27 GENNAIO - 2 MARZO 2019 MOSTRA A CURA DI / EXHIBITION CURATED BY: ALESSANDRA REDAELLI CATALOGO A CURA DI / CATALOGUE CURATED BY: SOFIA MACCHI E GIULIA STABILINI TESTO / TEXT: ALESSANDRA REDAELLI PROGETTO GRAFICO / GRAPHIC PROJECT: GRETA PALASTANGA TRADUZIONI / TRANSLATIONS: CLAIRE ANGEL BONNER Copyright © PUNTO SULL’ARTE
P U N T O S U L L A R T E | V I A L E S A N T ’A N T O N I O 5 9 / 6 1 | 2 1 1 0 0 V A R E S E ( V A ) I TA LY | + 3 9 0 3 3 2 3 2 0 9 9 0 | I N F O @ P U N T O S U L L A R T E . I T
RIPENSARE LO SPAZIO PER FERMARE IL TEMPO “Dove c’è molto spazio c’è molto tempo... infatti si dice che solo il popolo che ha tempo può aspettare. Noi no, noi europei non possiamo. Abbiamo poco tempo, come il nostro nobile continente, articolato con tanto garbo, ha poco spazio, noi dobbiamo ricorrere alla precisa amministrazione dell’uno e dell’altro, allo sfruttamento, caro ingegnere! Prenda per simbolo le nostre grandi città, centri e fuochi della civiltà, crogioli del pensiero! Come il terreno vi rincara, e lo spreco di spazio diventa impossibile, nella stessa misura, noti, anche il tempo diviene sempre più prezioso. Carpe diem! Lo disse uno che viveva in una metropoli. Il tempo è un dono di Dio, dato all’uomo affinché ne usi… ne usi, ingegnere, al servizio dell’umano progresso!” Thomas Mann, La montagna incantata
Cento anni fa, nel suo capolavoro La montagna incantata, Thomas Mann aveva centrato il problema che avrebbe attanagliato il secolo allora appena iniziato e - ancora di più - quello seguente, quello che stiamo vivendo ora: più l’umanità si evolve e più diventa impellente recuperare i due valori assoluti dello spazio e del tempo. Si può dire che per certi versi tutta l’arte contemporanea - e per contemporanea, si sa, si intende tutta l’arte a partire dalle avanguardie - vada alla ricerca di una soluzione a questo enigma. Già Claude Monet quando nel 1872 crea Impression, soleil levant, il dipinto che darà il nome (dapprima usato in senso dispregiativo) a tutto il movimento dell’Impressionismo, compie una rivoluzione concettuale: mandando all’aria secoli di paesaggio studiato e ripulito, decide che ora la pittura deve saper restituire l’emozione del momento, immobilizzare l’istante nel tempo eterno dell’arte. Pensiamo poi a Les demoiselles d’Avignon, opera nodale di Pablo Picasso che, di fatto, nel 1907 apre la strada al cubismo. Quello che il maestro
spagnolo realizza su quella tela partendo dalla semplificazione di Cézanne è il moltiplicarsi dei punti di vista nello spalancarsi della forma, e dunque una nuova appropriazione dello spazio. E ancora pensiamo alle Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni, 1913, dove non è più l’istante a essere immobilizzato, ma il movimento stesso a scomporsi e moltiplicarsi fino a diventare onda fluida. E da lì, a cascata, ecco lo sfondamento della terza dimensione della tela operato da Lucio Fontana con il taglierino Stanley (e chiamato, non a caso, Concetto spaziale); i dripping di Jackson Pollock che ancora oggi, a settant’anni di distanza, ci consentono di seguire il movimento preciso compiuto nello spazio dalla mano dell’artista; gli abissi spaziotemporali spalancati dal concettualismo (uno su tutti il poeticissimo Libro dimenticato a memoria di Vincenzo Agnetti, con le pagine bucate e svuotate di materia); fino all’esperienza della Land Art con la conquista da parte dell’artista dello spazio di tutti: la Terra. Tra recuperi della tradizione, vaghi ritorni all’ordine, transavanguardie e rigurgiti pop, gli artisti di oggi - quelli che hanno tra i trenta e i cinquant’anni e raccontano il qui e ora - si trovano a fare i conti con un momento storico travagliato. Un momento dove un’illusione di pace (tutto è pace se confrontato alle due guerre mondiali che hanno devastato le generazioni precedenti) stride con costanti scoppi di violenza, dove la povertà appare ancora più tragica accanto all’edonismo di un occidente viziato, e dove il pianeta lancia sempre più frequenti grida di aiuto. E ancora, su tutto, domina la sensazione di uno spazio
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vitale sempre più angusto e di un tempo - quello reale, da vivere, dei valori, della condivisione - sempre più inafferrabile. Daniele Cestari accetta la sfida e la vince, realizzando una pittura in cui la tradizione, le avanguardie, il concettualismo, l’espressionismo astratto hanno trovato una sistemazione perfetta in un’armonia fatta di consapevolezza del fare e di esperienza. Nasce architetto, e questa sua impostazione logico-geometrica si respira in ognuna delle sue tele, filtrata però attraverso tutta una serie di emozioni gestuali e cromatiche che sembrano affondare le loro radici più nella grande pittura - dall’Ottocento a Franz Kline - che nel Bauhaus. Il suo essere architetto torna anche nei soggetti: vedute urbane i cui personaggi principali sono edifici imponenti che si aprono come quinte su prospettive infinite. Spettacolari visioni nelle quali le architetture appaiono enormi (spesso non è possibile coglierne con lo sguardo l’estremità superiore) e dove il punto di vista estremamente ribassato crea l’illusione di una pavimentazione incombente sullo spettatore, di un equilibrio pericolante pronto a ingoiarlo. Questi edifici, però, non sono narrazione, anche se sempre accuratamente scelti dall’artista nelle città che visita (da Milano ad Arles, a New York): sono piuttosto il pretesto per una ricognizione sulla forma e sullo spazio. L’architettura è dunque per Cestari più di tutto una sequenza di pieni e di vuoti, di montanti verticali e di orizzontali fughe di finestre, di archi e modanature posti a scandire lo spazio. Esattamente come le strisce pedonali che solcano la strada, spesso posizionate in una prospettiva leggermente sfalsata per rendere improvvisamente dinamico tutto l’insieme. E poi ancora strisce vanno a spezzare lo spazio, in primo piano, non solo interrompendo con uno squillo a contrasto la sinfonia pacata della cromia - tutta giocata sui neri e sui grigi o magari sui bruni e sugli ocra - ma scardinando proprio la lettura visiva della prospettiva, col risultato di
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trasformare quello che un attimo prima era una strada metropolitana in uno spazio altro. E ancora colpi incongruenti di pennello a ripensare il peso di una sezione del dipinto, macchie di materia all’orizzonte che non sono del tutto cielo ma che non sono nemmeno soltanto colore, e poi graffi, ripensamenti, colature, grumi di colore inspessito dalla polvere di marmo. Mentre lo sguardo vaga inquieto da un punto all’altro, dunque, lo spazio del quadro continua a cambiare il proprio senso. Lo spazio, insomma, si spalanca in un altrove, si apre in punti inaspettati, offre improvvise vie di fuga e poi, di colpo, ci blocca con un muro contro cui, se non stiamo attenti, finiremo per schiantarci. Un procedimento che appare intriso d’istinto, ma che nasce da una progettualità minuziosa (esattamente come molto più pensati di quanto non si creda sono i dripping di Jackson Pollock, sotto i quali si nasconde la germinazione matematica dei frattali). Quando negli anni Sessanta Gerhard Richter comincia a realizzare i primi fotobilder, parte da una ricerca che con quella di Cestari ha diversi punti in comune. Ha studiato all’Accademia di Dresda, è così bravo da avere davanti a sé una carriera sicura tra le confortevoli braccia dello stato (la Germania dell’Est) come pittore del realismo socialista, ma nel 1959 un viaggio a Kassel, per Documenta, gli mostra l’arte da un altro punto di vista. Vede i lavori di Pollock, Fautrier e Fontana: vede la libertà. Nel 1961 chiede asilo politico a Berlino Ovest. E cambia vita. Da quel momento in poi la sua incredibile abilità pittorica sarà messa al servizio dello smascheramento, del disvelamento. E tutto il suo studio sulla fotografia, il suo gioco intorno all’esattezza dell’immagine per poi negarla e rinnegarla (i fotobilder, appunto, in cui la precisione iperrealista viene sporcata a pittura ancora fresca con il passaggio del pennello asciutto, ottenendo l’incantevole effetto del fuori fuoco fotografico), sarà il campo per
un’indagine sulla dialettica tra oggettività e soggettività. Anche Richter cerca di fermare l’istante, inventandosi delle “fotografie pittoriche” per poi negarle col fuori fuoco - e dunque protrarne l’“esposizione” nel tempo. Anche Richter gioca di sponda costantemente, per tutta la vita, tra figurazione e astrazione, tra l’immagine fotografica (“La fotografia è l’immagine perfetta: non cambia, è assoluta e autonoma, incondizionata, senza stile”, dirà) e la sua scomposizione formale e cromatica che troverà il suo punto più sublime nei vorticanti astratti rutilanti di colore. E anche Richter ama le vedute urbane, le fughe prospettiche, il fascino dei luoghi colonizzati dall’uomo e da lui trasformati (uno dei suoi record d’asta è una veduta di Milano tutta giocata sui toni del grigio, dove il Duomo galleggia in una nebbia materica). Cestari però appartiene alla giovane generazione di oggi. E va oltre. Come molti suoi colleghi del nuovo millennio, ama ripensare i materiali, dare nuova vita agli oggetti del passato e farli propri, inglobandoli nel proprio lavoro. Il concetto dell’objet trouvé (elevato ad arte da Marcel Duchamp) nelle ultime generazioni di artisti non consiste tanto nel decontestualizzare un oggetto, ma in una ricerca di reperti dal passato, nella raccolta di materiali che hanno una storia con la consapevolezza che l’arte li farà rivivere ma che, soprattutto, loro porteranno un pezzo della loro storia nell’opera. È proprio questo che Cestari fa con la carta che raccoglie nei mercatini: vecchie cartoline, registri, appunti, spartiti, conti, frontespizi di vecchi libri, atti amministrativi, documenti vergati in una calligrafia ordinata e obliqua, storie passate di cui non conosciamo le trame ma di cui l’artista ci consente di afferrare un bandolo. Qui, in questo gesto, si gioca nella maniera forse più esplicita la capacità che ha Cestari di fermare il tempo e di prolungarlo in un istante eterno: in questo suo bisogno di accumulare frammenti del passato. Quelli che fanno
da supporto in particolare - ma non esclusivamente - alla sua serie delle montagne. E anche questa scelta non è casuale, perché se la metropoli ha un suo tempo stabilito, l’eternità della montagna la pone in un nulla temporale che è tempo fermo e assoluto. Come le vedute urbane, anche questi paesaggi montani sono solcati da segni, spezzati da graffi e colature. La lettura si frammenta e si arricchisce tra rivoli di materia che non sono strade, ma forse lo sono, e tra chiazze di azzurro che non sono laghi, ma forse sì. E ancora l’occhio fugge alla ricerca del senso di quella scrittura minuta e regolare, solo a tratti decifrabile, proveniente da un tempo lontano e per questo capace di precipitarci in un altrove. E l’insieme stesso dell’opera ci spiazza nel suo essere senza tempo. E come le vedute non sono mai del tutto vere metropoli, ma piuttosto l’archetipo di una città contemporanea, le montagne sono l’idea di montagna, pensiero collettivo universale sul concetto di montagna. A volte interamente dipinte, a volte in parte trasferite da scatti fotografici presi dall’artista e poi stampati su acetato che vanno ad accumularsi pezzo dopo pezzo in quel mare iconografico che ci invita a perderci e a lasciarci andare, staccando la spina della razionalità e abbandonandoci alle libere associazioni, alle emozioni. Una sensazione che si fa ancora più potente nei collage, dove la materia si solleva, offre il dettaglio dello strappo, il segno del gesto. Nella scompaginazione dello spazio, il tempo si fa stratificazione di istanti. E il miracolo si ripete.
ALESSANDRA REDAELLI
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R E T H I N K I N G S PA C E TO S TO P T I M E Where there is a lot of space there is a lot of time... in fact it is said that only the people that has time can wait. Us no, us Europeans can’t. We have little time, as our noble continent, articulated with so much grace, has little space, we must resort to the precise administration of one and the other, to exploitation, dear engineer! Take as a symbol our great cities, centers and fires of civilization, crucibles of thought! As the terrain becomes more expensive, and the waste of space becomes impossible, to the same extent, note, even time becomes ever more precious. Carpe Diem! One who lived in a metropolis said so. Time is a gift from God, given to man so that he may use it... use it, engineer, at the service of human progress! Thomas Mann, The magic mountain
One hundred years ago, in his masterpiece The magic mountain, Thomas Mann focused on the problem would grip the century that had just begun and - even more - that following, which we are experiencing now: the more humanity evolves the more imperative it becomes to recover the two absolute values of space and time. One could say that in some ways all contemporary art - and by contemporary it is understood one intends all art from the avant-garde - is searching for a solution to this enigma. Even Claude Monet when he creates Impression, soleil levant in 1872, the painting that would inspire the name (first used in a derogatory sense) of the entire Impressionist movement, carries out a conceptual revolution: upsetting centuries of studied and polished landscapes, he decides that now painting must know how to render the emotion of the moment, immobilising the instant in the eternity of art. Then we can think of Les demoiselles d’Avignon, a turning point in Pablo Picasso’s work that, in fact, in 1907 opened the way to cubism. That which the Spanish master achieved on that canvas starting with the simplification of Cézanne is the multiplication
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of viewpoints in the opening of form, and therefore a new appropriation of space. And then we can think of Forme uniche della continuità nello spazio by Umberto Boccioni, 1913, where it is no longer an instant which is immobilised, but movement itself that is agitated and multiplied until it becomes a fluid wave. And from there, in a cascade, comes the breakthrough of the third dimension of Lucio Fontana’s canvas made with a Stanley knife (and not by accident called Spatial concept); Jackson Pollock’s drip painting that even today, seventy years later, allows us to follow the precise movement made in space by the artist’s hand; the spatiotemporal abysses thrown open by conceptualism (first and foremost the incredibly poetical Libro dimenticato a memoria by Vincenzo Agnetti, with its punctured and emptied pages); up until the experience of Land Art with the artist’s conquest of the largest space: the Earth. Between the recovery of tradition, vague returns to order, trans-avant-gardes and pop regurgitations, today’s artists - those who are between thirty and fifty years old and tell of the here and now - find themselves having to deal with a troubled historical moment. A moment in which an illusion of peace (everything is peace if compared with the two world wars that devastated previous generations) clashes with constant outbreaks of violence, where poverty appears even more tragic next to the hedonism of a spoilt West, and where the planet makes ever more frequent appeals for help. And yet, above all, the sensation of a vital space which is always narrower dominates and of a yesteryear - that which was real, to be lived, of values, of sharing - is increasingly elusive. Daniele Cestari accepts and wins the challenge, achieving a style of painting in which tradition, avant-garde, conceptualism, expressionism, abstract have found a perfect arrangement in a harmony formed from the awareness of doing and of experience. He is a born architect, and this logical-geometric ap-
proach breathes in each of his canvases, filtered however through a series of gestural and chromatic emotions that seem to have their roots more in high art - from the 19th century to Franz Kline - than in Bauhaus. His architect self returns even in his subjects: urban views in which the main characters are imposing buildings that open up as wings on infinite perspectives. Spectacular visions in which the architecture appears enormous (often it is not possible to see the upper extremities) and in which the extremely reduced point of view creates the illusion of a pavement looming over the viewer, of a dangerous equilibrium ready to swallow them. These buildings, however, are not narration, even if they are always carefully chosen by the artist in the cities that he visits (from Milan to Arles, to New York): they are rather the pretext for a reconnaissance of form and space. For Cestari architecture is therefore most of all a sequence of solids and voids, of vertical columns and horizontal fugues of windows, arches and mouldings placed to articulate the space. Exactly as the pedestrian crossings groove the street, often positioned at a slightly offset perspective to give everything an abrupt dynamism. And yet again stripes break the space, in the foreground, not only interrupting the calm symphony of colours with a contrasting ring - played out in blacks and greys or perhaps browns and ochre - but undermining the visual reading of the perspective, with the result of transforming what a moment before was a metropolitan street into another space. And again incongruent brush strokes to change the weight of a section of the painting, spots of matter on the horizon that are not entirely sky nor solely colour, and then scratches, afterthoughts, dripping, lumps of colour thickened by dust of marble. As the eye wanders uneasily from one point to another, therefore, the space of the painting continues to change its meaning. In short, the space opens into an elsewhere, into unexpected
points, offers sudden escape paths and then, suddenly, blocks us with a wall against which, if we are not careful, we’ll end up crashing. A process that appears imbued with instinct, but which arises from meticulous planning (just as the drip painting of Jackson Pollock, under which hides the mathematical germination of fractals, is much more thought out than is believed). When in the ‘60s Gerhard Richter began to make the first photo images (fotobilder), he began with a search which had several points in common with that of Cestari. He studied at the Dresden Academy, his talent ensuring a future secure career in the comfortable arms of the state (East Germany) as a painter of socialist realism, but in 1959 a journey to Kassel, for Documenta, shows him art from another point of view. He sees the works of Pollock, Fautrier and Fontana: he sees freedom. In 1961 he seeks political asylum in West Berlin. And life changes. From that moment his incredible pictorial ability would be placed at the service of disclosure, of revelation. And his entire study of photography, his play around the precision of the image, only to then negate it and negate it again (the photo images, to be precise, in which hyperrealistic precision is sullied while the paint is still fresh with the passage of the dry brush, obtaining the enchanting effect of out-of-focus photography), is the field for an investigation on the dialectic between objectivity and subjectivity. Richter also tries to stop the moment, inventing “pictorial photographs” to then negate them with an out of focus effect - and therefore protract the “exposure” over time. Richter also plays constantly, throughout his life, between figuration and abstraction, between the photographic image (“Photography is the perfect image: it does not change, it is absolute and autonomous, unconditional, without style”, he will say) and its formal and chromatic decomposition that finds its most sublime point in the swirling, abstract, rutilant colours. And Richter
also loves urban views, the fleeing perspectives, the fascination of places which have been colonised and transformed by mankind (one of his auction records is a view of Milan played out entirely in tones of grey, where the Duomo floats in a materic fog). Cestari belongs however to the new generation of today. And he goes further. As many of his colleagues in the new millennium, he loves to rethink materials, to give new life to the objects of the past and make them his own, incorporating them into his work. The concept of the objet trouvé or found object (elevated into art by Marcel Duchamp) in the latest generations of artists does not consist so much of the decontextualization of an object, but of a search for finds from the past, in the collection of materials that have a history with the awareness that art will make them live again but that, above all, they will bring a piece of their history into the work. It is precisely this that Cestari does with the paper that he collects from the street markets: old postcards, registers, notes, sheet music, accounts, title pages of old books, administrative documents, documents written in an ordered and oblique calligraphy, past stories of which we do not know the plots but of which the artist allows us to catch a glimpse. Here, in this gesture, Cestari’s capacity to stop and prolong time in an eternal instant plays out in perhaps its most explicit manner: in this need of his to accumulate fragments of the past. Those that support in particular - but not exclusively - his series of mountains. And this choice also is not casual, because if the metropolis has its own stable rhythm, the eternity of the mountain places it in a temporal nothingness that is fixed and absolute time. As in the urban views, these mountain landscapes are also furrowed by signs, broken by scratches and drippings. The reading is fragmented and enriched between streams of matter that are not roads, but then again maybe they are, and between blue patches that are not lakes, but then again
maybe they are. And still the eye flees in search of the meaning of that minute and even writing, only occasionally decipherable, that comes from a distant time and is therefore capable of precipitating us into another place. And the very entirety of the work displaces us in its timeless being. And in the same way that the views are never completely real metropolises, but rather archetypes of a contemporary city, the mountains are the idea of a mountain, collective universal thought on the concept of a mountain. Sometimes painted in their entirety, sometimes partly transferred from photographs taken by the artist and then printed on acetate that accumulates piece by piece in that iconographic sea that invites us to lose ourselves and let go, detaching from the spine of rationality and abandoning ourselves to free associations, to emotions. A sensation which is even more powerful in the collages, where the material rises, offers the detail of the tear, the sign of the gesture. In the disarray of space, time becomes a stratification of moments. And the miracle repeats itself.
ALESSANDRA REDAELLI
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IL RUMORE DELLA CITTÀ
2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 170 x 180 cm
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IMBRATTATA DI PASSI
2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 170 x 180 cm
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STRANI SEGNI DEL CIELO
2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 140 x 190 cm
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DIARIO AMERICANO
2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 140 x 140 cm
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IL POETA
2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 70 x 150 cm
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UN GIORNO SERENO
2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 100 x 120 cm
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DIARIO AMERICANO - DI MATTINA PRESSO LA CITTÀ SILENZIOSA 2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 100 x 120 cm
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IL VENTO
2019 | Olio, acrilico e pastello su tela | 50 x 100 cm
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LA PASSEGGIATA DEL POETA SPAGNOLO
2018 | Olio, acrilico e pastello su tela | 90 x 90 cm
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VARESE
2018 | Collage e tecnica mista su pannello | 60 x 80 cm
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LA NUBE CHE FUGGE
2018 | Collage e tecnica mista su pannello | 60 x 80 cm
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LA NUBE MADRE
2018 | Collage e tecnica mista su pannello | 60 x 80 cm
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IL PALAZZO DEL RE
2018 | Tecnica mista su carta antica incollata su tela | 50 x 70 cm
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SILENZIO ASSORDANTE
2018 | Tecnica mista su carta antica incollata su tela | 100 x 150 cm
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VERSO IL CIELO
2018 | Tecnica mista su carta antica incollata su tela | 70 x 100 cm
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IL VENTO
2018 | Tecnica mista su carta antica incollata su tela | 80 x 80 cm
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LA NUVOLA E LE COMETE
2018 | Tecnica mista su carta antica incollata su tela | 50 x 70 cm
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PAESAGGIO LUNARE
2018 | Tecnica mista su carta antica incollata su tela | 40 x 40 cm
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DANIELE CESTARI Ferrara, ITA, 1983
Daniele Cestari si laurea in architettura nel 2009 per poi dedicarsi alla pittura. La sua carriera di artista è strettamente legata ai suoi studi universitari di architettura, che ha portato a compimento con una tesi di laurea in progettazione urbanistica. In questo contesto ha sviluppato la predilezione per l’aspetto fisico della città e per il paesaggio urbano studiando pittura e fotografia. Ha realizzato mostre personali e collettive in Italia e all’estero (Boston, Londra, Amsterdam, Mykonos, Sofia, Buenos Aires). Nel 2011 viene invitato al Padiglione regionale Emilia Romagna per la 54° Biennale di Venezia e nel 2014 viene invitato a partecipare alla mostra Ritratti di Città - Urban Sceneries a cura di Flaminio Gualdoni a Villa Olmo a Como. Vive e lavora a Ferrara.
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Daniele Cestari graduated in architecture in 2009 then dedicated himself to painting. His artistic career is closely tied to his university studies in architecture, which led to the completion of a thesis on urban planning. In this context he developed his preference for the physical aspect of a city and for the urban landscape, studying painting and photography. He has held solo and group shows in Italy and overseas (Boston, London, Amsterdam, Mykonos, Sofia, Buenos Aires). In 2011 he was invited to Emilia Romagna’s regional Pavilion at the 54th Venice Biennial and in 2014 he was invited to participate in the exhibition Ritratti di Città - Urban Sceneries curated by Flaminio Gualdoni at Villa Olmo in Como. He lives and works in Ferrara.
PRINCIPALI MOSTRE PERSONALI / SELECTED SOLO SHOWS
PRINCIPALI MOSTRE COLLETTIVE / SELECTED GROUP EXHIBITIONS
2019 Sound of Silence, a cura di A. Redaelli, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Varese (ITA)
2019 BAF, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Bergamo (ITA)
2018 Sloane Merrill Gallery, Boston (USA) Greetings from Milano, Barbara Frigerio Gallery, Milano (ITA) Antitesi - Barbieri, Cestari, Gasperini, Galleria La Linea, Montalcino (ITA)
2017 Magna Carta, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Varese (ITA) ArteGenova, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Genova (ITA)
2017 Ombre, labirinti e vento, Nuovospazio Artecontemporanea, Piacenza (ITA) 2016 Visioni d’inverno di mare e di città, Galleria Il Coccio, Ravenna (ITA) 2015 Materico – Cestari, Previtali, Suñol, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Varese (ITA) Paesaggi della Memoria, LM Gallery, Latina (ITA) Zucchero e Catrame, Nuovospazio Artecontemporanea, Portoferraio, Isola d’Elba (ITA) Viaggio di Ritorno, Museo MAGI 900, Pieve di Cento (ITA) 2014 Zucchero e Catrame, Nuovospazio Artecontemporanea, Piacenza (ITA) Cityscape, Spazio Purgatorio, Orizzonti Artecontemporanea, Ostuni (ITA) 2013 Naufrago Urbano, Barbara Frigerio Gallery, Milano (ITA) Inside/Out, Cassero Senese, Grosseto (ITA) 2012 Sentimentale. Perpetuo. Presente., Idearte Gallery, Ferrara (ITA) Movimento Assente, Zenone Contemporanea, Reggio Emilia (ITA) Tessuto Urbano, Shine Artists, Londra (GBR) 2011 In The Still Of The City, Barbara Frigerio Contemporary Art, Milano (ITA) Non Volute Tracce, Grotte del Boldini, Ferrara (ITA) Danielecestari, Galleria Del Carbone, Ferrara (ITA)
2016 5 Anni | Classico Contemporaneo, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Varese (ITA) <20 15x15/20x20 Collezione PUNTO SULL’ARTE 2016, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Varese (ITA) ArteGenova, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Genova (ITA) 2015 BAF, Galleria PUNTO SULL’ARTE, Bergamo (ITA) 2014 Rumore d’Inverno, Daniele Cestari, Ilaria Morganti, Esther Nienhuis, Gachi Prieto Gallery, ELSI DEL RIO Arte Contemporáneo, Buenos Aires (ARG) Asylum, Cestari, Babini, Bendandi, Pagnani, Righi, a cura di D. Nedkova, Galleria ALMA MATER, Sofia (BGR) Summer Show, Rarity Gallery, Mykonos (GRC) 2013 Landscapes, Art Moorhouse, con Alberto Zamboni, Londra (GBR) 2012 IS MICHELANGELO DEAD?, omaggio a Michelangelo Antonioni, Villa Dante Bighi, Copparo (ITA) 2011 Under40, Galleria Stefano Forni, Bologna (ITA) 2010 Omaggio A Galileo, Casa dell’Ariosto, Stellata di Bondeno (ITA) Italian Show, Albemarle gallery, Londra (GBR)
2010 Winter Show, Smelik & Stokking Gallery, Amsterdam (NLD) Città di Anime, Zenone Contemporanea, Reggio Emilia (ITA) 2008 A Town Experience, Rocca di Cento, Ferrara (ITA) 2007 Note Di Città, Casa operaia, Bondeno, Ferrara (ITA) 2006 Periferie, Torre Estense, Camposanto, Modena (ITA)
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