5 minute read

La sicurezza alimentare è una questione etica

La prevenzione è la migliore protezione! Vi suona familiare questa frase? Da Tecnologi Alimentari ci siamo abituati a ragionare esattamente con questo schema che per quanto riguarda la sicurezza alimentare è da sempre fondamentale. “Prevenire è meglio che curare”, ci hanno insegnato dai banchi di scuola fino all’Università, ma forse, ingannati della disarmante semplicità del concetto, abbiamo trascurato o sottovalutato gli aspetti basilari sui quali si costruisce ogni progetto durevole.

Non stupiamoci allora che in questo periodo complesso e incerto, ci troviamo spesso disorientati e confusi, a volte anche spaventati e scoraggiati. Sembra che intorno a noi si stiano sgretolando le certezze (poche e fragili) con le quali siamo cresciuti e che ogni convinzione valida sino a qualche mese fa, si sta trasformando in insidioso dubbio e insicurezza.

Penso, che con l’estenuarsi della pandemia, tutti noi speravamo di tornare lentamente verso buona parte delle vecchie abitudini, arricchite in qualche modo dell’esperienza della crisi sanitaria, mentre ci siamo trovati nel vortice della guerra, coinvolti in un altro dramma che ci ha reso protagonisti di scenari che consideravamo memorie del passato.

È doveroso chiederci allora, dove e perché abbiamo sbagliato per trovarci oggi in questa situazione? Di fatto, soprattutto negli ultimi mesi, assistiamo a una valanga di analisi e opinioni, espressi attraverso ogni mezzo disponibile, che puntano il dito sempre nel passato, evidenziando mancanze gravi di politiche e strategie che avrebbero evitato le problematiche odierne. C’è anche una larga platea di esperti che sostengono l’imprevedibilità di ciò che è successo e sta succedendo. Personalmente non me la sento di schierarmi da nessuna delle due parti e non per mancanza di visione, ma più che altro, perché penso che il vero problema, in questo momento, sia un altro. In primis, perché non possiamo tornare indietro e correggere il passato, né tanto meno possiamo governare ciò che non possiamo prevedere. Per essere sinceri e onesti, solo una parte di ciò che accade oggi si può definire un evento o una serie di eventi concatenati imprevedibili. Anzi, i problemi climatici, la necessità di trovare nuovi fonti energetiche, così come l’esigenza di riqualificare profondamente il sistema agroalimentare, sono argomenti che ormai da moltissimi anni si discutono intorno alle tavole rotonde di associazioni, fondazioni, istituzioni e organizzazioni a livello internazionale, ma solo adesso, chiuso nell’angolo dalla realtà, ci stiamo rendendo conto che il solo parlare non basta. Il tempo delle parole è scaduto.

MASSIMO ARTORIGE GIUBILESI

Presidente Ordine dei Tecnologi Alimentari Lombardia e Liguria

La crisi alimentare non trova alcun riscontro nei numeri della produzione mondiale di derrate alimentari

A mio avviso ciò che ci manca di più in questo preciso momento non sono tanto il grano, il mais, il gas e i fertilizzanti, cose che con difficoltà e magari a prezzo alto riusciremo a trovare, ma bensì una visione globale, strategica e condivisa per un futuro di dignità per tutti, anche di prosperità e di equilibrio sostenibile. Ci manca una vera leadership in grado di unire, ispirare e guidare i popoli verso il superamento degli ostacoli che oggi ci sembrano insormontabili. Ci serve lungimiranza strategica costruita su valori

etici e responsabilità reciproca che mette in primo piano il beneficio comune al posto del profitto “ad ogni costo”, soprattutto quando destinato a pochi. In questo ordine di ragionamento, è giunto il momento di iniziare a farsi alcune domande anziché continuare a nascondere lo sporco sotto il tappeto delle “comode scuse” offerte oggi dalla pandemia e la guerra. Dati alla mano, la crisi alimentare paventata non trova alcun riscontro nei numeri della produzione mondiale di derrate alimentari. Secondo i dati FAO 2021 la produzione globale di cereali, grano incluso, è arrivata allo storico record di 2.791 milioni di tonnellate. Da sottolineare e da scrivere a caratteri cubitali, per chi ci gioca con i numeri, il contributo della Russia e dell’Ucraina è stato rispettivamente del 4,13% e del 2,29%. Dunque? Facendo un semplice calcolo matematico e partendo dal fatto che la popolazione mondiale attuale è di 7,9 miliardi di persone, a livello generale e solo per questo tipo di derrate, risulta che per ogni singolo essere umano, ci sia un chilo di grano al giorno. La produzione di patate e di legumi, inoltre, lo scorso anno è stata complessivamente di oltre 420 milioni di tonnellate: quasi 150 g/giorno/persona. Se a queste disponibilità aggiungiamo tutto quello che servirebbe per avere dei pasti completi sotto il profilo nutrizionale (frutta secca, semi oleaginosi, sale, zucchero, etc.), considerando anche le perdite di peso di trasformazione dei prodotti e gli

ordinari problemi di stoccaggio, arriviamo ad oltre 1,5 kg pro capite al giorno. Essa corrisponderebbe mediamente a 12-15 porzioni giornaliere di minestrone, una quantità di cibo impossibile da mangiare per qualsiasi essere umano e dunque utile per sfamare tutti in modo più che soddisfacente (dati FAO). Visto così allora, sembrerebbe che il problema non esista, invece siamo testimoni di una tensione che non può essere considerata figlia degli eventi imprevedibili, ma bensì frutto di un’organizzazione e gestione dei beni primari come prodotti finanziari, quindi soggetti a speculazione, inseriti in logiche borsistiche centrate sul puro profitto più che sull’approvvigionamento e gli obiettivi della Green Deal che proclama di voler combattere definitivamente la fame nel mondo. Per fare ciò, però, bisogna iniziare – direi immediatamente – a mettere in discussione alcune pratiche largamente diffuse, delle quali si parla poco nel dibattito generale. Ad esempio, i prodotti che vanno eliminati direttamente ancora sul campo, solo perché non corrispondono agli standard qualitativi imposti dalle catene di commercializzazione e di distribuzione perché “brutti a vedersi” o perché “difficili” da confezionare (intendo la mela con la macchia, il peperone storto o la patata non perfettamente ovale). Per non parlare dell’enorme spreco di prodotti che per svariati motivi che ben conosciamo e che hanno nulla a che fare con la qualità e la sicurezza alimentare, finiscono nei nostri rifiuti e per i quali poi, come ulteriore beffa, dob-

biamo pagare pure la tassa per il loro smaltimento. Interroghiamoci con onesta quindi sul perché di questa contraddizione epocale, secondo la quale ci risulta più conveniente nutrire gli animali da allevamento, anziché gli esseri umani. Il nostro modello di consumo, mi azzardo a dire che forse anche la nostra cultura alimentare, vista da questo lato, premia concetti etici distorti per le esigenze dei grandi mercati globali e degli standard estetici a discapito di intere popolazioni. Perciò è indispensabile che la nostra categoria professionale riprenda le redini della propria professione e vocazione, le quali ci richiamano ad agire perché abbiamo davanti a noi l’imperdibile opportunità di contribuire al vero cambiamento, questa volta in positivo. La nostra identità di professionisti ed esperti è la somma delle esperienze, degli studi e delle idee di cui siamo portatori per deontologia, ma soprattutto per i valori sui quali si basa la nostra attività.

This article is from: