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BIRRA ARTIGIANALE Segmentazione, posizionamento e targeting

La birra artigianale italiana, che per comodità di lettura per l’intera durata dell’articolo verrà intesa come mercato della birra artigianale italiana, ha visto costantemente crescere il numero di birrifici attivi sul territorio nazionale. Si presuppone che siamo al cospetto di quella che viene coloritamente definita una vacca, bella grassa e ancora tutta da mungere, con la differenza che non produce latte bensì birra. Insomma, apparentemente siamo al cospetto di un mercato talmente rigoglioso da offrire sostanzioso nutrimento a tutti i suoi attori, vecchi e nuovi. Ma è veramente così? Una pur timida conferma arriva dal consumo pro-capite nazionale di birra, cresciuto da 30 litri scarsi a oltre 36 litri. Il limite di questi dati è che non si capisce quanta quota parte di questo consumo vada imputata alla birra artigianale e quanta a quella industriale. Il mio spirito critico, o forse la mia indole scettica e sospettosa, mi fa pensare che si sia verosimilmente verificata proprio la seconda condizione. Questo giustificherebbe le diverse operazioni di finanza straordinaria, vale a dire fusioni e acquisizioni di cui parleremo in un’altra occasione, adoperate dall’industria a danno dei birrifici artigianali. In questo frangente limitiamoci a capire perché tutti si buttano a capofitto in questo mercato ma pochi ne escono a testa alta. Parleremo, come anticipato nel titolo, di segmentazione, posizionamento e targeting, tre facce della stessa medaglia tridimensionale, tre argomenti che nella mentalità esemplificatrice italiana rispondono alla medesima attività: entrare nel mercato.

Si apre così un mondo di cui molti disconoscono l’esistenza.

Proviamo a vederci chiaro

C’era una volta il birrificio che nasceva con la chiara intenzione di produrre birra per soddisfare il semplice bisogno di alcol, limitandosi a fare un prodotto che potesse definirsi gustoso. Il birrificio Tal dei Tali si limitava a competere sulla base delle attrezzature più sofisticate e sulla capacità di razionalizzare le risorse ai fini di una produzione piuttosto standardizzata, cercando di tenere il passo con una domanda pressoché insaziabile. Fece una cosa del genere Henry Ford, agli albori dell’omonima casa automobilistica, quando coniò l’aforisma oggi diventato iconico secondo cui “ogni cliente può ottenere un’auto di qualunque colore desideri, purché sia nero”. Bei tempi, direbbero i produttori odierni. Dipende, risponderei io, perché anche questa, che può essere a tutti gli effetti considerata una strategia di marketing, va contestualizzata: Ford giunse all’apice del successo negli anni venti del 1900, ti lascio soltanto immaginare quanto fossero diverse le cose a quei tempi. Questo preambolo mi è utile per dire che, viste le condizioni del periodo storico, Mr. Ford ha deciso di puntare su un mercato di massa, poco segmentato e con un target poco o nulla diversificato. Da quel giorno le cose sono cambiate radicalmente, eppure non è cambiato il concetto di base: scegliere cosa vendere (Prodotto) e dove venderlo (Posizionamento) significa fare marketing (vedi articolo “Le 4P del Marketing Mix”, Birra Nostra Magazine n.2/2023). Oggi approfondiamo proprio la faccenda del posizionamento.

Facciamo un passo indietro: cosa significa segmentare un mercato? Significa prendere la tua torta di compleanno e assumerti l’incombenza di tagliarla a fette, ciascuna delle quali di spessore variabile. Alle persone care e a chi si è comportato bene spetterà quella più grossa, agli altri fette sottili ed esili per dispetto. No, dai, bisogna essere equi con tutti. Indipendentemente dal merito di ciascun invitato, certamente il taglio non sarà perfetto e inevitabilmente le porzioni avranno dimensioni diverse, ciascuna con la sua quantità di zuccheri. Ecco, saranno i consumatori paradossalmente a fare la scelta: i golosi si appropinquano verso le fette più grosse, io e tutti gli altri andiamo verso quelle piccole. Noi siamo i consumatori e creiamo domanda, tu sei l’impresa che cerca di creare un’offerta adatta a tutti. È facile, perché indipendentemente da quanto siano golosi i consumatori, all’impresa basta sapere che a tutti loro piacciono gli zuccheri. Punto.

La segmentazione

Tutto chiaro fino a questo punto? Adesso immagina che, per chissà quale truc- co di magia, ogni fetta presenti una farcitura diversa, che ben si sposa a un mercato popolato da consumatori dai gusti tra loro molto eterogenei. Mentre prima c’era solo lo zucchero, adesso ci sono la stevia, il fruttosio, il galattosio e chissà quante altre parole con –osio, che accontentano palati diversi ma soprattutto valori diversi; c’è chi preferisce lo zucchero di origine animale, chi quello vegetale e così via. Laddove una volta c’era solo un modello Ford e andava bene a tutti, nel tempo i gusti sono cambiati, si sono moltiplicati, comportando il proliferare di modelli diversi. Di conseguenza l’impresa che vuole sopravvivere deve scegliere con oculatezza il gusto da servire: non può competere con l’industria, che vanta dimensioni colossali, e deve distinguersi dai competitor più piccoli, per non affogare nel qualunquismo in cui la maggior parte sguazza. Alcune imprese vanno oltre: non si differenziano per tipologia di prodotto o servizio oppure di approccio, bensì innovano, inventano un bisogno inesistente – in realtà esistente ma non espresso, quindi latente – e vanno a giocare in un campionato tutto loro, dove possono divertirsi a piacimento finché i ricavi non attirano altre imprese interessate a prendere parte ai giochi.

A seconda dei casi e delle ambizioni, tramite la segmentazione si può spaziare da un approccio di massa, il che è puramente teorico, visto che si tratta dell’esatto contrario della segmentazione; come a dire: a dieta ti metterai tu, io sono ghiotto e la torta me la pappo tutta! Fino ad arrivare, man mano che aumenta il numero di fette, a una strategia multi-segmentata. É quello che succede quando l’industria si presenta al pubblico con etichette diverse, mettendo sotto lo stesso cappello una serie di brand che possano strategicamente coprire i vari segmenti come ad esempio ha fatto Peroni che ha immesso sul mercato la Nastro Azzurro per conquistare il segmento cosiddetto premium

Aumentando esponenzialmente il numero di imprese che competono all’interno dello stesso segmento si entra nei cosiddetti segmenti di nicchia che sono in media pari al 5,1% dell’intero mercato… Una percentuale irrisoria se si considera la torta nella sua interezza. A ogni modo questa è la situazione della birra artigianale, dove convivono una caterva di imprese che si azzuffano per accaparrarsi le briciole. Briciole di cui l’industria fa tranquillamente a meno: un sacrificio necessario per non incorrere in scomode situazioni di oligopolio, attirandosi così le ire del Garante della concorrenza dei mercati. In teoria, puramente in teoria, una segmentazione spinta porterebbe a un altro estremo, ovvero quello della iper-segmentazione, in cui l’azienda è talmente versatile da riuscire a organizzare un’offerta su misura di ogni cliente. L’avvento di internet ha reso tutto tracciabile, pertanto è possibile attivare strategie di ascolto e di offerta estremamente mirate, ma è ancora impossibile realizzare un’offerta su misura dei singoli individui.

Il posizionamento

Bene, il taglio della torta è terminato. Abbiamo persino individuato la nostra fetta preferita. Possiamo così dare inizio alla seconda fase: il posizionamento. Stavolta cito l’esempio di Dreher e Moretti, entrambe del Gruppo Heineken. Vista la comune proprietà c’è chi sostiene che siano la stessa birra che finisce in due bottiglie diverse. Lasciando perdere i maliziosi, cosa contraddistingue veramente le due birre? Spoiler: non è il gusto. Allora le etichette? In parte, per il motivo seguente. É proprio il posizionamento: una birra si trova al supermercato e l’altra anche nei ristoranti; la prima non investe in pubblicità, l’altra investe eccome ed è così che è riuscita a crearsi quell’aura di birra che sprizza Italia da tutte le bolle. Attenzione però, perché per posizionarsi correttamente non basta scegliere se collocarsi o meno sugli scaffali della GDO. Posizionarsi significa occupare quello spazio virtuale esistente tra come il brand vuole essere percepito e come invece il consumatore lo percepisce davvero. Mi spiego meglio, richiamando l’esempio precedente. Mettiamo caso che un giorno un cambio ai vertici dell’ufficio marketing di Dreher porti in cattedra un nuovo manager, chiamato Mr. X, un ambizioso che decide di rivedere la politica aziendale, posizionando Dreher nel summenzionato mercato premium, dove dovrà competere con la Nastro Azzurro.

Il colpo di testa di Mr. X, tuttavia, non può cancellare con un colpo di spazzola l’immagine e l’opinione che il mercato si è fatto della birra Dreher, che adotta ancora una strategia di distribuzione di massa e che pratica prezzi tra i più bassi sul mercato che restituiscono davvero poco valore al brand. Risultato? Mr. X potrà anche essere ambizioso, ma a fine anno la sua testa molto probabilmente salterà perché incapace di individuare una strategia di posizionamento adatta a Dreher, che nella testa delle persone continua a rimanere “la birra degli operai”. Per forza di cose il posizionamento di un brand è influenzato dalle opinioni personali, tuttavia a farla da padrona è soprattutto la brand reputation, ovvero l’insieme di recensioni/opinioni pubblicamente disponibili, sulle quali l’azienda può intervenire eccome. In che modo? Con una strategia di posizionamento e una comunicazione funzionale allo scopo. Mr. X potrebbe anche riuscire nell’intento di piazzare la Dreher nei locali stellati, ma non è questo il giorno. Impiegherà anni, decenni, forse secoli, perché deve correggere tutta la comunicazione che negli anni precedenti ha portato il mercato a farsi un’idea chiara di birra Dreher, che è appunto una birra economica e poco saporita.

Se il posizionamento è importante per i grandi marchi, è addirittura fondamentale in un mercato di nicchia. Purtroppo i birrifici italiani faticano a comprendere questo concetto, oppure semplicemente lo sottovalutano. Non dovrebbe essere una lotta tra le migliori ricette, che rimangono comunque un fattore di successo; dovrebbe essere una lotta di vantaggio competitivo, cioè di incarnazione di determinati valori e della loro comunicazione – una comunicazione con i dovuti crismi però, non raffazzonata. La ricetta in questione è data da tutti i benefici distintivi che rendono unica e distintiva la birra in questione e soprattutto il birrificio che la produce. Le leve sulle quali si può ricorrere sono quella del prodotto, insieme alle sue caratteristiche (performance, longevità, affidabilità, design, novità, sapore, ecc.), quella del prezzo –che dà un’idea del valore economico di un prodotto – e quella d’immagine, che riassume tutta la componente intangibile “raccontata” da un logo.

La forza del logo

Un esempio: ti trovi di fronte alla vetrina di un negozio di abbigliamento sportivo.

Due manichini indossano rispettivamente una tuta Kappa e una tuta Nike, identiche tra loro a eccezione di una differenza: il logo. Quale scegli? La tua risposta, così come la mia e presumibilmente quella della maggior parte delle persone è la stessa, ovvero Nike. Perché? Perché per tutti quanti noi Nike è un “concetto” di qualità, un concentrato di valore assimilato dal suo famoso swoosh, che senza dire niente comunica tutto. Abbiamo scelto Nike a parità di condizioni, di carattere estetico e immaginiamo anche di prezzo. Faremmo la stessa scelta se la tuta Nike costasse il doppio di quella Kappa? Incredibile ma vero, la risposta è ancora verosimilmente sì.

Perché le persone dovrebbero pagare di più per un prodotto pressoché identico a un altro molto più economico? La verità è che solo apparentemente sono identici ma la differenza è enorme. Nike si è posizionata in maniera esemplare, utilizzando una ricorrente e convincente campagna di comunicazione per fissare bene il concetto, nella mente dei consumatori, secondo cui le sue tute sono le migliori in circolazione e chi le acquista sa di aver scelto il top. Lo sanno tutti che Nike è una buona marca, pertanto chi esibisce la tuta con quel logo ottiene anche il riconoscimento sociale, ovvero il fatto che anche le persone con cui entriamo in contatto possano riconoscerne la qualità. Che poi non è proprio questione di qualità, ma di immagine. Per esibire un certo brand, che fa leva sull’ego individuale e sul bisogno di riconoscimento sociale, oppure per godere del senso di appartenenza a una community di cui si condividono i valori – ricorda l’esempio di BrewDog menzionato nello scorso numero e il successo clamoroso delle sue iniziative riservate ai fan – siamo disposti a pagare due, tre, anche dieci volte il prezzo di un prodotto simile. Capisci adesso quanto può essere importante costruire una solida reputazione e lavorare sull’immagine aziendale? Quella è la terza “P” del Marketing Mix, quella di Promotion, ovvero genericamente di promozione. La P di Prodotto, ovvero la birra, da intendersi in questo caso come il suo contenuto, rimane certamente importante – io stesso mi guarderei bene dal consumare birra di dubbia qualità – ma da sola non basta. Prima, durante e dopo la produzione c’è tutta una mole di attività finalizzate ad accrescere, tassello dopo tassello, l’immagine aziendale, ultimo baluardo delle imprese che competono in un mercato di nicchia per riuscire a distinguersi con successo dalla concorrenza. Diversamente si verrà quasi certamente schiacciati dal peso della mediocrità.

Non c’è due senza tre Dopo segmentazione e posizionamento arriva il targeting. Il nome lascia intuire di cosa si tratta e il bersaglio del tiro all’arco rende bene l’idea: il target è il centro perfetto e rappresenta il cliente ideale. Ideale nel senso che spende molto e si lamenta poco? Anche, ma ideale in questo caso significa che è il cliente fatto apposta per la propria offerta. Se da una parte segmentazione e posizionamento influenzano la percezione da parte dei consumatori, il targeting consente alle imprese di concentrarsi su un pubblico mirato. Un titolo iconico come First, Best or Different (John Bradley Jackson, 2006) descriveva, già oltre quindici anni fa, tutto quello che l’imprenditore doveva sapere per competere con successo in un mercato di nicchia. Soprattutto per un’azienda di piccole dimensioni il vantaggio principale di una strategia mirata, a scapito della perdita di una quota significativa di mercato, è quello di godere di una maggiore capacità di adattamento alle esigenze di quel target. Il che, in un’epoca in cui le convinzioni cambiano rapidamente, equivale alla teoria Darwiniana secondo cui la sopravvivenza di specie dipende dalle capacità di adattamento. Analizzare il mercato, scegliere il cliente target, studiarlo, ascoltarlo, capire cosa vuole e di cosa ha bisogno, comprenderne i bisogni e soprattutto fugarne i timori, espressi e inespressi, è a sua volta propedeutico al corretto posizionamento, che può definirsi tale solo se il prodotto finisce per occupare quello spazio vuoto, nella mente del consumatore, che lo differenzia da tutti gli altri e, ancora meglio, lo reputa migliore, giustificando il sacrificio economico per potersene accaparrare.

Comunicazione non convenzionale, etichette sbarazzine dall’immediato colpo d’occhio, nomi accattivanti, ingredienti speciali. Tutti questi sono elementi essenziali per gridare al mondo chi è il birrificio X e perché i consumatori dovrebbero preferirlo ad altri. Perché, diciamocelo, in un mercato di nicchia i consumatori non sono infiniti e le loro capacità di spesa sono limitate. Io, per esempio, ci penso due volte prima di acquistare una birra, ricordandomi che ogni scelta porta con sé il peso del “costo opportunità”: scegliendo una birra mi sto privando delle risorse per acquistarne un’altra, oppure per utilizzare gli stessi soldi per fare un acquisto diverso. Gli appassionati sono quelli che badano al contenuto, probabilmente si limitano a valutare solo quello. Ma come dicevamo sono la nicchia della nicchia, un pubblico insufficiente a rendere economicamente sostenibile un’impresa. Qualche giorno fa in un post social si commentava la scarsa partecipazione alla diretta video Unionbirrai, una delle principali associazioni italiane di settore, con riferimento a Birra dell’Anno, la competizione più importante per la birra artigianale pro in Italia: la diretta è stata seguita, nel suo momento di massima condivisione, da 95 persone. Questa è una piccola grande famiglia, altro che nicchia!

Un marketing integrato

Forse un domani le cose cambieranno e i produttori nostrani potranno avere la visibilità che meritano, tuttavia è necessaria un’inversione di tendenza, subito. Il che significa anche un cambio di filosofia aziendale: adottare il marketing come una funzione integrata nella gestione aziendale e non più come un ufficio cui delegare la promozione di un evento, se e quando ci sono fondi per promuoverlo. Da qui alle corrette strategie di segmentazione, posizionamento e targeting ci vorrà un po’, ma sono fiducioso. Se qualche birrificio di cui non faccio nomi è riuscito a ragionare fuori dal coro, diventando apripista della birra artigianale nei ristoranti, vuol dire che anche gli altri birrifici ce la possono fare. Semplicemente devono iniziare a guardare meno fuori e concentrarsi più su sé stessi, per trovare la propria identità. La sfida è chiara: comprendere la propria unicità e trasmetterla al pubblico. È questa l’essenza dell’imprenditoria, pura affermazione di sé e delle proprie ambizioni. Decidere di avviare una produzione è facile, dimostrare di avere il carattere per farlo è un altro paio di maniche. Diversamente avremo sempre a che fare con una nicchia piatta dove l’unica differenza sostanziale è il prezzo. E sai cosa succede quando la competizione si gioca sull’aspetto economico? Che il posizionamento va a farsi benedire, il prodotto artigianale viene equiparato a quello dell’industria e da quest’ultima spazzato via.

Riusciranno i birrifici italiani, perlomeno alcuni di questi, a differenziarsi, oppure moriranno nel tentativo? Lo scopriremo presto, molto presto: il futuro è già qui. ★

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