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LA PIZZA ALLA ROMANA (L’elementare)

La pizza tonda, passione irresistibile. Questo semplice disco di pasta lievitata, fatto con acqua, farina e sale, lavorato con le mani, concedendogli tempo, reso finalmente edibile dal fuoco, risulta irrimediabilmente attrattivo. Per noi italiani, poi… Nonostante negli USA molti credano che la pizza sia stata inventata lì e nonostante la sua creazione e diffusione siano piuttosto recenti, possiamo dire che per noi del Belpaese è praticamente un cibo genetico.

A partire dalla città di Napoli, con cui vanta un legame unico, viscerale. Qui è stato trovato il primo documento, datato 1799, che certifica l’esistenza della figura del pizzaiuolo: lavoro così umile e poco considerato da non poter avere la propria corporazione di mestiere. Nel suo dizionario italiano del 1905, il lessicografo Alfredo Panzini è il primo a definire in modo corretto non solo la pizza, ma anche, il suo luogo di consumo, la pizzeria. Anche se, ancora per un bel po’, questo straordinario cibo rimarrà un fenomeno limitato al contesto partenopeo. Nel 1884, ne Il ventre di Napoli, Matilde Serao aveva scritto: “Un giorno un industriale napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni culinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria a Roma. […] Sulle prime la folla vi accorse, poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura, e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana”.

La diffusione a livello italiano (e internazionale) avviene solo nel secondo dopoguerra, con l’emigrazione napoletana e la creazione di un vero mercato nazionale, e grazie a un contesto di imponenti cambiamenti economici, sociali e culturali, che vedono nascere e crescere un pubblico cittadino perfetto per la fascia di mercato delle pizzerie: voglia di uscire, nuove abitudini serali, ambienti confidenziali, Scarsa possibilità di spesa.

L’attualità parla di una presenza capillare delle pizzerie, con pochi posti, però, va detto con onestà, dove si mangia una pizza con ingredienti selezionati, lievitazioni e cotture corrette, realizzata con dedizione, competenza, gioia. Allo stesso tempo, dobbiamo raccontare di un numero piccolo, ma crescente di locali condotti in maniera virtuosa, con una proposta originale di impasti, ricette e accompagnamenti alcolici.

E proprio a quest’ultimo aspetto vogliamo dedicarci.

Lo storico matrimonio tra birra e pizza, in realtà scaturito da limitazioni legali (originariamente nelle pizzerie non si potevano servire bevande con gradazioni superiori all’8%), è poi divenuto inscindibile (e non scevro da storture e pessimi luoghi comuni). Roma, probabilmente per via dell’esplosione del consumo di artigianali, è divenuta uno dei punti principali di idee, tecniche e progetti imprenditoriali originali e notevoli. A partire dalla metà degli anni 2000, grazie soprattutto al modo tutto nuovo con cui Gabriele Bonci ha reinterpretato la pizza al taglio (importanza alla materia prima, condimenti arditi, capacità comunicativa) e Giancarlo Casa e Stefano Callegari hanno rinnovato il concetto di quella al piatto (leggera, ben fatta, con ingredienti selezionati, ampia scelta di vini e birre, personale competente). Nelle loro cucine si sono formati decine di pizzaioli, cuochi e camerieri che si sono poi riversati nella capitale (e non solo) a “spargere il verbo”. Visto il successo di questo nuovo concetto di pizzeria, molti sono stati persuasi nell’imboccare la medesima strada. Ciò, al netto di scialbi duplicati, ha sortito il significativo effetto di riempire la capitale di progetti pizzaioli che hanno notevolmente elevato il livello e creato una nuova attenzione, da parte del pubblico e dei giornalisti di settore.

La qualità è Elementare

In questo “risveglio capitale”, interessanti e positivi gli esiti delle proposte di una nouvelle vague che ha investito la riscoperta della pizza autoctona, quella alla romana.

Tra i progetti più interessanti c’è sicuramente L’elementare, nato originariamente “in esterna”, nell’estate 2020, dentro il grande contenitore estivo di Parco Appio, con la volontà di una proposta senza fronzoli, con lievitazioni ben condotte, ingredienti di alto livello e attenzione alla filiera (spicca su tutti la collaborazione con Ethical Food), ricette della tradizione gastronomica romana che diventano pizza, ambiente informale, ma curato, e possibilità di attingere alla varietà della proposta alcolica, con una quindicina di spine e una stuzzicante carta di vini naturali. Il successo riscontrato ha convinto i due protagonisti, Federico Feliziani, giovane imprenditore impegnato anche nel mondo della distribuzione, e Mirko Rizzo, pizzaiolo romano conosciuto e talentuoso, a farne un locale vero e proprio. Vista anche la contemporanea e golosa occasione di rilevare il mitico Bir & fud, un locale a cui tutti gli appassionati di birre (e pizze) buone devono qualcosa e che, per varie ragioni, ansimava da qualche tempo. Proprio qui ho voluto trascorrere una serata di abbinamenti speciale, da raccontare.

A tavola

Cominciamo con la pizza crostino. Un grande classico, arricchita da uno dei prosciutti cotti più buoni attualmente in circolazione, quello di Pork’n roll, riuscitissimo e articolato progetto dei fratelli Roccia (fattoria, bottega, norcineria, pub, beer firm).

Per l’abbinamento abbiamo scelto la Calandrina, hoppy saison con aggiunta di scorze di agrumi e bacche di ginepro, 4.8% di alcol, di Hilltop Brewery, una delle migliori realtà brassicole del Lazio. La personalità dei due elementi è la stessa, spiccata; la birra, in stato di grazia, vanta note fruttate e floreali che si aggiungono alle tendenze dolci e alla percezione di un umami (del prosciutto cotto) sontuoso; rimane in bocca una stimolante disputa tra le tendenze dolci dei malti e la sapidità del salume. La gasatura pulisce le resistenze finali dell’untuosità, mentre si compone la retrolfattiva con un tocco balsamico e un accenno di miele di tiglio. Un grande inizio, un matrimonio straordinario.

Secondo abbinamento

Proseguiamo con un altro classico, ma rivisitato: la Marinara doppia, con passata di datterino giallo, pachino gialli arrostiti, alici di Sciacca, olio all’aglio, basilico, prezzemolo e peperoncino. Ingredienti molto semplici che riescono a costruire un insieme eccellente: i pomodorini gialli conferiscono dolcezza e acidità, la tendenza piccante è evidente, sapidità e aromaticità delle (freschissime) alici inconfondibili: una pizza profumata e invitante. L’abbinamento in questo caso è ricaduto sulla Porpora, storica ricetta di Birrificio Lambrate, che nel tempo è stata cambiata e affinata e che oggi può essere inserita nella originale categoria delle hoppy doppelbock, con taglia etilica che raggiunge l’8%. Il connubio è prodigioso: lo spessore dei malti è una necessità per la sapidità e per il piccante, enfatizzato dalla luppolatura generosa, ma non soverchiante; la spiccata aromaticità della pizza trova un valido alleato nella componente caramellata, cui si appoggia, cui aggiunge gusto, mentre le capacità asciuganti dell’alcol e del luppolo assorbono le untuosità vaganti. Il palato rimane nettato, ricco di una memoria di stimoli e ritorni aromatici. Viene voglia di ripetere morso e sorso e di farlo ancora e ancora.

Una ricetta originale

Terzo assaggio, Al norcino non far sapere, ricetta composta da una base bianca con cicoria, prosciutto crudo riserva Re Norcino, composta di pere, pecorino Coccia Nera.

Pizza molto ricca, fatta soprattutto di piccantezza, sapidità e ricchezza aromatica, dalla retro-olfattiva molto persistente.

L’abbiamo abbinata con la Ciube, conosciuta e apprezzata Double IPA, consolidata ricetta di un altro birrificio ormai storico come Lariano, con l’8% di alcol.

La birra, ambrata, caramellata, fondamentalmente morbida, permette di ripulire, attenuare il piccante e l’amaro, liberare una fine balsamicità, toni da Maillard e fertili contrasti gustativi (tra dolce e sapido, da una parte pera, malti, impasto della pizza, dall’altra, prosciutto e pecorino) e aromatici (prosciutto, cicoria e pere sfidano la pugnacità di caramello, resine, agrumato).

Un amaro ben dosato e un quantitativo di alcol opportuno permettono di chiudere l’abbinamento in maniera favorevole, preparando al prossimo morso.

Dopo aver mangiato quasi una tonda intera e aver assaggiato numerose birre al fine di trovare gli accostamenti migliori (si dice così, no?), conscio del fatto che mi avrebbero aspettato almeno altri due assaggi (e altrettante prove di abbinamento), mi sono alzato per due chiacchiere con Mirko.

L’avevo conosciuto e apprezzato già ai tempi di Pommidoro, piccola e frequentatissima pizzeria al taglio nel quartiere Centocelle. Gli chiedo, innanzitutto, di questa virata dalla teglia al disco.

“La pizza romana qui nella capitale è sempre stata un’abitudine. Però, quando già ero del mestiere e la cercavo al piatto, non riuscivo a trovarne una che mi soddisfacesse. Dunque, pensai che potesse essere una buona idea imprenditoriale e mi venne la voglia di applicare alla tonda ciò che avevo imparato negli anni di esperienza con un prodotto molto tecnico come la pizza al taglio. Volevo semplicemente realizzare con cura un cibo che amavo e che mi ricordava l’infanzia: è con tali premesse che è iniziata questa piacevole sfida.”

La pizza è farina (di frumento), innanzitutto, e Mirko lo sa bene. Per il suo impasto, utilizza la tipo zero, con una minima aggiunta di tipo 2, entrambe prodotte da Molini Fagioli (Magione, PG), scelte per la qualità dei prodotti e per l’attenzione all’aspetto ecologico, con il progetto OIRZ (Origine Italia Residuo Zero, nato con il fine di costruire una filiera sostenibile). Dopo anni di collaborazioni, anche l’azienda umbra ha scelto lui, come figura di ambasciatore del marchio.

Acqua, farina e poi il lavoro del lievito: la proverbiale leggerezza dell’impasto è favorita da un percorso di lievitazionematurazione di circa 24 ore, da alti livelli di idratazione, dall’attenta cottura nel forno a legna.

Infine l’aspetto, differenza sostanziale tra pizza napoletana e romana, poiché in quest’ultima, bassa e schiacciata, si comprime l’impasto col mattarello. “La stesura della palletta, del peso di circa 180 grammi, avviene prima tramite apertura a mano e poi mediante appiattimento con il mattarello. Doppia operazione che porta a un bordo presente, frutto del lavoro di manipolazione, e a un interno del disco sottile, ma senza disintegrare la struttura dell’impasto: il compromesso che mi soddisfa di più.”

E pure a me, devo dire, che torno al tavolo per gli ultimi due assaggi.

Bufala e Reggiano

La quarta pizza è una classica Margherita di bufala con il noto cacio emiliano grattugiato sopra (che aggiunge aromaticità e sapidità).

Normalmente con una pizza margherita si trova grande soddisfazione nell’accop- piamento con una classica hellerbock. Ma questa volta, complice anche la presenza del Parmigiano, l’idea era di battere una strada alternativa e la scelta è ricaduta sulla splendida Barry’s bitter, ancora di Hilltop: da un punto di vista tecnico l’abbinamento è quasi indecifrabile, essendo una birra con poco corpo, scarsa gradazione alcolica (4.2%) e poca persistenza gusto-olfattiva. Ma è probabilmente l’impasto a darci una mano, poiché, essendo una base neutra, tampona l’acidità del pomodoro e la grassezza della bufala, che altrimenti soverchierebbero l’esile bitter, permettendo alle tostature dei malti di liberare classe e aromi (fetta biscottata, foglie da tè) e di trovare un dialogo con i condimenti presenti. Di difficile spiegazione, di elevata soddisfazione. Come pizza di chiusura optiamo per la Capricciosa, con uovo alla Bismarck: un classico inossidabile, come le polpette della nonna o la lasagna della mamma (o viceversa), sempre in grado di carezzare e consolare.

Per comporre la coppia è stata coinvolta la Winter ale, una natalizia col 9% di alcol, brassata da Yblon, opificio ragusano in costante crescita. È caratterizzata da una grande generosità maltata, offrendo al naso riconoscimenti di frutta scura matura e caramello e in bocca tendenze dolci e lunghezza gusto-olfattiva, chiudendo il sorso con lievi toni affumicati.

In abbinamento fa sentire la sua personalità, rimettendo equilibrio dopo il passaggio della pizza e disciplinando l’anarchica energia delle tante stimolazioni aromatiche e gusto-olfattive presenti sulla pizza: la nuance fumè aggiunge verve al prosciutto, mentre la parte maltata dialoga con l’acidità del pomodoro, aiuta a domare l’amaro del carciofo (e quello più leggero dei funghi) e ci permette di affrontare con poca riverenza l’uovo aperto e cotto, normalmente un fattore incline alle bizze, nell’abbinamento. Resta in bocca una gioia aromatica, una scia, lieve e invitante, di liquirizia e speziature.

Teoricamente avremmo finito. Ma a catturare l’attenzione è un dolce scritto sulla lavagna: “Capo Nord: pane speziato farcito con zabaione, mostarda di zucca e mele, chicchi di melograno”. Troppo attraente per farselo scappare. Una scusa, probabilmente, per bere e abbinare l’Emilia Paranoica, imperial stout da 10 gradi, ennesima perla di Liquida (Ostellato, FE).

Nell’attesa, mi viene in mente la perfetta considerazione che fece il grande Jean Anthelme Brillat-Savarin a proposito della pasticceria: “I dolci si mangiano solo quando l’appetito naturale è già soddisfatto e non rimane allora che quell’appetito di lusso che siamo costretti a stimolare con quanto l’arte ha di più raffinato e la varietà di più solleticante”.

La scelta del dessert è stata felice: profumato, rotondo, suadente, e lo è altrettanto l’incontro con la signora scura nel bicchiere, un’intesa tra due persone di classe superiore, capaci di mostrare talento ma, allo stesso tempo, di mettersi reciprocamente a disposizione: insieme creano il sapore del pan di Spagna (che non c’è) ed enfatizzano la nota di cannella, mentre le tostature completano il ricco portfolio aromatico, mettendo in evidenza lievi e piacevoli percezioni ossidate, variegate “dolcezze aromatiche” e refoli speziati. ★

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