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JOHN BARLEYCORN La birra e la musica delle tradizioni nel rock

Un bel giorno, nella primavera del 1966, molte persone dell’area di Chicago, prima, e di mezzo mondo, poi, ebbero la possibilità di far scorrere la puntina del proprio giradischi sulle tracce scolpite nel vinile “The Real Folk Blues” del già celebre artista ame- ricano John Lee Hooker, ed uscito sul mercato discografico grazie all’etichetta Chess Records che già dalla fine degli anni ’50 aveva intravisto nel bluesman di Clarksdale, Mississippi, una delle figure di spicco dell’allora fiorente panorama blues della “Windy City”.

Quasi in chiusura della seconda facciata, il cantante e chitarrista padre del boogie blues, accompagnato dal piano di Lafayette Leake, dalla chitarra di Eddie Burns più una non ben identificata sezione ritmica, ci propone una bellissima versione di “One Bourbon, One Scotch,

One Beer” brano scritto originariamente da Rudy Toombs e registrato da Amos Milburn nel 1953.

Una

storica accoppiata

Anche la birra è protagonista in un testo di una canzone e non è la prima volta e nemmeno sarà l’ultima, perché birra e musica sono legate da un filo indissolubile, anche se la cosa non era certamente voluta o progettata con fini di lucro o quant’altro. Ma è impossibile non riuscire ad immaginare di ascoltare musica, sia live che su disco, senza che ti venga voglia di assaporare una birra di qualità, senza quella piacevolezza di poter abbinare il gusto della nostra bevanda preferita ad accompagnare il fruire di note musicali che ci regalano emozioni. Si possono fare tantissimi ragionamenti su questa ormai storica accoppiata, a partire dalla qualità spesso pessima della birra proposta agli spettacoli live, specialmente quelli che attirano tanto pubblico, ma ci sono - fortunatamentetante occasioni dove la buona musica è abbinata ad una preziosa scelta di birra, soprattutto artigianale di alto livello. Questo aspetto, fortunatamente sempre più frequente, ci ha fatto pensare ad una nuova rubrica dedicata alla musica, con consigli per gli ascolti - magari casalinghi - dove poter dare una giusta “colonna sonora” ad uno dei nostri passatempi preferiti, ovvero quello di gustare una prelibata birra in perfetto relax. La birra protagonista - ma non necessariamente - in canzoni o album che hanno fatto la storia della musica moderna, oppure in dischi non diventati famosi come meritavano ma che andrebbero riscoperti.

Rock, blues, country, jazz, musica angloscoto-irlandese e delle tradizioni USA…

Tutte sonorità che da tempo si accompagnano al bere una birra, con calma e con attenzione, e se nelle pagine della rivista potete trovare tutti i consigli su quali birre scegliere o come gustarle nel modo più corretto, in questa rubrica cercheremo di darvi le indicazioni e gli stimoli giusti per ascoltare brani musicali che pensiamo possano essere ideali per trascorrere un piccolo momento di puro godimento personale.

La musica è stata una delle prime forme di comunicazione per l’uomo, così come la birra una delle prime bevande alcoliche prodotte. Questo lo possiamo trovare anche in vecchie ballate della tradizione anglosassone, ad esempio, che fortunatamente sono arrivate ai giorni nostri grazie al lavoro di alcuni ricercatori che hanno avuto l’intelligenza e la pazienza di andare a recuperare materiale storico. Pensiamo, sempre, che in tantissimi aspetti della cultura popolare la canzone non era solamente un modo per divertirsi ma, anche, una forma di comunicazione su quanto accadeva. Insomma, i vari cantori erano una sorta di moderni giornalisti che attraverso le parole dei loro brani proposti raccontavano storie locali, descrivendo avvenimenti - spesso cruenti - portando la notizia nelle piazze e nelle zone dei vari spettacoli.

Testi e armonie che hanno fatto il giro del mondo, attraversando Oceani per arrivare persino nel nuovo continente americano e dove, addirittura, sono state ritrovate le uniche tracce ancor oggi esistenti, soprattutto nelle aree più rurali come quelle dei Monti Appalachi. Un chiaro esempio lo abbiamo grazie alle raccolte dell’etnomusicologo britannico Cecil J. Sharp (1859-1924) che affrontò un periglioso viaggio lungo la lunghissima catena montuosa statunitense, quasi abbandonata da Dio, per recuperare armonie ormai perdute e che possiamo ancor oggi consultare nel preziosissimo

John Barleycorn Must Die

Canzoni che rappresentano una chiara fotografia dell’epoca e di come la popolazione, in questo caso britannica, vivesse. Una raccolta che ha, successivamente, influenzato la “nuova musica” che ha attinto a piene mani da questa monumentale opera, regalandoci tutto quello che è stato, per esempio, l’esplosione della musica folk tra la fine degli anni ’50 e i ’60. Un caso molto noto è la canzone che dà il titolo all’album più celebre della band britannica dei Traffic, quella “John Barleycorn Must Die” ancora oggi pietra miliare della musica rock. Ed ecco che compare la birra poiché in questa ballata di origine inglese e scozzese - elencata col numero 164 nel Round Folk Song Index, compilato da Steve Roud, ex bibliotecario del London Borough of Croydon - l’orzo è il protagonista assoluto di questa canzone che cela al suo interno una metafora, ovvero la vera personificazione di questo cereale e delle bevande alcoliche che da esso si ricavano: birra, appunto, e whisky. All’interno del brano John Barleycorn subisce chiaramente una serie di umiliazioni, dei veri e propri attacchi sino ad incontrare addirittura la morte. Umiliazioni che, nella metafora, stanno a sottintendere le varie fasi di lavorazione dell’orzo, dalla mietitura alla maltazione.

Non si conosce con certezza quando questo brano sia stato scritto la prima volta, ci sono però tracce già nel 1568 quando John Barleycorn aveva ancora il nome di Allan-a-Maut in una canzone scozzese, mentre viene menzionato per la prima volta col suo nome, che ancora oggi conosciamo, nel 1624 questa volta in Inghilterra. Tracce del testo le troviamo anche nella vicina Irlanda dalle cui coste, molto facilmente, è salpata attraversando l’Oceano per giungere fino in America. Cambiavano alcuni aspetti ma la sostanza, alla fine, rimaneva sempre quella, ovvero la produzione di birra o whisky, bevande che non sono mai mancate nella cultura anglosassone. La versione più nota e di maggior successo è quella, come dicevamo, proposta dai Traffic che va ad impreziosire uno degli album fondamentali per chi ama la musica di un’epoca che ha fatto la storia e che vede in Steve Winwood uno dei protagonisti assoluti.

Un artista da riscoprire

In Italia, Winwood non ha forse goduto della giusta considerazione - senza essere certamente sottovalutato - ma mai osannato come altri suoi colleghi, forse anche per un carattere schivo e riservato. Eppure, pensiamo, sia uno di quelli da mettere sul gradino più alto di un ipotetico podio. Eccelso tastierista - pianoforte oppure Hammond B3 - tra i più creativi e dotati di originalità, grandissimo chitarrista e con una delle più belle voci del firmamento musicale, ha anche dalla sua una grande scrittura che lo ha visto comporre pezzi memorabili della scena musicale dagli anni ’60 quando, appena diciassettenne, scrisse la hit “Gimme Some Lovin’” assieme al gruppo nel quale militava all’epoca: The Spencer Davis Group.

Il brano fu capace di raggiungere i primissimi posti delle classifiche radio USA nella sezione dedicata alla musica afroamericana dove, tra l’altro, nessuno immaginò che potesse essere di un bianco (per di più minorenne) quella voce così ricca di groove

L’aver vissuto in Inghilterra in quegli importanti anni per il British Blues fu un piccolo colpo di fortuna che gli permi- se di fare esperienze al fianco di fondamentali artisti dell’epoca, sia locali che arrivati direttamente dagli States, come Howling Wolf, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson, John Lee Hooker ma, anche, Jimi Hendrix (è di Winwood la parte di Hammond nella celebre versione di “Voodoo Chile”), di Joe Cocker e dell’amico Eric Clapton col quale costituì, nel

1969, il supergruppo Blind Faith e per il quale compose la meravigliosa “Can’t Find My Way Home”.

Questo in una pausa riflessiva del suo progetto principale, Traffic, dal qualedopo l’album iniziale “Mr. Fantasy” e il seguente omonimo “Traffic” - si separò (mettendo alla luce l’album postumo “Last Exit”) per poi ritrovarsi nel 1970 per registrare quello che per tanti è il lavoro più rappresentativo: “John Barleycorn Must Die”, che inizialmente era previsto a nome del solo Winwood, ma il ritorno di Jim Capaldi e Chris Wood consigliò di recuperare lo storico marchio. Meno psichedelico dei precedenti lavori, questo disco è una esplosiva miscela di jazz, progressive, folk e rock dove in sei soli brani emerge l’immensità composi- tiva di Winwood, autore di tutti i brani con l’aiuto di Capaldi.

Si parte con uno dei più bei riff di pianoforte supportato dall’organo Hammond in “Glad” che per 7 minuti macina suoni in un perfetto incastro di strumenti fino ad arrivare in una sorta di limbo psichedelico che precede e lancia la seguente “Freedom Rider” dove possiamo sentire la voce black di Steve in una disperata esecuzione dall’assoluta bellezza, mentre tutti gli strumenti arrivano, in un magnifico crescendo, a costruire un finale muro sonoro. Il brano che chiude la prima facciata è “Empty Pages” dai toni prettamente soul giocata magistralmente sulle tastiere del leader. Il lato B si apre con “Stranger To Himself”, ballata molto “southern” con un acido solo di chitarra che mette in grande evidenza l’abilità ma, soprattutto, gusto e personalità del Winwood chitarrista. Ed eccoci ad inoltrarci nella storia della musica con la seguente “John Barleycorn”, la bellissima folk ballad nella quale riecheggia la tradizione popolare inglese su una bellissima chitarra acu- stica accompagnata dal flauto di Chris Wood. Chiude l’album “Every Mother’s Son”, un blues di grandissimo spessore dove la band risulta essere stellare, e un solo di organo di gran classe. Un disco, questo, che rimarrà in eterno nella storia della musica e che nella ristampa in CD contiene ben quattro bonus tracks, le inedite “I Just Want You To Know” e “Sittin’ Here Thinkin’ Of My Love” decisamente minori e che provengono dalle sessions precedenti all’arrivo di Capaldi e Woods, oltre a due versioni registrate live al Fillmore East di NYC nel mese di novembre, con il grande Bill Graham che presenta la formazione e via verso un’interessante “Who Knows What Tomorrow May Bring” seguita da una sempre grande versione di “Glad”.

Disco imperdibile, ideale per una serata in solitudine o in buona compagnia ma - certamente - con una birra di qualità. Provatelo e chissà che il fantasma di John Barleycorn non decida di venire a sedersi accanto a voi per gustarsi questa ennesima versione di una canzone che parla di lui. ★

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