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LA COLTIVAZIONE DEL LUPPOLO NELLA STORIA Un esempio da seguire

Se qualcuno pensa che la coltivazione del luppolo sia una moda passeggera figlia di coltivatori alternativi dovrà rivedere il suo punto di vista. Il nome di Alfonso Magiera ai più dirà molto poco, ma è suo un documento che risale al 1875 dal titolo “Della coltivazione del luppolo”, letto e consegnato a tutti agli agricoltori del Comizio Agrario di Modena e da lui redatto in qualità di Segretario dello stesso. Nel documento parla di una «coltivazione per me anche più insueta (della barbarbietola n.d.r), dappoichè mai l’abbia praticamente sperimentata, e solo due volta abbia visti campi segnati dalle

verdeggianti linee di Luppolo, coperti dai ricchi suoi pergolati, ornati delle sue ardite piramidi, guglie, obelischi e fantastici padiglioni». Una coltivazione che lui stesso definisce «nuova per questa provincia» ma che a suo dire come già la barbabietola aveva fatto, poteva dare vita «ad una industria fino ad ora non tentata fra noi (...) per aumentare il benessere della agricoltura». Nel presentare i suoi studi agli agricoltori del Consorzio, Magiera si presenta come «uno studente novizzo» che si è accostato adulto allo studio di questa coltivazione facendo suoi gli studi del bolognese Carlo Berti-Pichat, citato non in qualità

di deputato del Regno d’Italia e fresco Senatore ma piuttosto di agronomo e agricoltore ai cui studi si rifece anche «il primo che introdusse nella nostra provincia la coltivazione del Luppolo padre della birra (..) Raimondo Montecuccoli che ne fece ben riuscito esperimento ne prediletti contorni di Marano». Gli studi di Magiera partono dall’osservazione del territorio «lungo le siepi, attorno alle macchie, sul ciglio dei fossati e dei burroni, singolarmente nei fondi di terreno leggiero e permeabili nel sottosuolo, cresce spontaneo il Luppolo selvatico e tanto prospera nel nostro clima che, crescendo pronto, s’avvitic-

chia stringendo e sovraponendosi accavalla e soffoca fra le sue spire le piante ed i frutticci mal cauti che gli diedero il primo appoggio» e da una considerazione «Prospera questa vite del Nord coltivata da immemorabile tempo in Germania, nelle Fiandre, In Inghilterra, nei paesi bassi, nell’America settentrionale, in Francia e mi par che ciò basti a concludere debba prosperare anche nel giardino di Europa se trova giardiniere che la coltivi». Nei suoi studi il segretario del Comizio Agrario di Modena viene a conoscenza del forlivese Gaetano Pasqui «che dal 1847 al 1850 coltivò una trentina di piante ed ebbe buoni risultati (...); nel 1873 aveva una luppolaja di qualche entità, fece buona birra e buoni danari». Arriva a documentare le piante, il raccolto, la spesa, l’incasso e anche l’utile netto della coltivazione di Gaetano Pasqui, definendo i risultati «lusinghieri» nonostante la luppolaja venisse «colta da malattia speciale nel terzo anno di sua vita, nel 1855, la quale

infierì poi più forte sulle piante adulte nel 1856, e che il Pasqui riuscì a dominare nel 1857, anno in cui gli fu conferita una medaglia d’onore a Forlì». Se Gaetano Pasqui riuscì a realizzare «lire 4 il chilogrammo» divenute poi «lire 6» qualche anno più avanti è anche bene sapere che negli stessi anni il prezzo del luppolo in Germania era di «lire 15 il Kil», il che fa desumere a Magiera che «i calcoli del prezzo del Pasqui pel prezzo, non sono adunque certamente esagerati». Incoraggiato dai risultati nel forlivese, il prof. Francesco Luigi Botter, originario di Valdobbiadene ma nel 1861 docente di agraria e botanica all’università di Bologna che «intraprese le sue esperienze volte a provare, non se il luppolo attecchiva e vegetava a Bologna, ma se veramente quella coltivazione fosse così favolosamente proficua» per concludere che alla fine il «prodotto enorme e sorprendente» pur avendo calcolato il risultato con le più pessimistiche ipotesi. «Non pretendo che il lup-

polo si sostituisca al frumento e si faccia un luppolajo di una provincia, ma mi sembrano tali dati assai lusinghieri per indurre a destinare, se non altro in via di prova, un angolo dei nostri campi allo sbiadito grappolo di bevitori del Nord, non certo colla idea di sostituirli alla più colorita corona del nostro rubizzo Dio nazionale». Il documento passa poi ad analizzare e valutare le spese e le rendite dei possedimenti del marchese Montecuccoli a Marano per concludere che «si avrebbe più della rendita media che in ebbe in un decennio a Rottembourg» senza tralasciare di citare «il diploma che otteneva il Montecuccoli alla esposizione internazionale di Hugenau il 18 ottobre ultimo scorso, il quale attesta che Marano, certo per la prima volta, ha figurato ed ha meritato un premio per Luppolo nel paese della birra». Il documento prosegue poi con l’analisi delle attività atte ad una buona e proficua coltivazione, soffermandosi anche sulle fasi di lavorazione e di essiccatura indispensabili per ottenere un buon

prodotto. Verso la fine dell’intervento la richiesta al Comizio Agrario di «poche e buone are di terra per la coltivazione e preparazione del Luppolo» e il desidero espresso «se il nostro luppolo andasse in Francia ed in Germania anzichè da quelle con nostro scapito essere ritratto sarei molto orgoglioso di avere a ciò cooperato, a rischio d’essere riuscito stucchevole e, non aspirando io a corona civica, proporrei una corona del più bel tralcio di luppolo che fra qualche anno fosse nata in provincia». Poca strada si è fatta dal 1875 ad oggi quando ancora all’interno delle associazioni agricole si discute sulla scarsità di informazioni in merito a disciplinari sulla coltivazione del luppolo e alla necessità di farne una eccellenza italiana. Gli studi e gli esperimenti ante litteram di Magiera ci giungano quindi come un invito a migliorare il percorso fino ad oggi tracciato con lo scopo di trarre il meglio dal nostro territorio potenziando quel concetto di made in Italy applicato anche alla birra artigianale. ★

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