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Il brand Birra Nostra
PROMUOVE LA BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA DAL 2007, ANNO DELLA SUA FONDAZIONE
Lo ha fatto e lo fa attraverso fiere e consulenze per i principali enti fiera italiani (Fiere Parma, Verona Fiere, Fiera di Milano, Fiera di Padova, Pordenone Fiere, Bologna Fiere, Lingotto di Torino, Expo Venezia), organizzando progetti legati al mondo brassicolo (fra gli altri, è presente in sei cofanetti del circuito Smartbox, per il quale ha creato un network di birrifici visitabili) e sviluppando competenze nella gestione della comunicazione per i birrifici e nel turismo esperienziale brassicolo. Inoltre, ha organizzato degustazioni e promozioni di prodotto per Unione Italiana Vini, per il Salone del Mobile di Milano, per Food&Book a Montecatini Terme e per decine di locali italiani. Nel 2013 ha creato il web magazine Birra Nostra Magazine, divenuto cartaceo nel 2019 (Quine Ed.) in collaborazione con MoBi e per il quale collaborano le più autorevoli firme del panorama brassicolo e gastronomico italiano. Dal 2016 è partner ufficiale per la Terza Missione del Dipartimento di Scienza degli Alimenti e del Farmaco dell’Università di Parma. Negli anni ha collaborato attivamente con Unionbirrai e con Slow Food, condividendone la mission. Dal 2016 è consulente per Fiere Parma a CIBUS.
Birra Nostra Promozione Birra Artigianale Italiana Via Verga 4 44124 Ferrara www.birranostra.it
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MOBILE CANNING: MODA, OPPORTUNITÀ O NEW WAVE?
Riflessioni sparse con Mister B Brewery
In questa lunga fase di letargo forzato dei nostri amati pub, e con il drastico cambio delle nostre abitudini di vita e di consumo, anche i birrifici hanno dovuto adattarsi e trovare nuove soluzioni per sopravvivere. La variazione principale riguarda il confezionamento, che è cambiato così da intercettare una domanda isterica e stressata che andava modificandosi a più riprese. In questa fase di reclusione, abbiamo quindi visto una maggiore disponibilità di formati e contenitori più o meno innovativi e stravaganti. Tralasciando gli aberranti growler di cartone e in generale i tipi di confezioni da asporto che si possono fare dalle spine, ci concentreremo su ciò che può essere gestito direttamente dai produttori. Oltre a contenitori più da consumo condiviso, come possono essere, per esempio, fustini a caduta e minikeg, abbiamo assistito soprattutto a un’enorme proliferazione di lattine. Vale quindi la pena di porsi alcune domande riguardo alle caratteristiche di questo contenitore e su come sia possibile che così tanti birrifici in poco tempo lo abbiano adottato. Rispetto a qualche anno fa, quando era impensabile reperire prodotti artigianali in lattina, ora si può dire che la situazione si sia quasi invertita. Il mio primo ricordo è legato a un Pianeta birra del 2010 con le primissime lattine mai viste di un produttore craft di piccole dimensioni: quella fu un’intuizione di Bad Attitude che presentò la Kurt in lattina. Certamente in questi anni la base culturale per cui l’alluminio era associato a prodotti di bassa qualità è venuta meno, ma prima di prendere una posizione proviamo a valutare i suoi vantaggi e svantaggi rispetto al sempre verde vetro... Ovviamente stavo scherzando: il vetro deve essere marrone! I pro e i contro che andremo a soppesare sono in relazione al vetro, dal momento che alluminio e vetro sono di fatto i due materiali più utilizzati per la birra. Tra i vantaggi dell’alluminio figura in modo incontrovertibile la totale impenetrabilità da parte dei raggi solari, che di fatto annulla il rischio del cosiddetto colpo di luce. Un altro aspetto riguarda la velocità di raffreddamento, anche se in questo caso l’argomentazione potrebbe essere più dibattuta: se da un lato infatti è vero che la velocità di raffreddamento è maggiore, è anche vero che lo stesso vale per il riscaldamento. La motivazione risiede nella migliore conducibilità termica, che nel caso del freddo è molto positiva mentre nel caso del caldo potrebbe favorire shock termici e rappresentare quindi una criticità negativa. Un altro vantaggio compete al minore peso e spazio, che si traduce in un rispar-
mio su due livelli: quello del trasporto e quello logistico dello stoccaggio. Un altro pregio della lattina è lo spazio più ampio a disposizione in etichetta, quindi un enorme plus per il marketing che ha modo di sfruttare il colpo d’occhio con mirabolanti grafiche che stanno colorando i nostri scaffali, senza dover rinunciare a informazioni dettagliate che vengono sempre più richieste dai consumatori. In ultimo, considerato il tema ambientale, la riciclabilità tende all’infinito per l’alluminio, anche se non ci perderemo in valutazione sui costi di estrazione e produzione dei due materiali.
Il mobile canning
Veniamo dunque al mobile canning che di fatto consiste in un servizio di confezionamento in conto terzi che viene eseguito presso il birrificio produttore da un altro professionista. Per quale motivo un birrificio dovrebbe affidarsi a qualcun altro piuttosto che provvedere direttamente all’acquisto di una lattinatrice e al confezionamento stesso? I pro che concorrono all’evoluzione/ presenza del mobile canning sono: l’elevato costo della macchina lattinatrice, il risparmio degli spazi in birrificio, l’affidabilità del fornitore, che ha conoscenze specifiche e in alcuni casi offre servizi di analisi legati soprattutto alle componenti ossidative, l’opportunità di aumentare la gamma dei prodotti facendo anche batch piccoli di birre stagionali e la possibilità di fare release particolari senza rinunciare per forza alla bottiglia, presentando novità ai clienti o semplicemente una nuova veste per un tempo limitato. Nessun costo di revisione o riparazione dell’impianto di confezionamento e risparmi in termini di tempo e prodotti per la sanificazione. Gli svantaggi: rispetto a una gestione autonoma del processo, i tempi di confezionamento devono essere legati alla disponibilità di chi fornisce il servizio; la scarsa conoscenza del processo e della macchina, inoltre, rende difficile il controllo sulla qualità; in ultimo, il costo del servizio è più elevato rispetto all’ammortamento di un macchinario.
Riempimento delle lattine.
L’esperienza di uno tra i maggiori fornitori del servizio in Italia
Cerchiamo ora di capirne qualcosa di più parlando con Mauro Bertoletti del Teatro delle Birre e di Mister B Brewery, il primo produttore che ha scommesso tutto sulla lattina in Italia e che di fatto è uno dei tre principali attori che si stanno occupando ora di mobile canning nel paese ? DR: Come e quando hai iniziato l’attività di mobile canning? È stata una tua idea fornire questo servizio ad altri oppure, visto il recente boom di richiesta di prodotti in lattina, sono stati i birrifici a contattarti? Mr. B: Facemmo i primi tentativi di spostare la nostra prima linea Cask nella primavera del 2018 per delle collaborazioni con altri birrifici. In tutto 6-7 tentativi. Ma rimandammo il progetto vero e proprio per varie cose da perfezionare e sicuramente serviva una macchina più performante e adatta agli spostamenti. Occorreva inoltre una strumentazione di misura attendibile per perfezionare la tecnica, oltre a una doppia strumentazione di supporto che fosse dedicata al servizio. Nel 2020 abbiamo acquistato tutto quanto, compresa una nuova linea concepita e modificata ad hoc per diventare mobile, interamente costruita e progettata in Italia. Le prime richieste arrivarono da birrifici conoscenti come favori retribuiti, per poi capire che potevamo offrire realmente un servizio di qualità e una consulenza specifica per il settore. Da lì fu un crescendo, dovuto anche alla situazione di emergenza sanitaria e alle chiusure dei canali distributivi; la lattina sembrava il veicolo ideale per arrivare più facilmente ai consumatori e magari rinnovare l’immagine dei birrifici stessi. ? DR: Come funziona una lattina trice e quali sono i passaggi tec nici più delicati nell’operazione di confezionamento?
Deposito del coperchio.
Mr. B: Una linea di riempimento è un passaggio delicato del processo produttivo in un birrificio, forse il più delicato, dove ci si gioca la shelf life dei prodotti. Il riempimento di una lattina deve seguire 4 passaggi fondamentali, ovvero: ❱ evacuazione del contenitore; ❱ riempimento; ❱ deposito coperchio; ❱ aggraffatura. Il tutto deve essere veloce e protetto dal nemico numero uno, ovvero l’ossigeno. L’aggraffatura deve essere precisa perché pochi micron di differenza ne possono compromettere la tenuta. ? DR: Che tipo di servizio fornisci presso i birrifici? Ti limiti ad arrivare sul posto e confezionare le lattine o il confezionamento è solo l’ultima fase di un processo di consulenza che parte molto prima? Mr. B: Nella nostra informativa di presentazione diamo dei parametri standard sul prodotto che lo rendono confezionabile o non confezionabile. Ovviamente elenchiamo costi e servizi accessori, come etichettatura, fornitura del materiale di packaging, etichette, scatole, lattine e tappi… poi, per chi vuole proseguire facciamo compilare una checklist pre-operativa in modo da essere preparati per eventuali problematiche, che analizziamo con il birraio cliente. Decise la fattibilità e la data del servizio, facciamo una recall pochi giorni prima per accertarci di condizioni del prodotto, carbonazione e temperature. Dopodiché si parte. Ovviamente è tutta consulenza che poi si sviluppa nella prima giornata di confezionamento, dove anche il cliente si tara sui parametri ottimali per confezionare con noi. ? DR: Che tipo di servizi accessori fornisci? Per esempio, vendi anche le lattine? Mr. B: Forniamo tutto, dalla lattina al packaging necessario, sino alla macchina di riempimento se qualcuno poi volesse fare il passo. Forniamo anche un servizio grafico con i miei professionisti di fiducia fino al rebrand, nel caso qualcuno ne avesse la necessità. ? DR: All’estero il servizio di mobile canning viene già utilizzato anche da produttori di bibite gassate e vino. Vedi una possibilità di mercato in questo senso anche in Italia? Mr. B: C’è stato un boom negli ultimi dodici mesi e molti in Italia, nonostante abbiamo soprattutto birrifici medio piccoli, si sono buttati sulla lattina. Credo che se io avessi avuto la possibilità di disporre di questo tipo di servizio, almeno per l’avviamento, l’avrei sfruttato e credo sia importante non partire allo sbaraglio ma cercare sempre la qualità. Tutto lascia pensare che il nostro servizio possa avere seguito e lo dimostra la concorrenza che sta spuntando, anche con compagnie estere interessate a fare mobile canning in Italia. Ma credo che sia una bolla e che chi troverà nella lattina il contenitore ideale acquisterà la macchina, anche per merito dei vari contributi che agevolano gli investimenti. In ogni caso, prima di fare il passo, consiglio di avere un approccio cauto e di affidarsi a qualche test e soprattutto a consulenze. ? DR: Quali sono le principali difficoltà che incontri nei birrifici nel fornire il servizio di mobile canning? Mr. B: L’Italia è vasta, ora l’abbiamo scoperto sulla nostra pelle, abbiamo lavorato in birrifici grandi e alcuni molto “compatti” con richieste tra le più disparate. Ma sul prodotto vedo che la professionalità sta crescendo e le problematiche maggiori per noi sono nell’avere parametri di riferimento omogenei, come sulla carbonazione (essenziale per un riempimento con una schiuma ottimale). Ora ci siamo attrezzati con una strumentazione specifica e precisa, incluso per esempio un carbossimetro.
Mauro Bertoletti di Mister B Brewery.
? DR: Ti va di raccontarci la storia più strana legata a un confezionamento? Non devi farexxxxx per forza i nomi… Mr. B: Preferisco essere discreto nei confronti dei colleghi ma, come in qualsiasi lavoro, non mancano le richieste più strane. La professionalità sta proprio nella completa flessibilità e nell’immediato problem solving. ?
DR: Come vedi la “crisi” di reperibilità del contenitore lattina? Mr. B: Diciamo che non ha precedenti nemmeno per i fornitori. Non dipende dal consumo di lattine per la birra artigianale ovviamente, in quanto noi non siamo sicuramente un settore core per i giganti delle lattine come Ball o Crown. Il problema grosso che abbiamo in Italia per la birra artigianale è che siamo un popolo fashion-forward: cerchiamo di stupire il pubblico con il formato del contenitore differente e ora ci troviamo con difficoltà di approvvigionamento su formati limitati, stagionali o provenienti dall’estero. All’estero vanno due formati per la birra artigianale (33 cl e 44 cl), il che permette di ottimizzare i costi e il lavoro dei fornitori; in realtà è perché inizialmente il mobile canner di turno in UK non poteva avere che uno o due formati, quindi quelli c’erano. Già l’anno scorso a maggio ho avvertito una sorta di crisi di alta stagione, ma quest’anno c’è stata da inizio anno. Le cause sono molteplici, dalle difficoltà produttive, di magazzino, fino alla scarsità di lattine neutre. Analizzando la situazione rispetto ai formati, possiamo dire che: ❱ il 40 cl è a bassissimo tiraggio e destinato ad andare fuori produzione; ❱ il 44 cl ha avuto difficoltà di approvvigionamento legate alla Brexit; ❱ il 50 cl non è stato disponibile per mesi, nonostante sia l’unico che si riesce a reperire se si hanno contratti annuali. In sostanza, si tratta per lo più di una crisi delle materie prime, sommata all’aumento dei costi di trasporto dovuti a coincidenze macroeconomiche che conosciamo. È molto importante affrontare questo discorso prima di decidere di fare il passo verso la lattina. Che lattine posso avere a disposizione ora? Dove producono quel formato? Avrò continuità? Cambiare il formato dopo il secondo o terzo batch non sarebbe ideale economicamente, per problemi di adattabilità di materiale e attrezzature di packaging, oltre al fatto che l’immagine del birrificio non ne gioverebbe. In un’intervista del 2017 Mauro dichiarava: “…trovano a mio avviso nella lattina il contenitore ideale, così come le pilsner, del resto, o le classiche lager. Ma, se fosse per me, metterei in lattina tutto o quasi”. A giudicare da come si è evoluto il mercato in questi anni è stato a dir poco profetico.★
Otto montagne E UNA BIRRA
Così mi trovo sulle montagne di Paolo Cognetti. Estate 2021: i figli in colonia in Val d’Aosta, con mia moglie decidiamo di ritagliarci qualche giorno in beata solitudo non distanti dal loro rifugio. Guardo la mappa. C’è Brusson. Mi dice qualcosa Brusson. Ma certo! È il piccolo comune montano in cui sta Paolo Cognetti, l’autore de Le otto montagne, vincitore del Premio Strega nel 2017. Allora gli scrivo: “Paolo, dove andiamo a dormire? Mangiare? Bere?” Lui che è gentile e innamorato delle sue terre d’elezione –è nato a Milano, ma qui ha trovato se stesso – ci dà tutte le risposte di cui necessitiamo e in un amen eccoci in questa montagna vera, ruspante, senza negozi di griffe o signore ingioiellate ma con le scarpe da trekking. Brusson è uno spruzzo di case, 883 abitanti che si fanno i fatti propri e la partita, la sera, la vediamo dal benzinaio dove si ritrovano tutti. C’è pure la troupe del film che stanno traendo dal libro di Cognetti. “Ma non è Filippo Timi, quello?” dico a mia moglie addentando il panino con mocetta e fontina. Nei giorni di Brusson il nostro obiettivo sono le passeggiate: boschi, pace, conifere, alpeggi. E polenta concia. Tutte le volte è la stessa liturgia: salita, fatica, sudore, rifugio, riposo, salumi, formag-
gi, polenta. E vino. Sfuso della casa. Di solito: barbera. La prima volta, nel primo rifugio penso: certo che questo vino è proprio gramo. La seconda volta: anche questo è veramente gramo. La terza: è fortissimamente gramo. Così alla quarta sosta, come Oscar Luigi Scalfaro dico: “non ci sto!” Lo so che, nella prassi montana, la polenta e la fontina e la mocetta chiamano il vino rosso, ma diamine non c’è frase che trovi più desolante del s’è sempre fatto così, normalmente utilizzata per difendere le peggio nefandezze. Così, al Rifugio Arp, 2.446 metri sul livello del mare, al ragazzone grande e grosso che ci prende l’ordine mia moglie dice: “due polente conce e due... birre.” Ah, un respiro di sollievo. La birra dà sicurezze che il vino non sa dare. Un mio vecchio motto – da enofilo, lo ammetto, non vogliatemene – è il miglior vino sarà sempre migliore della miglior birra; il peggior vino sarà sempre peggiore della peggior birra. E visto che qui in rifugio non siamo dalle parti del Sassicaia, confido che, per quanto la birra potrà essere mediocre, sarà comunque più inoffensiva di una barberaccia. Così il ragazzone ci porta due medie, una lager chiara e un’ambrata e noi, che siamo in credito di liquidi dopo la sudata dell’ascesa, diamo due bei sorsi. Guardo mia moglie. Lei mi guarda. “Ehi, è buona.” Eravamo rassegnati a un pareggio e invece qui siamo sul due a zero. “È proprio molto buona.” Guardiamo i boccali. C’è scritto Les Bières du Grand St. Bernard. Non conosco, sono ignorante in materia, chiediamo al ragazzone. “È di qui, mi piace, ma costa cara” è il suo commento sintetico, lontano anni luce dallo storytelling dei locali fighetti. La narrazione ci toglie troppo spesso il piacere della scoperta. Ti arriva un prodotto che non conosci; nessuna aspettativa; lo provi; pensi: “che buono!” Nei tempi della comunicazione onnipresente è una sensazione che si prova sempre più di rado. Prendo la seconda, che poi è quello che dovrebbe succedere con tutte le cose che ci piacciono davvero: volerne ancora. Tornato a Brusson nell’alimentari del paese le hanno in frigo. Acquisto una bottiglietta: stanno a Chambavaz, una frazione di Gignod. Li googlo con il telefonino: hanno belle referenze, una Tripel al genepy, una di segale, una Oatmeal Stout, una Marzen Rauch, una Barely Wine... Mi viene una gran voglia di assaggiarle. Lo farò! Andando via da Brusson – diretti a Saint Jacques, dove recupereremo i bambini –ci portiamo dietro un senso di libertà, di verità, di nitore. È un buon sapore, un misto di paesaggi, fragore di ruscelli, scampanare di mucche, profumi di prati in fiore, di formaggi… e di una birra sconosciuta, incontrata per caso, ordinata per evitare un vino scadente in un rifugio a 2.446 metri.★
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A OGNUNO
il suo luppolo!
Che il territorio influisca sulla produzione primaria è un fatto ormai assodato. Ne sono la dimostrazione le numerose produzioni alimentari lungo la penisola che si fregiano di marchi come DOP, IGT, DOCG e tutte quelle varie sigle pensate per la differenziazione e tutela di un determinato prodotto, spesso cresciuto e trasformato in un preciso areale. Questo è accaduto perché si è notato che lo stesso prodotto cambia la sua composizione a seconda di molteplici fattori. Il latte, per esempio, varia in funzione dell’alimentazione della vacca: tipologia (alimento fresco trasformato), forma, composizione, epoca di pascolo o di raccolta delle essenze vegetali, altitudine e latitudine di produzione delle materie prime ecc. Anche i formaggi prodotti da quel latte avranno diverse componenti aromatiche in relazione alle condizioni ambientali di lavorazione e conservazione o alla componente microbica del luogo di stagionatura. Lo stesso avviene anche per altri prodotti derivati da diversi vegetali. Per esempio, un olio prodotto con olive di varietà Frantoio ha caratteristiche molto diverse a seconda del luogo di produzione. Questi esempi introducono un concetto molto preciso: il terroir.
Il concetto di terroir
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza e di capire qualcosa di più su un concetto tanto complesso quanto semplice come quello del terroir. Semplice perché è abbastanza intuitivo che, per esempio, un qualsiasi prodotto vegetale abbia carat-
teristiche diverse a seconda che cresca in alta montagna o in pianura. Nella migliore delle ipotesi una specie modifica le proprie caratteristiche compositive al variare delle condizioni ambientali; nella peggiore, la stessa specie non riuscirà a crescere e a svilupparsi se l’ambiente in cui si trova diventa non favorevole. La complessità deriva dal fatto che è molto difficile isolare il singolo fattore che può alterare il metabolismo delle piante (o degli animali). Il concetto di terroir comprende più fattori che si concatenano interagendo tra loro: la morfologia, i caratteri pedologici e la composizione del terreno di coltivazione, la composizione del bioma del terreno, altitudine, esposizione, clima, ma anche le pratiche agronomiche che si applicano. Questi fattori influenzano in modo univoco il prodotto agrario. Le condizioni che caratterizzano un certo terroir, inoltre, non sono replicabili ma sono legate in modo esclusivo a quel determinato e specifico territorio, intendendo con tale termine l’insieme dei fattori naturali e del fattore umano. I primi a utilizzare questo strano termine sono stati i francesi, i quali lo hanno coniato per identificare le differenze esistenti in diversi areali viticoli della Francia, per differenziarli rispetto ad altri. Il termine terroir è di difficile traduzione: letteralmente si può tradurre in territorialità, ma in senso più specifico possiamo dire che vuole indicare una terra tipica o un luogo tipico. Anche in questo caso, la terminologia non ci aiuta, perché il terroir è qualcosa di ancora più complesso. Secondo l’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino): Il Terroir viticolo è un concetto che si riferisce a un’area nella quale la conoscenza collettiva delle interazioni tra caratteri fisici e biologici dell’ambiente permette la sua evoluzione attraverso l’applicazione di pratiche colturali. Questa interazione crea caratteristiche distintive per i prodotti che hanno origine in quest’area. Il Terroir comprende una specificità di suolo, di topografia, di clima, di paesaggio e di biodiversità. Questo concetto può naturalmente essere esteso ad altre produzioni diverse dal vino, quindi significa che il territorio modifica la qualità di un dato prodotto.
Tutto dipende dal metabolismo secondario
Quali sono i motivi biologici per cui un organismo modifica il suo comportamento in ambienti diversi? La risposta è l’esistenza del metabolismo secondario. Infatti, se il metabolismo primario consiste in tutti quei complessi di reazioni che sono strettamente necessarie alla vita della pianta e alla sua costituzione, quindi le reazioni di sintesi di proteine strutturali, carboidrati, lipidi e acidi nucleici, senza le quali la pianta non sopravvivrebbe, il metabolismo secondario si attiva e produce metaboliti per permettere una migliore sopravvivenza e un migliore adattamento. Il metabolismo secondario, infatti, si attiva spesso in risposta allo stress: in alcuni vegetali, per esempio, se sottoposti a raggi UV, si assiste a un aumento della produzione di antociani per la protezione del vegetale stesso, non indispensabili alla pianta in grandi quantità, ma che se più presenti la preservano maggiormente. Lo stesso avviene per i deficit nutrizionali: per esempio, quando il pomodoro è sottoposto a una dieta dimagrante in cui vengono razionati azoto e fosforo, esso tenderà a lignificare alcuni dei suoi tessuti e a produrre fenil propanoidi e antocianine. Queste modifiche permetteranno al pomodoro affamato di poter maggiormente resistere in quel determinato ambiente. In che cosa si traduce questo? In una diversa composizione chimica e nutrizionale dei frutti prodotti da questa pianta. Fanno parte dei metaboliti secondari anche gli oli essenziali e i tannini; la composizione dei primi cambia a seconda delle condizioni della pianta, mentre la concentrazione dei secondi è fortemente legata alla strategia di difesa della pianta stessa: maggiore quantità nelle piante arrabbiate e minore nelle piante rilassate. Non dimentichiamoci, poi, di tutte quelle strategie che la pianta attua, per esempio, per attirare impollinatori o
Tutti i prodotti agricoli (qui l'olio) hanno un terroir.
animali o repellere insetti, come la produzione di particolari sostanze volatili. Ecco, tutte queste sostanze, che andranno poi a caratterizzare in modo unico il nostro prodotto, fanno parte del metabolismo secondario della pianta.
Il terroir nel luppolo
Arriviamo ora alla nostra domanda principale: esiste il terroir anche nel luppolo? E, se sì, come influisce sul prodotto finito? Alla prima domanda, possiamo rispondere con una discreta certezza che sì, esiste il terroir anche nel luppolo. Diversi studi sono stati fatti recentemente per determinarne gli effetti. In particolare, alcuni ricercatori nello stato di Washington hanno cercato di determinare se ci fossero differenze qualitative riscontrabili sull’olio essenziale e sulla birra prodotta con il luppolo della varietà Amarillo coltivato in Idaho e nello stato di Washington. Le distanze tra le due coltivazioni, essendo i due Stati confinanti, non sono enormi, ma le differenze sono tangibili. Dall’analisi sensoriale sulle birre, infatti, si sono riscontrate differenze che hanno permesso a un panel di esperti di differenziare nettamente i due prodotti. Dall’analisi strumentale sull’olio, invece, l’Amarillo coltivato a Washington è risultato più fruttato, speziato e resinoso, mentre l’Amarillo dell’Idaho è risultato più citrico e floreale. Questo ha portato prove concrete a conferma del fatto che l’area di produzione influenza in modo significativo la qualità del luppolo e, in questo caso, anche della birra.
Cascade e Comet: Yakima vs Hallertau
Un altro studio ha osservato le differenze che si andavano a sviluppare nei coni di luppolo delle cultivar Cascade e Comet coltivate nelle due regioni a maggior produzione luppolicola: Yakima (USA) e Hallertau (Germania). Anche in questo caso gli studiosi si sono concentrati sull’influenza del terroir sui coni di luppolo e sulla birra da essi derivata. In questo studio gli autori hanno osservato un maggior contenuto di antiossidanti nei luppoli e nelle birre prodotti in Germania e anche una maggiore presenza di linalolo, sia nel luppolo sia nella birra. Il linalolo è una molecola aromatica molto interessante contenuta nel luppolo dai sentori floreali, citrici e di legno di rosa. Però, in questo caso, dall’analisi sensoriale condotta da panelisti esperti non sono state riscontrate particolari differenze tra le birre prodotte con gli stessi luppoli, anche se provenienti da territori diversi.
L’influenza del clima sulla cultivar Aurora
È noto che il clima, soprattutto temperatura e piovosità, influenza il contenuto in alfa e beta acidi. Un gruppo di ricercatori (Pavlovic e collaboratori) di un’altra nota zona di grande tradizione luppolicola, la Slovenia, ha monitorato lo sviluppo di acidi amari della cultivar Aurora dal 1994 al 2009, osservando un’importante correlazione tra la quantità di alfa acidi e temperatura, insolazione, piovosità e umidità. Questi parametri avevano una diversa rilevanza nel favorire o sfavorire la sintesi di alfa acidi a seconda del momento di sviluppo della pianta. Gli studiosi hanno osservato, per esempio, che il contenuto di alfa acidi è influenzato dalla temperatura durante le fasi comprese tra il taglio del rizoma e la fioritura. I ricercatori hanno però sottolineato come questi dati siano reali per la cultivar in studio, ma probabilmente per altre varietà le variabili in gioco potrebbero avere pesi molto diversi.
Il caso “US Tettnanger”: fake terroir?
Un caso importante e forse poco noto di finto terroir (fake terroir) sembra poter essere attribuito al Tettnanger coltivato e commercializzato negli USA, conosciuto come US Tettnanger. Infatti test genetici recenti hanno osservato come il US Tettnanger sia molto più simile al Fuggle rispetto al vero Tettnang Tettnanger. Da questo deriva che, probabilmente, il genotipo statunitense deriva dall’impollinazione del Fuggle con la varietà Tettnanger in tempi non recenti e si è poi diffuso negli Stati Uniti con il nome di Tettnanger.
Il caso Cascade: un confronto tra coltivazioni italiane, europee e americane
Uno dei primi studi condotti in Italia è stato eseguito nel 2016 sulla cultivar Cascade da un gruppo di lavoro dell’Università di Parma. In questo caso sono state messe a confronto le caratteristiche qualitative di coni di Cascade provenienti da nove regioni italiane, con caratteristiche climatiche e pedologiche molto diverse, e di coni provenienti da quattro Stati in cui la coltivazione di luppolo è ormai una tradizione: USA (con un campione dall’Oregon e uno dal Michigan), Germania e Slovenia. Sono state riscontrate differenze in tutti i caratteri presi in considerazione: nel contenuto in olio, nel quantitativo di alfa e beta acidi e nella composizione del profilo aromatico. Nel nostro caso specifico, non abbiamo visto correlazioni particolari tra clima e qualità del prodotto, ma forse questo è dovuto al fatto che molti più fattori, diversificati per ambiente, hanno contribuito alla qualità del cono, non per ultima la composizione del terreno. Germania, Puglia e Liguria sono state le zone in cui si è riscontrato il maggior contenuto in alfa acidi, mentre il Cascade tedesco è risultato anche quello contenente la maggiore quantità di xantumolo, l’antiossidante del luppolo per eccellenza. Anche la quantità di olio posseduta dai luppoli è stata singolare, con picchi fino al 2% nel campione ligure. Tenendo conto che lo standard della cultivar è compreso tra lo 0,7 e l’1,4%, l’ottenimento di un 2% mostra quanto si possa differenziare la produzione. Il profilo aromatico dei campioni di coni provenienti dalle diverse zone ha evidenziato tantissime differenze. Infatti, nei campioni provenienti da Slovenia e Michigan sono risultati prevalenti le note speziate e terrose, mentre gli altri campioni erano contraddistinti da note agrumate e floreali, soprattutto il campione di Cascade proveniente dalla Campania. Il campione ligure, invece, ha mostrato il profilo aromatico più sovrapponibile al campione di Cascade tipico e originale dell’Oregon, dotato di tutte quelle note caratteristiche che vengono poi trasferite alle birre in stile APA. Questa scoperta può essere vista come un problema, avendo dimostrato che se un birraio vuole ottenere un prodotto dalle qualità organolettiche costanti deve rifornirsi di luppoli che provengano sempre dalle stesse zone, ma può essere considerata anche come una grande opportunità. Difatti, avere un luppolo che modifica le sue caratteristiche a seconda della provenienza rende forse più semplice progettare prima, e riconoscere poi, una birra prodotta con materie prime legate al territorio di produzione. Questo può anche far sì che un birraio possa differenziare la sua produzione dalle altre attingendo semplicemente da areali di produzione diversi e fornendo alla propria birra connotazioni uniche e, chissà, magari prettamente italiane. ★
Matracci di estrazione degli alfa e beta acidi.
Luppolo Cascade proveniente dall’Emilia Romagna.
LA SOSTENIBILITÀ
non è solo una parola
La sostenibilità ambientale può essere intesa come l’esatto opposto del degrado ambientale. Se non fosse che ogni singola parola di queste definizioni cela comportamenti, interazioni ed effetti sulla vita di ogni singolo abitante del pianeta e per la collettività, sarebbero entrambe da ritenere, senza timore di smentita, di una banalità imbarazzante. E a proposito di ovvietà, giova ricordare anche che il principio di sostenibilità ambientale risiede nella semplice osservazione che, nel nostro pianeta, non sia possibile avere una crescita infinita dai confini finiti, in quanto la terra presenta risorse naturali non rinnovabili. Secondo quanto espresso da diversi studiosi, le condizioni attraverso le quali è possibile attuare azioni a sostegno della sostenibilità ambientale sono fondamentalmente tre e hanno la possibilità di realizzarsi se la velocità con cui si sfruttano le risorse rinnovabili è inferiore a quella con cui si rigenerano, se l’immissione di particelle inquinanti nell’ambiente non supera la sua capacità di assimilarle e, infine, se l’esaurimento di risorse non rinnovabili si compensa con il passaggio a risorse sostitutive. Tutti i processi produttivi hanno un impatto sulle risorse rinnovabili, concorrono intrinsecamente alla produzione e immissione nell’ambiente di sostanze potenzialmente nocive, anche sotto forma di scarti, e imprimono un loro specifico ritmo nell’utilizzo delle risorse non rinnovabili. Neanche la tecnologia brassicola sfugge a queste dinamiche. Non è un caso che ultimamente si osservi una particolare attenzione a tutte quelle at-
tività connesse alla produzione, cui dà anche sostegno il mondo della ricerca. Nell’ambito delle birre artigianali, il reperimento di materie prime capaci di caratterizzarle e distinguerle sensorialmente è stato il pretesto per marcare un’appartenenza al territorio che la scarsa presenza di malterie e la pressoché nulla produzione di luppoli non poteva e non può, almeno per il momento, garantire. È anche vero che tutto il movimento birrario italiano si è evoluto nella replica degli stili birrari conclamati e che in alcuni casi fosse imprescindibile, per una buona riuscita di un determinato stile, omettere ingredienti precisi coltivati e sviluppati in un determinato areale geografico. Il che è l’essenza stessa della definizione di stile birrario passando attraverso indicazioni di tipo storico, geografico, in alcuni casi anche attraverso denominazioni di una zona o di una città, ma fondamentalmente attraverso il legame indissolubile con le produzioni agricole locali. Secondo uno studio recente, le voci che maggiormente incidono, in ambito brassicolo, dal punto di vista dell’emissione di sostanze inquinanti e del dispendio energetico riguardano il trasporto delle materie prime, la tecnologia di maltazione e la birrificazione in senso stretto. Il primo fattore è una logica conseguenza di quanto sopra esposto ed è verosimilmente, per tutti gli ingredienti utilizzati in birrificio a eccezione dell’acqua (che merita ragionamenti a parte), quello avente il peso maggiore alla voce trasporto, sia in termini energetici sia di inquinamento, stante la struttura del sistema di movimentazione delle merci in Italia. In questo senso la coltivazione e la trasformazione in loco rappresentano forse la soluzione che più di ogni altra garantisce, almeno in parte, il rispetto dei principi della sostenibilità ambientale. Le recenti ricerche scientifiche applicate al mondo brassicolo sono focalizzate anche sulla valorizzazione di varietà di cereali tra i più diversi, con lo scopo di caratterizzarli in chiave birraria, valutandone prima l’attitudine alla coltivazione, quindi le performance qualitative in fase di maltazione e i profili sensoriali delle birre da essi ottenute. Gli scenari che possono aprirsi in tal senso hanno potenzialità particolarmente interessanti. Attingere alla biodiversità locale e, parafrasando una celebre canzone, anzi localissima, garantisce di rendere reale il legame della birra con il territorio di produzione e di caratterizzarla con profili sensoriali che possano essere avvertiti con un carattere di esclusività e novità. Lo sforzo necessario per raggiungere questo obiettivo è decisamente notevole, ma i tempi sembrano ormai essere maturi per un nuovo scatto in avanti anche in questa direzione. Ovviamente non sarebbe che un primo tassello all’interno delle azioni necessarie per rimodulare il sistema produttivo nei binari della sostenibilità ambientale. Anche le tecnologie di trasformazione del malto sono state messe sotto la lente di ingrandimento. In questo caso si condensano almeno tre comportamenti nemici del green deal: elevati consumi energetici, rilascio eccessivo di anidride carbonica, la grande quantità utilizzata di una delle risorse non rinnovabili per eccellenza, ossia l’acqua. Anche l’utilizzo di cereali non maltati in percentuali non marginali all’interno della ricetta è sotto osservazione. In alcuni casi i risultati, seppure per il momento incompleti e limitati ad alcuni stili birrari, si sono rivelati per certi versi sorprendenti. Tuttavia, un conto è la sperimentazione in fase di laboratorio e un conto è il responso in birrificio e dei consumatori, nelle mani dei quali rimane il giudizio finale. ★
AGRIMONDO:
birra e turismo esperienziale a metà tra nuove tendenze e rivoluzione
In questi ultimi mesi, complice anche un periodo che ha necessariamente rivoluzionato ritmi e punti di vista, si è sentito sempre di più parlare di concetti legati all’agrimondo e alla sostenibilità: agrifood, agriturismo, agribirra, agriparco, agrieventi solo per citarne alcuni. Come tutti i nuovi concetti è sempre importante cercare di definirne bene il significato, per non farsi prendere dall’entusiasmo e chiamare quasi ogni cosa con lo stesso nome. Il termine agri nasce per indicare il luogo in cui si svolge un’attività, solitamente di piccole e medie dimensioni, in uno specifico contesto culturale agricolo fatto di radicamento territoriale e rispetto delle tradizioni, con un approccio molto attento alla sostenibilità ambientale e con la massima valorizzazione delle risorse naturali locali. La selezione e la produzione di materie prime di qualità sono un altro elemento importante, anche se agri non definisce per forza un unico modello di coltivazione. In questo flusso di nuovo sviluppo dell’ambito dell’agri si collocano anche molti nuovi microbirrifici italiani, che hanno deciso di unire tradizione e inno-
vazione dei luoghi e degli spazi: spesso infatti vengono recuperati antichi casolari o case di campagne resi più sostenibili attraverso sistemi di efficientamento energetico e interventi di bioedilizia.
Un paese dalle grandi potenzialità
…Con un valore aggiunto dell’agricoltura pari a 31,4 miliardi di euro correnti, l’Italia mantiene il primo posto della classifica europea anche nel 2020, seguita dalla Francia (30,2 miliardi). In terza posizione la Spagna (29,3 miliardi), che ha ridotto notevolmente, rispetto al 2019, il divario dalla Francia mentre ha perso terreno la Germania, che si conferma in quarta posizione (20,3 miliardi). Su un totale di valore aggiunto pari a circa 177 miliardi di euro per l’intero sistema agricolo della Ue27, l’Italia ha
Che cos’è la biodiversità?
Il termine biodiversità deriva dal greco bios che significa vita e dal latino diversitas che significa differenza o diversità; la parola biodiversità indica quindi la diversità della vita all’interno di un certo luogo. Esistono tre diversi livelli di biodiversità: • diversità genetica, ossia la complessità e la varietà degli esseri viventi che vivono sul pianeta; • diversità di specie, che indica l’abbondanza e la diversità tassonomica, ossia la varietà delle specie e le relazioni tra di esse; • diversità di ecosistemi, che indica l’insieme di tutti gli ambienti naturali presenti sul pianeta. contribuito per il 17,8%, la Francia per il 17,1%, la Spagna per il 16,5% e la Germania per l’11,4%... (Rif Istat21 maggio 2021, report su Economia Agricola.) L’Italia non solo è una grande potenza agricola a livello europeo (vedo sopra), ma emerge anche tra i paesi con i maggiori livelli di biodiversità ambientale, culturale e climatica al mondo, in proporzione all’estensione del suo territorio. Questa caratteristica la rende un paese di straordinaria potenzialità e varietà, che consente non solo itinerari turistici di vario tipo, ma anche la possibilità di avere filiere agroalimentari molto variegate, che offrono prodotti di grande carattere definiti dalla specificità del contesto locale. Negli ultimi decenni in Italia si è assistito a un continuo flusso di persone giovani che lasciavano le aree agricole per trasferirsi nelle aree urbane italiane ed estere. In questo modo in campagna sono rimaste, prevalentemente, le generazioni più anziane, che negli anni poi sono fisiologicamente diminuite, ponendo l’attenzione su come recuperare terreni, coltivazioni e strutture. Il recente ricambio generazionale ha portato nei giovani la volontà di ritornare alla terra. È così iniziata una riconversione di aree di produzione e abitative, accompagnata dalla realizzazione di nuovi progetti imprenditoriali in ambito agricolo che uniscono tradizione e innovazione, favorendo un nuovo florido mercato che, pur essendo ancora agli inizi, presenta ottimi livelli di crescita; soprattutto, è fiorito il turismo esperienziale in ambito agri. In questo clima di cambiamento lo sviluppo della filiera brassicola è in continua evoluzione anche se, ancora troppo spesso, manca una reale volontà di condivisione e collaborazione finalizzata a creare
un settore forte e riconoscibile come quelli legati alle filiere dell’olio e del vino.
Agribirra: nuova moda o nuovo settore di produzione?
Il temine agribirra da qualche tempo ha iniziato a entrare nel vocabolario comune del mondo brassicolo, non solo tra dagli esperti di settore ma, timidamente, anche tra i consumatori. Spesso ancora non si capisce bene che cosa significhi bere una birra agricola o che cosa succede all’interno di un agribirrificio. Secondo la normativa italiana, per l’opportunità di avviare un birrificio agricolo si rimanda al decreto ministeriale 212 del 2010, che ha inserito la birra e il malto fra le attività agricole connesse (decreto poi confermato con il dm 13 febbraio 2015). Un birrificio, per poter essere definito e classificato come agricolo, così come per le aziende agricole tradizionali, deve utilizzare il51% della materia prima che provenga dalla stessa azienda agricola; vale a dire che sia prodotta in loco. Visto che per produrre birra gli ingredienti necessari di base sono luppolo, acqua, orzo e malto, e considerato che, in proporzione, la quantità di luppolo da inserire in ricetta è una percentuale minima, i birrifici agricoli producono prevalentemente orzo distico o frumento. In realtà in questi ultimi cinque anni sono aumentate notevolmente le creazioni di nuovi luppoleti e nuove coltivazioni agricole a sostegno della produzione di birra agricola. Secondo i datiforniti da Assobirra, i birrifici agricoli in Italia sono stimati in 126 e sono distribuiti a macchia di leopardo sul territorio nazionale, elemento che rafforza il trend di crescita e interesse di questo settore. Secondo la Coldiretti, gli agribirrifici producono circa un terzo della birra prodotta dai birrifici artigia-
Agenda 2030 e retail per sostenere le aziende
Nei prossimi anni sentiremo parlare sempre di più degli obiettivi dell’Agenda 2030, ma questo non significa che tutti sappiano esattamente di che cosa si tratta. Ciclicamente, ogni cinque o dieci anni, la comunità internazionale (in questo caso le Nazioni Unite) decide di valutare lo stato di salute del mondo e di capire che tipo di politiche e azioni adottare per migliorare la situazione. La nuova Agenda 2030, avviata ufficialmente all’inizio del 2016, si focalizza sullo sviluppo sostenibile e lo fa attraverso la declinazione in 17 obiettivi. Alcuni sono molto ottimistici, ma già avvicinarsi a quello che si pongono come risultato finale comporterebbe un grande miglioramento per tutti.
nali in Italia. Un mercato decisamente in fermento. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dall’Agenda 2030 sono un modello che sarebbe giusto poter diffondere nei comportamenti quotidiani di ognuno di noi nonché in ambito produttivo e imprenditoriale. Nello specifico, il mondo brassicolo italiano ha fatto e sta facendo moltissimo. Infatti, per creare un buon prodotto artigianale occorrono sempre di più la tecnica, la passione ma anche il rispetto di tutte le fasi di produzione, nel caso di tap room o locali di somministrazione nelle varie fasi del servizio. Per passare dalla teoria alla pratica gli input sarebbero moltissimi, ma cerco di racchiuderli in cinque piccoli gesti che, personalmente, ritengo i principali da cui partire per poi sviluppare modelli vincenti. ❱ Un prodotto artigianale è davvero di qualità se rispetta in modo sostenibile la filiera produttiva. La coerenza ripaga sempre in ambito commerciale. ❱ Coinvolgere i vari soggetti del territorio per sostenere il lavoro reciproco e creare accordi di collaborazione. Per esempio, voi fate la birra e qualcuno a voi vicino un prodotto
alimentare d’eccellenza da abbinare alle birre in degustazione o in vendita, come pacchetto. ❱ Usare sempre un packaging riciclabile e il meno ingombrante possibile. ❱ Inserire sistemi innovativi per il monitoraggio dei consumi e tecniche per l’efficientamento energetico. ❱ Creare un team di lavoro costa fatica, ma valorizza e migliora il vostro lavoro e il vostro livello di produttività.
Per le aziende si parla di finanza sostenibile, il cui scopo è indirizzare le risor-
Il punto di vista di Laura Nolfi
Ho chiesto alla produttrice di birra alla canapa Laura Nolfi, del birrificio SeminaMenti, nelle Marche, che cosa pensa del tema degli agribirrifici. Laura non ha solo passione e molta tecnica per la realizzazione delle sue birre, ma in lei sono sempre forti i principi della coerenza e del rispetto.
? Laura, che cosa ne pensi di questo trend in crescita degli agribirrifici? Sono contenta che ci sia questo trend positivo e che aumentino i microbirrifici e gli agribirrifici, perché questo tipo di azienda fa subito, giustamente, pensare a una realtà legata al territorio. Realizzare un agribirrificio non è facile: produrre almeno il 51% delle materie prime non è per nulla banale; si basa tutto sulla qualità degli ingredienti utilizzati e sulla collaborazione con le varie realtà che si trovano sul territorio. Credo davvero che l’agribusiness possa rappresentare il futuro della birra artigianale, soprattutto se vogliamo essere coerenti con questa definizione ed essere realmente artigianali. La mia azienda si è fatta conoscere con le birre alla canapa, ma non è mai stato facile trovare collaborazione, soprattutto perché quello che manca in Italia è la presenza di maltifici e, visto che il malto d’orzo è il principale ingrediente nella birra e la caratterizza, non è una mancanza da poco.
Che nesso trovi tra agribusiness e maltificio? Noi aziende agricole possiamo coltivare l’orzo, ma poi non ci sono maltifici e dunque dobbiamo investire su nuovi maltifici, così come è successo per l’olio extravergine di oliva dove si sono creati dei frantoi comunitari per le piccole produzioni, che consentono di poter chiudere il cerchio produttivo nell’ottica della qualità e della sostenibilità. I maltifici sono pochi e spesso è molto complicato, almeno per la mia esperienza personale, trovare un giusto interlocutore.
? Come si potrebbe fare? Bisognerebbe creare un sistema di piccole realtà locali che si uniscano come distretto e che creino contatti e accordi con le università locali, così da avere tutta la parte della consulenza e dell’innovazione agronomica. Una filiera attiva, riconosciuta e variegata creerebbe poi anche molti posti di lavoro e soprattutto un lavoro che rispetti la natura (nel mio caso la produzione è tutta biologica) e le persone, e offra un prodotto eccezionale come la birra artigianale. È un modello di business di cui abbiamo bisogno ora più che mai.
Laura Nolfi e, a destra, la birra Fiorile, del birrificio SeminaMenti.
se finanziarie pubbliche e private verso settori, progetti e iniziative funzionali alla transizione dell’economia verso modelli più inclusivi e a ridotto impatto sull’ambiente. Dunque, i prossimi mesi saranno il momento migliore per investire anche nella nascita di nuove realtà in ambito agribrassicolo, con le caratteristiche indicate nell’Agenda 2030.
Da un’idea a una nuova struttura agri ed esperienziale
❱ Il primo step per aprire un’azienda agricola è la scelta del terreno; una scelta non facile, perché richiede uno studio incrociato tra carotaggi (prelievi) di terreno per conoscerne la qualità e la composizione, la col-
locazione e l’esposizione al sole in base alle colture da introdurre. ❱ Privilegiare interventi di riqualificazione architettonica, in caso di strutture già presenti, per riconvertirle al loro utilizzo da abitativo (come spesso accade) o produttivo a locale per la ricezione di ospiti e per l’eventuale somministrazione di cibo e bevande. ❱ Affidarsi a un consulente del settore per seguire tutto l’iter burocratico e le eventuali agevolazioni possibili da utilizzare su più fronti, dalla riqualificazione del terreno alla ristrutturazione. ❱ Credere nel proprio progetto e costruirlo con un sistema di collaborazioni e scambi sul territorio. ❱ Non perdere mai il livello di qualità per l’illusione di un maggior guadagno, perché i consumatori sono, giustamente, sempre più attenti a quello che consumano e per cui spendono.
Come definire al meglio una proposta agrifood
Il modo migliore è usare ciò che cresce in ogni stagione e in prossimità del luogo in cui ci si trova, poi ci sono spezie ed erbe aromatiche che possono definire un piatto e trasformarlo. La cultura contadina insegna, cosa che non dimentico mai da nipote di un cuoco di cucina tradizionale veneta, di usare tutto quello che il territorio offre e soprattutto di non buttare nulla, ma di trasformare il più possibile! ★