9 - 29 SETTEMBRE 2018 MOSTRA A CURA DI / EXHIBITION CURATED BY: ALESSANDRA REDAELLI CATALOGO A CURA DI / CATALOGUE CURATED BY: SOFIA MACCHI E GIULIA STABILINI TESTO / TEXT: ALESSANDRA REDAELLI FOTO / PICTURES: MARIO CHIODETTI PROGETTO GRAFICO / GRAPHIC PROJECT: GRETA PALASTANGA TRADUZIONI / TRANSLATIONS: CLAIRE ANGEL BONNER Copyright © PUNTO SULL’ARTE
P U N T O S U L L A R T E | V I A L E S A N T ’A N T O N I O 5 9 / 6 1 | 2 1 1 0 0 V A R E S E ( V A ) I TA LY | + 3 9 0 3 3 2 3 2 0 9 9 0 | I N F O @ P U N T O S U L L A R T E . I T
L’IMPERO DEGLI OGGETTI “Bello come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello” Isidore Lucien Ducasse, Conte di Lautréamont Densa di stratificazioni di senso, gremita di allusioni, simbolismi, citazioni e trappole concettuali, la pittura di Alberto Magnani possiede una caratteristica indiscutibile: produce piacere. Sfido chiunque si trovi davanti a una delle sue teorie di camicie appese dai colori saturi, dipinte in punta di pennello ad altissima definizione, a negare il senso di gioia profonda comunicato dagli accordi cromatici, dalle forme nettissime e dal senso della profondità. Mi spingerei a dire che si prova quasi la sensazione di avvertire sulla lingua il gusto pungente del fucsia che sa di lampone, l’avvolgente consistenza pannosa del bianco, il brivido esotico del mango nel giallo caldo e il retrogusto acidulo nel rosso fragola. Se ci dovessimo arrestare qui – e comunque non sarebbe poco – ci verrebbe istintivamente da inserire questo artista preciso, paziente e con una fantasia onnivora, dentro un discorso relativo all’arte pop. Del resto lui alla Pop Art è stato molto vicino, vivendo a lungo negli Stati Uniti proprio nel momento in cui lì il centro focale degli intellettuali radical chic era la Factory di Andy Warhol. Ma Magnani è europeo, anzi – di più – è italiano, e se qualcosa di quell’atmosfera ha assorbito, non è riuscito ad evitare di insufflarle un contenuto che laggiù non possedeva: l’anima. Ecco che allora il pop è
solo un indizio dal quale partire alla scoperta di un artista complesso e labirintico. Perché l’oggetto sì, certamente, è una delle basi del pop. Ma la scelta di quale oggetto apre tutta un’altra storia. Le camicie, dicevamo. Non un oggetto di consumo – dunque – simbolo di un’umanità bulimica e superficiale, ma un oggetto personale, di affezione, per certi versi. Una seconda pelle che non solo ci copre, ma anche ci identifica. Un involucro che senza di noi appare vuoto, ma che conserva la nostra impronta, la nostra gestualità. Il nostro profumo. E se appesi uno in fila all’altro gli indumenti evocano anime che si urtano e pensieri che si mescolano, quando invece l’artista li lascia aggrovigliati in un cassetto e ce li mostra così, come dopo il passaggio di una mano frettolosa, la stoffa diventa altro, l’anima si diluisce nella forma e la forma diventa il pretesto per un gioco in bilico tra quella figurazione alla quale l’artista è caparbiamente radicato e un astratto appena suggerito, un’allusione di caos possibile, ma sempre tenuto sotto stretto controllo. Oggi Magnani, però, decide di portarci verso altre strade. Già qualche tempo fa la serie delle cornici vuote – accatastate in equilibrio instabile – suggeriva un bisogno di ispirazioni nuove. E ci parlava di un vuoto diverso, non quello di una manica abbandonata dal suo braccio, ma quello (gravido di altri significati, soprattutto per un artista) di una cornice privata del suo stesso senso: il quadro. Era quello che Magnani definisce “il riposo
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dell’artista”, un momento di riflessione su di sé e sulla propria vocazione, un bisogno – anche – di ispirazioni nuove. Lui va a cercarle nei mercatini, quelle ispirazioni, seguendo un’abitudine presa, anche quella, negli States, alla ricerca di quelle che Gozzano avrebbe definito “le buone cose di pessimo gusto” e che lui ama per quella bellezza che scova nascosta in fondo alla banalità. Ciò che lo colpisce, improvvisamente, è il fascino prettamente plastico dei caschi – caschi da bicicletta o da moto – e la loro assonanza con la maschera. Come tutti gli artisti, soprattutto i pittori, Magnani possiede occhi che non funzionano come i nostri, ma che leggono il mondo in maniera completamente differente. Un pittore, ad esempio, non vede un paesaggio o un bel tramonto sul mare: vede un certo numero di sfumature di verdi e di bruni oppure vede un certo modo di giocare della luce sull’acqua. E così non sappiamo se nella mente di Magnani sia arrivato prima il gioco di assonanze e di sinapsi che andava dispiegandosi tra un casco di bicicletta e una maschera africana posti uno accanto all’altro, oppure se abbia colto prima l’irresistibile fascino di due oggetti che apparivano vuoti proprio in quanto privati della forma (l’uomo, il suo viso, la sua testa) che ne determinava il senso. Il fatto è che proprio lì, in quegli oggetti, ha trovato linfa la sua nuova serie di dipinti. Meno affollati di quelli in cui protagoniste sono le camicie o le cravatte annodate come serpenti in letargo, più puliti, costruiti per pieni e per vuoti con rigore geometrico, caratterizzati da fondi a colori saturi, capaci di enfatizzare la tridimensionalità degli oggetti. Eppure per certi versi vicini a quel surrealismo così ben sintetizzato da Ducasse nella sua frase sulla bellezza di un “incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello”; sì, perché
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Magnani sa giocare magistralmente con le nostre sinapsi e si muove molto a suo agio tra le associazioni libere scatenate dal nostro cervello, ma gli piace confonderci, spiazzarci, e dunque i dialoghi tra oggetti non sono mai troppo immediati né la lettura di senso può limitarsi alla superficie. Eccoci dunque qui, spettatori deliziati ancora una volta da questa mirabile sinfonia di sapori cromatici, a domandarci che cosa ci faccia mai quel casco di bicicletta accanto a quel feticcio di legno, a domandarci se quello è davvero un casco o se non sia per caso il carapace di qualche animale appartenente al futuro e a comprendere poi che quell’oggetto, lì accanto, è una maschera, e quindi qui, a questo livello, si gioca il cortocircuito. La lezione del Surrealismo sfiora il quadro, è appena un retrogusto, ma c’è. Perché nessuno come i surrealisti ha saputo mettere l’oggetto con il suo immenso portato di significati simbolici al centro dell’opera d’arte. Ma è solo – per l’appunto – un retrogusto, perché è troppo intrinsecamente legato ai concetti di armonia e di equilibrio, Alberto Magnani, per potersi mai abbandonare alle atmosfere oniriche e sfuggenti di quel movimento. E poi, quella maschera africana…? Sotto, come un rumore sordo, qui sentiamo anche la voce di Picasso, e la sua passione per l’arte primitiva che lo porta dritto dritto a quelle Demoiselles d’Avignon che ribaltano la visione dell’opera, spalancano lo spazio e inventano il Cubismo. Maschere africane e maschere del Carnevale di Venezia si alternano all’interno di questi lavori in una stratificazione di significati che va sempre più a fondo, sempre un gradino oltre quello che pensavamo di avere compreso. Perché la maschera non è solo un oggetto vuoto adibito a contenere un volto, ma è anche e soprattutto un secondo volto. Un volto che nasconde la nostra più intima
essenza ma che per certi versi, paradossalmente, anche la rivela, dandoci la possibilità – sotto mentite spoglie – di osare ciò che non avremmo mai osato, di essere ciò che realmente, nel profondo, siamo. Qui si dispiega il gioco seduttivo di un pittore capace di rivelare strato dopo strato sotto la bellezza, sotto la perfezione, abissi di significato. La leggibilità della figurazione va qui – ancora una volta – a intrecciarsi con le fascinazioni di un concettuale ripensato e domato come solo la vera arte contemporanea sa fare. E al centro di tutto, re assoluto, c’è l’oggetto. Quell’oggetto che Picasso ha voluto scompaginare e nel quale il Surrealismo ha cercato significati reconditi; l’oggetto che Andy Warhol ha strappato da uno scaffale di un supermercato e che l’espressionismo astratto ha distrutto nel caos. L’oggetto che da sempre l’uomo, in ogni cultura, ha rivestito di poteri e che oggi come non mai è fulcro della nostra vita. Da quella del collezionista, raffinato fruitore degli oggetti più preziosi al mondo, a quella dell’accumulatore seriale, che senza l’oggetto non può vivere, ma che tra gli oggetti finisce per soffocare.
ALESSANDRA REDAELLI
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EMPIRE OF THINGS “As beautiful as the chance meeting on a dissecting-table of a sewing machine and an umbrella” Isidore Lucien Ducasse, Count of Lautréamont Dense with layers of meaning, packed with allusions, symbolism, citation and conceptual traps, Alberto Magnani’s painting possesses one indisputable characteristic: it produces pleasure. I challenge whoever finds themselves in front of one of his series of hung up shirts of saturated colours, painted in high definition brush point, to deny the sense of profound joy communicated by the chromatic harmonies, the crystal clear forms and the sense of depth. I would even dare to say that there is almost the sensation of feeling the pungent taste of raspberry-flavoured fuchsia on the tongue, the enveloping creamy texture of white, the exotic shiver of mango in the warm yellow and the slightly acidic aftertaste of strawberry red. If we were to stop here - in any case it wouldn’t be little - we would instinctively include this artist, precise, patient and with an omnivorous fantasy, into a discourse about Pop Art. After all he has been very close to Pop Art, living for extended periods of time in the United States right in the moment in which the central focus of the radial chic intellectuals was Andy Warhol’s Factory. But Magnani is European, rather - even more - he is Italian, and although he absorbed something of that atmosphere, he couldn’t avoid breathing into it a content which there it did not possess: soul. Which is why pop art is only a clue from which to begin the discovery of a complex and labyrinthine artist. Because the object is, certainly, one of the bases of Pop Art. But the choice of which object is a different story. The shirts, we said. Not an object of consumption - therefore - symbol of a bulimic and superficial society, but a personal object, of attachment, in
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some ways. A second skin that doesn’t just cover us, but also identifies us. A shell which without us seems empty, but which conserves our fingerprint, our gestures. Our perfume. And if you hang them up one after another the garments evoke souls that bump into each other and thoughts that intermingle, however when the artist leaves them tangled in a drawer, and shows them to us like that, as if a hasty hand had passed through them, the material becomes something else, the soul dilutes in form and the form becomes the pretext for a game of balance between that figuration in which the artist is stubbornly rooted and a barely suggested abstract, an allusion of possible chaos, but always kept under strict control. Today however Magnani decides to take us on other paths. Some time ago now the series of empty frames - stacked in unstable equilibrium suggested the need for new inspirations. And he spoke to us of a different emptiness, not that of a sleeve abandoned by its arm, but that (laden with other meanings, above all for an artist) of a frame deprived of its very meaning: the picture. It was that which Magnani defined “the artist’s reflection period”, a moment of reflection on himself and his very vocation, a need - also - of new inspirations. He goes to seek those inspirations in the flea markets, following another habit acquired in the United States, on the search for what Gozzano would have defined “the good things of bad taste” and which he loves for that beauty that he discovers in the depth of banality. What strikes him, suddenly, is the essentially plastic appeal of helmets - bicycle or motorbike helmets - and their assonance with the mask. Like all artists, above all painters, Magnani possesses eyes that do not function like ours, but that read the world in a completely different manner. A painter, for example, doesn’t see a landscape or a beautiful sunset over the sea: they see a certain number of shades of green or of brown, or the particular
way the light plays over the water. And so we don’t know if in Magnani’s mind the unfolding game of assonance and synapses between a bicycle helmet and an African mask placed next to each other came first, or if he first caught the irresistible charm of two objects that appeared empty just because they were deprived of the form (the man, his face, his head) that determined their meaning. The fact is that right there, in those objects, his new series of paintings found lifeblood. Less crowded than those in which the protagonists are the shirts or the ties knotted like hibernating snakes, cleaner, composed of peaks and voids with geometric rigour, characterised by saturated colour backgrounds, capable of emphasizing the three-dimensionality of objects. Nevertheless in some ways close to that surrealism which Ducasse summarises so well in his phrase on the beauty of a “chance meeting on a dissectingtable of a sewing machine and an umbrella”; yes because Magnani knows how to masterfully play with our synapses, and moves with ease between the free associations that run wild from our minds, but he likes to confuse us, deceive us, and so the dialogues between objects are never too immediate, neither can the interpretation of the meaning be limited to the superficial. So here we are, viewers delighted by this wonderful symphony of chromatic flavours, asking ourselves what ever that bicycle helmet is doing next to that wooden fetish, and if that really is a helmet or if it isn’t by chance the carapace of some animal belonging to the future and to understand then if that nearby object is a mask, and therefore here, at this level, one can risk a breakdown. The lesson of surrealism brushes the painting, it’s just an aftertaste, but it’s there. Because no one knew better than the surrealists how to place the object, with its immense bearing of symbolic meanings, at the artwork’s centre. But it is only - to be precise - an aftertaste, because Alberto
Magnani is intrinsically too tied to the concepts of harmony and equilibrium to ever abandon himself to the dreamlike and elusive atmosphere of that movement. And then, that African mask…? Underneath, like a dull sound, here we also hear the voice of Picasso, and his passion for primitive art which brings him straight to those Demoiselles d’Avignon that overturn the work’s concept, open the space and invent Cubism. African masks and Venice Carnival masks alternate in these works in a layering of meaning that always goes deeper, always a step above that which we thought we had understood. Because the mask isn’t just an empty object used to contain a face, but is also and above all a second face. A face that hides our most intimate essence but in some ways, paradoxically, also reveals it, giving us the possibility - in disguise - to dare what we have never dared, to be what are we really are deep down. Here unfolds the seductive game of a painter capable of revealing layer after layer beneath the beauty, beneath the perfection, abysses of meaning. The legibility of the figuration - once again - interweaves itself with the fascination of rethought and tamed conceptual art, as only true contemporary art can do. And at the centre of everything, absolute king, is the object. That object which Picasso wanted to disrupt and from which Surrealism sought hidden meanings; the object that Andy Warhol tore from a supermarket shelf and that abstract expressionism destroyed in chaos. The object which man, in every culture, has clothed in power and that today, more than ever, is the fulcrum of our life. From that of the collector, refined viewer of the most precious objects in the world, to that of the serial accumulator, who cannot live without objects, but ends up suffocating among them.
ALESSANDRA REDAELLI
CAMICIE NEL CASSETTO
2018 | Olio su tela | 90 x 100 cm
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CAMICIE APPESE (particolare) 2018 | Olio su tela | 90 x 70 cm
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PILA DI JEANS
2018 | Olio su tela | 40 x 50 cm
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CAMICIE IN FILA
2012 | Olio su tela | 100 x 130 cm
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YELLOW SHIRT
2012 | Olio su tela | 100 x 70 cm
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RED JACKET
2011 | Olio su tela | 90 x 70 cm
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SPIRAL TIES
2009 | Olio su tela | 120 x 100 cm
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FRAMES
2016 | Olio su tela | 100 x 70 cm
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FRAMES
2016 | Olio su tela | 50 x 70 cm
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MASCHERE AFRICANE CON CASCO 2018 | Olio su tela | 80 x 120 cm
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MASCHERE VENEZIANE
2018 | Olio su tela | 50 x 80 cm
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MASCHERE AFRICANE CON BAUTTA 2017 | Olio su tela | 80 x 80 cm
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CASCHI CON MASCHERE AFRICANE 2017 | Olio su tela | 100 x 80 cm
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ALBERTO MAGNANI Arborea, ITA, 1945
Alberto Magnani nasce nel 1945 ad Arborea (Oristano). Si diploma al Liceo Artistico di Brera a Milano nel 1965 e nel 1974 visita per la prima volta gli Stati Uniti. A partire dal 1970 realizza numerose mostre personali e collettive in Italia, Europa e Stati Uniti e contribuisce a progetti di grafica editoriale. Negli anni Ottanta alterna lunghe permanenze di lavoro a New York con frequenti soste nella sua casa studio di Induno Olona. Le sue opere sono fortemente condizionate dalle sue esperienze oltreoceano e soprattutto dalla Pop Art americana e dall’Iperrealismo. Attraverso la resa fotografica ma estremamente caratterizzante cerca di restituire vitalità e personalità agli oggetti. La sua produzione vede coinvolti abiti maschili, cravatte dai colori sgargianti, serie di camicie eleganti ma anche cornici, maschere africane e oggetti umili della quotidianità come sacchetti di carta. Vive e lavora a Varese.
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Alberto Magnani was born in 1945 in Arborea (Oristano). He graduated from the Liceo Artistico of Brera in Milan in 1965 and in 1974 visited the United States for the first time. From 1970 he holds numerous solo shows and group exhibitions in Italy, Europe and the United States and contributes to graphic design projects. In the ‘80s he alternates extended stays in New York with frequent breaks in his studio house in Induno Olona. His works are strongly conditioned by his overseas experiences and above all by American Pop Art and by hyperrealism. Through photographic but extremely connotative output he seeks to restore vitality and personality to the objects. His work involves men’s clothing, brightly colored ties, elegant shirts, but also frames, African masks and humble, everyday objects like paper bags. He lives and works in Varese.
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