The Rat Press- NATALE 2017

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The Rat Press Edizione Straordinaria di Natale WWW.RATRESCUEITALIA.COM


Benvenuti!
 Questa edizione speciale di Natale 2017 è stata creata per i lettori più piccini, che potranno scoprire alcune filastrocche e racconti (anche in inglese!) che hanno per protagonisti piccoli topolini e ratti furbetti.
 Il numero è arricchito da tanti disegni da colorare, tutti gli elementi decorativi sono stati lasciati in bianco/nero per facilitarvi la stampa casalinga.
 
 Buon divertimento!


Il topino, caro bambino, è un animale assai piccino. Quando qualcuno si vuol denigrare subito al topo si va a paragonare. Ma lo sapete che quel birbante riesce a tener testa anche all’elefante?


CANZONE

IL TOPO CON GLI OCCHIALI
 44° edizione dello Zecchino D’Oro

Solista:
 In una libreria dietro agli scaffali
 aveva la sua tana un topo con gli occhiali
 di giorno dormicchiava, così si nascondeva
 nessuno immaginava che lui vivesse lì.

Coro:
 I libri sono amici che fanno compagnia
 i libri sono sogni di accesa fantasia
 i libri son momenti di gioia e commozione
 non manca l’emozione che un brivido ti dà.

Però quando il libraio di sera andava via,
 il topo riaccendeva le luci in libreria
 e poi negli scaffali un libro si pigliava
 e a leggere iniziava con gran curiosità.

Solista:
 Il topo con gli occhiali così ebbe il permesso
 di stare col libraio e fu un gran successo
 sull’uscio del negozio il topo si affacciava
 e il pubblico invitava: “Venite tutti qua!”

Coro:
 Evviva la lettura! Comincia l’avventura
 un sogno ad occhi aperti nel mondo che vuoi tu. Solista:
 I libri sono ali che aiutano a volare
 i libri sono vele che fanno navigare
 i libri sono inviti a straordinari viaggi
 con mille personaggi l’incontro sempre c’è. Coro:
 Uh!!! Accadde che il libraio da un po’ andato via
 però una certa sera tornò in libreria
 il topo con gli occhiali passò un brutto guaio,
 ma lui pregò il libraio in lacrime così: Coro:
 Non mi mandare via

Coro:
 I libri sono amici che fanno compagnia
 i libri sono sogni di accesa fantasia
 i libri son momenti di gioia e commozione
 non manca l’emozione che un brivido ti dà. Solista:
 Entrate in libreria Coro:
 perché vi piacerà! Solista:
 Entrate in libreria
 perché vi piacerà! Coro:
 Vi piacerà!

Solista:
 da questa libreria Coro:
 perché io amo troppo Solista:
 i libri che son qui. I libri sono ali che aiutano a volare
 i libri sono vele che fanno navigare
 i libri sono inviti a straordinari viaggi
 con mille personaggi l’incontro sempre c’è.

Ascolta la canzone e guarda il video!
 https://www.youtube.com/watch?v=kItVqpp1X9w



FILASTROCCA IN INGLESE

PLEASE! 
 by Stephanie Calmenson

Mouse, mouse,
 Get out my house!
 Take your whiskers.
 Take your cheese.
 Get out of my house, mouse…
 Please! What? You say you have nowhere to go?
 You say It’s cold out in the snow? Mouse, mouse,
 Come into the house.
 Bring your whiskers.
 Bring your cheese.
 Come back in the house, mouse…
 Please!

Whiskers in inglese vuol dire baffi!



RACCONTO

LA STORIA DI SAMUEL WHISKERS O DEL DOLCE ARROTOLATO
 di Beatrix Potter

In memoria di Sammy, l’intelligente rappresentante dagli occhi rosa di una razza perseguitata, ma irreprensibile. Un affezionato piccolo amico e il più esperto dei ladri.

C’era una volta una vecchia gatta, Mrs Tabitha Twitchit, che era una madre ansiosa, perdeva continuamente i suoi gattini, e ogni volta che sparivano, finivano sempre nei guai. 
 Un giorno in cui doveva cucinare, giunse alla decisione di chiuderli nella credenza. Rinchiuse Moppet e Mittens, ma non riuscì a trovare Tom. 
 Mrs Tabitha andò su e giù per la casa miagolando in cerca di Tom kitten, guardò nel ripostiglio del sottoscala e cercò nella miglior camera degli ospiti, i cui mobili erano tutti coperti da lenzuola polverose, andò al piano di sopra e guardò in mansarda, ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. 
 Era una vecchia vecchia casa, piena di ripostigli e corridoi, alcuni muri erano spessi più di un metro e di solito si sentivano dei rumori bizzarri provenire dall’interno, come se lì dentro ci fosse una piccola scala segreta. 
 Di sicuro nei pannelli di legno delle pareti c’erano dei passaggi segreti, perché di notte sparivano delle cose dalla cucina, specialmente formaggio e bacon. 
 Mrs Tabitha era sempre più turbata, e miagolava terribilmente. 
 Mentre la loro madre perlustrava la casa, intanto, Moppet e Mittens si erano già cacciate nei guai: le ante della credenza non erano state chiuse a chiave, così le due gattine erano riuscite a scappare. 
 Subito si precipitarono sull’impasto del pane che stava lievitando in una teglia, davanti al fuoco. Le due gattine diedero dei colpetti alla pasta del pane con le loro zampette morbide. “Perché non facciamo degli adorabili piccoli muffin?” disse Mittens a Moppet. Ma proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta d’ingresso e Moppet saltò spaventata nel barile della farina. Mitttens si rifugiò nella latteria e si nascose in una vaso vuoto sulla mensola di pietra dove c’erano i barattoli del latte. 
 Il visitatore era una vicina, Mrs Ribby, che chiedeva in prestito del lievito. Mrs Tabitha scese le scale miagolando spaventosamente. “Entrate cugina Ribby, entrate e accomodatevi! Sono in guai grossi, cugina Ribby” disse Tabitha scoppiando in lacrime. “Ho perduto il mio caro figlio Thomas, ho paura che lo abbiano preso i ratti” Si asciugò le lacrime col grembiule. “E’ un gattino cattivo, cugina Tabitha, l’ultima volta che venni qui per il tè fece della mia cuffia migliore una culla per gatti. Dove l’avete cercato?” “Per tutta la casa. I ratti sono troppi per me. Che problema avere una famiglia ribelle” disse Mrs Tabitha Twitchit.


“Io non ho paura dei ratti, vi aiuterò a cercare Tom, e anche a frustarlo! Cos’è questa fuliggine sul parafuoco? Il camino richiede una bella spazzata” “Oh, povera me, cugina Ribby! Ora sono sparite anche Moppet e Mittens! Sono scappate tutt’e due dalla credenza” Ribby e Tabitha si misero di nuovo a setacciare tutta la casa, controllarono sotto i letti con l’ombrello di Ribby e rovistarono nella credenza. Presero una candela e guardarono perfino dentro un baule delle mansarde. Non trovarono nulla, ma ad un certo punto sentirono sbattere una porta e qualcuno sgattaiolare al piano inferiore. “Sì, la casa è infestata dai ratti” disse Tabitha, con le lacrime agli occhi. “Sabato scorso ho catturato sette piccolini fuori da una tana sul retro della cucina, e li abbiamo mangiati a pranzo. E una volta ho visto il vecchio ratto padre, un ratto anziano enorme, cugina Ribby! Stavo giusto per balzargli addosso, quando lui mi ha mostrato i suoi denti gialli ed è scappato nella tana. I ratti mi fanno venire i nervi, cugina Ribby” disse Tabitha. Ribby e Tabitha cercarono e cercarono, udirono uno strano rumore, come di qualcosa che rotolasse e che proveniva da sotto il pavimento della mansarda. Ma non si vedeva niente. Tornarono in cucina. “Ecco qui uno dei tuoi gattini, finalmente!” disse Ribby, tirando fuori Moppet dal barile della farina. Le scossero la farina di dosso e la posero sul pavimento della cucina. Sembrava essere terribilmente spaventata. “Oh, madre, madre!” Disse Moppet “Una vecchia femmina di ratto è stata qui in cucina, e ha rubato della pasta di pane!” Le due gatte corsero a guardare la teglia dell’impasto, c’erano indubbiamente le impronte delle zampette che avevano scavato nell’impasto, e ne mancava un pezzetto. “Da che parte è andata, Moppet?” Ma Moppet si era spaventata troppo per sbirciare ancora fuori dal barile.
 Ribby e Tabitha la tennero con loro per rassicurarla, mentre continuavano la ricerca. Si diressero nella latteria. La prima cosa che trovarono, fu Mittens, nascosta in un vaso vuoto. Capovolsero il vaso ed ella ne balzò fuori. “Oh, madre, madre!” disse Mittens “Oh madre, madre, è venuto un vecchio maschio di ratto nella latteria, uno spaventoso ratto enorme, madre! E ha rubato un pezzetto di burro e il matterello. Ribby e Tabitha si guardarono l’un l’altra. “Un matterello e del burro? Oh, il mio povero Thomas!” esclamò Tabitha, torcendosi le zampette. “Un matterello?” disse Ribby “Non abbiamo sentito il rumore di qualcosa che rotolava in mansarda, quando stavamo ispezionando quel baule?” Ribby e Tabitha si precipitarono di nuovo al piano di sopra. Quel rumore che proveniva da sotto il pavimento della mansarda si sentiva ancora distintamente, senza dubbio. “La faccenda è grave, cugina Tabitha” disse Ribby “Dobbiamo mandare a chiamare immediatamente John Joiner, che venga con una sega”.
 Ecco cos’era successo a Tom kitten, e ciò dimostra quanto sia poco saggio salire su per la canna fumaria in una casa molto vecchia che non si conosce bene e dove ci sono ratti enormi. 
 Tom kitten non voleva restarsene chiuso in una credenza. Quando vide che sua madre andava a cucinare decise di nascondersi. Si guardò intorno alla ricerca di un posticino adeguato, e scelse la canna fumaria. Il fuoco era stato appena acceso, quindi non era caldo, però dai rametti verdi si alzava un fumo biancastro e soffocante. 
 Tom kitten salì sul parafuoco e valutò la situazione. Era un caminetto vecchio stile, molto grande. La canna fumaria era larga abbastanza da far passare un uomo in piedi e consentirgli di muoversi, quindi c’era tantissimo spazio per un gattino come Tom. 
 Egli saltò dentro il caminetto e rimase in equilibrio sulla barra di ferro dalla quale penzolava il calderone. Spiccò un altro grande salto dalla barra e atterrò su di una sporgenza della canna fumaria, in alto, facendo cadere della fuliggine sul parafuoco. Tom kitten tossì e si sentì soffocare per il fumo, riusciva a sentire i rametti che cominciavano a crepitare e a bruciare nel caminetto sottostante. 
 Decise di arrampicarsi fino in cima alla canna fumaria, e di uscire poi sul tetto, dove avrebbe provato a dar la caccia ai passerotti.


“Non posso tornare indietro, se scivolassi potrei cadere nel fuoco, bruciacchiare la mia bellissima coda e la mia giacchetta blu.” Anche la canna fumaria era molto grande e vecchio stile. Era stata costruita nel periodo in cui la gente bruciava ancora molti ciocchi di legna, si stagliava sopra il tetto come una piccola torre di pietra, e la luce del giorno vi filtrava dall’alto, sotto le tegole d’ardesia che la proteggevano dalla pioggia. Tom kitten era sempre più spaventato, si arrampicò in alto e poi ancora più su e più su ancora. Attraversò a fatica la fuliggine stratificata, sembrava un piccolo spazzacamino. Nell’oscurità era tutto molto confuso, ogni condotto sembrava condurre dentro un altro. 
 C’era meno fumo adesso, ma Tom kitten si sentiva del tutto perso. Si arrampicò più su e poi più su ancora, ma prima di raggiungere la cima del comignolo, arrivò in un posto dove qualcuno aveva smosso una pietra nel muro. Sparse lì intorno c’erano delle ossa di montone. “Che strano” disse Tom kitten “Chi sarà stato mai a rosicchiare degli ossi quassù? Vorrei non esserci mai venuto… E questo strano odore? Sembra di ratto, solo che è terribilmente forte, mi fa starnutire” disse, sgattaiolò dentro il buco nel muro e si insinuò in un passaggio scomodissimo e molto stretto, quasi completamente buio. Avanzò a tentoni per alcuni metri, era dietro il battiscopa in mansarda. 
 D’un tratto cadde zampe all’aria nel buio, giù per un buco ed atterrò su un mucchio di stracci molto sporchi. Quando si riprese e si guardò intorno, si trovò in un posto che non aveva mai visto prima, nonostante avesse vissuto in quella casa da quando era nato. 
 Era una stanza molto piccola, soffocante e dall’odore di muffa. Con assi, travi, ragnatele, assicelle e malta. Di fronte a lui, il più lontano che poteva sedersi, c’era un enorme ratto. “Che ci fai nel mio letto tutto coperto di fuliggine?” disse il ratto digrignando i denti. “Mi scusi signore, la canna fumaria ha bisogno di una ripulita” disse il povero Tom kitten. “Anna Maria! Anna Maria!” Squittì il ratto. Si sentì ciabattare e una vecchia femmina di ratto fece capolino da una trave. In un batter d’occhio si avventò su Tom kitten e prima che egli capisse che stava succedendo, la giacchetta gli fu strappata di dosso, fu arrotolato in un involto, e poi legato con una corda a nodi ben serrati. 
 Annamaria fece il lavoro di legatura. Il vecchio ratto la guardava e fiutava del tabacco. Quando ella ebbe finito, se ne stettero entrambi a fissare il gattino, a bocca aperta. “Anna Maria” disse il vecchio ratto, il cui nome era Samuel Whiskers “Anna Maria, fammi un dolce arrotolato per cena. Un fagottino ripieno di gattino” “Occorre della pasta di pane, un pezzetto di burro e un matterello” disse Anna Maria, considerando Tom kitten con la testa piegata da una parte. “No…” disse Samuel Whiskers “Fallo a modino Anna Maria, col pangrattato!” “Non ha senso! Burro e pasta di pane” replicò Anna Maria. I due ratti discussero per qualche minuto, e poi se ne andarono. Samuel Whiskers prese per un buco nel battiscopa e scese spavaldamente le scale fino alla latteria, per andare a prendere il burro. Non incontrò nessuno. 
 Fece un secondo viaggio per il matterello, lo spinse di fronte a sé con le zampe come un birraio con i suoi barili. 
 Sentì Ribby e Tabitha parlare, ma esse erano occupate ad accendere la candela per guardare nel baule, e non lo videro. 
 Anna Maria scese attraverso il battiscopa e poi lungo un’imposta della finestra sino alla cucina, per rubare la pasta di pane. Prese in prestito un piattino, quindi prese la pasta di pane con le zampe. Non vide Moppet. Rimasto solo sotto il pavimento della mansarda, Tom kitten prese a dimenarsi e cercò anche di miagolare per chiedere aiuto. 
 Ma aveva la bocca talmente piena di fuliggine e di ragnatele, ed era legato a nodi così stretti, che non riuscì a farsi sentire da nessuno tranne che da un ragno, che uscì da una crepa nel soffitto ed esaminò con fare critico i suoi nodi a distanza di sicurezza. Lui di nodi se ne intendeva, perché aveva l’abitudine di legare ben bene gli sfortunati mosconi azzurri di cui si cibava, ma non si of frì di prestare assistenza al gattino. 
 Tom kitten si dimenò e si contorse fino a


che non fu del tutto esausto.
 Di lì a poco i ratti tornarono e cominciarono a lavorare per trasformarlo nel ripieno di un fagottino.
 Per prima cosa lo imburrarono e poi lo arrotolarono nella pasta di pane. “La corda non sarà indigesta, Anna Maria?” chiese preoccupato Samuel Whiskers. Anna Maria disse che pensava di no, però voleva che Tom kitten tenesse ben ferma la testa, altrimenti la pasta si sarebbe staccata. Allora gli tirò forte le orecchie. Tom kitten morse e soffiò e miagolò e si dimenò, mentre gli passavano addosso il matterello. Ogni ratto teneva un’estremità del matterello. “La coda è rimasta fuori! Non hai preso abbastanza pasta di pane, Anna Maria!” “Ho preso tutta quella che potevo portare!” replicò Anna Maria. “Non penso” disse Samuel Whiskers, fermandosi per dare un’occhiata a Tom kitten “Io non penso che sarà un buon dolce. Puzza di fuliggine!” Anna Maria stava per ribattere quando all’improvviso si udirono dei rumori provenire dal piano di sopra. Il sibilo di una sega, il raspare di un cagnolino e i suoi guaiti. I ratti lasciarono cadere il matterello e si misero ad ascoltare attentamente. “Siamo stati scoperti e interrotti, Anna Maria! Raccogliamo le nostre proprietà, e quelle degli altri, e andiamocene immediatamente!” “Temo che dovremo abbandonare qui il nostro dolce” “Ma io sono convinto che i nodi sarebbero stati indigesti, anche se tu sostieni il contrario” “Andiamo via subito e aiutami ad avvolgere queste ossa di montone nel copriletto” disse Anna Maria “Ho anche mezzo prosciutto affumicato, nascosto nel camino". Così accadde che quando John Joyner sollevò le assi del pavimento non ci fosse più nessuno là sotto tranne il matterello e Tom kitten, tutto unto di burro. Però c’era un forte odore di ratti, e John Joiner passò il resto della mattinata fiutando e uggiolando, agitando la coda e girando la testa tutt’intorno al buco come fosse una trivella.
 Alla fine inchiodò di nuovo le assi del pavimento, ripose gli attrezzi nella borsa, e scese le scale.
 La famigliola di gatti si era ampiamente ripresa, lo invitarono a rimanere per cena.
 La pasta di pane venne rimossa da Tom kitten e messa a parte in una teglia, con dell’uvetta per coprire le macchie di fuliggine. Per togliergli il burro di dosso furono obbligati a fare un bagno caldo al gattino.
 Jon Joiner annusò il dolce ma si dispiacque di non avere il tempo per rimanere a cena, perché aveva appena finito di fare una carriola per Miss Potter, e quella gli aveva subito ordinato due gabbie per i polli. Quando nel tardo pomeriggio andai alla posta, buttai l’occhio nel vicolo all’angolo, e vidi Mr Samuel Whiskers e sua moglie correre con dei grossi fagotti dentro una carriola, che assomigliava molto alla mia. Stavano giusto svoltando al cancello del granaio del fattore Potatoes.
 Samuel Whiskers ansimava senza fiato, Anna Maria stava ancora discutendo con la sua voce stridula. Sembrava conoscere bene la strada, e aveva una gran quantità di valigie. Io però sono sicura di non averle mai dato in prestito la mia carriola…
 I due andarono nel fienile e con una fune issarono i loro pacchi sopra un covone. Da allora e per parecchio tempo non ci furono più ratti in casa Tabitha Twitchit. 
 Per quel che riguarda il fattore Potatoes, è sempre stato un tipo un po’ distratto. Ci sono ratti, ratti e ratti nel suo granaio, gli mangiano il mangime per i polli, gli rubano crusca e avena, e fanno buchi nei sacchi di farina. E sono tutti discendenti di Mr e Mrs Samuel Whiskers, figli e nipoti e pro-pronipoti. Sono senza fine.
 Moppet e Mittens sono cresciute e sono diventate bravissime ad acchiappare i ratti. Girano a caccia per il villaggio e sono piene di lavoro, si fanno pagare un tanto a dozzina, e guadagnano abbastanza per una vita molto confortevole.
 Appendono le code dei ratti in fila sulla porta del fienile per mostrare quanti ne hanno catturati, e sono dozzine e dozzine. 
 Ma Tom kitten ha sempre avuto paura dei ratti, e non ha il coraggio di affrontare niente che sia più grosso di… un topolino.

FINE




RACCONTO

IL SARTO DI GLOUCESTER
 di Beatrix Potter

Al tempo delle spade, delle parrucche, delle mantelline a balze dai bordi ricamati, quando i gentiluomini portavano gale ai polsi e i panciotti di seta di taffetà gallonati d’oro, viveva nella città di Gloucester un sarto. Dalla mattina alla sera sedeva a gambe incrociate su un tavolo accanto alla finestra di un negozietto in Westgate Street. Per tutto il giorno finchè c’era luce, cuciva e tagliava, giuntando raso, lucida seta e pompadure. 
 Le stoffe a quei tempi avevano strani nomi e costavano assai care, ma benché per gli altri cucisse seta fine, lui invece era molto povero, un vecchio ometto con gli occhiali, la faccia incavata, le dita rattrappite e i vestiti di panno grezzo. Tagliava i suoi vestiti senza sprecar nulla, nei diversi tessuti ricamati, cosicchè sul tavolo non restavano che degli scampoli e dei ritagli, buoni appena per farne dei panciotti per topi, come diceva il sarto. Un freddissimo giorno poco prima di Natale, il sarto cominciò a fare una giacca, di seta a coste color ciliegia ricamata a viole e rose, e un panciotto di satin color crema, guarnito di pizzi e di cordoncini di lana pettinata, per il sindaco di Gloucester. Mentre il sarto lavorava e lavorava, parlava tra sé, misurava la seta, la girava e la rigirava, e le dava forma con le sue forbici. La tavola era coperta di ritagli color ciliegia. “Di questi non ne faccio nulla, manca l’altezza e son tagliati in sbieco, stracci per topi e nastri per poverelli” disse il sarto di Gloucester. Quando i fiocchi di neve cominciarono a cadere contro i piccoli vetri a riquadri piombati della finestra, togliendogli la luce, il sarto aveva terminato il lavoro di quel giorno, e mise sulla tavola la seta e il satin che aveva tagliato. C’erano dodici pezzi di stoffa per la giacca e quattro per il panciotto, e poi la stoffa per i risvolti della tasche, per i polsini, per i bottoni, tutto in bell’ordine. Per la fodera della giacca c’era dell’elegante taffetà giallo, e per le asole del panciotto del filo color ciliegia. Tutto era pronto per essere cucito il giorno dopo. Tutto misurato e in quantità sufficiente. Mancava solo una matassina di seta color ciliegia.
 Il sarto uscì dal negozio nel buio, perché non ci dormiva la notte. Serrò le finestre, chiuse a chiave la porta e si mise la chiave in tasca. 
 Nessuno rimaneva lì durante la notte, tranne alcuni topini bruni, e quelli potevano fare a meno della chiave per entrare e uscire. Infatti, dietro ai pannelli di legno delle antiche case di Gloucester, c’erano delle scalettine e dei passaggi segreti per i topi, così che questi potevano correre di casa in casa per tutta la città, senza bisogno di scendere in strada. 
 Il sarto invece, uscì dal negozio e camminò a fatica nella neve fino a casa. Abitava poco lontano, in college Court, accanto all’arco che portava in Collage Green. Benché la casa non fosse grande, il sarto era così povero che aveva preso in affitto solo la cucina. Viveva col suo gatto che si chiamava Simkin. Quando il sarto durante il giorno era fuori per lavoro, Simpkin disponeva di tutta la casa per sé. Anche a lui piacevano i topi, ma non pensava certo di regalare loro delle giacchette di satin. 
 
 “Miao!” fece il gatto quando il sarto aprì la porta: “Miao!”
 
 “Caro Simpkin” disse il sarto “forse faremo fortuna! Ma per il momento mi sento uno straccio. Prendi questi quattro soldi, sono gli ultimi che abbiamo, e un bricco di porcellana. Compera un soldo di pane, un soldo di latte e un soldo di salsicce. Ah, dimenticavo Simpkin! Con l’ultimo soldo comperami una matassina di seta color ciliegia. Ma non perdere l’ultimo soldo, Simpkin, o sono spacciato! Non più ridotto a uno straccio, ma a carta velina, perchè non ho più un filo!” Simpkin fece di nuovo “Miao”, prese i soldi e il bricco, e uscì nel buio. Il sarto si sentiva assai stanco e anche malato, sedette presso il focolare, parlando tra sé della splendida giacca.


“Se mi va bene questa volta farò fortuna, camminerò sul velluto. Il sindaco di Gloucester si sposerà la mattina di Natale, e mi ha ordinato una giacca e un panciotto ricamato foderato di taffetà giallo. Il taffetà mi basta. Mi avanzano solo degli scampoli buoni appena per farne mantelline per i topi.” 
 Qui il sarto si fermò. A interromperlo erano venuti dalla credenza, nella parte opposta della cucina, certi curiosi rumori. “Tip tap, tip tap, tip tap!” “E adesso cosa succede?” Si chiese il sarto di Gloucester balzando dalla sedia. La credenza era stipata di vasellami e di bricchi, di servizi di porcellana a disegni azzurri, di tazze da tè e di boccali.
 Il sarto attraversò la cucina e si fermò in ascolto, immobile, accanto alla credenza, fissando il ripiano attraverso gli occhiali. Di nuovo da sotto una tazza da tè venne quel buffo rumore “Tip tap, tip tap, tip tap!” “Stranissimo” commentò il sarto di Gloucester, e sollevò una tazza che era capovolta. Ne saltò fuori una vivacissima topolina, che fece un inchino al sarto. Poi balzò giù dalla credenza e corse dietro il pannello. Il sarto si rimise accanto al fuoco, scaldandosi le povere mani gelate, e mormorando tra sé: “Il panciotto è di satin rosa pesca, ricamato a boccioli su telai rotondi in splendido filaticcio di seta. Avrò fatto bene ad affidare la mia ultima moneta da quattro soldi a Simpkin? Ventuno asole di filo color ciliegia” Ma tutt’a un tratto dalla credenza provennero nuovi rumori: “Tip tap, tip tap, tip tap!” “Ma è troppo strano!” esclamò il sarto di Gloucester, e andò a sollevare un’altra tazza, che era capovolta. Ne uscì un elegante topolino, che fece una riverenza al sarto. E poi da tutta la credenza venne un coro di lievi tramestii, con richiami e risposte, come quelli degli scarabei in una vecchia imposta mangiata dai tarli. “Tip tap, tip tap, tip tap!” E da sotto le tazze, le coppette, le ciotole, sbucarono altri topi che saltavano dalla credenza per ficcarsi dietro ai pannelli. Il sarto si sedette ancora più vicino al fuoco lamentandosi. “Ventuno asole di filo color ciliegia da finire per mezzogiorno di sabato, ed è martedì sera. Sarà giusto lasciar andare questi topolini, che spetterebbero indiscutibilmente a Simpkin? Povero me, sono finito, non ho più il filo!” I topolini tornarono fuori a sentire quel che diceva il sarto, erano anche molto interessati alla stoffa della magnifica giacca, e facevano commenti sulla fodera di taffetà e sulle mantelline da topo. E poi improvvisamente scapparono via tutti per il passaggio dietro il pannello, squittendo e chiamandosi l’un l’altro mentre correvano di casa in casa. 
 Quando Simpkin tornò a casa con il bricco pieno di latte, non era rimasto nemmeno un topo nella cucina del sarto. Simpkin spalancò la porta e balzò dentro, con un rabbioso “GrrMiao!” tipico dei gatti

quando sono nervosi. Odiava la neve e questa gli si era infilata nelle orecchie, nel colletto e giù per la schiena. Depose il pane e le salsicce sulla credenza e fiutò. “Simpkin”, chiese il sarto “dov’è il mio filo?” Ma quello posò il bricco di latte sulla credenza e guardò con sospetto le tazze. Reclamava la sua cena a base di piccoli topi grassi. “Simpkin” ripetè il sarto “mi vuoi dire dov’è il mio filo?” Ma Simpkin nascose in segreto un pacchettino nella teiera, soffiando a miaolando contro il sarto. Se fosse stato capace di parlare avrebbe chiesto: “Dov’è il mio topo?” “Povero me, sono perduto!” esclamò il sarto di Gloucester, e se ne andò a letto disperato.


Per tutta la notte Simpkin esplorò e frugò la cucina, ispezionando sulla credenza e dietro i pannelli, e nella teiera dove aveva nascosto il filo, ma non trovò nemmeno un topo. E mentre il sarto brontolava e parlava nel sonno, Simpkin ripeteva “Miao GrrShh!” e tutti quegli orribili versi che i gatti fanno di notte. Il povero vecchio sarto era molto ammalato, e aveva la febbre. Sussultava e si rigirava nel letto a baldacchino, e mormorava perfino nei sogni “Non ho più filo! Non ho più filo!” Giacque ammalato per tutto il giorno e il giorno seguente, e l’altro ancora. Che ne sarebbe stato della giacca color ciliegia? Nel negozio del sarto in Westgate Street i pezzi di seta ricamata e di satin giacevano sulla tavola. Ventuno asole, e chi le avrebbe cucite, se la finestra era sbarrata e la porta ben chiusa a chiave! Ma questo non era un impedimento per i topolini bruni, correvano dentro e fuori da tutte le case di Gloucester senza bisogno di chiavi. Fuori la gente arrancava nella neve per andare a comprare le oche e i tacchini da cuocere nei pasticci, ma non ci sarebbe stata la cena di Natale per Simpkin e per il povero sarto di Gloucester.
 Il sarto rimase a letto ammalato per tre giorni e tre notti, ed ecco, era la vigilia di natale e notte fonda. La luna era alta sopra i tetti e i camini,e sbirciava oltre l’arco in College Court. Non un lume alle finestre, non un suono nelle case. Tutta la città di Gloucester giaceva addormentata sotto la neve. Solo Simpkin miagolava accanto al letto a baldacchino e continuava a cercare disperatamente i suoi topi. Ma la leggenda vuole che tutti gli animali possano parlare nella notte tra la vigilia e il mattino di Natale, benché siano pochi quelli che riescono a sentirli o a capire quel che dicono. Quando l’orologio della cattedrale battè i dodici colpi, giunse da ogni parte una risposta, quasi un eco al suono delle campane, e Simpkin l’udì, e uscì di casa per andare vagando nella neve. Da tutti i tetti, gli spioventi e le vecchie case di legno di Gloucester, giunse il suono di mille voci liete che intonavano gli antichi canti di Natale, quelli che tutti conosciamo, e altri mai sentiti.
 Soprattutto si udivano i richiami dei galli: “Alzati cuoca, a cuocere l’oca!” “Oh, me poverino!” sospirava Simpkin. E ora in ogni abbaìno c’erano luci e musica da ballo, mentre i gatti sopraggiungevano da ogni parte.
 “Oh, me poverino! Il gatto e il violino! Tutti i gatti fortunati, solo io son disgraziato!” si lamentava Simpkin. Sotto le grondaie di legno, gli storni e i passeri intonavano inni al pasticcio natalizio, le taccole sul campanile della cattedrale si svegliavano, e benché fosse mezzanotte i tordi e i pettirossi si misero a cantare. L’aria era piena di motivetti e cinguettii. Che provocazione, per il povero Simpkin così affamato! Gli davano particolarmente noia certe vocine stridenti che provenivano da alcuni tralicci. Penso che fossero pipistrelli, perché hanno quel tipo di voce quando nel freddo intenso parlano nel sonno, come faceva il sarto di Glouchester. E Simpkin scappò via, scuotendo le orecchie, come se avesse un’ape nel berretto. Dal negozio del sarto, in Westgate, veniva un fascio di luce, e quando Simpkin si arrampicò fino alla finestra per guardar dentro, vide una quantità di candele accese. Era tutto un tagliar di forbici e un fruscìo di fili, le voci dei topi cantavano forte, allegramente: “Ventiquattro sarti seguono una chiocciola, ma tutti hanno paura della sua coda scura. Caccia fuori i corni vaccherella magica, su presto sarto scappa, se no quella ti acchiappa!” Poi riprendevano: “Mescola l’avena della mia signora, dentro una castagna lasciala mezz’ora”
 
 “Miao, Miaao!” Interuppe Simpkin, grattando alla porta. Ma la chiave era sopra il cuscino del sarto, così non poteva entrare. I topolini si misero a ridere e intonarono un altro motivo: “Tre topolini sedevano il fuso, ma sotto la porta spuntò un brutto muso, che state facendo miei bravi signori, cuciamo giacchette di dentro e di fuori! Posso aiutarvi a tagliar quei bei drappi?Oh no signor gatto, se entri ci pappi!”
 
 “Miao, Miao!” faceva Simpkin.


“Diddirididdi” lo monteggiavano i topi “Diddirididdi Diddiripossi, i mercanti di Londra li portano rossi! Di seta hanno il collo e d’oro i polsini, sono proprio eleganti quei bei damerini!” Picchiettavano con i ditali per segnare il tempo, ma nessuna di quelle canzoni piaceva a Simpkin, che continuava a soffiare e miagolare alla porta. “Che supplizio per chi ha il vizio, senza uno spiccio per il pasticcio” “Dalla credenza gli è scappata la pietanza!” Aggiunsero i topini crudeli.
 
 “Miaao scrosh scrosh” Si inferociva Simpkin sul davanzale della finestra. Intanto all’interno i topi erano saltati su gridando in coro con le loro squittenti voci: “Non ho più filo, non ho più filo!” Serrarono le imposte e chiusero fuori Simpkin, ma attraverso le fessure il gatto poteva udire il ticchettare dei ditali e i topi cantare “Non ho più filo, non ho più filo!” Simpkin se ne andò dal negozio a casa meditando tra sé. Trovò il povero vecchio sarto sfebbrato, che dormiva. Poi Simpkin andò in punta di piedi a togliere la matassina di seta dalla teiera, e la considerò al lume della luna. Si vergognava della sua cattiveria, di fronte alla generosità dei topi. Quando al mattino il sarto si svegliò, la prima cosa che vide sulla sua trapunta a scacchi fu la matassa di filo color ciliegia, e accanto al letto Simpkin tutto contrito. “Oh povero me, mi sento uno straccio” esclamò il sarto di Glouchester “Però ho il mio filo!” Il sole splendeva sulla neve quando il sarto si lavò e si vestì, e poi uscì in strada con Simpkin, che gli correva davanti. Gli storni cinguettavano sui camini, cantavano i tordi e i pettirossi, ma ripetevano solo i versi, non le parole che avevano cantato nella notte “Ahimè” esclamò il sarto “Ho il mio filo, ma non ho più la forza né il tempo per fare una sola asola, perché ormai è la mattina di Natale, e il sindaco di Gloucester si sposerà a mezzogiorno. E dov’è la sua giacca color ciliegia?” Aprì la porta del suo negozio in Westgate Street e Simpkin si infilò dentro di corsa, come fanno i gatti quando hanno in mente qualcosa. Ma non c’era un solo topo bruno. I ripiani erano tutti perfettamente in ordine, senza più avanzi di filo e scampoli di seta, neppure sul pavimento. Ma sulla tavola… “Che gioia!” esclamò il sarto. Lì sulla tavola dove aveva lasciato gli scampoli di tessuto, giacevano la più splendida giacca e il più meraviglioso panciotto di satin ricamato che mai fossero stati indossati da un sindaco di Gloucester. Sul davanti della giacca c’erano rose e viole, e il panciotto aveva ricami di papaveri e fiordalisi. Tutto era rifinito, tranne una sola asola color ciliegia, e dove questa asola mancava era appuntato un pezzetto di carta con queste parole, tracciate in una scrittura minutissima e sottilissima: “Non ho più filo” Da qui cominciò la fortuna del sarto di Gloucester, ritornò in buona salute e divenne ricco, cucì i più bei panciotti per tutti i ricchi mercanti di Gloucester, e per tutti i raffinati gentiluomini della contea.
 Mai si erano visti simili gale, polsini e risvolti ricamati. Ma la sua grande specialità erano le asole.
 Le rifiniture delle sue asole erano così precise, ma così precise, che mi chiedo come potessero venire cucite da un vecchio con gli occhiali, le dita rattrappite e un ditale da sarto.
 I punti di queste asole erano così piccoli, ma così piccoli, come poteva farli solo un topolino. 
 FINE


FILASTROCCA

ESTATE NEL BOSCO sol perché non sai nuotare,

non puoi essere un girino Era un giorno molto afoso

una lontra o un castorino,

tutti in cerca di riposo

per lor l’acqua è una casetta

gli animali del boschetto

fresca, limpida e protetta”.

voller fare un bel bagnetto.

Si pensò a una soluzione L’acqua fresca del ruscello

con la collaborazione

sotto l’ombra di un ombrello

di architetti e muratori

tutti quanti allegramente

che iniziarono i lavori.

con il loro salvagente!

Si costruirono piscine Solo il topo vanitoso

per lumache e formichine

si credeva coraggioso

tanti allegri trampolini

si tuffò tra il gran vociare

per atleti topolini.

ma ahimè, non sa nuotare!

Tutti a scuola anche di nuoto Ecco il riccio impietosito

si usò pure un nido vuoto

getta uno stelo fiorito

che divenne una perfetta

il topino affaticato

grande e solida barchetta!

ci si aggrappa spaventato.

Divertenti le nuotate “Sei un topo come gli altri

nella bella e calda estate

hai voluto un po’ vantarti

tutti esperti nuotatori

stavi ormai per annegare

tra l’erbetta, l’acqua e i fiori!


FILASTROCCA IN INGLESE

MICE 
 by Rose Fyleman

I think mice
 are rather nice. Their tails are long,
 Their faces small,
 They haven’t any
 Chins at all.
 Their ears are pink,
 Their teeth are white,
 They run about
 The house at night.
 They nibble things
 They shouldn’t touch,
 And no one seems
 To like them much. But I think mice
 Are nice.

Mice è il plurale di mouse, topi!




RACCONTO

IL LEONE E IL TOPO
 da fabulinis.com

C’era una volta, nella grande foresta, un maestoso leone, che si riposava all’ombra di un grande albero.
 Stava controllando se in lontananza c’erano delle prede da poter cacciare, ma in quel momento non vedeva niente di interessante.
 Così il pomeriggio passava lento. All’orizzonte non c’era nessuna preda da poter prendere e la pancia iniziava a brontolare dalla fame.

“Forse è meglio se mi sposto da qui e vado a cacciare in un’altra zona” – si disse, abbastanza infastidito al pensiero di doversi alzare.

Ma proprio quando ormai aveva deciso di alzarsi ed andare via, ecco un piccolo topolino corrergli proprio davanti alle zampe.
 Il leone colse al balzo l’occasione e, con uno scatto felino, bloccò la coda del topino con la zampa.
 Il topino, che sperava di non essere visto, iniziò ad urlare disperato quando sentì di essere bloccato.
 Il leone già pregustava il piccolo bocconcino come antipasto e si stava leccando i baffi.

Ma il topino, con le lacrime agli occhi iniziò a supplicarlo.
 “Non mi mangiare, signor leone, ti prego non mi mangiare!”

Il leone sorrise e iniziò a tirare con la zampa il topino verso di sé.

“Non mi mangiare, signor leone” – continuò il topino – “non ti sazierei che per pochi minuti da tanto sono piccolo”.

Il leone pensò che questo era vero: quel topolino gli avrebbe placato la fame giusto per il tempo di alzarsi da lì.

“E poi le mie piccole ossicine rischierebbero di andarti di traverso in gola”.

Anche questo era vero, pensò il leone, che smise di trascinare verso di sé il topolino.

“Se mi lascerai andare ti sarò riconoscente per tutta la vita!” – disse infine il topo.

Il leone, mosso più dalla fatica di ingoiare quel piccolo pasto che dalla pietà per il topolino, lo lasciò andare.

“Vai topolino, forse un giorno ci rivedremo…”

Il topolino ringraziò solennemente con grandi inchini e bacia-zampe, e poi scomparve tra le sterpaglie della foresta.

Il leone si decise infine ad andare in cerca di altre prede. Si incamminò dentro la foresta, ma dopo essere avanzato un po’ ecco che all’improvviso un legaccio fatto di corda lo intrappolò.
 Il leone capì subito che quella era la trappola costruita da qualche cacciatore, e sapeva benissimo che da quel tipo di trappole non c’era scampo.


Il leone tirò con tutte le forze per cercare di liberarsi, ma più tirava, più il legaccio gli si stringeva alle zampe e gli faceva male. Dopo molti tentativi il leone si rassegnò, e si mise ad attendere il proprio destino.
 Ma ad un tratto sentì qualcosa che stava lavorando sulla corda.

Guardò meglio e si accorse che il topolino di prima stava cercando di tagliare il legaccio con i suoi denti aguzzi.

“Non preoccuparti, signor leone, tra poco sarai di nuovo libero”.

Il leone fu sorpreso dal gesto del topolino. Non si sarebbe mai aspettato che un animaletto così piccolo avrebbe potuto salvargli la vita.

“Topolino mio, io ti ho risparmiato la vita, e ora tu salvi la mia, questo ti fa grande onore!”

Il topolino intanto lavorava veloce, e in pochi attimi il leone fu libero.

“Signor leone, quando si dà la parola d’onore, la si mantiene!”

“Certo topolino mio e io ti ringrazio moltissimo per avermi liberato da questa trappola terribile. Ora siamo pari, e per tutta la vita anche io ti sarò riconoscente”.

I due si salutarono, e andarono ognuno per la propria strada.
 Ma il leone aveva imparato una lezione importantissima: bisogna essere gentili con tutti, anche con il più piccolo degli esseri viventi, perché l’aiuto più importante della vita potrebbe arrivare proprio da lì.

Morale: anche i più piccoli possono essere di grande aiuto, e chi è grande e forte non deve fare il prepotente.

FINE

Se non ti va di leggere, guarda il video e ascolta il racconto!

https://www.youtube.com/watch?v=tdpR3sJuZkM



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