8 minute read

SCOZIA, IRLANDA e le musiche tradizionali nei pub

In questo numero di Birra Nostra Magazine Francesco Donato ci porta a conoscere i migliori locali birrari romani, mentre Massimo Faraggi quelli di Genova. Se, forse, la birra non è prettamente nella tradizione popolare italiana, lo stesso non si può certo dire quando varchiamo la Manica e ci inoltriamo nelle due principali isole britanniche. In quelle terre, bere birra non è solo una prassi ma quasi una religione e l’atmosfera che si respira nei pub invita a socializzare ed è a dir poco contagiosa. Musicalmente parlando possiamo affermare che, dalla notte dei tempi, le ballate, i reel e le gighe si sono formate e diffuse di pub in pub, quasi fossero dei veri e propri tabloid sui quali era possibile cantare in coro e danzare, anche se i testi trattavano spesso notizie a dir poco drammatiche. Non si contano quante possano essere state le formazioni musicali che hanno portato avanti questa tradizione, tipicamente britan- nica, del fare musica nelle storiche birrerie, dalla più grande alla più piccola e sperduta tra lontani fiordi, ma tutte sempre fornite di birra di qualità. In Italia non c’è mai stato un grosso fermento per la musica tradizionale angloscoto-irlandese che, tra l’altro, è quella che ha fortemente influenzato i suoni “antichi” della giovane America bianca. Una delle cose più belle che accadevano nelle fumose ed alcoliche serate britanniche era il fatto che le persone si riunivano a suonare assieme senza preconcetti, solo con il fuoco sacro verso la musica che sapeva abbattere barriere e dogane, perché è questo che la musica sa e deve fare: unire le persone in pace.

Consigli per gli ascolti

In questa rubrica abbiamo deciso di farvi scoprire nuova musica sorseggiando birre di qualità e in questo articolo voglio concentrarmi su due album che indubbiamente meritano un approfondito ascolto, entrambi legati alle tradizioni e che vedono al loro interno artisti con una capacità di trasmettere suoni ed emozioni con grande classe e sentimento.

Per iniziare, ecco un meraviglioso esempio alla base della storia di una delle formazioni che personalmente ritengo più interessanti del panorama tradizionale britannico: mi riferisco ai Boys Of The Lough, quartetto che all’inizio degli anni ’70 ha avuto la capacità di proporci suoni per la maggior parte di noi totalmente sconosciuti.

Poteva non partire tutto da un tipico pub di Edimburgo? Ebbene, è così che ebbe inizio l’avventura dei Boys Of The Lough, storica formazione di musica popolare scoto-irlandese che iniziò la propria carriera presso il Forrest Hill Bar della capitale scozzese. Al Sandy Bell’s (così veniva soprannominato il locale) erano abituali frequentatori, tra i tanti musicisti, il violinista delle isole Shetland Aly Bain e il chitarrista e cantante Dick Gaughan che, tra una pinta di birra e l’altra e un’altra e un’altra ancora, solevano dilettare il pubblico con reels e gighe varie.

Al Falkirk Folk Festival i due, divenuti amici, incontrano il flautista irlandese Cathal McConnell, celebre figura a Fermanagh County, nell’Irlanda del Nord che si esibiva con Tommy Gunn e Robin Morton. Proprio quest’ultimo, cantante e suonatore di bodhran, decise di seguire il flautista ed unirsi ai due amici scozzesi formando, così, la prima formazione ufficiale dei Boys Of The Lough che, a differenza della maggior parte delle band di musica tradizionale britannica, rappresentava una sorta di entità multietnica.

Il quartetto arrivò ad incidere il primo omonimo album, che uscirà per l’etichetta Trailer (successivamente ristampato dalla Shanachie), registrando le 12 tracce presso i Cecil Sharp House di Londra nel luglio del 1972 sotto la produzione di Bill Leader, nome che in quegli anni veniva associato ad importanti figure del british folk come Davey Graham, Bert Jansch e John Renbourn.

Questo è l’unico album che vede la presenza di Gaughan che opterà per una successiva carriera solista di tutto rispetto, con alcuni album di grande spessore, come “Gaughan” del 1978 e “Handful Of Earth” del 1981, luminoso esempio per tutto il folk scozzese. Ma i Boys Of The Lough sono una band di elevate qualità tecniche e l’idea di unire sonorità irlandesi, scozzesi e delle isole Shetland risultò essere particolarmente astuta ed intrigante.

The Boys Of The Lough

Questo loro album di debutto si apre con il reels “The Boys Of The Lough: Slanty Gart” che è, come si può intuire, quello che ha dato il nome al gruppo.

Il brano, strumentale, era nei repertori sia di McConnell sia di Bain ed è interessante come i loro differenti modi di interpretarlo si fondano così bene. Questa è una di quelle canzoni - con ori- gine probabilmente alle Shetland - che ha varcato l’oceano diventando uno dei brani favoriti dai fiddler statunitensi e canadesi, conosciuto anche col nome irlandese “Lord McDonald’s Reel”. McConnell e Morton interpretano vocalmente “In Praise Of John Magee” che ci racconta della pratica, abbastanza comune nei ceti più poveri, della vendita delle mogli ai propri amanti.

Il violino di Bain ci introduce nel trittico “Wedding March From Unst; The Bride’s A Bonny Thing; Sleep Soond

I’ Da Moarnin’”, tipiche marce nuziali delle isole Shetland che avevano delle forti attinenze con ballate delle vicine Norvegia e penisola scandinava. Queste marce servivano al violinista per accompagnare gli invitati dalla chiesa alla casa per la festa e per dare il ben- venuto alla sposa stessa nella stanza principale. È ancora usanza nell’isola utilizzare questi reels nei matrimoni. Tocca a Gaughan regalarci una toccante versione di “Farewell To Whisky”, imparata da Christine Hendry, brano storico come risulta dagli scritti del 1901 di Robert Ford. Bodhran e flauto ci introducono in “Old Joe’s Jig; Last Night’s Joy; The Grammy In The Corner” che Cathal ha conosciuto grazie a Matt Molloy e Liam o’Flynn e rappresenta la tipica giga del Donegal che ci accompagna nella bellissima e struggente “The Old Oak Tree” cantata da Morton. Una ballata popolare su un omicidio che riunisce due melodie di due differenti zone dell’Irlanda (Belfast e Galway) e che ha varcato l’oceano arrivando anche negli USA, come riscontrabile dalla versione che incise Sara Cleveland, folksinger newyorkese.

Questo brano chiude la prima facciata lasciando un alone di malinconia che non viene certamente stemperata dal lamento di “Caoineadh Eoghain Rua; The Nine Points Of Roguery” che apre il lato B di questo album. Il brano, un trittico che si ripete, potrebbe essere dedicato a Owen Roe O’Neill, nipote del grande O’Neill e comandante dell’esercito irlandese nella metà del XVII Secolo oppure al poeta gaelico Owen Roe O’Sullivan del secolo seguente.

Ancora uno strumentale, come la precedente, per “Docherty’s Reel, Flowing Tide” che ci accompagna alla meravigliosa voce di Dick Gaughan che interpreta “Andrew Lammie”, una ballata molto comune e facilmente trovabile con differenti titoli. È la volta di “Sheebeg And Sheemore; The Boy In The Gap; McMahon’s Reel” brano che pare provenga dal repertorio dell’arpista cieco irlandese Carolan e che possiamo trovare in una bellissima interpretazione sul disco di David Bromberg “My Own House”.

Tocca ancora a Robin Morton interpretare la bella “Jackson And Jane”, la storia del cavallo da corsa Jane che Jackson avrebbe comprato da un peschereccio di Dundalk. Chiude l’album un altro trittico: “The Shaalds Of Foulla; Garster’s Dream; The Brig” a volte erroneamente chiamato “Foulla Reel”. Si tratta di un jig time che narra dei bassi fondali all’estremità Nord dell’isola Foulla nelle Shetland e che causò l’affondamento della nave Oceanic. Questa melodia si porta via un disco particolarmente interessante per una band dalla carriera più che longeva anche se, a tutt’oggi, l’unico dei membri fondatori rimasto è Cathal McConnell.

Van Morrison & The Chieftains

Restando, invece, interamente in territorio irlandese ecco un’altra accoppiata d’eccezione che da una parte vede una delle principali formazioni di traditional music, i Chieftains, e dall’altra una vera e propria icona del rock, Van Morrison Unendo le forze e superando quel confine interno che ha causato sangue e dolore ecco un vero e proprio omaggio alle sonorità irlandesi, di quelli che non possono passare inosservati. È come prendere due piccioni come una fava. Ecco cosa accade quando sul nostro giradischi mettiamo il bellissimo “Irish Heartbeat”, album del 1988 a nome Van Morrison & The Chieftains. Se dello scontroso irlandese conosciamo tutti le immense doti come cantante e compositore, la band di Dublino la possiamo considerare una delle principali interpreti folk dell’isola di smeraldo. Personalmente ritengo un tantino superiori a loro i Boys Of The Lough, se visti in una chiave di testimoni della pura tradizione, ma è innegabile che il ruolo della formazione capitanata dall’istrionico Paddy Moloney (1938-2021) abbia dalla sua la capacità e l’intelligenza di portare oltre confine un suono che, nel passato, fu capace di contaminare molta della musica popolare statunitense oltre che quella britannica.

Irish Heartbeat

Sul finire degli anni ’80 nacque, pare negli studi della BBC inglese, questo progetto che può essere visto da parte di Morrison come un vero e proprio richiamo alle proprie origini dopo il perdurare dei soggiorni in terra straniera della rock star nordirlandese. Fu proprio a Belfast, grazie soprattutto al padre collezionista di album di jazz e blues, che il giovane George Ivan “Van” Morrison si avvicinò alla musica nera formando prima i Them per poi passare alla fortunata carriera solista, ma le sonorità tradizionali erano, comunque, parte del suo background culturale che emergono, magari nascoste, anche tra le pieghe più nere delle sue celebri composizioni. Si dice che sia impossibile dimenticare l’Irlanda e con questo album possiamo affermare che si tratti di una grande verità:

“Irish Heartbeat” è stato capace di influenzare giovani musicisti di diverse estrazioni musicali avvicinandoli alla musica tradizionale e roots . Un disco che ti entra dentro pian piano, capace di regalare piccoli gioielli incastonati tra le ballads , i reels e le gighe che hanno reso celebre la musica di questa piccola, meravigliosa isola. L’iniziale “Star Of The Country Down” è un tradizionale dove la voce di Van “The Man” viene raddoppiata da quella di Kevin Conneff mentre tiene il tempo col suo Bodhrán , il tradizionale tamburo utilizzato nella musica irlandese. Il secondo brano, che da il titolo all’album, viene dal repertorio di Morrison, già apparso su “Inarticulate Speech

Of The Heart” del 1983 e che in questa versione vede alla seconda voce June Boyce. Splendida “Tá Mo Chleamhnas Déanta”, danza gaelica col testo che si divide tra l’antica lingua irlandese (Conneff) e l’inglese (Morrison) ai quali si aggiunge la folk singer Mary Black ad impreziosire il canto, mentre Derek Bell (1935-2002) e soci ricamano una sognante melodia. “Raglan Road” – altro traditional – è uno dei massimi punti di questo disco, con Morrison che regala vere e proprie lezioni di canto.

La band gira che è una meraviglia coi violini di Seán Keane e di Martin Fay che guidano il flauto di Matt Molloy, la Uileann Pipes di Moloney e l’arpa di Bell. “She Moved Through The Fair” che chiude il lato A è un altro piccolo gioiello, tanto che la band lo riproporrà nel loro “The Long Black Veil” aiutati, in quell’occasione, da Sineád O’Connor (altro disco consigliatissimo). Girato il vinile la puntina va immediatamente a cercare le prime note dell’allegra “I’ll Tell Me Ma” che più irlandese di così non si può. L’arpa di Bell ci introduce nella struggente “Carrickfergus” e anche qui Van si supera e, ancora dal suo repertorio – questa volta dall’album “Beautiful Vision” (1982) – ecco “Celtic Ray”, che oserei definire meglio dell’originale. Inesorabile la puntina cerca di raggiungere il centro ma ci permette di ascoltare ancora i due traditional rimanenti, cioè “My Lagan Love” in tutta la sua magnifica tristezza resa magica dal suono dei Chieftains, perfetti per permettere a Morrison di regalarci una maestosa interpretazione.

Con la conclusiva “Marie’s Wedding” andiamo a nozze e l’allegra ballata coinvolge un po’ tutti invitandoci a cantare assieme alle brave Black, Boyce e Maura O’Connell. Il disco, registrato presso i Windmill Lane Studios di Dublino sotto la produzione di Moloney e Morrison tra il settembre del 1987 e i primi giorni dell’anno seguente, è stato messo in commercio per l’etichetta Mercury (834496-1) e rimane, nonostante gli anni, una gran bella testimonianza di questa felice unione tra due fondamentali rappresentanti delle due Irlande.

Eccoci, quindi, giunti alla fine di questa seconda pinta di birra, con in bocca l’ambrato sapore delle birre tradizionali che piacciono a noi, io vi attendo al prossimo pub con nuove proposte per una serata tra amici. ★

This article is from: