (e sull’interno)
Iris Lam Chen
Agosto 2021
È un dato di fatto che la tecnologia porti con sé una serie di sfide e adattamenti delle dinamiche umane, alcune delle quali divengono oggetto di esclusione, mentre altre seguono un qualche istinto gregario come la società che siamo. Nel contesto di una virtualità accelerata dalle condizioni pandemiche, la proliferazione di festival e mostre di video sono prodotto della democratizzazione tecnologica e, a sua volta, è promotrice di un certo accesso ugualitario alla cultura visiva. Avere a portata di mano una videocamera e produrre video – che qualche anno fa si sarebbe potuto considerare un privilegio – nonché possedere uno schermo e la possibilità di consumare questo video, è una realtà globale che non lascia fuori il mondo dell’arte. “Riattivando videografie” ne è un esempio perfetto.
Anche se la democratizzazione di qualsiasi oggetto o servizio in quanto tale può portare con sé diversi benefici, nel caso della foto e del video – inteso tecnicamente come la riproduzione di fotogrammi al secondo – ha generato un deprezzamento nel senso, nel significato e nell’importanza che hanno le immagini per chi le osserva. La riduzione più che significativa nel costo di un’istantanea, del “rullo” e dell’immagazzinamento, sono motori della sovraesposizione all’immagine e questo è inesorabilmente legato alla facilità della sua caduta nel meaningless. Tenendo conto che la media è la somma dei valori di ogni unità divisa per il numero totale di unità, indiscutibilmente l’importanza media che una persona conferisce a un’immagine è minore del ritrovarci saturati da immagini ovunque.
Enfatizzando gli effetti positivi, questo facile accesso alla produzione di immagini dà la possibilità di cogliere molteplici prospettive, dall’arte e dalla “non-arte”.
Ammette l’osservazione da molte angolazioni e svariati punti di vista, rappresentazioni diverse di una stessa situazione: proprio come quando si trovano foto e video di una stessa festa di compleanno filmata da persone diverse e si possono trovare in essi diversi dettagli dei presenti. Questa è una moltiplicazione delle verità e, pertanto, più voci che narrano la documentazione che costruisce la storia: una possibilità di conoscere più versioni della realtà.
Queste sono due variabili rilevanti della cultura contemporanea: la polifonia di voci e la saturazione del visivo. Attraverso di esse possiamo esaminare le creazioni culturali dalle voci che le enunciano, come i dettagli di ciò che visivamente ci viene mostrato, sia nel contenuto che nella forma, tanto in ciò che ci mostrano esplicitamente quanto in ciò che non ci raccontano.
Il progetto “Riattivando Videografie” presenta un modello di curatela che, costituendosi dal collettivo e non circoscrivendosi a una tematica specifica, funziona a mo’ di finestra affinché chiunque possa affacciarsi e appropriarsi di ampi e nuovi input per realizzare una propria lettura della realtà. Entrare a vedere la mostra è quasi come praticare flaneurismo virtuale. Questa raccoglie una grande serie di video in una pluralità di formati – video arte, video performance, videoclip, documentazione in video, video sperimentale, corti, tra gli altri – di 64 artisti che in 64 video rivelano il particolare e il generale delle realtà di 18 Paesi diversi, curati da una dinamica che coinvolge le prospettive di 23 persone curatrici.
Facciamo due conti. Nel caso in cui la totalità dei curatori (23) stia visitando la mostra, matematicamente e supponendo che una persona soltanto realizza una lettura di ogni opera (64), è equivalente a un minimo di 1472 sguardi del mondo da parte della curatela del progetto, e 1536 tenendo conto delle visioni originali che gli artisti (64) hanno voluto esternare nei video. Ora, pensando che quando si interpreta un’opera non soltanto si coinvolge la propria lettura del suo contenuto, ma che ciò dipende dalla realtà del lettore, questo raddoppia le possibilità a 3072 punti di vista come minimo. Estibaliz Sádaba Murguía ha avuto un’eclettica idea per incitarci alla riflessione delle nostre realtà attraverso la video arte. Senza dubbio, “Riattivando Videografie” rappresenta non soltanto la democratizzazione e la molteplicità di voci, ma anche l’esistenza di possibilità alternative, nonché di conoscerci meglio.
Dando uno sguardo a ciascun video, è facile riconoscere che, sebbene ci siano 70 Paesi, sorgono temi puntuali che si ripetono: violenza politica, femminismo, identità, popoli originari, decolonizzazione e ambiente. L’approccio proposto agli stessi temi da diversi Paesi e sguardi plurali, evidenzia particolarità dei contesti che non sono così singolari. È deprecabile che questa reiterazione si dia su situazioni sociali di svantaggio, precarietà e difficoltà, poiché è evidente che descrivono una realtà imminente.
Questa incidenza è prevedibile tra artisti di uno stesso Paese o di zone limitrofe. Per esempio, Virginia Paguaga con il video intitolato “Ausente”, getta uno sguardo alla violenza politica che, anche se narrata con la separazione di una maternità, è una freccia scagliata contro i soprusi del governo nicaraguense; proprio come “Bacterias y otros conflictos” di Alejandro De La Guerra, anche questo dal Nicaragua, riferendosi al regime degli Ortega-Murillo e le risposte di opposizione della cittadinanza, e Milena García con “Subtitulado”, enfatizzando la repressione delle proteste antigovernative nicaraguensi. I tre video sul Nicaragua puntano su una situazione politica evidente.
Al confine nord, in Honduras, Alma Leiva con “Tiro al blanco” tratta il tema della guerra civile di El Salvador e la distorsione delle narrative del potere. Tuttavia, il tema politico è rilevante anche a sei frontiere verso sud. Andrés Denegri, con “Grito”, presenta una serie di autoritratti di un’infanzia vissuta durante l’ultima dittatura militare subita dall’Argentina. Dallo stesso Paese, Julia Mensch lavora in “La vida en rojo” sul tema del comunismo e la rivoluzione attraverso un percorso nella vita privata e politica della sua famiglia. Cattura l’attenzione che, sebbene tutti propendano per il tema della violenza politica, tre dei sei artisti lo analizzino nel contesto della famiglia e dell’infanzia, lasciando intravedere quanto intimi possano diventare i rapporti affettivi con la politica.
Parallelamente, sebbene evidentemente essere donna in America Latina non è equiparabile all’essere donna in Europa, ci sono temi trasversali riguardo ai femminismi che coinvolgono la corporeità e le aspettative estetiche dei corpi femminili. María Raquel Cochez da Panama, con “Barriga”, espone lo spettatore a un gioco visivo della pelle tirata del suo ventre, comune per le donne madri, ma non normalizzato. Dal canto suo, anche Francesca Arri dall’Italia, con “Self Portrait” dialoga sul tema coinvolgendo lo scherno e la grassofobia. Entrambe le artiste hanno lavorato ai loro video a partire da una riflessione sui loro corpi come oggetto principale.
Per quanto riguarda i femminismi, anche Susana Sánchez dal Costa Rica, con la sua opera “Gritos mudos”, mette in evidenza l’oggettualizzazione della donna con un’analogia visiva di una donna nuda intrappolata in una natura morta pittorica. Lía Vallejo dall’Honduras, con “Bien sentadita”, mette in discussione i rituali di femminilizzazione della donna imposti dal contesto patriarcale; stessa cosa con Vanessa de la O con “Una mujer perfecta”, con la sua narrativa performativa della danza ritrae anche le imposizioni su noi donne. Dal canto loro, María Galindo e Mujeres Creando, dalla Bolivia, espongono con “La Ekeka siempre fui yo” una rivendicazione della donna attraverso la femminilizzazione della figura dell’Ekeko, simbolo andino di abbondanza, fortuna e fecondità, il quale è rappresentato come uomo nonostante sia la donna a essere quotidianamente responsabile della famiglia e dell’assistenza degli altri.
Altri approcci alla lotta femminista si vedono anche attraverso la denuncia proveniente da artisti uomini. Dalla Guinea Equatoriale, Daniel Assedu Mobajale e il suo video “Las apariencias” espone la problematica della violenza domestica, e Ignacio Alcántara della Repubblica Dominicana, con “Clima”, esplicita le mascolinità tossiche ereditate.
Relativamente a questioni di eredità culturale, un altro dei temi predominanti ruota attorno all’identità e all’intento di decolonizzazione. Proyecto 3399, dal Perù, con la sua opera “Barbie Wawacha”, fa una parodia pop che si addentra nelle contraddizioni e nelle frizioni del convivere con un’immagine occidentale e contemporaneamente in un rapporto con la cultura andina.
Joaquín Sánchez del Paraguay, con “Kambuchi”, realizza una denuncia degli abusi contro la comunità guaranì di Tentayape, nelle Yungas del Chaco boliviano. Yola Mamani dalla Bolivia presenta il canale YouTube “Chola Bocona”, a mo’ di performance di “chola pública” come una costruzione socio-storica, interpellando la Bolivia contemporanea in una prospettiva razzializzata, femminista e di classe sociale. Ed Elvira Espejo, anche lei dalla Bolivia, con l’opera “Jiwasan Amayusa” segnala le differenze dell’istruzione globale occidentale versus l’esperienza pedagogica delle comunità andine. Attorno a questi temi identitari, ma senza appoggiarsi a comunità di popoli originari, “Evidencia” di Fernando Foglino, dall’Uruguay, sollecita a riflettere e mettere in discussione i racconti ufficiali dei Paesi e della stampa.
Anche il tema ambientale si reitera nella mostra. Parlare di violenza politica e dei sistemi di oppressione, porta indubbiamente verso il femminismo. In queste posizioni, diventa necessario analizzare la storia, le imposizioni, l’identità, i popoli originari e la decolonizzazione; il che a volte sfocia nella questione ambientale. E come potrebbe non essere così, se l’ambiente è vittima della politica, delle pratiche patriarcali e dell’oppressione culturale dell’egemonia. Donna Conlon con “From the Ashes”, da Panama, lavora sulla capacità distruttiva dell’essere umano e il suo impatto ambientale. Juan Agustín Nve con la sua clip “Contaminación medioambiental”, dalla Guinea Equatoriale, mostra l’inquinamento causato dall’intervento umano. E Mario Alberto López con “Punto de encuentro – Intervenciones al Río Pensativo”, dal Guatemala, espone l’impatto delle abitudini di consumo sul Río Pensativo ad Antigua Guatemala.
D’altro canto, ci sono video che spiccano per la specificità e il loro scarso rapporto con gli altri, come assolutamente tutti i 10 video dalla Spagna e 2 dei 3 dall’Italia. Questo induce a riconoscere che le situazioni di precarietà, oppressione politica e violazione dei Diritti Umani sono molto più sentite in America Latina che in Europa. Anche se di disuguaglianza sociale il mondo abbonda, non si vive allo stesso modo nel mondo latino. Non è un caso che siano proprio questi i problemi dei Paesi in cui si trova la Cooperación Española attraverso la Red de Centros Culturales, gli stessi in cui chiaramente si hanno caratteristiche in comune riguardo allo sviluppo, e le problematiche sociopolitiche ed economiche sono molto difficili da ignorare da parte delle arti. Mi azzardo a menzionare, senza avere prove dirette, che troveremmo temi diversi anche in una rappresentazione videografica di Scozia e Svezia, Giappone e Cina, Pakistan e Iran.
Tuttavia, c’è un elemento che unisce i Paesi latinoamericani della mostra con la Spagna e Roma: le donne e la nostra lotta per la parità di genere, il che continua a evidenziare la necessità di insistere su questo punto a livello globale, come Francesca Arri, l’unica degli artisti selezionati dalla Real Academia de España en Roma a trattare un concetto comune a quello degli altri artisti del progetto.
Ora, lasciando da parte i video europei, anche i video dal Messico spiccano per la diversità nella materia affrontata, il che non è un caso tenendo conto che il Messico ha una delle industrie culturali più sviluppate dell’America Latina. La geografia parla e il Messico, pur con le sue situazioni di svariati svantaggi, è il Paese latinoamericano più a nord del continente, più vicino – letteralmente – al “sogno americano”. La vicinanza che possono avere gli artisti messicani alle vulnerabilità sociopolitiche non sarà maggiore di quella degli artisti più a sud. Alla fin fine, ci hanno predisposto e pre-vulnerabilizzato con i concetti di “su e giù”, e il nord, visivamente, è “più su”. Malgrado questa conclusione, i dialoghi geografici e le loro storie di migrazione ci mostrano che anche il Cile, il più “giù” dell’America Latina, si distingue per la scarsa coincidenza concettuale, poiché nessuno dei suoi tre video lavora sui temi ricorrenti precedentemente menzionati; simile al caso dell’Argentina, che in solo due dei nove video che la rappresentano c’è una ripetizione tematica nel politico. Sia il Cile che l’Argentina, a sudovest, differiscono d agli altri Paesi dell’America del Sud che si trovano più al centro e che hanno esplicitamente più preoccupazioni in merito ai popoli originari.
Si delucida così che, nel centro del Sudamerica, ci sono situazioni di identità predominanti, che in America Centrale l’attenzione è posta sulla disparità di genere e la violenza politica, che a carattere sparso ci sono preoccupazioni ambientali e che, sebbene connessi in rete, c’è un abisso di sviluppo tra alcuni di noi, in cui i femminismi e la situazione delle donne è la forma di dialogare. “Riattivando Videografie” non aveva un tema specifico, proprio perché le curatele locali potessero proporre letture di priorità del contesto per le scene artistiche. L’apertura e la collettività curatoriale con cui si è impostato il progetto è particolarmente fondamentale nell’elaborazione di una radiografia di un’epoca e dei suoi vissuti giacché, con il presupposto di ammettere ogni genere di video, ha permesso di mappare quanto sta succedendo nel contesto di ogni artista, curatore e Paese.
In aggiunta ai contenuti analizzati, si possono trarre conclusioni anche dalla varietà di formati dei video presentati. Non si è lavorato con la proposta di un formato specifico e sono stati presentati video arte, video performance, video saggi, video documentari, videoclip, canali video e perfino registrazioni di videochiamate. Questo ci dice qualcosa sulla frequente tendenza a classificare in categorie restrittive, per esempio, che cosa è la video arte e che cos’è un cortometraggio sperimentale, analoga all’intenzione di suddividere le arti pittoriche tra carboncino, olio, acrilico, pastello, pigmenti; e anche analoga al dilemma perenne di arte, artigianato, design e non-arte. Lasciare la porta aperta alla curatela e ritrovarci con questa divina diversità di formati, è una cosa che il video ha da dire al resto dell’arte contemporanea, puntando alla necessità di considerare l’arte in generale senza tante barriere di formato di esecuzione. Alcuni di questi video potrebbero essere di per sé una performance. Tutto dipende dall’intenzione.
A quanto precede si aggiungono le scoperte delle intenzioni che “Riattivando Videografie” può avere, in un’apparentemente semplice dinamica di gestione in rete di curatele locali della Red de Centros Culturales de España che conformano una mostra collettiva internazionale. Dalla proposta sul tavolo di analizzarci in quanto società in mezzo a un contesto globale di insieme di voci e la saturazione del visivo, il progetto si propone come una finestra sull’esterno di quanto succede, in fondo e forma. Ma non si ferma lì, bensì esiste un interesse mediazionale con l’intimo, con la serie di dibattiti e tavole rotonde che ci riuniscono per conversare sulle nostre riflessioni. Bel traguardo, dunque, a che serve l’arte se non si fornisce l’accesso?, a che serve una mostra online di settanta video?, e tenendo conto della virtualità della proposta, queste tavole rotonde sono spazi che ci uniscono a distanza per creare un legame. L’apertura di spazi di riflessioni complementari alla mostra virtuale di video è uno sforzo che la dice lunga sull’epoca e sulle preoccupazioni della gestione culturale.
In condizioni di pandemia, affrontare la virtualità con l’insistenza di rimanere insieme è una sfida che diventa parte della proposta. Non si tratta soltanto dell’internazionalità che vediamo nella quantità dei Paesi coinvolti, della polisemia negli sguardi sulla realtà grazie alla diversità di curatori e artisti, del video con l’apertura ai molteplici formati possibili; “Riattivando Videografie” tratta anche dell’incontro e del legame, attraverso le tavole rotonde che lo accompagnano e le residenze che ci uniscono.
Alla fine, questi incontri ci permettono di cavarcela in mezzo alle condizioni sociali che affrontiamo, e ad alcuni di noi fa bene l’abbraccio di queste tavolo rotonde. Remedios Zafra ha voluto affettivizzare la mostra, che non fosse uno schermo freddo da cui ri-guardare con sdegno le situazioni difficili in agguato. Questi interessi mediazionali trasformano quella finestra in uno specchio per guardarsi dentro e riconoscerci attraverso ciò che guardiamo da fuori, ma non in una riflessione solitaria bensì in un dialogo, una ricognizione in compagnia. Ed è che questa mostra ci permette di esaminare quella smania per la compagnia, che non si ferma al virtuale. La gestione del progetto presenta una resistenza alla pandemia perché cerchiamo di riunirci, anche se parzialmente e in diversi momenti, attraverso le residenze a Roma.
Soggiace qui un valore speciale nel progetto, spesso il valore di una dimostrazione di questa grandezza. Supera le intenzioni di ogni video individualmente. Non si tratta di ogni Paese, e nemmeno di ogni opera. Il proposito va oltre le opere scelte e si sorregge su ciò che significa tutta la dinamica. Si tratta di ciò che significa stare insieme e ciò che possiamo leggere di questo processo di congiunzione. È un’eccellente scusa per analizzare l’epoca in cui viviamo, la maniera in cui percepiamo la realtà, i temi sempre prioritari e come si vedono questi da differenti angolazioni, il che significa la distruzione delle barriere di formato e della distanza, la resilienza degli esseri umani in mezzo alle difficoltà e come, in collettivo, andiamo avanti. È una spinta a trasformarci in un qualche modo attraverso la resilienza collettiva.
In questo modo, più che guidare il lettore sul modo in cui deve interpretare i video che invito a guardare, vorrei piuttosto incitarlo ad addentrarsi nella mostra, senza alcuna indicazione su ciò che io posso pensare che ogni artista volesse dire. A tale scopo, ogni curatore ha già scritto sui video di ogni Paese. Questo testo è un invito affinché ogni lettore immerga il proprio sguardo nella dinamica. Questa è la ricchezza di “Riattivando Videografie”, l’offrirsi come un lenzuolo bianco, una porta aperta, un multipassaggio in video affinché, dalle nostre case, apriamo la finestra e guardiamo fuori, una realtà uguale ma diversa da parte di ogni artista e ogni Paese. E che ci guardiamo dentro, ma senza sentirci soli.
Annotazioni sul fare-video
Estibaliz Sádaba Murguia
Settembre 2021
I. APPUNTI PER INTERPRETARE UN CONTESTO (VIDEOGRAFICO)
Il ruolo del video all’interno del mondo dell’arte
Sono già passati più di cinquant’anni da quando il video è apparso per la prima volta nell’ambiente dell’arte contemporanea, e quaranta da quando il contesto dell’arte spagnola ha timidamente iniziato a dimostrare interesse per alcune opere sempre rapportate in modo esotico all’innovazione e a ciò che vagamente venivano definite “nuove tecnologie”.
Non sarà fino alla fine degli anni Novanta che le opere video cominceranno a vedersi con una certa normalità in gallerie e musei, immerse nel processo di audio visualizzazione generalizzata delle nostre forme di vita: le sempre maggiori possibilità di accesso da parte delle artiste e degli artisti alle forme di registrazione ed elaborazione delle immagini, da un lato, e l’altrettanto sempre più accessibile possibilità di proiezione delle stesse, dall’altro, sono alcune delle ragioni che hanno contribuito a facilitare questo processo.
Tuttavia, il mondo dell’arte non sempre ha risposto con la stessa immediatezza a queste nuove forme di produzione ed esposizione delle artiste e degli artisti: ancora oggi è comune vedere le proiezioni dei lavori in video in contesti scissi dalle altre forme di creazione, mentre paradossalmente il video come supporto narrativo ci appare in modo quotidiano in tutti i momenti del giorno.
Il mio rapporto personale con “il video”
Da una doppia prospettiva, come spettatrice dell’arte e come artista, l’insieme dei lavori su “supporto magnetico” che costituisce il “mondo del video” mi è sempre parso un contesto interessante, dato che questo tipo di lavori conformano un territorio in cui spiccano, da un lato, i diversi generi che si sono sviluppati storicamente (video-performance, astrazione sperimentale, video musicale, video-saggio, etc.), e dall’altro, i loro modi meticci di rapportarsi tra loro; si generano così diversi atteggiamenti, e mi sembra particolarmente suggestivo vedere tutto ciò come un flusso permanente, che una volta costituito torna a diluirsi, i generi e gli stili si mescolano, e il processo è valido e non valido al tempo stesso.
Il video ha contribuito a rompere la logica disciplinare di epoche precedenti, per la sua forma di lavorare generando un
“rumore” che risultava molto fastidioso negli spazi artistici ortodossi; per tutte queste ragioni il mondo dell’Arte l’ha considerato fino a tempi molto recenti un tipo di formalizzazione artistica bastarda, e molto spesso ha preteso che i lavori su supporto digitale, per rientrare nel “cubo bianco”, dovessero essere accompagnati da altre discipline per certi versi arcaiche, ed essere così compreso meglio dal mercato dell’Arte.
Ci sono stati momenti di entusiasmo e perfino di euforia, quando si è passati dai margini dell’Arte al Museo (il suo epicentro); anche se il video è sempre stato guardato con diffidenza. Paradossalmente, tutto questo rifiuto dell’establishment è ciò che, sia come artista audiovisiva, che come organizzatrice o curatrice, mi è sempre risultato più attraente del lavoro: quella specie di esilio, che rimane lì latente, ma che d’altro canto è ciò che più libertà ha dato a moltǝ artistǝ, anche se si è dovuto pagare un prezzo alto per il fatto di trattarsi ancora di un lavoro considerato come un “secondo piatto” nel mondo dell’Arte.
Credo infine che aspettarsi permanentemente un’accettazione e una comprensione del possibile ruolo assegnato ai lavori di carattere audiovisivo sperimentale (video arte), nella cornice della sua esposizione museale, è ciò che ci ha portato a riscrivere e riscrivere ripetutamente la storia della video arte ogni due anni, e che ci porta inoltre a generare delle serie dinamiche prepotenti il cui risultato sarà sempre sterile.
Ritengo tuttavia molto più importante parlare della sua permeabilità plastica, linguistica e politica, sia nelle sue tematiche che nelle sue forme sperimentali; della sua vocazione radicalmente contraria alle catalogazioni, che provoca la difficoltà di essere storicizzato in modo tradizionale. Credo sia necessario sottolineare e rimarcare permanentemente queste differenze; incorniciarle, celebrarle perfino, più che lamentarci di esse.
Ogni volta che penso al video, la parola IBRIDAZIONE è la mia preferita. Ogni volta che penso al video, la parola METICCIATO è la mia preferita.
Ogni volta che penso al video, la parola BASTARDO è la mia preferita.
Ogni volta che penso al video, la parola ESILIO è la mia preferita.
Ogni volta che penso al video, la parola INTERSTIZIO è la mia preferita. Ogni volta che penso al video, la parola PERMEABILE è la mia preferita. Ogni volta che penso al video, la parola NON ADDOMESTICATO è la mia preferita. Ogni volta che penso al video, la parola VIDEOPERFORMANCE è la mia preferita.
II. APPUNTI SU ALCUNI DEI LAVORI VIDEOGRAFICI SELEZIONATI
In questa seconda parte del testo mi piacerebbe concentrarmi su alcuni lavori selezionati per la mostra. Si tratta delle seguenti opere:
“Bien Sentadita”, della serie di video-performance, “Cómo forja señoritas” (Lia Vallejo, 2018), Self Portait (Francesca Arri, 2012), Belly/Barriga (María Raquel Cochez, 2013). “Chola Bocona” (Yola Mamani, 2019) e Bolognesa (Paola Sferco, 2013):
Scrivendo questo testo ho pensato che sarebbe stato interessante concentrarmi su una selezione di lavori che, in un modo o nell’altro, rimandassero al mio lavoro personale di artista, poiché alla fin fine non concepisco altro modo di parlare del mondo che rappresenta il video se non attingendo alla mia stessa esperienza: un percorso che ho cominciato negli anni Novanta, attraverso una serie di opere in cui la performance, l’azione, si sviluppava tramite gesti e movimenti semplici, o che si costruivano con coreografie minime in modo tale che il significato ci indirizzava così verso altre forme di rappresentazione dei corpi: proprio come succede nei lavori che ho selezionato qui, e che ora vado a commentare.
Sono tutte opere che in un certo senso ci rimandano sia alla video arte combattiva che al cinema domestico, lanciandoci direttamente delle domande e portandoci spesso in un terreno scomodo che da spettatrici e spettatori dobbiamo accettare. Non fanno concessioni allo svago né all’evasione. Molte di esse fungono come una sorta di partitura scomoda, eseguita dalle stesse artiste o da altre donne.
Sono registri visivi di azioni editate con semplicità, in cui si fonde l’intimo e il pubblico, l’abituale e l’eccezionale, il teorico e il pratico.
In questo insieme di opere si registrano azioni corporee di semplice fattura, video azioni agili e fresche che ci rimandano alla cultura DIY (do it yourself/fai da te). L’aria casalinga, l’illuminazione naturale, la freschezza e la spontaneità apportano alle azioni minimaliste una cornice per l’azione, tra realtà e finzione.
Nel lavoro Bolognesa (Paola Sferco, 2013) si realizzano faccende domestiche, azioni abituali o routine pattuite, utilizzando oggetti quotidiani e un tipo di enunciazione molto banale e diretta: è una video azione in cui si combina l’ironia con una disobbedienza attiva. Un’opera che trasmette la complessità psicologica (dubbi, regressi, paradossi, stati d’animo depressivi) che accompagna le donne che cercano di conciliare le faccende di casa annullando il servilismo domestico. Qui il corpo domestico è regolato dalla ripetizione, dalla temporalizzazione, mediante azioni robotiche e aritmiche che ci trasmettono una sensazione di rabbia occulta, che sappiamo che ci porterà al disordine più assoluto e che la performer trasmette attraverso la sua interpretazione; il che a sua volta ci rimanda a classici come Semiotics of the kitchen di Martha Rosler (1975).
Il lavoro audiovisivo Chola Bocona (Yola Mamani, 2019) consiste in un video presentato come un canale Youtube, in cui il personaggio “la Chola”, a mo’ di influencer dei social network, ci propone una serie di riflessioni politiche, sociali e femministe su come i concetti del domestico e del quotidiano avvolgono la vita di tutti i giorni delle donne indigene. È molto interessante in questo senso vedere come si produce una sorta di democratizzazione e politicizzazione del mezzo attraverso l’attivismo, molto in linea con ciò che decenni fa fecero pionieri del video attivismo come Ant Farm o Paper Tiger TV negli anni Settanta, o progetti di appropriazione mediatica come Barbie Liberation Organization negli anni Novanta, e più recentemente le azioni e i film di The Yes Men, tra gli altri.
Anche in altri lavori come Bien Sentadita (Lia Vallejo 2018), Self Portait (Francesca Arri 2012), o Belly/Barriga (María Raquel Cochez, 2013) ci imbattiamo bruscamente nella pratica della video arte e della video-performance realizzate dalle artiste femministe degli anni Settanta: autrici come Rosler, o Lynda Benglis, Joan Jonas, etc.; quei lavori servirono da punti di riferimento per successive generazioni di donne artiste, in particolar modo quella nata negli Novanta (Cheryl Donegan, Patty Chang, Pipilotti Rist, Alix Pearlstein, etc.), e che sento più vicina anche al mio lavoro. Donne artiste che hanno ripreso la semplicità e l’efficacia della pratica della video-performance attraverso l’esecuzione di azioni realizzate direttamente davanti alla videocamera. Nei lavori citati qui sopra vediamo chiaramente una continuità con molte video-performance degli anni Settanta, vale a dire performance altrettanto concepite per e realizzate davanti alla videocamera, e non alla presenza di un pubblico dal vivo.
La tematica che sviluppano queste azioni si riferisce generalmente alla pressione che sopporta la donna, cercano di corrispondere ai canoni di bellezza che la società impone al corpo femminile, accanto a tutti gli ideali psicologici che li accompagnano. Questa pressione è conseguenza della discriminazione e della disuguaglianza che soffre la metà della popolazione: le donne. Questi lavori incarnano e incorporano le contraddizioni emotive che subiamo nell’ambito di un sistema patriarcale. Per esempio, relativamente all’apparenza fisica, non è facile per la donna rinunciare a voler sembrare giovane, magra, “bella”, in un contesto che ci modella sin dall’infanzia e che ci accompagna per il resto della nostra vita. Molte delle scene trasudano ironia, risate e sarcasmo; altre, al tempo stesso, serietà e crudezza, in modo tale che la giustapposizione di una con le altre ci genera un’inevitabile sensazione di tragicommedia, mescolanza bastarda di dramma e umorismo, che unita alla presenza ineluttabile di un suono netto, finisce per soffocarci; e tutte queste sensazioni non fanno che trasmettere turbamento e verità alla spettatrice e allo spettatore.
III. CONCLUSIONE
Per me, sia i lavori di cui parlo qui che gli altri sessantacinque video che compongono la mostra, dovrebbero essere intesi come un autentico strumento di espressione politico e sociale, anche assumendone in determinate occasioni il carattere potenzialmente sovversivo: perché, nonostante tutti i cambiamenti nel corso di questi cinquant’anni di storia menzionati, la video arte (e come la video arte in generale, la video-performance in particolare) continua a conservare un carattere dirompente enorme in relazione al contesto in cui si presenta, qualunque esso sia; forse anche ereditato da anni e anni di remare contro corrente.
Non possiamo essere ingenue riguardo ai dispositivi, le tecnologie e le forme di espressione che scegliamo per costruire i nostri racconti: solo essendo consapevoli di queste questioni riusciremo a estrarre il vero potenziale trasformatore, e contribuire così a far sì che l’arte si impegni in modo diretto nei cambiamenti sociali per i quali lottiamo come donne.
Vi invito a guardarli su: https://www.reactivandovideografias. com/
Appendice
Sinossi dei lavori commentati nel testo, scritte da artiste e artisti o da curatori e curatrici.
Bien Sentadita, della serie di video-performance “Cómo forja señoritas” di Lia Vallejo 2018. L’assegnazione sociale dell’essere donna si socializza nella cultura della paura, della colpa e dell’obbedienza, accompagnata da processi di femminilizzazione non opzionali ma regolati, che sostiene la condizione di donna utile, donna bella, donna curata, donna estetica, rafforzando le imposizioni sociali che condizionano il nostro esistere. L’opera “Bien sentadita” appartiene alla serie di video-performance “Cómo forjar señoritas”, che mettono in discussione i rituali di femminilizzazione per costruire la donna pudica, modesta, pulita, al servizio dell’eterosessualità tramite processi di modificazione violenta del corpo. Imposizioni sociali che la società patriarcale, maschilista e misogina ci assegna come unica possibilità di essere, esistere e comportarci.
Bolognesa, Paola Sferco 2013. Una donna prepara un ragù e mentre cucina dialoga con la propria solitudine. L’azione assorta perde i contorni del prevedibile facendo precipitare la situazione e portandola all’assurdo. Il video parla dei riti quotidiani che naturalizzano un modo di agire e che molte volte abitano i confini. È un’azione drammatica che rimanda allo stesso tempo a una scena pittorica. Il video è stato realizzato durante la residenza ¿Quién puede vivir en esta casa?, Zona Imaginaria, San Fernando, Buenos Aires, Argentina, 2013.
Il canale YouTube “Chola Bocona” (2019- ) di Yola Mamani, ci mostra un altro aspetto chiave dell’arte audiovisiva nell’era digitale: la sua accessibilità. “Chola Bocona” è un progetto concettuale-audiovisivo-politico integrato, sofisticato, didattico e popolare, che dimostra l’importanza e l’urgenza di invertire la prospettiva nei nostri sguardi sulla società boliviana contemporanea, a partire da una figura come quella di Yola, donna, indigena-urbana, chola, femminista, attivista delle lavoratrici domestiche, artista.
Belly / Barriga, María Raquel Cochez, 2013. Il corpo è un campo di battaglia, oggetto di una serie di processi che incidono sulla costruzione della propria immagine psichica e sociale. È parte dell’immagine che il soggetto ha di sé; di riflesso, il processo è simile se si deve ottenere una visione degli “altri”. In questo video, un primo piano sull’addome dell’artista immersa nell’acqua appare insieme a delle mani infantili che giocano con la pelle in eccesso, risultato della biografia corporea dell’artista.
Self Portrait, Francesca Arri, 2012. Costruire il proprio corpo, o meglio, sfidarlo con restrizioni, regole, disciplina e affrontare attraverso questo addestramento la sempre problematica costruzione dell’immagine di sé stessi: questo è il filo che unisce le opere di Francesca Arri. L’artista delinea il proprio ritratto con una video-performance in cui si prende gioco della sua stessa immagine come se fosse davanti a uno specchio, indicandocelo con il dito, come un avvertimento e una sfida a sé stessa e agli altri.
Cartografia discontinua di una videografia mutante
Gladys Turner Bosso
Ottobre 2021
Riattivando Videografie nasce nel bel mezzo di un’emergenza planetaria in cui l’impossibilità dell’incontro dei corpi ci ha spinto ad avvicinarci attraverso gli schermi globalizzati dai media digitali. In questo contesto, la mostra è un esercizio di analisi del mezzo videografico in cui si pone in dialogo il lavoro di una settantina di artisti su una piattaforma strategicamente concepita a tale scopo, attivando, di conseguenza, una rete di pensiero e di scambio.
Lo sguardo risultante in Riattivando Videografie, come non poteva essere altrimenti, è uno sguardo incompleto, una visione di scampoli di una pratica artistica mediata da diversi approcci di curatela che non sono esaustivi né totalizzanti, ma che, tuttavia, permettono un’interessante approssimazione alla molteplicità di scene e approcci della video creazione nella manciata di Paesi legati da questa esposizione.
Queste visioni sconnesse, caleidoscopiche, sfociano nella cartografia discontinua di una videografia mutante con molteplici configurazioni, piegata a linguaggi visivi globalizzati che si strutturano a partire dalla produzione, distribuzione e accumulazione di immagini ed esperienze audiovisive che circolano vertiginose in giro per il mondo. In questo modo, il frammento, l’ibrido e transnazionale, l’effimero e fluido, sono parte di una lingua franca parlata con diverse sfumature, che non concerne esclusivamente la video creazione in sé e per sé, ma è parte di un modo di situarsi in mezzo al cambiamento costante, di instabilità che permeano e contaminano tutte le attività umane, compresa la sfera artistica (Bauman, 2003).
Attraverso Riattivando Videografie, si può rintracciare una gamma di persistenti preoccupazioni, dei modi di produzione che si organizzano attraverso gli attivismi politici e le microstorie, celate contese tra il reale e il rappresentato, tra immaginari che cercano di occupare un posto nel mondo, tra memorie che lottano per prevalere e rendersi visibili. Pertanto, questo testo cerca di riassumere e contestualizzare questa mostra attraverso cinque assi e una postilla finale, cercando di comprendere la pluralità in cui si scindono le opere selezionate. Per via del breve spazio disponibile, non si possono menzionare in questo testo tutte le opere né tutti gli artisti che hanno partecipato, ma verranno segnalati quei lavori che possano meglio illustrare ciascuno degli assi presentati.
Il primo asse si struttura attorno a quelle operazioni che cercano di smontare le fiction dominanti. Le visioni che transitano sugli schermi ampliati del mondo, e anche di questa mostra, lottano per imporsi come realtà operative, vincolanti e dominanti. La realtà non include soltanto il mondo degli oggetti tangibili, ma anche l’universo di immagini, arsenali di simboli e cumuli di informazioni (vere o false) che forgiano un consenso sociale. Molti di questi consensi si strutturano a partire da fiction dominanti, dispositivi narrativi che permeano nelle concezioni e nelle convinzioni delle persone configurando la loro esperienza individuale.
Contro quelle realtà consensuali, contro quei discorsi egemonici, i lavori inclusi si articolano come meccanismi di destabilizzazione. Il progetto La chola bocona di Yola Mamani (Bolivia) si inserisce in un mezzo popolare di distribuzione di informazione audiovisiva (YouTube) per affrontare da lì le rappresentazioni limitanti e i preconcetti che ruotano attorno allo stereotipo di “chola” in buona parte dei Paesi latinoamericani.
Molti dei lavori degli artisti rappresentati in Riattivando Videografie mettono direttamente in discussione il ruolo dei social network e dei mezzi audiovisivi nella costruzione di realtà, pertanto, realizzano quel tipo di inserzioni in formati come il videoclip, in Barbie wawacha, opera del collettivo Proyecto 3399 (Perù), o quello di reportage di moda fashion che ricorda la fotografia di Helmut Newton, in Gordas, belleza hegemónica (Cuqui, Argentina) irrompendo direttamente nel flusso di circolazione di immagini che conformano canoni di bellezza dominanti, riflettendo sui meccanismi di acculturazione e sugli effetti delle tecnologie e delle piattaforme di distribuzione per l’integrazione subconscia degli immaginari, mitologie, norme e valori egemonici. Appropriandosi di formati o modalità audiovisive già stabilite, queste artiste realizzano operazioni di slittamento semantico come una strategia di contestazione, costituendo così le basi per smantellare quelle finzioni radicate nelle mentalità.
Ese verde incandescente extrañamente familiar (Julia Castagno, Uruguay) ripercorre, a partire dai limiti vaghi del colore, un ampio spettro di categorie di messaggi, avvenimenti, situazioni, stabilendo un filo conduttore attraverso eventi politici, esperienze sociali, attivismi, notizie scientifiche. Contesta la realtà e la sua rappresentazione nella globalità delle molteplici finestre-schermi che ci circondano, dubitando della capacità di percezione, come una resa alla realtà consensuale percepita.
Il secondo asse di questa analisi tratta del potere contestato in una varietà di racconti antiegemonici. Non si tratta qui soltanto di aspetti di fiction, ma di una decostruzione dell’esercizio del potere a partire dalla denuncia, dagli attivismi e dal racconto alternativo. Nella cornice del politico, del sociale e dell’ideologico, una varietà di artisti si lancia a smontare i dispositivi simbolici che emanano dall’autorità (immagini, suoni, storie controllate, violenze dimenticate, discorsi ufficiali, monumenti protetti), mettendo in evidenza l’importanza e la funzione pubblica che possiedono, nella loro capacità di puntellare e mantenere lo status quo (Rosler, 2019).
In questo senso, spiccano opere di diversi artisti centroamericani. La lunga ombra dei conflitti bellici in America Centrale si lascia sentire attraverso micro racconti intimisti o autoreferenziali, che sono contrapposti alle narrative delle guerre civili e di governanti asserragliati al potere come in Ausente di Virginia Paguagua. Nei casi di Subtitulado di Milena García, o Bacterias y otros conflictos di Alejandro de la Guerra, da una quotidianità contemporanea, si stabiliscono paragoni con esperienze di conflitti politici passati ma che tornano come fantasmi incarnati in nuovi scontri.
Evidencia di Fernando Foglino (Uruguay) e Kambuchi di Joaquín Sánchez (Paraguay) possono essere interpretate come denuncie e contestazioni, come atti di resistenza. In Evidencia si articola una serie di interventi critici e simbolici su monumenti legati al periodo coloniale e alla storia fondativa dello stato-nazione uruguaiano. Un narratore nascosto da un’interfaccia a bassa risoluzione, dall’apparenza pixelata, un avatar, orchestra una serie di azioni contro monumenti che esaltano le saghe dei vincitori sui vinti, in questo caso, di eserciti invasori sulle popolazioni originarie. Manovre come queste sono solitamente definite vandaliche; Foglino, invece, le attesta come azioni critiche, sintomo di malessere e dissidenza.
Dal canto suo, Kambuchi è un’opera che si esprime attraverso un linguaggio visivo minimalista, un’inquadratura centralizzata, statica e focalizzata sul gesto contundente della ieratica presenza femminile che affronta la videocamera, e che getta a terra un coccio di terracotta rappresentando la sua civiltà ridotta in frantumi, lo stato di emarginazione in cui sono stati delegati, e gli abusi e le depredazioni commessi a loro danno.
Un terzo gruppo di opere riflette su corporeità situate, questioni di genere e femminismi. Per certi versi, in un buon numero dei video di Riattivando Videografie il corpo agente e desiderante assume un illuminante ruolo protagonista. Le corporeità diverse contengono mondi, sono territori con bordi e confini, sono ambienti mutevoli, sono veicoli che portano identità e contemporaneamente sono entità di per sé, con una funzione parlante, comunicante e rappresentazionale. Attraverso legami con altri corpi, e pratiche sociali e politiche, reazioni e resistenze, vulnerabilità e fortezze, si definisce la loro posizione in un momento determinato.
Ricadendo lo sguardo sui corpi, sono le azioni incorniciate in video-performance e messinscena tendenti alla drammaturgia o alla danza a prevalere. La scelta del formato, le inquadrature e i montaggi non sono neutrali; non lo sono nemmeno i rapporti con il suono e altri elementi di cui gli artisti si servono per mostrare le tensioni sui corpi.
Bien sentadita, di Lía Vallejo (Honduras), sa giocare perfettamente con questi elementi per rappresentare l’esasperante disciplina sui corpi sessualizzati delle donne, proprio come Gritos mudos di Susana Sánchez Carballo (Costa Rica).
Corpi in tensione, ultranormati da canoni di bellezza, vengono sfidati in Barriga (María Raquel Cochez, Panama) e Self Portrait (Francesca Arri, Italia). Al tempo stesso, i rapporti di dominazione sociale e i condizionamenti che li rendono possibili appaiono chiaramente in Las apariencias (Daniel Assedu Mobalaje, Guinea Ecuatoriale) e in Cita con cura (Marie Jiménez, R. Dominicana). Analogo tipo di rigore non lo troviamo nella vita quotidiana per i corpi maschili, tranne nelle organizzazioni militari o tra le mura carcerarie, come appare in Control de la respiración (M. Román, Perù).
In questa quarta parte ci avviciniamo alla contemporanea inclinazione a saccheggiare archivi di ogni genere come sostegno prostetico della memoria. Viviamo in un universo in cui abbondano le immagini, statiche o in movimento, analogiche o digitali. Anche i suoni catturati. Che siano fotografie, film, video o diapositive, dischi o registrazioni, la capacità di produzione e immagazzinamento attuali sembra inesauribile. Di questa abbondanza si sono serviti le artiste e gli artisti di Riattivando Videografie mobilitando, a partire dalle memorie individuali e familiari, i rapporti con i ricordi collettivi di generazioni, nazioni o comunità intere. Come ha detto Jacques Derrida (2009) la pulsione di morte e oblio è dominante, ed è questo a spingerci al saccheggio costante di archivi e memorie. I ricordi, come nel romanzo L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy
Casares, sono fantasmagorie, silhouette che cambiano costantemente. Le revisioni e le manipolazioni delle orme visibili che sono quelle immagini e suoni, permette di far emergere fatti poco analizzati, articolare nuovi racconti e riparare traumi.
Il privato, l’individuale, l’intimo e l’aneddotico, saltando nella sfera pubblica degli schermi condivisi, si trasforma nella probabile storia di molti, permettendo l’esame di epoche della storia politica di una collettività come in Grito (Andrés Denegri, Argentina). L’archeologia di eredità familiari formano il nucleo anche di La vida en rojo (Julia Mensch, Argentina), Como hacer una casa (Estefanía Cloti, Argentina), Archivo expiatorio II AB (Ángela Bonadies, Spagna), Love, Carol (Mónica Araya Vega, Costa Rica) e di El archivo familiar, legado fotográfico (Pablo Romano dall’Argentina, sull’opera di Claudia Cagnone), ciascuno con approcci diversi. In modo particolare, Archivo expiatorio II AB e El archivo familiar, legado fotográfico, indagano, inoltre, sul processo creativo con i loro esperimenti, errori e prove a partire da una poetica della memoria.
Il montaggio e smontaggio di immagini, memorie e racconti non si realizza soltanto dal piano familiare. In Roma 167/62 (Carlos Higinio, Spagna) e La Rosa (Manuela García, Messico) due modalità di sguardo documentaristico approfondiscono, rispettivamente, le dinamiche urbane riguardo a un processo fallito di pianificazione e fenomeni di gentrificazione. Derrida parla di pulsioni di distruzione e conservazione della memoria nella società; vedendo le video creazioni citate, e in modo un po’ iconoclasta, potremmo includere come pulsioni la trasformazione, la revisione e la messa in circolazione.
Il quinto asse che abbiamo potuto determinare è il tema dei paesaggi fisici e mentali come territori in trasformazione. Per certi versi, molti degli interventi degli artisti si nutrono di poetiche distopiche e nostalgiche. Proposte come EDF (Nicolás Rupchich, Cile) o La herida del horizonte (Alejandra Mastro, Paraguay) presentano una narrativa che registra l’avvicinamento di cambiamenti minacciosi sul paesaggio, appoggiandosi su risorse digitali e sonore di inquietante efficacia. Le preoccupazioni ecologiche sono più dirette in opere come Contaminación medioambiental (Juan Agustín Nve, Guinea Equatoriale) utilizzando immagini e metafore più comuni ma altrettanto efficaci per trasmettere il loro messaggio.
Dei paesaggi intesi da una tradizione che attinge al pittorico, presentando territori esposti alla contemplazione, come in Río Paraguay (2° movimiento) di Paz Encina (Paraguay), passiamo anche al paesaggio come ambiente che si inscrive nella percezione umana lasciando orme o cicatrici che creano una psicogeografia particolare, come in Sensaciones que hablan (Daniel Nsue Asumu, Guinea Equatoriale), Armero (Tania Ximena, Messico), Paisaje para una persona (Florencia Levy, Argentina) o Joven y Carmen (Borja Santomé). Forse The Tale of the Mass, the Grid and the Mesh (Andrea Canepa) non sembrerebbe riferirsi a un paesaggio concreto, ma è una specie di mappa o cartografia della storia del pensiero astratto, di processi costruttivi e pedagogici che, alla fin fine, hanno finito per danneggiare il pianeta stesso in tutta la sua estensione fisica.
Le riflessioni di questi artisti generano narrative che ci fanno pensare alle immagini comuni di un paesaggio catturato e addomesticato attraverso una lunga storia di assoggettamento del naturale ai progetti di sfruttamento umani, territori in crisi la cui purezza può scomparire; ci ricordano anche i processi di creazione di luoghi mitici congelati nella loro perfezione iconografica, e ci rimanda alla rapida corsa delle immagini panoramiche che circolano liberamente nei molteplici canali mediatici, includendo i paesaggi ricreati dalle immagini via satellite o dai droni.
Infine, e a mo’ di postilla, enfatizzo la capacità espressiva dei linguaggi, simboli e modi di rappresentazione derivati dalle tecnologie del computer e dall’esperienza nei social network. Se prima la video arte si nutriva e dialogava con la fotografia, il cinema, il teatro, il videoclip o la pubblicità, oggi si è aggiunto un altro referente espressivo che è il linguaggio delle interfaccia del computer, il gergo visivo dei meme, le gif, gli emoji e i banner, le estetiche del videogioco e il simbolismo grafico degli schermi di comunicazione. Questi aggiungono risorse espressive, nuovi motivi simbolici che ampliano le capacità comunicative dei video artisti.
È un dato di fatto che una parte importante della nostra vita trascorra davanti a schermi di ogni genere; in un’unica sessione davanti al computer, o con un dispositivo mobile in mano, si può chiacchierare, giocare, lavorare, vedere film, controllare le mail, leggere un libro, disegnare, visitare luoghi in modo virtuale, pagare conti, etc. L’appropriazione riflessiva e critica di questo nuovo arsenale grammaticale di segni e immagini, fa parte di molte delle proposte presentate in Riattivando Videografie; un giro di vite con ironia, umorismo nero in alcuni casi, e ingegno. In USER92.exe (Américo Retamal e Javiera Astudillo, Cile), il computer si presenta come un’entità che affronta qualcosa di simile alla morte. L’obsolescenza programmata dei computer, con evoluzioni tecnologiche che includono diverse generazioni dello stesso prodotto, fa parte dei rapporti tra umani e macchine che generano qualcosa di simile a una lieve nostalgia per lo spirato dispositivo con cui siamo stati a contatto per tanti anni. Insieme al dubbio sulla veridicità e la profondità dei rapporti online, USER92.exe ci rimanda anche a prodotti filmici e del genere anime, come Her (2013) di Spike Jonze o Chobits (2002) del collettivo Clamp.
Sobre la preproducción o el deseo de imágenes, opera di Francisco Belarmino (Cile), affronta in modo diretto la pulsione escopica della società attuale. Christian Metz disse che il cinema era lo spazio escopico per eccellenza, un antro di visione speculare, caverna onirica e produttore di iperrealtà. Con la proliferazione di schermi di ogni genere e dimensioni, prodotto di quel desiderio di consumare immagini (Lipovetsky e Serroy, 2009), lo spazio speculare ed escopico si è ampliato a dimensioni colossali, alimentato sempre da factory che sputano migliaia di immagini, suoni ed elementi audiovisivi al secondo. La richiesta di immagini e ambienti audiovisivi obbedisce in parte a un desiderio di sperimentare tutto, anche se virtualmente (Prada, 2018). Gli schermi sono vetrine in una società del mercato che implacabilmente espone oggetti di desiderio ed esperienze desiderabili; gli smisurati appetiti di una società insaziabile sono chiaramente ironizzati in All I need is all I need di Matteo Attruia (Italia).
Oggi appaiono nuovi dilemmi che una mostra come Riattivando Videografie rende visibili. Gli artisti che stanno lavorando in quella zona liminale della costruzione di immagini e di esperienze artistiche, hanno aggiunto nuove risorse espressive, nuovi motivi simbolici provenienti dai media tecnologici e dagli ambienti online, per decostruire e mettere in dubbio le fiction dominanti e i racconti egemonici. Tuttavia, non è garantito che le contronarrative degli artisti, che circolano altrettanto online o su piattaforme virtuali come quella di questa mostra, arrivino a un maggior numero di persone di quelle che sono solite frequentare musei o gallerie. L’esistenza delle cosiddette nicchie di interesse, in cui si è articolato Internet intensificato dal marketing, è una minaccia ai desideri di espansione comunicativa degli artisti quando utilizzano gli ambienti digitali.
Altri dilemmi, gestiti ammirevolmente dalle artiste e dagli artisti convocati per Riattivando Videografie, sono le specifiche responsabilità ideologiche di un linguaggio o di un mezzo, prodotto dalla storia del suo sviluppo. Con Money Honey, Euro (Antoni Abad, Spagna), 1001. Arqueología futura (Laramascoto), e Paisaje para una persona (Florencia Levy, Argentina), si riconfigurano quei cumuli ideologici e quelle fiction, fino ad arrivare a produrre disagio e sconcerto.
La vita stessa assume una dimensione estetica e iperreale, spettacolare come un reality show. Tik Tok e altre piattaforme condividono video alla rinfusa; video che oggi si vedono e domani spariscono dalla circolazione e, presumibilmente, dalla nostra memoria. Non è tutto negativo: piattaforme come Vimeo o YouTube sono servite a far circolare opere importanti della cinematografia mondiale e della video arte di prima generazione. È così che Bolognesa (Paola Sferco, Argentina), ci rimanda a Semiotics of the Kitchen, di Martha Rosler, e Una mujer perfecta, Vanessa de la O. Jimenez (Costa Rica) diventa l’antiracconto di A perfect Human di Jørgen Leth, da una prospettiva inclusiva, che contesta l’appellativo “umano” solo riferito all’uomo. Per mediazione di YouTube, non soltanto possiamo fare la relazione mentale di questa genealogia della video arte, ma anche rivedere le opere nonostante il tempo trascorso. Di fatto, il tema della seconda vita degli avvenimenti, circolando sui social e le piattaforme, è una questione metafisica. Un cineasta come Chris Marker ha affidato le sue memorie alla rete. Attraverso il blog “Inmemory”, Marker è riuscito a immagazzinare una grande quantità di testi e immagini che l’hanno influenzato, associati in modo libero emulando il comportamento subconscio della memoria. Tutti questi dati immagazzinati come surrogati dei ricordi, rende evidente la dipendenza umana rispetto a diverse generazioni di elementi prostetici che abbiamo creato per non dimenticare: dall’invenzione della scrittura fino agli archivi sistemati in giganteschi server.
Tutto è complesso e tutto è fluido. Le diverse curatele di Riattivando Videografie, pur agendo separatamente, hanno fornito un registro-testimonianza di interventi audiovisivi della nostra epoca, nei quali troviamo prove delle particolarità di una società rarefatta. Questo si riflette nella molteplicità di pratiche artistiche, linguaggi ibridi e risultati che sfuggono alle facili etichette e a semplici categorizzazioni. A partire dai frammenti di iperrealtà che ci circondano ovunque, le artiste e gli artisti continuano a generare nuove cartografie e figurazioni che contestano i codici iconici provenienti dalla pubblicità, i mercati, la propaganda politica e il mondo dello spettacolo.
Bibliografia
BAUMAN, Zygmunt. Modernidad líquida. Fondo de Cultura Económica. Messico, 2003. [ed. it. Vita liquida, trad. di M. Cupellaro, Laterza, 2014]
DERRIDA, Jacques. Mal de archivo. Editorial Trotta. Madrid, 1995. [ed. it. Mal d’archivio, Filema, 1996]
LIPOVETZKI, Gilles e Serroy, Jean. La pantalla global. Cultura mediática y cine en la era hipermoderna. Editorial Anagrama. Barcellona, 2009.
METZ, Christian. El significante imaginario. Psicoanálisis y cine. Editorial Gustavo Gili, S.A. Barcellona, 1979. [ed. it. Cinema e psicanalisi, Il significante immaginario, trad. D. Orati, PGreco, 2022]
PRADA, Juan Martín. El ver y las imágenes en el tiempo de internet. Akal / Estudios Visuales. Madrid, 2018.
ROSLER, Martha. La dominación y lo cotidiano. Ensayos y guiones. Bilbao, 2019.
IL PRIVILEGIO DELL’IMMAGINE. Sessantaquattro
sguardi d’epoca
Esposizione frutto della mostra online di video creazione Riattivando videografie, articolata in sei esposizioni nella città di Roma (2022-2023).
Assorti. Racconti che (s)montano intimità e memoria
Con corpo aggiunto. Femminismi e nuove mascolinità
In conflitto. Obiettivo, corpi e geopolitica
Un pianeta (senza) plurale. La diversità a rischio
Pensare l’epoca. Visibilizzare le lenti Roma/s. La pelle e gli elementi ***
Di privilegi, arte e sguardi
Le nostre immagini sante non sanguinano più, né piangono. Se ancora parliamo loro a mezza voce, soli, nella penombra, lo facciamo senza volerlo27.
Regis Debray
Gli sguardi, lo sapeva bene Debray, «palpano o accarezzano», «sfiorano e penetrano», a volte scivolano e a volte «fanno massa». Gli sguardi che predominano in un mondo interfacciato da schermi sono sguardi di moltitudini di persone (sole) davanti ai loro dispositivi cellulari, soggetti che passano e scivolano sulle immagini, che forse le accarezzano e raramente le penetrano. Le immagini d’epoca non raggiungono più il tempo dello sguardo delle figure, icone e simboli dei templi sacri configurati affinché molte persone si siedano o si prostrino davanti a esse per un frangente solitamente lungo, come se guardandole si attivasse uno specchio in cui il vedere diventasse «vedersi», vedere sé stessi, e lo sguardo rimbalzasse attivando una sorte di introspezione. Guardare un’immagine in silenzio, per qualche minuto, sembra remare contro questi tempi eccedentari nel visivo, accelerati nella produzione e circolazione di immagini che si accumulano e nascondono tra loro, mentre viviamo incollati alle nostre appendici tecnologiche, così magicamente poderose nel «vedere». Le immagini che oggi abbiamo visto domani verranno eclissate da altre. L’eccesso che costituiscono può perfino operare come «cecità» per saturazione di stimoli. Il dito che segna il ritmo sui social sa di cosa parlo. Come percussionista di una forma entusiasta di transitare le immagini-piastrella che marcano un ritmo macchinico che ci fa vedere-vivere-circolare nella cadenza della trasmissione live e la connessione permanente.
27 Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, trad. A. Pinotti, Editrice Il Castoro, Milano, 1999, p. 16.
Le sessantaquattro opere di video creazione presentate in queste sei esposizioni convivono da un po’ su Internet, viste ai ritmi scanditi dagli schermi e dalle vite connesse. Ora, tuttavia, cercano un altro tipo di sguardo nello spazio fisico espositivo, quel surrogato profano dello sguardo religioso capace di donare un tempo all’immagine; capace di trasformare una stanza in un qualcosa di sacro, di lasciarsi influenzare dalla cornice che permette uno spazio artistico. Una cornice che curiosamente non concede il privilegio della luce, poiché nel mondo connesso anche la censura sembra venire dalla saturazione di luci accecanti. Dinanzi a un mondo sempre acceso, cercano una cornice che conceda il privilegio dell’ombra, della palpebra che si abbassa e si alza e si socchiude per poter mettere a fuoco e ricevere.
Fa parte del privilegio artistico. Perché se gli artisti contemporanei hanno ben presente di non avere più la vecchia prerogativa dell’immagine, voglio dire, di non essere più i fautori preferenziali del simbolico, non è forse questa potenza di poter fermare i tempi per restituire le immagini lì dove possano diventare riflessive una cosa che dovrebbe mobilitarci?
Da decenni l’arte fa esperimenti con forme espressive, formali, concettuali e creative diverse, resistendo all’oppressione simbolica dei nuovi e poderosi immaginari visivi mediati da mercato e tecnologia, ma da quando Internet permette a ogni soggetto di produrre e far circolare le sue stesse immagini la pratica artistica, in modo più o meno intenzionale, sembra aggiungere al suo significato una tacita «risposta», una «resistenza critica» dinanzi a quel contesto.
La quotidianità delle videocamere e i dispositivi di registrazione incollati, o quasi nati, nelle nostre mani, disponibili in cellulari e apparecchi portatili, la possibilità di portare lo studio di montaggio nel computer, democratizza le immagini come un bene accessibile non più limitato al godimento di «pochi», ma in cambio la cultura diventa eccedentaria in immagini, satura, rendendo difficile l’azione della palpebra che permette di mettere a fuoco dedicando del tempo a un’opera.
Nella ricezione e nell’intenzione sembra dunque palpitare quanto può l’arte. Perché in un colpo d’occhio tra chi si autodefinisce artista e chi no, sembra meramente contestuale e avallata da ciò che denominiamo istituzione-Arte, in cui un’opera può essere identificata e collocata in una cornice artistica, avendo la prerogativa di una ricezione estetica diversa, più tranquilla, più interpellata, derivata dal valore e dal significato che ci aspettiamo da essa.
Ma anche nella pratica artistica, dalla sua concezione primaria, chi crea normalmente non cerca la compiacenza estetica né il selfie più evocativo, e nemmeno la registrazione più bella dell’orizzonte. Ben oltre, cerca la ferita, il conflitto, ciò che perturba l’anima, ciò che non è facilmente esprimibile a parole, ciò che «ci pungola». Ed è in questo disagio che le opere contemporanee parlano «dell’epoca» perché non schivano le difficoltà che descrivono «l’epoca», anche (o in particolar modo) quella che più fatichiamo a circoscrivere a parole.
Su questa esposizione di esposizioni
In questa esposizione che è anche una «post-esposizione» e parallelamente una «multi-esposizione», si danno appuntamento 64 opere audiovisive di diversi formati e generi (video performance, animazione, documentario, auto fiction, video-saggio e altre fughe che potremmo inquadrare nella videoarte). I lavori hanno provenienze diverse con una prevalenza di America del Sud e America Centrale, e con alcune proposte provenienti anche dalla Spagna, la Guinea Equatoriale e l’Italia. Il criterio, come vedrete, non è la concomitanza in una località determinata né il fatto di parlare una lingua specifica. Nella diversità di lingue, geografie e geopolitiche che qui si radunano, a una prima lettura potremmo abbozzare sessantaquattro sguardi d’epoca, di un’epoca recente. La ragione della coincidenza temporale di queste opere è stata una mostra online intitolata Riattivando Videografie che affonda le sue radici nel 2020, curata da Estíbaliz Sadaba e patrocinata dalla Real Academia de España en Roma. Il motivo dell’incontro è giunto durante la pandemia e, stimolato dalla difficoltà di convergere in un qui e ora in presenza, ha favorito questo singolare incontro di diversità inquadrata in Internet.
(www.reactivandovideografias.com).
Detto ciò, ora che gli spazi e i tempi permettono di sfiorarsi di nuovo le mani e di riprendere la concomitanza delle opere in spazi fisici concreti, le opere cambiano pubblico e cercano di incontrare chi dedicherà loro del tempo a occhi socchiusi, teste girate, forse domande e quesiti, ora, le uniamo in diversi spazi di Roma per continuare ad affrontarle partendo da altre classificazioni che opereranno come nuove porte d’ingresso all’epoca, come base sulla quale abbiamo potuto riflettere, sentire la mancanza, stabilire punti di connessione e differenza durante gli ultimi due anni in cui la mostra online è stata accompagnata da dibattiti, testimonianze e riflessioni attorno all’intestazione Videografie: la cultura tra le videocamere. Di rado abbiamo il privilegio di teorizzare su immagini e opere dopo che sono state esposte, come se stessimo riscrivendo un libro che ci permette quella strana e preziosa qualità di ciò che si può rifare e precisare; come se, senza intaccare l’entità delle opere, potessimo riorganizzare la loro convivenza passando dal mero raggruppamento alla classificazione, alla teorizzazione che implica il lavoro ermeneutico e comparativo di estrarre echi e differenze. In questo frangente è possibile circoscrivere i focus concettuali per aiutarci ad abitare “il privilegio dell’immagine” in quanto immagine artistica che parla del personale e del culturale in un momento coincidente e in luoghi molto diversi.
È a partire da quell’esercizio di pensiero proiettato su questa diversità che avremmo potuto proporre diversi itinerari di approccio. E, indubbiamente, il più chiaro sarebbe stato quello che differenzia e rende ipervisibile il «conflitto» intimo e collettivo di molte delle opere di artisti dell’America Centrale e dell’America del Sud rispetto all’estetizzazione predominante in quelle realizzate a Roma e l’intersezione di altre che abitano conflitti identitari, senza che il luogo sia a priori l’aspetto più determinante. Può darsi che, se le opere si stessero producendo in questi ultimi mesi in cui il pianeta ha cominciato a dissanguarsi in modo crudo, bellico e terrificante anche in Europa, questa linea non sarebbe così chiara, ma tutte si pronunciano e parlano di un «prima di questa guerra», «prima di questa nuova crisi» energetica, climatica, sociale e geopolitica.
D’altro canto, se cambiassimo la lente e cercassimo un raggruppamento che ci permettesse di identificare le idee e le motivazioni da cui scaturiscono queste opere potremmo trovare proposte come quelle che alcune curatrici partecipanti al progetto ci hanno suggerito. Iris Lam parla di: «Violenza politica, femminismo, identità, popoli originari, decolonizzazione e ambiente». Gladys Turner identifica opere che mirano a «smantellare finzioni dominanti e realtà consensuali, mettendo in discussione il ruolo dei social network e dei media nella costruzione»; opere sul «potere contestato da una varietà di racconti contro egemonici»; opere che riflettono sulle «corporeità situate, questioni di genere e femminismi»; opere sulla «contemporanea inclinazione a saccheggiare archivi di ogni genere come un sostegno prostetico della memoria»; e, infine, opere su «paesaggi fisici e mentali come territori in trasformazione».
Questi nodi vengono reiterati in questa presentazione come alternative di accesso alle opere qui presentate. Tuttavia, dopo aver letto e dibattuto in questi ultimi due anni (2021-2022), vi proponiamo una classificazione aggiuntiva a partire dalle intestazioni che seguono, fatte di pietre senza malta, disegnate con una linea discontinua, una sorta di tentativi che parlerebbero di:
1. ASSORTI. RACCONTI CHE (S) MONTANO INTIMITÀ E MEMORIA
Si danno appuntamento qui lavori che partono e vanno da e verso il «sé stesso», il genere qui conta e va smontato un maschile che si dice neutrale, per enfatizzare anche il «sé stessa». Un passaggio nell’introspezione del soggetto come fonte di memoria e di conflitto. Pertanto, l’ingresso nell’intimità dell’io si fa abitualmente da ciò che sincronicamente o diacronicamente turba o ferisce, favorendo il gioco poetico pregno di metafore e vissuti personali in cui si reiterano ricordi dell’infanzia, pezzi irrimediabilmente attaccati alla famiglia, la malattia, la paura, i desideri e la sfocatura narrate ed espresse a partire dal corpo e attraverso la poesia, il disegno e il montaggio. In questo caso è l’elemento «biografico» ciò che, necessariamente, può far da ponte verso quello «culturale».
2. CON CORPO AGGIUNTO. FEMMINISMI E NUOVE MASCOLINITÀ
Dai diversi conflitti trattati o suggeriti nella mostra Riattivando Videografie è, indubbiamente, di rilievo la reiterazione oppressiva dell’identità politica dal genere, come se la deriva nelle opere fosse una deriva nel pianeta e ci interpellasse necessariamente su ciò che comporta per un soggetto essere una donna qui o lì. La diversa lettura sulla disuguaglianza, dalla critica sociale alla costruzione identitaria del genere, martella con intensità sulla denuncia, ma spicca anche nell’ipervisibilizzazione e diffusore del corpo non normativo, dell’anti-canone, delle pressioni significanti per «essere» e per «non smettere di essere». Ma notate che in queste voci si situano anche discorsi critici nei confronti delle mascolinità egemoniche ed eteronormative, tentativi di decostruzione imprescindibili per riflettere sulle trasformazioni derivate dal femminismo e i cambiamenti di immaginario che come politica richiede. A maggior ragione in momenti di regressione sociale su scala globale e di intimidazione normalizzata sui social che ricordano la fragilità dei traguardi nell’uguaglianza, la necessità di continuare a ricordarli e assicurarli a una nuova cornice simbolica.
3. IN CONFLITTO. OBIETTIVO, CORPI E GEOPOLITICA
Ora che la guerra ricopre di proiettili quel luogo un tempo privilegiato che era l’Europa, la guerra acquisisce un protagonismo che ci rende ridicoli se si allontana l’obiettivo e si avvertono le guerre quando sono di «altri»; come ci abituiamo al fatto che la guerra si normalizzi a patto che sia lontana da noi. I conflitti che devastano l’Africa e l’America Centrale corrono il rischio di sclerotizzarsi come parte di una struttura, in particolar modo per chi ci convive. Lo scossone che provocano qua e là richiede di affrontare la violenza come parte delle relazioni che attraversano la quotidianità di chi ne è protagonista. Ma questi conflitti qui individuati soprattutto in America Centrale sono anche fili che creano una trama di intimità e racconto negli artisti. Nella sovrapposizione di questi strati si narra il difficilmente narrabile delle guerre, quando da una posizione vitale si lotta mentalmente «contro di esse», ma il soggetto si sente intrappolato e continuare a vivere implica contraddittoriamente il convivere «con esse».
4. UN PIANETA (SENZA) PLURALE. LA DIVERSITÀ A RISCHIO
Come se gli artisti nella loro libertà espressiva avessero utilizzato diversi obiettivi per circoscrivere fenomeni intimi, locali, geopolitici o planetari… In quella diversità palpita un tema ricorrente che è oggi motivo di vertigine globale: la crisi climatica che permette di ascoltare il cuore maltrattato del pianeta dal tuffo in un fiume inquinato o in un bosco minacciato. Ogni opera è un piccolo abbozzo del clamoroso rischio di perdita della diversità come gradino sul quale temiamo rotoli la vita sulla Terra. Il rischio di omogeneizzazione in agguato per tanti livelli umani come effetto della globalizzazione economica, è un rischio anche di perdita di diversità come garanzia di continuità dell’essere umano e di quella cosa così affascinante che chiamiamo «vita» in questo infimo, ma prezioso e contemporaneamente plurale, punto planetario e granello di polvere che, visti da un’altra galassia, saremmo.
5. PENSARE L’EPOCA, VISIBILIZZARE LE LENTI
Di rado le opere possono distaccarsi dal soggetto che parla o si esprime. Qualcosa di simile accade con le tracce dell’epoca in cui avvengono. Tuttavia, nei casi raccolti qui la preoccupazione per come si configura il nostro tempo porta la pratica artistica ad acuire determinate lenti che all’improvviso diventano visibili e di conseguenza riflessive. Si tratterebbe, dunque, di accettare la sfida di «abitare la complessità» del rendere riflessivo il presente. In diversi modi, i creatori cercano di proiettare la singolarità dell’epoca, in questo caso enfatizzando lenti dell’economia e della politica, quasi sempre presenti come trasversalità. Ma in questo caso, anche due lenti più concrete risultano significative. Da un lato, la trasformazione collettiva derivata dai più recenti cambiamenti urbani e sociali, puntando a questioni come la gentrificazione, o la pandemia. E, dall’altro, la tecnologia come lente che ci ha normalizzato fino a sfumare nella neutralità di un qualcosa di invisibile, insonoro, insipido o inodore. Non è banale questo sforzo di identificare fino a che punto le tecnologie di registrazione, produzione ed emissione di immagine contribuiscano a mediare o a «creare» il manufatto simbolico, fino a che punto la loro manipolazione (anche artistica) aiuti, o possa farlo, a smontare realtà consensuali e alternative, per esempio, reiterando, rallentando, moltiplicando, distorcendo immagine.
6. ROMA/S. LA PELLE E GLI ELEMENTI Roma guarda sé stessa, l’accademia guarda sé stessa. Città e accademia come oggetti e soggetti dotati del dono dell’autocoscienza dalla pratica artistica. Se a chi crea arte viene chiesto del privilegio dell’immagine per la sua narrazione, ma suddetta domanda viene posta davanti al buco della parete che permette di inquadrare Roma come città e come mito, alcune delle opere che qui si propongono sono proposte possibili. Insieme a loro, altre con cui condividono un fascino per la forma e per l’estetica. In un mondo che trasmette in tempo reale ciò che suppura e sanguina, risulta singolare e strano, ma altrettanto potente, smettere di guardare le ferite per identificare la bellezza degli elementi astratti dalla patina di sporcizia e pelle morta. Si tratterebbe di quella potenza e di quel peso che grava su Roma, la tentazione che la deriva estetica e quella formalista accaparrino la percezione e soddisfino e rallentino chi guarda con compiacenza, e diluiscano il fondale di fango e conflitto sul quale il cubo, la materia, la colonna e la fredda luce si ergono.
Remedios Zafra
ENSIMISMADOS. RELATOS QUE (DES)
Montan Intimidad Y Memoria
Archivo Expiatorio II AB
Ángela Bonadies
2020
Real Academia de España en Roma
Parte del mio lavoro fa riferimento alla revisione d’archivio. Nel caso di questi giorni, è stata pratica quotidiana scandagliare alcuni ricordi conservati, curiosare tra video e fotografie. In maniera aleatoria apro cartelle, scorro immagini e suoni e produco questi “archivi espiatori”, che portano la colpa di chi li produce e includono errori, inconvenienti tecnici, rumori e lacune. Pezzi di tempo rinchiusi nei limiti circoscritti di una cartella.
Bolognesa
Paola Sferco
2013
Centro Cultural de España en Córdoba
Una donna prepara un ragù e mentre cucina dialoga con la propria solitudine. L’atto assorto perde i contorni del prevedibile facendo precipitare la situazione e portandola e all’assurdo. Il video parla dei riti quotidiani che naturalizzano un modo di agire e che molte volte abitano i confini. È un’azione drammatica che rimanda allo stesso tempo a una scena pittorica.
Il video è stato realizzato nella residenza ¿Quién puede vivir en esta casa?, Zona Imaginaria, San Fernando, Buenos Aires, Argentina, 2013.
Comestible 04
Rosalía Banet
2008
Real Academia de España en Roma
In un ambiente asettico, una cuoca-chirurga apre una torta di carne e le estirpa gli occhi (simboli di controllo) che crescono al suo interno. Mentre svolge l’operazione purga il dolore, chiude le ferite. La torta simboleggia pertanto il suo stesso corpo, è il riflesso della sua stessa sofferenza. Commestibile 04 si avvale della collaborazione della cantante Christina Rosenvinge, che ha composto e interpretato la canzone appositamente per il video.
Cómo hacer una casa
Estefanía Clotti
2018
Centro Cultural de España en Rosario
L’archivio familiare, qui, non è il documento storico di un lignaggio, è invece una sostanza docile prossima alla materia stessa della memoria. Clotti dipinge sulle immagini, abbozza ricordi, e verso la fine ci dà la definizione della parola “casa”. Ma giunto questo punto lo sappiamo già, il significato di una casa non è questione di definizioni. Si tratta di un’oscillazione poetica mantenuta al livello del vissuto, si tratta di inventare sensibilmente nuovi modi di abitare insieme gli spazi comuni.
Doppler Eco Tac (Teaser)
Miriam Isasi
2016
Real Academia de España en Roma
Opera audiovisiva generata a partire dalle sensazioni della perdita di visione temporale. I suoni emessi in una risonanza magnetica cerebrale vengono tradotti in partiture e interpretati da un’orchestra come colonna sonora.
La relazione che si stabilisce tra l’utopia e il fallimento è permeabile.
Una collezioni di immagini, di esperienze e decodificazione di stimoli, che raccolgono un immaginario personale. Nella ripetizione ci imbattiamo nell’azione impossibile, meta invisibile ma tangibile.
El archivo familiar, legado fotográfico
Pablo Romano
2016
Centro Cultural de España en Rosario
Pablo Romano osserva Claudia Cagnone mentre l’artista lavora a un’opera sul suo archivio fotografico familiare. Un’immagine rimane sospesa nel “farsi” di altre immagini. Ciò che la fotografia di Cagnone sembra sondare sono le orme mute di una memoria familiare iscritte nel paesaggio dell’intimità. Romano, dal canto suo, raccoglie questa ricerca lasciandola in sospeso, ricevendola nel sottile vacillamento di un’altra immagine che si sa, anch’essa, all’intemperie della propria intimità.
La vida en rojo
Julia Mensch
2016-2018
Centro Cultural de España en Buenos Aires
La vida en rojo è un progetto iniziato nel 2008, e ha come punto di partenza la vita privata e politica della mia famiglia. Una ricerca artistica sulla storia del comunismo nel XX secolo, l’uso di documenti personali per riflettere sulla storia, e il cambio di rappresentazione delle immagini e delle parole in diversi tempi e contesti. Questa prova di video funge da specchio delle diverse parti del progetto e narra, attraverso tre generazioni, la ricerca del tesoro chiamato rivoluzione.
Love, Carol
Mónica Araya Vega
2019
Centro Cultural de España en San José
A partire da vecchi filmati familiari l’artista ricerca ciò che è successo nel passato per capire il presente, analizzando l’apprendimento incosciente dei comportamenti nello spazio familiare. L’artista prende in esame il divorzio dei genitori, nel quale c’è la manipolazione e l’influenza e l’obbligo tacito di scegliere una fazione. Pertanto esplora tematiche personali che ha sempre avuto paura di esternare, partendo da uno sguardo femminista e segnalando i comportamenti dannosi e normalizzati nella società.
Poem / Poema. Poem #1 Patología compatible / Poem #2 H2O + O2 / Poem #3 Tango / Poem #4 Viseversa / Poem #5 Dirac Equation]
Jhafis Quintero y Johanna Barilier
2020
Centro Cultural de España en Panamá
Attraverso cinque brevi situazioni, due corpi, due entità, entrano in contatto. Utilizzando un’ascetica fotografia in bianco e nero, le luci e le ombre diventano il correlativo delle convulse interazioni di due soggetti a confronto e allo stesso tempo uniti, ciascuno portatore di potenti mondi interiori. Una telecamera fissa ricrea una sensazione di spazio senza uscita, di reclusione inevitabile, ma allo stesso tempo desiderata.
Sensaciones que hablan
Daniel Nsue Asumu
2020
Centro Cultural de España en Bata y Centro Cultural de España en Malabo
In quest’opera il video artista cerca di trasmettere le emozioni che quotidianamente tutti viviamo. La vita è una catena di sensazioni che lasciamo impresse come orme, e che alla fine saranno ricordi per chi ci vuole apprezza. Questa combinazione costruita tra musica e immagine, ci porta a volare a occhi chiusi in un viaggio pieno di immaginazioni e di sorprese.
CON CUERPO ADJUNTO. FEMINISMOS Y NUEVAS MASCULINIDADES
Ausente
Virginia Paguaga
2020
Centro Cultural de España en Nicaragua
Opera audiovisiva generata a partire dal mio trasferimento forzato fuori dal Nicaragua nel 2019. Di come in mezzo alla violenza vivo l’esperienza della maternità come spazio sicuro per il sublime e di come la politica definisce le nostre vite ed entra nella parte più tenera della nostra convivenza. Memoria di una madre assente.
Belly / Barriga
María Raquel Cochez
2013
Centro Cultural de España en Panamá
Il corpo è un campo di battaglia, oggetto di una serie di processi che incidono sulla costruzione della propria immagine psichica e sociale. È parte dell’immagine che il soggetto ha di sé; per estensione, il processo è simile se si deve ottenere una visione degli “altri”. In questo video, un primo piano sull’addome dell’artista immersa nell’acqua appare in congiunzione a delle mani infantili che giocano con la pelle in eccesso, risultato della biografia corporea dell’artista.
“Bien Sentadita”, de la serie de videoperformances “Cómo forja señoritas”
Lía Vallejo
2018
Centro Cultural de España Tegucigalpa
L’assegnazione sociale dell’essere donna si socializza nella cultura della paura, colpa e obbedienza, accompagnata da processi di femminizzazione non opzionali ma regolati, che sostiene la condizione di donna utile, donna bella, donna curata, donna estetica, rafforzando i mandati sociali che condizionano il nostro esistere.
L’opera “Bien sentadita” appartiene alla serie di video performance “Cómo forjar señoritas”, che mettono in discussione i rituali di femminizzazione per costruire la donna pudica, modesta, pulita, al servizio dell’eterosessualità tramite processi di modificazione violenta del corpo. Mandati sociali che la società patriarcale, maschilista e misogina ci assegna come unica possibilità di essere, esistere e comportarci.
Canal de YouTube “Chola Bocona” 16 episodios
Yola Mamani
2019
Centro Cultural de España en La Paz
Nel suo canale YouTube “Chola Bocona”
Yola Mamani assume la propria figura sotto forma di “chola pubblica”, come una costruzione sociale e storica, e allo stesso tempo come opinionista e analista della società boliviana dal punto di vista della chola (donna andina indigena-urbana).
Gli episodi dedicati a temi specifici interpellano la Bolivia contemporanea da una prospettiva razzializzata, femminista e di classe sociale.
Cita con cura
Marie Jiménez
2020
Centro Cultural de España en Santo Domingo
Formaggio, pane, salame, prosciutto e pomodoro riempiono un piattino in un ambiente rosa. Un prete mangia mentre Camila, di 26 anni, gli chiede perché non vuole che la nonna sappia che lei è gay.
Il prete, indifferente, annusa il tappo del vino che si è appena servito. Camila piange. Il prete la guarda male. Camila piange a dirotto, non capisce. Il prete si china per prendere il formaggio dal suo altare ridicolmente basso. Camila se ne va.
Clima
Ignacio Alcántara
2020
Centro Cultural de España en Santo Domingo
“Clima” consiste in quattro bozzetti audiovisivi sulla mascolinità, che nella nostra cultura latinoamericana è estremamente tossica e raramente si parla di “mascolinità” al plurale. Ritraggono aspetti della mascolinità che ho ereditato da mio padre e la mia lotta per disintossicarmene. Prendo coscienza e riconosco di ignorare aspetti che erano presenti dentro di me.
Control de la Respiración
M Román
2019
Centro Cultural de España en Lima
L’animazione prende come punto di partenza i disegni e le registrazioni sonore della quotidianità di un recluso con il quale l’artista è entrato in contatto quando è diventato professore d’arte nel penitenziario Miguel Castro Castro a Lima, Perù. Il video ricompone la vita di tutti i giorni del detenuto per sottolineare le dinamiche del desiderio e della fantasia visti secondo un terreno di controllo nettamente maschile. Il risultato è una raccolta di sensazioni e aneliti che sfida la lettura tradizionale di virilità regolata secondo la visione di miglioramento sociale impartita dallo stato peruviano.
Gordas Belleza Hegemónica
Cuqui 2019
Centro Cultural de España en Córdoba
Mi interessa che GORDAS BELLEZA https://cuquicu.blogspot.com/2020/06/ pandemia-de-obesidad-desmembramiento-de.html
HEGEMÓNICA non abbia corpo. La materialità video permette l’ampliamento, come se fosse soltanto un’anima. Questo si esplicita nell’esagramma 57, Sun, Il Vento, l’Influenza Invisibile. Proprio come nel cinema, la materialità digitale è il film, in caso contrario, sarebbe come se un cineasta, invece di inviare il film terminato a un festival, per esempio, pronto per essere proiettato, inviasse singole parti come: la location, i costumi, gli attori, la sceneggiatura su carta.
Intimacy (Intimidad)
Elena Tejada-Herrera
2016-2017
Centro Cultural de España en Lima
Intimacy appartiene alla serie Art with an MBA (Arte con un Master in Business Administration) e presenta l’artista che si filma sopra il letto utilizzando un selfie stick. Sulle immagini del suo corpo si presentano screen shot di sexting accompagnati da una voce off dell’artista che legge passaggi di un articolo del New York Times sui recenti cambiamenti nell’economia cinese e ricordi di scambi affettivi. Il video fa riferimento all’auto-amministrazione del desiderio come risposta all’imperante gerarchizzazione del lavoro nell’economia neoliberale globale che emargina corpi fuori dal desiderio patriarcale.
La Ekeka siempre fui yo
María Galindo/Mujeres Creando
2013
Centro Cultural de España en La Paz
Il cortometraggio rivendica la figura popolare del “Ekeko”, portatore di fortuna, fatta carne nella donna che si fa sempre carico del benessere altrui; allo stesso tempo raccoglie una pratica di giustizia del movimento Mujeres Creando. Questa pratica di giustizia è l’accompagnamento quotidiano di donne che decidono di rompere un rapporto violento e, invece di fuggire a mani vuote e ricominciare da zero, il movimento aiuta le donne a portare con sé tutto il frutto del loro lavoro.
Las apariencias
Daniel Assedu Mobajale
2020
Centro Cultural de España en Bata y Centro Cultural de España en Malabo
Il video artista esprime il conflitto sofferto da una giovane che in solitudine viene maltrattata dal marito. Vittima di un matrimonio combinato, si sente inerme di fronte a questa violenza quotidiana che l’uomo esercita su di lei davanti allo sguardo condiscendente della madre, che vede il maltrattatore come un uomo buono e gentile. La vittima si vede costretta a capire e perdonare perché altrimenti si sentirà emarginata, rimanendo sola e con un futuro miserabile.
Sala para Estar
Soledad Videla
2011-2020
Centro Cultural de España en Córdoba
Quest’opera video contiene file con immagini del PROGETTO DI SCAMBIO TRA
DONNE GITANE E CREOLE che viene realizzato dal 2011 in diverse città dell’Argentina. Sala para estar si propone come territorio di incontro per “stare lì”. Collocarsi tra… costruire uno spazio che trasformi il luogo fisico in situazione, in sala, in corpo, in casa, in laboratorio. Mettersi sulle soglie. Sfumare il dentro e il fuori di spazi collettivi.
Self Portrait
Francesca Arri
2012
Real Academia de España en Roma
Costruire il proprio corpo, o meglio sfidarlo con restrizioni, regole, disciplina e attraverso questo training affrontare la sempre problematica costruzione dell’immagine di sè: questo è il filo che unisce i lavori di Francesca Arri. L’artista delinea il proprio ritratto con una video-performance dove l’artista schernisce la propria immagine come fosse allo specchio, puntandoci contro il dito, come monito e sfida per se e per gli altri.
Una Mujer Perfecta
Vanessa De La O Jiménez
2018
Centro Cultural de España en San José
“Una Mujer Perfecta” tratta l’idea dell’essere donna e l’idea di perfezione come costruzione sociale. Le donne hanno un evidente mandato su come devono essere, ma anche molte sottigliezze relative alla perfezione per quanto riguarda delicatezza, bellezza, famiglia. Mettere in discussione l’aspetto più semplice, più ovvio, i mandati violenti più piccoli, porta a un incontro profondo con se stessi, con le molteplici età e tempi e abilita uno sguardo di fronte alla politica del piccolo e del sottile.
EN CONFLICTO. FOCO, CUERPOS Y GEOPOLÍTICA
Bacterias y otros conflictos
Alejandro De La Guerra
2020
Centro Cultural de España en Nicaragua
In Nicaragua la reclusione è iniziata con le proteste dell’aprile del 2018. A causa della repressione della polizia, il regime degli Ortega-Murillo (ORMU) è come la pandemia, hanno attaccato e dissanguato il popolo del Nicaragua in maniera invisibile. Per questo video ho filmato con una telecamera microscopica il comportamento di alcuni microorganismi raccolti nel mio appartamento principalmente dal mio stesso corpo che possono rappresentare i poliziotti e i paramilitari, e alcuni sono “i manifestanti”.
Evidencia
Fernando Foglino
2019-2020
Centro Cultural de España en Montevideo
I monumenti pubblici raccontano la storia ufficiale dei paesi e sono insistentemente vandalizzati. Cos’è cambiato negli ultimi cento anni nelle nostre giovani nazioni latinoamericane? L’opera “Evidencia” contrappone il termine Vandalismo, utilizzato dalla stampa, a quello di Manifestazione, e affronta il complesso tema della distruzione dell’arte partendo dalla fiction e dall’arte contemporanea.
Grito
Andrés Denegri
2008
Centro Cultural de España en Buenos Aires
Grito è una serie di autoritratti dell’infanzia, un’infanzia vissuta durante l’ultima dittatura militare che ha devastato l’Argentina con la sua politica di terrore e sterminio. La complessa trama della composizione familiare dell’autore esprime nell’intimità ciò che risuona sul piano sociale. In Grito Denegri lavora con ricordi autobiografici, immagini che riecheggiano nella testa e parole che si strozzano in gola. Riprese in Super 8, fotografie familiari e istituzionali, quaderni della scuola elementare, lettere e registrazioni audio si intrecciano per mostrare l’ambiente in cui vive questo bambino: un universo oscuro, repressivo e decadente.
Gritos Mudos
Susana Sánchez Carballo
2017
Centro Cultural de España en San José
I meccanismi sociali di controllo e vigilanza governano il nostro modo di vedere le cose e i corpi. Allo stesso modo, sono serviti come metodo di esclusione che per anni ha messo sistematicamente a tacere la voce delle popolazioni che sono state vittime di violenza. Si mette in metafora visiva la natura morta, un’interpretazione della domesticità e della reclusione, e i corpi come territori pubblici, spazi in cui si aprono, offrendo uno sguardo che funge da resistenza.
La vida en rojo
Julia Mensch
2016-2018
Centro Cultural de España en Buenos Aires
La vida en rojo è un progetto iniziato nel 2008, e ha come punto di partenza la vita privata e politica della mia famiglia. Una ricerca artistica sulla storia del comunismo nel XX secolo, l’uso di documenti personali per riflettere sulla storia, e il cambio di rappresentazione delle immagini e delle parole in diversi tempi e contesti. Questa prova di video funge da specchio delle diverse parti del progetto e narra, attraverso tre generazioni, la ricerca del tesoro chiamato rivoluzione.
OQ XIMTALI
Manuel Chavajay
2017
Centro Cultural de España en Guatemala
Un gruppo di pescatori nel Lago di Atitlán formano un cerchio legati tra di loro. L’aspettativa anticipa che si coordineranno per remare fino a riva, ma l’azione rivela una metafora del nostro comportamento; abituati a ricevere ordini senza considerare se questi ci porteranno dei problemi. Su una scala maggiore, la metafora si estende ai nostri sistemi politici ed educativi. La massa si lega senza avanzare. Il paesaggio è parte, e la geometria in movimento; un disegno sul lago.
Paisaje para una persona
Florencia Levy
2015
Centro Cultural de España en Buenos Aires
Paisaje para una persona è un percorso virtuale per diverse zone geografiche, filmato interamente sulla piattaforma Google Street View e montato con materiale d’archivio e interviste realizzate a persone che si trovavano in una situazione di transito o di deportazione. I diversi paesaggi servono da scenario a una narrazione che li fa deviare dalla loro possibile rappresentazione, generando un nuovo strato di significato tra l’immagine, il racconto, ed enunciando la domanda per le politiche migratorie.
Pronóstico
Óscar Moises Diaz
2020
Centro Cultural de España en El Salvador durante la guerra civile degli anni Ottanta nello stato di El Salvador, una moltitudine viene massacrata davanti a una chiesa. Attraverso la giustapposizione e la manipolazione di filmato non relazionato, creo un evento sincronizzato che riflette una narrativa utilizzata storicamente come canale per perpetuare la mancanza di responsabilità da parte dei poteri oppressori e per stravolgere i paradigmi sociopolitici centroamericani.
Una lettura della carta astrale di El Salvador, ripassando la pandemia e l’azione del governo salvadoregno. Quarantena, militarizzazione ed economia. Óscar Moisés Díaz esercita professionalmente l’astrologia, il lavoro presenta la necessità di soluzioni di fronte all’incertezza dei tempi presenti.
UN PLANETA (SIN) PLURAL. LA DIVERSIDAD EN RIESGO
1001. Arqueología futura
Laramascoto
2019
Real Academia de España en Roma
Il futuro che immaginiamo non passa attraverso uno sviluppo tecnologico di larga portata, ma attraverso un ritorno alla coscienza della terra come agente vivo e con capacità di azione. Questo scenario fantascientifico senza tracce umane, accompagnato da un “fossile del futuro” la cui forma organica è per noi irriconoscibile, serve a interrogarci sul nostro sistema e la sua evoluzione verso la nostra stessa estinzione. Lo spettatore potrebbe trovarsi di fronte a un’era geologica incipiente o un tempo successivo all’antropocene.
Armero (De la serie: Antes del Presente)
Tania Ximena
2018
Through
The Looking Glass 1 (Tiro al blanco/ Target Shooting)
Alma Leiva
2011
Centro Cultural de España Tegucigalpa
Nel video un uomo punta un fucile contro un obiettivo invisibile. Nel frattempo,
Centro Cultural de España en México
Armero (2018) fa parte della serie “Antes del Presente” [Prima del presente], un progetto che verte sulla storia del vulcano Nevado del Ruiz che causò, con la sua ultima eruzione, il più grandi disastro naturale della Colombia nel XX secolo. Il video ruota attorno alla storia di Freddy, un sopravvissuto della valanga del 1985. È attraverso la sua testimonianza che il paesaggio si rivela progressivamente. In questo senso, Tania Ximena fa appello al sensoriale più che al rappresentativo, cercando di dare un altro significato, con la poeticità, a un’enorme tragedia.
BARBIE WAWACHA
PROYECTO 3399
2011
Centro Cultural de España en Lima
Il video fa parte del progetto Made in Taiwan. Secondo l’interpretazione e le soluzioni di Milagros e Yuri Palomino, Barbie Wawacha traduce e interpreta in quechua, lingua originaria delle Ande peruviane e lingua materna del 59,8% degli abitanti della regione Cusco, l’hit “Barbie Girl” (1997) della band danese Aqua. Presentato come un video musicale composto da immagini e registrazioni quotidiane di Cusco, il progetto abbraccia le contraddizioni e le frizioni che derivano dal convivere con un’immagine occidentale e una relazione con la cultura andina.
Contaminación medioambiental
Juan Agustín Nve
2020
Centro Cultural de España en Bata y Centro Cultural de España en Malabo
Con quest’opera, il video artista cerca di mostrare il contrasto e il cambiamento subito dall’ambiente provocato dall’inquinamento e dall’intervento umano. Tramite tre elementi simbolici, il fiume che rappresenta le acque, le città, e il bicchiere che rappresenta l’atmosfera. L’autore ci fa riflettere e ci sensibilizza sulle drastiche conseguenze causate dagli umani, lasciando un messaggio chiaro: “Tutto quello che si butta nel fiume alla fine ritorna verso di noi”.
EDF
Nicolás Rupcich
2013
Centro Cultural de España en Santiago de Chile
In “EDF”, il paesaggio della Patagonia Cilena del parco nazionale “Torres del Paine” è il protagonista. Ciò che vediamo è simile alla transizione fade to black, ma in questo caso non funziona in due dimensioni bensì in relazione alla geografia e allo spazio tridimensionale, alludendo al problema della rappresentazione nei media digitali nella cosiddetta “era post-fotografica”. In questo senso, il lavoro fa appello all’idea della natura come un luogo scombinato e trasposto allo spazio della fiction.
From the Ashes (De las cenizas)
Donna Conlon
2019
Centro Cultural de España en Panamá
L’essere umano è la specie animale con maggior capacità distruttiva del pianeta. Il video presenta, attraverso un’economia di piani e situazioni, una poetica riflessione sul pensiero binario che separa il naturale dall’umano e che mina il rapporto con la biosfera. In una sottile sequenza, scopriamo un essere fragile che riposa tranquillamente su una mano che non si chiude per stritolare o imprigionare, ma rimane aperta, in un contatto rispettoso e delicato.
Jiwasan amayusa / El pensar de nuestras filosofías
Elvira Espejo
2019-2020 (Producción en proceso)
Centro Cultural de España en La Paz
La trilogia è ispirata all’educazione visiva delle comunità andine, un’istruzione permanente che passa di generazione in generazione dalle nonne alle bambine e ai bambini. Imparare a tessere è molto diverso dall’esperienza in aule con lavagne e schermi, queste sono logiche che non concordano con l’ambiente della comunità. I video si focalizzano sulla poesia dell’apprendimento: Qapunt iñjaña (vedere con la rocca) / Qaput amayuña (sentire dalla rocca) / Qapunt amayt´aña (pensare con la rocca) / Qaput isapt´aña (ascoltare dalla rocca)…
Kambuchi (Tentayape)
Joaquín Sánchez
2010
Centro Cultural Juan de Salazar (Asunción)
Tramite una narrativa minima, si ritrae in un’inquadratura fissa una donna della comunità guaranì di Tentayape, nelle Yungas del Chaco boliviano. Il tempo senza movimento e la contemplazione del corpo immobile ci conduce a un finale sorprendente: la protagonista spezza la quiete con un gesto di ribellione. Con questo gesto assertivo, la performer segnalerebbe la fragilità della ceramica come metafora della fine del suo popolo e la distruzione della natura nella quale fiorisce.
La devastación
David Pérez Karmadavis
2020
Centro Cultural de España en Santo
Domingo
La devastazione è scenario in cenere e macerie. L’opera presenta il fare e il disfare allo stesso tempo. L’azione quotidiana di mangiare e la distruzione avvengono simultaneamente, come metafora dell’insoddisfazione e attestazione terrena del nostro passaggio.
La herida del horizonte
Alejandra Mastro
2020
Centro Cultural Juan de Salazar (Asunción) Nel video La herida del horizonte, l’artista Alejandra Mastro costruisce una scena a partire da un paesaggio naturale del Chaco Boreale. L’animazione ha un’origine fotografica e genera un travelling o movimento nello spazio a cui aderisce un gesto plastico mostrato nel quadro; nel frattempo una muraglia di suoni del bosco ricama, fuori campo, questo racconto distopico.
La noche (no) es muda
Erik Tlaseca
2018-2020
Centro Cultural de España en México
La noche (no) es muda (2018-2020) [La notte (non) è muta] di Erik Tlaseca ci porta in un percorso in cui vediamo una strana figura deambulare in attesa della notte. Nell’opera, paesaggio boschivi di un verde intenso di San Pedro de Jocotipac, Oaxaca, si contrappongono ai grigi paesaggi industriali della Colonia Vallejo a Città del Messico, creando un clima onirico che distorce la nostra concezione di spazio e tempo, in cui le frontiere del capitalismo si misurano con i limiti della natura.
Punto de Encuentro – Intervenciones al Río Pensativo
Mario Alberto López
2016
Centro Cultural de España en Guatemala
Il Río Pensativo ad Antigua Guatemala fu sostentamento per la città durante la colonia spagnola. Oggi è un fiume con altre materialità, assorbito dall’espansione dell’abitato e contaminato dalle abitudini di consumo dell’antropocene. Ma il fiume continua a scorrere e a percorrere cammini. In quest’opera, l’artista interviene sul paesaggio con corpi misteriosi che aprono nuove relazioni e possibilità dello spazio, la materia e il tempo in serie di interrelazioni e manifestazioni di energia da contemplare.
PENSAR LA ÉPOCA. VISIBILIZAR LAS LENTES
All I need is All I need
Matteo Attruia
2020
Real Academia de España en Roma
All I need is all I need is all I need is all... la ripetizione della frase senza soluzione di continuità. Tutto quello di cui ho bisogno coincide con il tutto di cui ho bisogno che è esattamente tutto quello di cui ho bisogno. Non ho bisogno di denaro, non ho bisogno di amore, non ho bisogno di famiglia...ho bisogno di tutto. Se posso scegliere, perché mai dovrei scegliere? Scelgo di prendermi tutto. Un tutto che forse coincide con un niente... e quindi qual è la scelta giusta?
Cumpleaños
Sofía Desuque
2019
Centro Cultural de España en Rosario
Lontananza e prossimità dell’ambito familiare. Desuque fa dello schermo un microscopio anomalo; l’impercettibile si amplifica e ritorna persistente fino a diventare spettrale. L’immagine di un compleanno viene smantellata punto per punto. Ogni gesto, aumentato nella lentezza e sovraesposto nella ripetizione, mostra la propria impostura. La felicità familiare sembra rimanere intrappolata nella pura rappresentazione. Limite dell’immagine: la felicità non si può catturare ma viene trasformata in posa. Ma, chiaramente, al di fuori di essa, existe.
EN/CLAVE POP: Villa Alegre
Luisho Díaz
2017
Centro Cultural de España en Montevideo
Questo video è un ritratto della città di Villa Alegre realizzato attraverso il desiderio dell’artista di essere una stella con la volontà e l’autonomia dei vicini di decidere che cosa dovesse essere incluso nella registrazione. Quest’opera fa parte della serie di performance e interventi “EN/CLAVE
POP”, che l’artista realizza dal 2015. Tag: Autofiction, Cittandinanza, Mito. Specifiche/ Video interamente girato con un iPhone 7C.
Ese verde incandescente extrañamente familiar
Julia Castagno
2020
Centro Cultural de España en Montevideo
L’opera si presenta come una raccolta di sette video di piccolo formato in cui il colore verde è il filo conduttore per svelare i diversi approcci della vita contemporanea in cui assistiamo a un sistema geopolitico ed economico in cui la cultura visiva è un luogo privilegiato dal quale avvicinarci per comprendere e fare una critica.
Extraño
Gabriela Novoa y Meme Flores
2020
Centro Cultural de España en El Salvador
Extraño è il ritratto della nostalgia, della libertà durante la reclusione, in cui i ricordi si trasformano nei pilastri che ci mantengono a galla in questa crisi sanitaria.
Scritta da Gabriela Novoa
Diretta da Gabriela Novoa e Meme Flores
Prodotta da Suave leve
La Rosa
Manuela García
2020
Centro Cultural de España en México
In La Rosa (2020) García offre un ritratto intimo di un panificio che si trova nella Colonia
Santa María la Ribera, a Città del Messico, e dei suoi impiegati. La Rosa costituisce una sorta di isola che spunta nel mezzo di un paesaggio urbano in via di gentifricazione.
Nell’opera inquadrature aperte dei personaggi e dell’ambiente circostante coesistono con vedute massimizzate di piccoli dettagli. Il gioco di scale risponde al fatto che García non cerca di offrire una comprensione della totalità di quanto ritrattato ma di portare lo spettatore a vedere con altri occhi.
Money Honey, *Euro.
Antoni Abad
2019
Real Academia de España en Roma
Si tratta di una proiezione di software in cui una moltitudine di scarafaggi disegnano con i propri corpi il simbolo dell’Euro. Una volta finito il disegno, gli scarafaggi si disperdono per tornare poi nuovamente a configurarlo.
Una realizzazione di vita artificiale in cui gli insetti si collocano in maniera aleatoria ogni volta che costruiscono il simbolo, di modo che le combinazioni che creano sono sempre diverse. La condizione dell’aleatorio gioca un ruolo fondamentale in quest’opera.
Sobre la preproducción o el deseo de imágenes
Francisco Belarmino
2016
Centro Cultural de España en Santiago de Chile
Il lavoro riflette sulla pre-produzione come tappa fondamentale nella catena produttiva di immagini, intesa come lo spazio in cui si concettualizzano le immagini prima della loro esistenza. L’autore ci presenta la sua testa incappucciata con una maschera chroma key (effetto del cinema e vfx) a mo’ di busto scultoreo classico, presentando il render non tanto come una simulazione di qualcosa nel futuro, ma situandosi come base concreta per pensare la creazione di immagini e immaginari.
Subtitulado
Milena Garcia
2020
Centro Cultural de España en Nicaragua
Nell’aprile del 2018 un’ondata di proteste anti-governative è stata brutalmente repressa. I gruppi resistenti hanno sfidato il partito al potere, con gli stessi metodi e slogan della rivoluzione del 1979. Stavano filmando tutti: quelli che pensavano che sarebbero morti, quelli che sono morti e migliaia di testimoni che sporgevano i cellulari fuori dalle finestre. In questo video, costruito con immagini che ho filmato con il mio telefono tra l’aprile e il dicembre del 2018, e inquadrature prese dall’archivio della rivolta popolare degli anni Settanta, ho cercato di prendere le distanze dal pamphlet libertario, dandogli una forma di desiderio stanco, di viaggio triste verso nessun luogo.
“Tercer Mundo” / THIRD WORLD
Hugo Ochoa
2007
Centro Cultural de España Tegucigalpa
Questo saggio visivo è una sorta di cubismo videografico che cerca di catturare un frammento di tempo/spazio centroamericano. Per anni ho viaggiato con macchina fotografica e telecamera per l’America Centrale realizzando ritratti di persone e di ciò che le circondava. L’idea era filmare con la telecamera il prima-durante-dopo del rituale fotografico. Mi interessava esplorare le tensioni e i flussi tra l’immagine statica e l’immagine in movimento, nonché riflettere sull’immagine come segno. Pertanto, ho cercato di catturare con la mia telecamera il movimento interno di quel momento congelato proprio del genere del ritratto. È in questo momento di sospensione che il video, la fotografia e la pittura si incrociano.
Tráfico Aéreo
Jorge Linares
2013
Centro Cultural de España en Guatemala
Lentamente cominciano ad apparire aerei che riempiono il cielo come se fossero uccelli rapaci sopra la città. Come dice il titolo, l’artista crea una finzione di “traffico aereo” per creare una metafora sulle immagini generate dalla città e le conseguenze della società neoliberale del consumo in cui viviamo. Gli avvoltoi che incombono sulla città sono alla caccia di prede per sfamarsi. Gli aerei si intromettono nella loro coreografia aerea mentre la città si avvita nel suo stesso assurdo vortice.
USER92.exe
Américo Retamal y Javiera Astudillo
2018-2019
Centro Cultural de España en Santiago de Chile
“USER92.EXE” è un collage audiovisivo in cui lo spettatore “conversa” con un personaggio di finzione (una ragazza-computer) per condividere un momento, ricordare insieme e riflettere su quanto sia cambiato il nostro modo di entrare in relazione con i dispositivi tecnologici e internet negli ultimi 15 anni. Fotolog, msn e animé dosmilero sono luoghi proposti per una ricerca sul recente passato: in quale momento le nostre emozioni hanno cominciato a fluire e funzionare virtualmente?
ROMA/S. LA PIEL Y LOS ELEMENTOS
El viento que recoge los pecados
Melissa Guevara
2019
Centro Cultural de España en El Salvador
L’argilla come il nostro territorio, la nostra storia, noi, io. La polvere, come quella, precaria. Che cosa siamo? Che cosa ci definisce? Che cosa ci muove e che cosa no?
Joven y Carmen (Fragmento)
Borja Santomé
2019
Real Academia de España en Roma
“Joven y Carmen” ci parla di uno strano personaggio e delle sue peripezie trascendentali in mezzo alla grande città. È un racconto psichedelico in cui si plasma lo spirito della periferia urbana utilizzando uno sguardo onirico e surrealista. Mi interessa parlare di Roma ispirandomi al suo suono e alla sua atmosfera in un modo che si avvicina alle mie esperienze.
non-physical entities
Lamberto Teotino
2020
Real Academia de España en Roma
Questo progetto video prosegue l’analisi che negli ultimi dieci anni ha contraddistinto la mia ricerca artistica volta in forma di “impulso archivistico” al recupero e allo studio dell’immagine preesistente. Successivamente al recupero di fotografie d’archivio e ad immagini di dipinti d’epoca, qui troviamo l’analisi del video d’archivio. Questo nuovo capitolo di ricerca nei confronti del video, assieme agli altri due sulla fotografia e sulla pittura, formano quella che ho definito la “trilogia dell’archivio“.
Río Paraguay (2º Movimiento)
Paz Encina
2010
Centro Cultural Juan de Salazar (Asunción)
L’esperienza estetica che percorre a livello mediale la fotografia, la pittura e il video, serve da punto di partenza per questo video. Preservati nella memoria visiva di una fotografia in bianco e nero e di un dipinto a olio realizzati dall’artista Guido Boggiani alla fine del XIX secolo, questi documenti iconografici sono i detonatori di un cinetismo successivo. Il secondo movimento, come afferma l’autrice, prende luogo e tempo presenti, mentre restituisce l’umanità contenuta in un’immagine precedente.
ROMA 167/62 (Trailer)
Carlos Higinio
2018
Real Academia de España en Roma
A Roma, negli anni ’60 e ’70, e grazie alla Legge 167, si avviarono importanti progetti urbanistici per quanto concerne numero di abitazioni e qualità dei progetti. La somma di molteplici fattori dà come risultato opere di grande valore architettonico che presto cominceranno a mostrare situazioni problematiche.
Roma 167/62 esplora il rapporto tra le concezioni esemplari che conducono all’ideazione ed esecuzione di questi sviluppi urbani e il risultato degli stessi.
Roma 3 Variazioni (Trailer)
José Guerrero y Antonio Blanco Tejero 2017
Real Academia de España en Roma
‘Roma 3 Variazioni’ è un’opera audiovisiva frutto della collaborazione di José Guerrero (Granada 1979), fotografo, e Antonio Blanco Tejero (Jerez de la Frontera 1979), compositore. Questo lavoro nasce a partire dall’incontro dei due artisti alla Real Academia de España en Roma, dove hanno convissuto come borsisti-residenti negli anni 2015-2016. I due realizzano quest’opera audiovisiva sulla base di interessi e idee che già condividevano prima di conoscersi, e che alimentano qui attraverso un dialogo indissolubile “musica-immagine”. Insieme costruiscono una drammaturgia in tre capitoli la cui sequenza è metaforicamente correlata alle idee di origine, transito e finale o rinascita. Attraverso un acquedotto sotterraneo, la corrente di un fiume e una grotta in riva al mare, il corso dell’acqua è veicolo e protagonista di tutta la narrazione.
ROMA. LSR 170516 – 170304
Laura F. Gibellini
2018
Real Academia de España en Roma
ROMA. LSR 170516 – 170304 ha la sua base nello studio della luce Romana. È un fatto fisico che la luce viaggia in linea retta e in modo radiale. Sono le interruzioni della sua continuità a far sì che gli oggetti si mostrino o meno visibili. In questo caso il video si situa all’interno del Pantheon di Agrippa: un’eclisse si interpone nell’occhio di bue, sfumando i raggi di luce che a loro volta filtrano attraverso gli alberi romani, mentre la telecamera attraversa il buco e finisce in uno spazio naturale inondato di luce.
The tale of the mass, the grid and the
Mesh
Andrea Canepa
2020
Real Academia de España en Roma
Il video The tale of the mass, the grid and the mesh (El cuento de la masa, la cuadrícula y la red) è uno studio tattile della storia dell’astrazione. Racconti sull’evoluzione della scrittura, l’architettura, il lavoro e la pedagogia si legano associativamente in un’antologia visiva dei blocchi di costruzione del XX secolo.
Real Academia de España en Roma
Piazza San Pietro in Montorio 3 00153 Roma (Italia)
Las fotografías y fotogramas que ilustran la presente publicación han sido cedidos por los creadores de los videos han formado parte de las exposiciónes www.reactivandovideografias.com y El privilegio de la imagen. 64 imágenes de época.
Asimismo, el apartado de la exposición El privilegio de la imagen. 64 imágenes de época incluye imágenes de la inauguración y del montaje en sala de Francis J. D’Costa.
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