Re-volver Events n°01

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OREMUN ONU, 1102 - RE-VOLVER EVENTS, cultural magazine - Una pubblicazione RE-VOLVER - Tutti i diritti riservati


Foglio illustrativo del farmaco “Re-volver” Principi attivi Re-volver opera per il conseguimento di scopi culturali, al di sopra di qualsivoglia connotazione politica e ideologica. Il sistema mass-mediatico deve porsi al servizio degli utenti finali e non del potentato economico. Re-volver conduce il lettore verso lo sviluppo autogeno di una coscienza, che si discosti dall’omologazione del senso comune. L’essere umano è l’opera d’arte più elevata: operiamo al fine di preservarla. Composizione “Re-volver”, inteso nella duplice accezione di “ritornare” e “rimescolare”, e legato al significato di “arma da fuoco”, è il marchio che contraddistingue la libera, piena e consapevole presa di posizione adottata da un gruppo di artisti, autori e valide maestranze che ha deciso di firmare le proprie opere con questa etichetta. E se Pasolini ritornò all’amata terzina dantesca rimescolandola con ingredienti contemporanei, allo stesso modo noi ci riapproprieremodellatradizioneperpoirivolgere,comenovellelancedonchisciottesche, le potenti armi di una cultura fieramente indipendente contro i moderni mulini a vento.

Terza idea innestata: nella composizione e diffusione di opere d’arte, la domanda giustifica l’offerta. Il malato rifiuta di comprendere da chi sia generata la domanda. L’arte è l’ingranaggio principe dei complessi meccanismi di potere. Se la disinformazione odierna deriva, oltre che dall’oscurantismo, anche dall’eccesso d’informazioni sbagliate in circolazione, allo stesso modo funziona l’arte: l’intero circuito che va dalla produzione alla diffusione (editoria, case discografiche e cinematografiche, gallerie d’arte, televisioni, giornali) permette la proliferazione di prodotti scadenti in modo che siano alla portata di tutti e che l’industria “artistica” ne giovi. Difficilmente vengono alla luce opere rilevanti, sia per inadeguatezza culturale del possibile acquirente, sia per i contenuti di denuncia verso la società che dovrebbe comperarle. In casi limite il malato, attraverso un percorso assimilabile a un’evoluzione schizofrenica della patologia, acquista la credenza autocertificata di essere un artista. Quarta idea innestata: L’Antisistema è contro il putiferio di menzogne di cui sopra.

Occorre quindi che “Re-volver” diventi un grido di protesta contro l’impoverimento del sapere e la perdita del ruolo sociale da parte dell’artista. Re-volver parte sempre dalla qualità dei contenuti e mai dalla tecnica fine a se stessa.

In casi rari il malato percepisce la possibilità di un’alternativa alle idee innestate. Ma ogni pentola a pressione ha la sua valvola di sfogo e quella della società è costituita dall’Antisistema. Quest’ultimo si esprime attraverso l’esistenza paradossale di opinion-leader che indirizzano il malcontento verso forme soft di ribellione: manifestazioni, petizioni senza futuro, forum di opposizione e tutto ciò che svuoti i malati del senso di colpa provocato dall’apatia.

Indicazioni terapeutiche e informazioni sulla patologia

Posologia – Dose, modo e tempo di somministrazione

Trattamento sintomatico di stati alterati della psiche sviluppati attraverso l’acquisizione d’idee sovrastrutturali. Generate dal Sistema per i potenziali servi del Sistema, suddette idee favoriscono il contagio più di qualsiasi altro virus: si diffondono tramite i media come una peste cibernetica ed entrano in ogni cervello rilassatosi nei meccanismi imitativi. Non c’è atteggiamento, gusto o pensiero che non sia influenzato da esse.

Leggere un articolo per volta, riflettere adeguatamente e criticare (ove necessario) ogni aspetto del contenuto e dello stile. Re-volver deve essere diluito nell’arco di tre mesi.

Sviluppo della patologia e sintomatologia - Quando deve essere usato Lo sviluppo della patologia si manifesta attraverso l’innesto psichico di visioni alterate della realtà.

L’utilizzo del farmaco Re-volver deve essere associato all’esercizio della propria coscienza. Non è voce fuori dal coro neanche questa rivista! La catarsi derivante dalla sua lettura potrebbe contribuire ad addolcirvi lo sguardo nei confronti delle sbarre invisibili che vi siete costruiti. Il messaggio è: non fatevi ingannare.

Prima idea innestata: la libertà equivale ad una confortevole prigione.

Controindicazioni - Quando non deve essere usato

Nel suo stato allucinatorio il malato tende all’idealizzazione di case perfette, ultra accessoriate, televisori che aspirano ad essere cinema, cucine-ristorante, bagni con idromassaggio, sauna, bagno turco e lampade abbronzanti. Si tratta del livello “Bara Famiglia”, per aspiranti cadaveri. Ma la solitudine non è sopportabile all’uomo, così si passa al secondo livello: la “Bara Popolo”, che porta a competere con chi possiede la macchina più veloce, la borsa più firmata, la laurea più costosa. Il simbolo fallico più fallico.

Qualora i pazienti non possedessero una coscienza critica, si raccomanda l’assunzione del medicinale solo dopo una rilettura dei Classici associata a un periodo d’isolamento.

Seconda idea innestata: la scelta dei prodotti con cui nutrirsi va relegata al carrello della spesa e alle pubblicità. Il malato tende a rimuovere il concetto basilare per cui la salute fisica dell’essere umano dipende da due principali fattori: ciò che respira e ciò con cui si sfama. Egli si accontenta di cibi che hanno subito, nel processo d’industrializzazione, un’epurazione dei valori nutritivi, un’aggiunta di quelli cancerogeni e un’accattivante vestizione profetica (“mangia %*ç°§: avrai un’energia da campione!”), esotica e - nei casi d’ipocrisia sfrenata - “casareccia”. Il malato si convince che l’abbondanza sia decisamente meglio della misura. Un’analisi sociologica del problema ha portato alla conclusione che, attraverso lo sviluppo epidemico di quest’idea, si è giunti ad un incremento della percentuale di diabetici, ipertesi, gastrolesi. Alle comuni industrie farmaceutiche fa comodo la disinformazione relativa all’alimentazione: malattia, medicinali e controllo sono tre elementi di un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.

Effetti indesiderati

Sovradosaggio Un uso smodato del farmaco può indurre il malato a credersi intellettuale attivo, imprigionandolo in una forma mentis che, di fatto, lo rende passivo e ne intacca la lucidità. Sono stati riscontrati casi di diarrea, vomito, malattie psicosomatiche in genere. In casi isolati: morte immediata del precedente modello di pensiero e acquisizione di un modello alternativo che non si percepisce proprio e crea il rigetto del corpo ospitante. Scadenza e conservazione: Controllare la data di scadenza sul lato superiore della confezione. Tenere il medicinale alla portata dei bambini precoci.


Contents

CONTENTS Collisioni - Il vero Festival della cultura italiana

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Intervista a Filippo Taricco

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Intervista ai Modena City Ramblers

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Intervista aYoshitaka Murata

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Intervista a Irene Geninatti

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Intervista a Vincenzo Costantino “Chinaski”

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Intervista a Il Teatro Degli Orrori

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Intervista alla Bandabardò

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Intervista a Rosalia De Souza

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Intervista a Enrico Ruggeri

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Japan Made in Italy

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Intervista a Francesco Impellizieri

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Chi prenderà l’ultima astronave?

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Contatti sito: www.re-volver.it mail: redazione@re-volver.it cell.: 3381774824

READAZIONE DIRETTORE: Luca Torzolini DIRETTORE RESPONSABILE: Luca Zarroli VICE-DIRETTOTRE: Giorgia Tribuiani CAPOREDATTORE: Luca Torzolini UFFICIO STAMPA e MARKETING: Giorgia Tribuiani EDITOR: Luana Salomé TITOLISTA: Hanry Menphis GRAPHIC DESIGN: Luca Torzolini FOTOGRAFI: Luca Torzolini, Michele Di Giacomo, Denis Bachetti Illustratori: Ulderico Fioretti, Alessandro Di Massimo, Alberto Dabrilli

www.re-volver.it

WEB MASTER: Luca Zenobi ADMIN WEB: Luca Torzolini RESPONSABILi SETTORE CINEMA: Mauro John Capece, Boris Kaspovitz RESPONSABILi SETTORE LETTERATURA: Stefano Tassoni, Luana Salomé RESPONSABILI SETTORE MUSICA: Cesare Del Ferro, Ignazio Golia Errante responsabile settore arti visive: denis Bachetti, Artur Zuckerberg RESPONSABILI SETTORE VIDEOLUDICO: Luca Di Berardino, Adalberto Sangue

COLLABORATORI: Igor Salipchic, Domenico Pantone, Federica Lamona, Emidio De Berardinis, Chiara Di Biagio, Walter Matteo Micucci, Isabella Costerman, Marcello Arcesi, Federica Marinozzi, Edward Ray Davies, Chiara Macrone, Rico Ramòn Rosales de la Muerte, Julieta Eva Maria Vàrgas. Registrazione testata: n° 518 17/09/2008 Tribunale di Teramo Immagine di copertina: “Le sirene di Ulisse” di Luca Torzolini


Collisioni

La cultura sopra ogni cosa www.collisioni.it di Luca Torzolini e Giorgia Tribuiani foto di Gianfranco Mura

C’è chi giurerebbe che il polpettone di cultura low-cost troppo spesso rifilatoci sia esattamente ciò che abbiamo ordinato. Peccato che il menù non presenti alcuna variazione. La verità, in fin dei conti, è che una produzione culturale da fastfood, con menù unico, comporta 4

un dispendio di energie molto minore per chi è dalla parte dell’offerta. Economie di scala. Peccato che il processo globale non tenga conto di fiammelle pilota che, indirizzate nel verso giusto, sarebbero in grado di provocare un “incendio culturale”

incline al contagio. Patologiche e forse non altrettanto remunerative del fast-food, tese verso il bisogno di qualcosa che non si focalizzi sul tornaconto finanziario, garantiscono tuttavia un maggiore “ritorno qualitativo”.


Nella stessa direzione si muove la “fiamma” Collisioni. Filippo Taricco, organizzatore dell’evento, è un uomo diretto e cordiale. Nonostante la nostra giovane età ci invita ad assistere alle

esibizioni artistiche dell’evento, concedendoci la possibilità di intervistare personaggi di rilievo nell’ambiente culturale italiano ed internazionale. Così, in soli tre giorni, riusciamo ad appuntare

impressioni e pensieri di Lucio Dalla, Gino Paoli, Riyoko Ikeda, Dan Fante, Paolo Rossi e molti altri autori interessanti. Ogni evento è vissuto nell’area circoscritta di Novello.


A piedi, nell’area di un chilometro, si viaggia tra eventi musicali e teatrali nella grande piazza principale, interviste radiofoniche che si svolgono in piena strada e il mistico raccoglimento in una

chiesa, dove la voce di Riyoko Ikeda accompagnata dall’organo dimostra che, se lo vuole, una sceneggiatrice di fumetto si può trasformare in una cantante lirica di fama internazionale.

L’atmosfera dell’evento è rara, quasi al di fuori del tempo, e tanto è il piacere di prendervi parte quanto quello di darvene adesso un assaggio.


Riappropriamoci dell’arte! Intervista a Filippo Taricco

di Luca Torzolini e Giorgia Tribuiani foto di Gianfranco Mura

Come e quando è nata l’idea di dar vita al festival Collisioni? L’idea di Collisioni è stata prima di tutto una grande sfida. Quando ci siamo trovati e abbiamo deciso di farlo c’era un profondo malessere nel mondo della cultura, dell’associazionismo e soprattutto in quello dei lettori; nel mondo di persone autentiche come i miei amici di Alba e quelli espatriati da Alba. C’era il modello del Premio Grinzane Cavour e abbiamo fatto Collisioni lavorando in antitesi a quel modello. Non ci piaceva l’idea di un festival di letteratura elitario, dove è necessario un invito per partecipare e dove si trova solo una cultura di tipo accademico. Lo trovavamo sbagliato, vecchio, legato agli anni ’80. Il Premio Grinzane ci aveva lasciato l’idea

che il libro fosse qualcosa di estremamente noioso e sorpassato. Da chi è composto lo staff? Il bello di Collisioni è che lo staff si arricchisce ogni anno di nuovi elementi, spesso gli stessi autori che hanno partecipato nelle edizioni precedenti. Per esempio Hari Kunzru, uno tra i più promettenti autori inglesi contemporanei e nostro ospite lo scorso anno, ha collaborato con passione all’ideazione artistica del cartellone del 2011. Poi ci sono artisti, giornalisti, scrittori come Antonio Scurati, Emilio Targia, Piero Negri Scaglione, Sergio Dogliani, Valerio Berruti. E naturalmente i volontari, che devo ringraziare davvero per l’entusiasmo che mettono sempre nel loro lavoro:

da Paola Eusebio, che si occupa dell’organizzazione e del Progetto Giovani (uno dei progetti di maggior interesse del festival, che prevede l’ospitalità di più di 200 ragazzi da tutta Italia), a Serena Anselma, Gianluca Lovisolo, Fabrizio Davico, Antonio Spampanato e i moltissimi altri volontari che da tre anni sostengono moralmente l’iniziativa e continuano a crederci. Senza di loro Collisioni non esisterebbe. Quali sono i criteri che utilizzate per selezionare gli artisti? Gli artisti che chiamiamo sono innanzitutto autori di eccellenza, sia nel campo della letteratura sia in quello della musica. Quest’anno abbiamo l’onore di avere alcuni tra i maggiori scrittori internazionali 7


viventi: da Paul Auster, a Salman Rushdie, a William Least Heat-Moon, a Hanif Kureishi; mentre per la musica il simbolo per eccellenza del rock italiano, Luciano Ligabue. Ovviamente sono tutti autori che hanno lasciato un segno profondo nella nostra sensibilità e che

sono in grado di parlare a un pubblico di generazioni diverse, che s’incontrano, entrano in contatto tra loro e discutono di argomenti attuali. Naturalmente la letteratura è mescolata alla musica, gli scrittori dialogano con i musicisti e con gli altri artisti, creando prospettive diverse e

traiettorie che possano suscitare riflessioni nuove nel pubblico. Chi, tra gli artisti, ha dato maggiore sostegno all’evento? Ho già citato Antonio Scurati e Hari Kunzru, che ci hanno sostenuto molto,


ma non sono i soli. Devo dire che tutti gli autori che sono intervenuti a Collisioni, anche durante la nostra rassegna annuale, ci hanno sostenuto: Paolo Rumiz, Vittorino Andreoli, Serge Latouche, Jonathan Coe, tutti sono rimasti davvero entusiasti della nostra iniziativa, perché

si sono trovati di fronte a un pubblico numeroso e molto caldo; un pubblico di lettori accorso anche da lontano per ascoltare la loro voce. Questo ha dato loro una nuova energia e una grande soddisfazione.

È stato difficile convincere a partecipare personalità internazionali come José Saramago, Riyoko Ikeda o Abraham Yehoshua? Più che difficile, lungo. Soprattutto per quanto riguarda l’autrice di Lady Oscar, Riyoko Ikeda, che abbiamo contattato


molti mesi prima della manifestazione. In generale, la programmazione inizia diversi mesi prima: spiegare il nostro progetto, complesso e molto particolare, richiede tempo ed energie, ma alla fine il lavoro ci ha sempre dato dei grandi risultati.

Il pubblico è riuscito a interagire con loro? Certamente. Gli incontri prevedono sempre un intervento del pubblico con domande agli autori. Anzi, spesso abbiamo dovuto escludere delle domande per mancanza di tempo. In generale,

comunque, l’atmosfera rilassata della manifestazione e del paese di Novello rende i nostri ospiti sempre piÚ allegri e disponibili al contatto diretto con la gente, anche al di fuori degli interventi veri e propri.


Com’è stato accolto l’evento in Italia? Abbiamo avuto spettatori da tutto il territorio nazionale, molti ne hanno approfittato per fare un weekend in Langa. Il festival ha anche attirato l’attenzione di giornali e testate nazionali. In molti giustificano un’offerta culturale qualitativamente scarsa con una presunta domanda altrettanto bassa da parte del pubblico. Collisioni invalida questa tesi: com’è stato possibile coniugare la realizzazione di un evento “intellettuale” con un ampio successo di pubblico? Questo è stato possibile con l’azione di coinvolgimento del territorio, l’atteggiamento aperto e collaborativo con qualsiasi realtà e associazione interessata a creare un sistema di rete, dove mettere in campo competenze e aiutarsi vicendevolmente. È importante, poi, non dimenticare i giovani, che se coinvolti possono dare un apporto rilevante alla cultura. Il grande lavoro che è stato fatto da Collisioni è stato aggregare persone,

Ho già citato alcuni nomi, ma ne voglio svelare altri. Prima di tutto voglio ricordare che il concerto di Caparezza si terrà venerdì 27 maggio come apertura del festival, anticipato da un dialogo tra il cantante pugliese e Don Ciotti. Poi ci sarà il dialogo tra Francesco Bianconi e Paolo Giordano, l’intervento di Paolo Nori, Maria Luisa Busi, Enrico Ruggeri, Elio, del grande regista premio Oscar Michael Cimino, Luciana Littizzetto, Roy Paci e di molti altri Che ruolo ha avuto il web nella ancora che potrete scoprire sul nostro sito. promozione del festival? Non dimentichiamo i duecento ragazzi del I canali web sono stati molto importanti per Progetto Giovani, che ci raggiungeranno noi e per la nostra diffusione. Soprattutto da tutta Italia, per festeggiare sui nostri perché, avendo un budget sempre ristretto, palchi il 150° anniversario dell’unità italiana. sono i mezzi più economici e più seguiti dalla gente e dai giovani. Sono facilmente A cosa punta l’evento in futuro? aggiornabili e, specie i social network, Naturalmente puntiamo a migliorare la sono un ulteriore mezzo di aggregazione e nostra offerta culturale, a coinvolgere coinvolgimento diretto delle persone. quanta più gente possibile e a creare un movimento di libero pensiero che scardini Può anticiparci qualcosa sul prossimo categorie culturali e mediatiche dalle quali festival e suoi personaggi che saranno ormai ci sentiamo sempre più ingabbiati. presenti? mettere insieme nello stesso cartellone nomi della letteratura e della musica più o meno popolari, non limitarsi a parlare linguaggi accademici, ma puntare sulla diffusione e sulla qualità allo stesso tempo; e soprattutto, avere stima del pubblico. Trovare seicento persone davanti a un teatro per ascoltare un incontro letterario suona quasi incredibile, ma dimostra come le persone non abbiano affatto smesso di leggere e di pensare.

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Pugni in aria Intervista ai Modena City Ramblers Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

Partiamo dal tour “Onda Libera”. Qual è la novità e qual è il rapporto con i beni confiscati alle mafie? “Onda Libera” è iniziato nell’ormai lontano 2009. È un progetto particolare, durante il tour abbiamo organizzato, insieme all’associazione “Libera”, una serie di concerti nei luoghi appartenuti alla mafia, come bar e hotel confiscati. Abbiamo suon-

di Giorgia Tribuiani e Marco Sigismondi foto di Gianfranco Mura

ato nella villa di Felice Maniero, in Veneto, anche per dimostrare che la mafia non è una cosa legata esclusivamente al Sud. Infatti abbiamo toccato regioni come la Lombardia, l’Emilia e la Toscana. Ho visto che la copertina del CD è molto particolare. Com’è nata l’idea? Diciamo che quella è la bandiera ideale. C’è un po’ di Cuba, un po’

di America; un mix dei colori del mondo, come del resto è l’album stesso. Nel vocabolario dei Modena City Ramblers cosa c’è scritto accanto alla parola “libertà”? Vita. E accanto alla parola “censura”? Non lo posso dire. 13


Voi credete che l’impegno politico da parte di un artista sia particolarmente importante? La musica dev’essere prima di tutto divertimento, ma anche un modo per pensare, per veicolare dei messaggi e parlare di cose serie. Poi, girando molto e conoscendo tantissime persone, veniamo a contatto con una gran quantità di storie. È inevitabile che molte di esse colpiscano la nostra musica. Quindi anche l’impegno sociale. Voi siete stati in Palestina... In Palestina ci siamo stati tre volte, è stato molto bello. Con le vendite di un disco abbiamo finanziato la costruzione di un pozzo in un villaggio della campagna di Gerusalemme, presenziando alla sua inaugurazione. Abbiamo suonato in dei teatri e dopo abbiamo toccato con mano la realtà palestinese e quella israeliana, fatte di guerra e numerose crudeltà. Nel 2009 siamo ci siamo tornati per un evento bellissimo in cui abbiamo suonato 14

con i ragazzi del conservatorio di Edward Said. Mi ricollego al fatto che hai accennato alla guerra: nell’ultimo album avete parlato molto di guerra; guerra di vario tipo, come quella sul lavoro. Allora, tornando al vocabolario, cosa mettereste accanto a questa parola? È una parola che non dovrebbe esistere. In un nostro brano, La ballata della dama bianca, parliamo delle morti sul lavoro. È una guerra non dichiarata, in Italia muoiono tre persone al giorno sul posto di lavoro. Quali sono le principali influenze musicali nell’ultimo album? In generale i Modena sono molto “irish”. L’ultimo CD è influenzato molto dalla musica del Sud: ci sono strumenti come mandolini e mandoloncelli, suoniamo in tre ottavi e ci rifacciamo alle tarantelle. Nel contempo ci sono band come i Gogol Bordello che ci

ispirano sempre. Facciamo parte di una grande famiglia che parte dal folk e finisce al rock folk. C’è anche una ricerca dialettale... Sì. Ad esempio, nel brano Onda Libera il ritornello alterna frasi in napoletano e frasi in emiliano stretto. Progetti futuri? Siamo reduci di un tour europeo ed è ripartito il tour italiano, il nuovo disco è in lavorazione e poi... suonare, suonare, suonare!



La via del baritono Intervista a Yoshitaka Murata

Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

di Marco Sigismondi e Giorgia Tribuiani


Quali sono i punti di contatto tra la cultura giapponese e l’arte operistica? In realtà molto pochi. Forse solo ill modo in cui uso il respiro: è lo stesso del canto giapponese e del karate. Il Giappone è molto famoso per i propri esecutori musicali virtuosi, anche enfant prodige. Cosa hanno le scuole di musica giapponesi che le altre non hanno? Non è tanto l’istruzione ad essere speciale: i giapponesi hanno il dono di mescolare bene la cultura occidentale con la propria. Per cui un giapponese dotato di talento dispone di una percezione dell’arte più ampia rispetto ad altri. In Italia l’opera lirica non gode di molta considerazione tra la gente comune, viene reputata come una forma d’arte di elìte. È lo stesso anche in Giappone? In Giappone c’è lo stesso problema: solo una ristretta cerchia di persone si interessa all’opera. Tuttavia Riyoko Ikeda, con cui collaboro, ha una compagnia che aiuta i giovani ad emergere nel mondo della musica. Inoltre stiamo promuovendo un nuovo tipo di opera, metà narrata e metà cantata con i sottotitoli in bella vista. Così da estendere un po’ la nostra arte a tutti. maestro di musica mi ha convinto, Da parte delle istituzioni c’è un senza alcuna preparazione, ad entrare attenzione particolare per l’opera? nell’accademia di canto. Il teatro dell’opera di Tokio è proprietà Quando mi sono diplomato non dello Stato, ma non hanno un’attività avevo lavoro, così ho iniziato a molto grande e lasciano esibire per studiare opera in un laboratorio di lo più cantanti stranieri. Di tanto in ricerca musicale. Iniziando a recitare tanto la televisione di stato trasmette ho capito che avrei fatto questo per l’opera nel fine settimana. tutta la vita. Devo dire che grazie ad alcuni manga molto famosi la gente comune si è Quali sono le opere liriche che ha avvicinata alla musica classica, però sentito più sue? l’opera resta ancora qualcosa di Da giovane, di solito, si hanno molti troppo impegnativo. tormenti. Quando ho interpretato il Michele del Tabarro, un personaggio Come ha iniziato la carriera che diventa un omicida dopo essere operistica? stato tradito dalla moglie, mi sono Di base ho la voce potente. Il mio reso conto che sul palco posso

fare delle cose che non è possibile fare nella vita normale. È stata un’illuminazione, ho liberato il caos che avevo dentro. Cosa del Giappone avrebbe voluto portare qui in Italia e cosa dell’Italia porterebbe in Giappone? Dal Giappone sicuramente il riso, oltre ad un po’ di cultura giapponese. Nel mio paese l’Italia è molto amata, più di quanto gli italiani possano immaginare; se fosse possibile prenderei una piccola chiesa ed un teatro: l’acustica qui in Italia è eccezionale. 17


Il vero volto dell ’opera lirica Intervista a Irene Geninatti

Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it) Partiamo dai tuoi inizi: come ti sei avvicinata alla musica lirica? Io nasco come attrice di prosa, poi sulla mia strada si è infilata quasi per caso la lirica. Kuniaki Ida, il mio insegnante di recitazione della scuola “Paolo Grassi”, aveva come collaboratrice una cantante lirica che mi ha sentito cantare e mi ha incitato a provarci.

di Marco Sigismondi e Giorgia Tribuiani

Spesso una forma d’arte come la lirica ha una scarsa visibilità rispetto ad altre più commerciali. Tu hai avuto difficoltà? Di difficoltà ce ne sono state tante. Nonostante l’Italia sia la patria del bel canto e della tradizione operistica, non c’è spazio per iniziare una carriera. Se

non hai fatto gavetta non lavori ad alti livelli. Purtroppo, però, non c’è la possibilità di fare questa gavetta. L’idea della “Compagnia Lirica di Milano” nasce proprio da questo presupposto. Eravamo un gruppo di persone con un’ottima capacità lavorativa ed eravamo stanchi di bussare a tante porte per poi lasciarci

Foto di Walter Menegazzi 18


trattare in maniera poco carina. Se non hai tanti soldi da investire non riesci a entrare in questo mondo, è tutto mercificato e mercificante. Noi eravamo consapevoli di avere delle capacità, così abbiamo provato a fare qualcosa di diverso. Abbiamo fondato la Compagnia Lirica di Milano: oltre a me ci sono Alessandro Bares, direttore d’orchestra, e Marzia Scura, un altro soprano. Poi si è inserito anche Fernando Ciuffo, un baritono. Il nostro desiderio è di riportare l’opera ai teatri di provincia, poiché in Italia non c’è più quella via di mezzo che permetteva di far conoscere l’opera al grande pubblico.

assomigliare a qualcuno di famoso è un errore grossolano che fanno tanti.

Quali sono state le opere che hai preferito interpretare? Sogno da una vita di essere una Mimì nella Bohème, ma purtroppo non ne ho ancora avuto la possibilità. Amo molto Mozart: è comodo per la mia vocalità. Adesso stiamo girando con il Don Giovanni e mi diverte molto essere Donna Elvira. La mia è una formazione da teatro di prosa, quindi mi piace molto il lato dell’interpretazione attoriale, cosa che viene spesso tralasciata. Per risolvere questo problema abbiamo scelto non un regista di opera ma uno di Credi che manchi un’educazione prosa. È stata una mossa sana. all’opera? Assolutamente. In Italia l’opera è un po’ come il cattolicesimo, mi si perdoni il paragone. Nel senso che anche chi non è cattolico conosce almeno in parte ciò che riguarda la religione, perché fa parte della nostra cultura. Tutti gli italiani conoscono l’opera, il problema sta nel fargliela sentire. Tutti amano ascoltare il tenore che canta “all’alba vincerò”, ma l’opera è considerata una cosa d’élite. Si è creata una spaccatura bizzarra.

Allora sei favorevole a una commistione di arti? Certamente, proprio da questo nasce Masca in Langa, un festival di arte e cultura. Più si dialoga, più c’è la possibilità di inventare qualcosa di nuovo. Credo molto in questo. Che tipo di consiglio daresti a chi volesse dedicarsi alla tua arte? Tanta pazienza e apertura mentale. La mia prima insegnante diceva che per cantare ci vuole cervello, cervello e poi ancora cervello. Capire che il mondo non inizia e finisce con la lirica.

Forse si è creato un meccanismo perverso. Se da un lato l’opera è considerata una cosa d’élite, dall’altra viene associata alla pubblicità… Queste operazioni pubblicitarie partono dal fatto che anche la casalinga conosce le arie di Mozart o di Prokofiev. Solo che, estrapolate dal proprio contesto, finisce che vengono ricollegate ai pelati. L’opera sta risentendo dei tagli del governo fatti alla cultura? Per quanto mi riguarda, di soldi non ne ho mai visto neanche l’ombra. Tantissimi fondi vanno a pochissimi enti, non c’è una distribuzione sensata. Manca una regolamentazione logica. Quali sono stati i tuoi maestri? A chi ti sei ispirata? Io ho ricevuto un consiglio preziosissimo all’inizio dei miei studi: prendi meno riferimenti possibili, almeno tra i grandi nomi. Ascoltare tanta musica fa bene, prendere più spunti possibili anche, l’importante è non ancorarsi a un’immagine in particolare. Il voler

F o t o

d i

M a n u e l a

M o n t a l b a n o 19


Bocca per bere, bocca per recitare Intervista a Vincenzo Costantino “Chinaski” Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni (www.collisioni.it)

Quando hai iniziato a scrivere e quanto tempo ci è voluto prima che iniziassi a recitare i tuoi versi in pubblico? Queste son due domande… Ne faccio due a due così fingo di farne la metà. Ho iniziato da subito. Appena ho imparato a scrivere mi è interessato subito mettere su carta le emozioni, anche quelle infantili. Credo sia una cosa che nasca da dentro. Per quanto riguarda i reading, invece, ho iniziato in maniera casuale: non avevo nessuna intenzione di diventare performer di 20

di Hanry Menphis e Giorgia Tribuiani foto di Luca Torzolini

quello che scrivo, tuttavia ho sempre amato la tradizione orale e quando mi son trovato per caso con Vinicio Capossela a recitare i versi di John Fante abbiamo colto l’occasione per vedere che effetto avrebbero fatto i nostri scritti recitati. Mi è piaciuto, ho scoperto che potevo pagare le bollette: perché non andare avanti?

a come sarebbe se le raccontassi io o se le leggesse qualcuno. Le mie emozioni sono le mie emozioni, mi piace l’idea che chiunque legga o ascolti le trasformi in sue.

Chi sono i tuoi maestri? Il più grande maestro è Cesare Pavese. Amo molto Emanuel Carnevali, come tanti altri autori italiani dimenticati, Preferisci avere un lettore che ma anche Dostoevskij e l’Hemingway si avvicini in maniera intima poeta. Mi piace spulciare. leggendo quello che scrivi oppure un ascoltatore che partecipi alla Vincenzo Costantino e Chinaski performance? sono la stessa persona? È uguale. Quando scrivo non penso Certo, è solo uno pseudonimo che


mi diedero da ragazzino, dato che l’intervista sarà scritta… già allora bevevo molto. Bevevo Ti dico solo una cosa: l’Italia in questo e scrivevo: l’accostamento con momento si merita Federico Moccia. Bukowski è stato immediato. Quindi è la domanda a stuzzicare Come vedi l’attuale disfacimento l’offerta? culturale in Italia? Il lettore intelligente fa il buon Vuoi un suono gutturale come scrittore, non il contrario. Se uno risposta? scrive bene ha buoni lettori, se uno scrive male ha pessimi lettori. Andrebbe benissimo, purtroppo

Progetti nell’immediato? Ad ottobre è uscita una mia raccolta di poesie e racconti brevi: Chi è senza peccato non ha un cazzo da raccontare.

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Mettetevi comodi e chiudete gli occhi!

INTERVISTA A IL TEATRO DEGLI ORRORI di Carlo D’Urso screenshot e foto di Mauro John Capece e Claudio Romano

Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il modo più crudo per definire la storia degli ultimi decenni di questo paese e sono certo di non esagerare. Il Teatro degli Orrori potrebbe essere il titolo di un romanzo gotico ristampato nei nostri giorni, oppure il nome di una tela di Hieronymus Bosch, ma in questa sede è soltanto il nome di una vulcanica rock band emergente che ho potuto ammirare qualche sera fa in un esaltante live a Parabiago (Milano). La ragione principale che mi spinge a parlare di questi musicisti non risiede tanto nella loro capacità musicale quanto nell’aver proposto

una forma alternativa di veicolazione del suono: il progetto musicale de Il Teatro degli Orrori ha solide fondamenta e intenti ben definiti circa l’utilizzo della teatralità come tecnica di amplificazione del linguaggio musicale. Prima di proseguire è doveroso presentarvi la formazione attuale del gruppo: Gionata Mirai (chitarravoce), Francesco Valente (batteria), Pierpaolo Capovilla (voce), Nicola Manzan (chitarra–violino) e Tommaso Mantelli (basso). La band attua un sapiente utilizzo del teatro per potenziare, e spesso sublimare,

la parola; le pause, le pose stilistiche (affascinanti nei live) e i testi poetici di Capovilla formano un linguaggio parallelo alla musica che scolpisce puntualmente la natura dei brani. La voce di Pierpaolo Capovilla, la cui timbrica ricorda ai nostalgici Carmelo Bene, alterna un registro stilistico da puro frontman insieme ad un cantato pulito. Il testo in musica, generalmente subordinato al suono, ne Il Teatro degli Orrori diventa la linfa stessa della musica, dove ogni sonorità è incentrata a sottolineare la potenza del messaggio contenuto nel testo. Il suono esplode, commenta, culla, 23


addolcisce e sopratutto scatena la poesia del testo, proprio come in una vera pièce condensata in pochi minuti, dove in parte vengono annullati gli stilemi tradizionali della canzone. Percussioni e chitarre lavorano freneticamente in partiture disparate, fatte di raddoppi improvvisi e arpeggi dolcissimi, supportati da grandi giri di basso. La distorsione del suono giunge a sbalzi tenebrosi, quasi ad accostarsi

alle improvvise alterazioni vocali di Capovilla che prosegue a “narrare” la canzone da vero artificiere. Rivendico con forza la capacità de Il Teatro degli Orrori di essere tornata, come tanti gruppi del passato, a ricreare quelle atmosfere e quei stati d’animo ormai annullati dall’infame modo attuale di concepire la musica, quasi sempre un insieme di dance, costume e sterile tecnica strumentale.

Dove è finita la trasfigurazione e l’effetto psichedelico che dava alle note quelle tinte così forti e visionarie nel suono? Non troverete una canzone de Il Teatro degli Orrori che non faccia del proprio suono un edificio poetico dove ammassare messaggi, sentimenti, allucinazioni e tensioni molteplici. Il Teatro degli Orrori è ora in giro per l’Italia ad assolvere le date del loro tour estivo e per promuovere il loro


ultimo lavoro: A Sangue Freddo (La Tempesta Records, 2009). Tra i vari impegni musicali il cantante Pierpaolo Capovilla ha gentilmente accettato di rispondere a qualche domanda. Ho notato nella tua voce una tecnica interpretativa che vuole scardinare il cantato tradizionale per potenziare il “come dire” piuttosto che il “dire”, quasi che il

canto divenisse un fatto meramente linguistico. Ritieni che nella vostra musica sia essenziale procedere in questi termini? Non parlerei di tecnica interpretativa, direi “attitudine attoriale”. Il fatto è che sono un pessimo cantante... Cerco sempre di immedesimarmi nelle canzoni e mi piace pensare che queste vivano di vita propria. Non io, ma esse, vivono sul palcoscenico,

quasi fossero momenti di reale vita vissuta, superando la realtà della rappresentazione. Ecco, io non sono un cantante, sono un attore. All’inizio della vostra carriera avevate tutti un progetto differente che con il tempo si è amalgamato in un suono preciso, oppure qualcuno ha spinto più degli altri per trovare nel teatro la metafora


vincente per una sonorità selvaggia e aperta a infinite suggestioni? Non c’è dubbio che Giulio Ragno Favero ha sempre svolto un ruolo preponderante nella composizione, esecuzione e registrazione dei nostri dischi, ma sta di fatto che un “gruppo” è un organismo collettivo: è nella dialettica plurale che le canzoni vengono composte ed è questo il bello di “essere gruppo”, di condividere obiettivi, aspirazioni, speranze e ambizioni. Il capitalismo ci ruba la capacità di “fare insieme”; esser gruppo è quanto di più intimamente e poeticamente democratico esista.

non solo un semplice momento di intrattenimento e socializzazione, ma un pezzo, per quanto piccolo, di vera vita vissuta. Qualcosa che dura nel tempo e nel cuore.

Perché hai scelto il Théâtre de la cruauté di Antonin Artaud come scintilla ispiratrice per il gruppo? Credo fermamente nella teoria del teatro di Artaud: il magnifico paradosso della rappresentazione più vera della vita stessa. Quando salgo sul palcoscenico finalmente vivo. Resuscito! Quando, invece, torno a casa a guardare la TV, o in ufficio a far di conto, o in fabbrica a menar bulloni muoio lentamente, senza neanche accorgermene. Quello che voglio da un concerto de Il Teatro degli Orrori è che il pubblico possa specchiarsi nel nostro spettacolo e portarsi a casa, 18

Prendiamo in esame un ipotetico campione di vostri fans: credi che la poesia dei tuoi testi sia più veloce e penetrante della musica stessa per le loro orecchie, considerando anche la singolare performance della tua timbrica? Non c’è dubbio. Da quando canto in italiano mi accorgo di quanta amorevolezza venga indirizzata verso le parole delle mie canzoni, nelle quali molti, giovani e meno giovani (il nostro pubblico, grazie al cielo, è davvero intergenerazionale), si riconoscono e si immedesimano. Che soddisfazione!

Quali sono state le difficoltà principali riscontrate nell’editoria musicale per pubblicare il vostro primo lavoro Dell’Impero delle Tenebre (aprile 2007)? Non c’è stata alcuna difficoltà, al contrario! C’è stato grande interesse da parte di più operatori discografici. Abbiamo scelto La Tempesta per simpatia ed affinità elettive.

Che cosa è lesivo nella musica per quegli artisti che, come voi, tentano di affermarsi con le unghie e con il sudore? La totale e sistematica indifferenza del legislatore nei confronti di tutto ciò che sia cultura. In altri paesi, come la Francia, lo stato ti da una mano. Qui no, mai. È uno schifo vedere un ministro dileggiare gli artisti, gli enti lirici, il cinema, i musicisti. Per l’attuale governo la cultura è un nemico da combattere, ma che ci vuoi fare? Con i Bondi, i Brunetta, le Gelmini e tutti gli altri ministri di questo miserabile esecutivo non si può far altro che collidere. Un giorno pagheranno, mi auguro, per il male fatto al paese. Pensi che l’Italia potrà, un giorno, superare o modificare i pregiudizi in fatto di avanguardie musicali? In altre parole: perché i virtuosi e i veri talenti devono fuggire da questo inferno mediocre? Beh... io non fuggo. Resto, per Dio! Resistere è la mia parola d’ordine. In conclusione, Pierpaolo, credi che la poesia nella musica sia più estetica, etica o entrambe le cose? Etica.


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Sempre allegri bisogna stare Intervsita alla Bandabardò di Ilaria Paluzzi foto di Adamo Di Loreto

Sono nati con l’obiettivo di portare sui grandi palchi il sapore delle chiacchere scambiate tra amici nei piccoli bar di paese, ma non immaginavano che ci sarebbero saliti presto su quei palchi, a diffondere tra le folle il desiderio di trasformare il mondo. Lo hanno fatto cantando la rivoluzione con parole nuove, le parole di un poeta che indossa i panni del vecchio marinaio: Erriquez, un uomo maturo che porta negli occhi e nei concerti i sogni di quando era ragazzino. La Bandabardò è stata recentemente a Teramo per il concerto organizzato il 18 settembre 2010 presso l’area ex Villeroy, a cura dell’Associazione Federica e Serena, che prende il nome dalle due ragazze del teramano morte il 6 aprile 2009, vittime del 28

terremoto aquilano. L’ente, fondato dai loro amici, si occupa di portare avanti le attività di beneficenza a cui lavoravano le ragazze stesse quando erano in vita, come organizzare eventi, il cui ricavo viene utilizzato per appoggiare la ricerca scientifica e sostenere le organizzazioni che si occupano di curare soggetti con difficoltà economiche. Quest’anno l’Associazione ha invitato la Bandabardò, ospite da tempo dei palchi teramani. La band ha pubblicato da poco l’ultimo disco: Allegro ma non troppo. Tra le novità l’ingresso nel gruppo di Ramon, alle percussioni e ai fiati. Nel proprio manifesto la Banda scrive: “Lottiamo per un mondo a misura di donna e di bambino e per vedere un giorno trionfare allegria e

gentilezza”. Re-volver ha intervistato Erriquez, lo storico leader della band. “Ritmo è vitalità” è uno dei tuoi versi più celebri e stasera la BB è qui per solidarietà. Durante la vostra esperienza, d’altronde, non vi siete mai tirati indietro dall’impegno sociale e culturale. La musica può trasformare questo mondo che vive di retorica? La musica di una certo tipo, tra cui la nostra, deve ricaricare le persone. Deve regalare loro la voglia di sognare, di guardare il futuro con la schiena dritta. Deve regalare la voglia di vivere sentimenti come la malinconia, che sono bellissimi, ma di cui spesso la gente ha paura.


Quando è nata la Bandabardò? Stiamo per compiere 18 anni. Siamo nati l’8 marzo del ‘93: una lunga vita e una lunga esperienza. La BB è stata la nostra vita, abbiamo fatto più di 1200 concerti e non è ancora finita. Avete una lunga storia ed un seguito enorme. Tanto quanto i rave party, ma mentre con voi le persone si innamorano, ai rave è tutto completamente diverso. Cosa cambia? Sarà la poesia delle vostre canzoni? Ai rave ci si va per drogarsi ed io non voglio giudicare, mentre ai nostri concerti ci si viene per ballare. Indubbiamente si tratta di due situazioni completamente diverse: nei nostri concerti c’è un giocare tra noi e il pubblico, che si sente partecipe del concerto stesso. I rave stanno diventando un problema, come sta diventando un grosso problema l’abuso di droga in Italia, un paese invaso dalla cocaina e dalle sostanze chimiche. Sono droghe sbagliate, sono droghe di destra, sono droghe e basta. Quindi vai a ballare, ma non distruggerti, perché di vita ce n’è una. A diciottanni non avrei mai pensato di dire una frase del genere, ma è una santa verità. Dal vostro primo album, Circo mangione, ad Ottavio, del 2008, quant’è cambiata la vostra musica? È cresciuta, perché abbiamo imparato a suonare. Nei primi dischi si sente che siamo nervosi, viscerali, molto istintivi. Poi è cambiato il rapporto con lo studio di registrazione, che prima ci sembrava una prigione, una catena ai piedi di persone che volevano volare e che volevano cambiare posto ogni giorno. Oggi invece è un posto bello: quando abbiamo inciso Ottavio lo abbiamo coccolato come un bimbo e lui ci ha ricambiato. Una bellissima storia.

Le vostre canzoni sono sempre ironiche, divertenti, mai superficiali e indubbiamente poetiche. Qual è il segreto della BB? Più che altro è una gran fortuna. Siamo gli stessi componenti di diciassette anni fa, tranne che per l’ingresso di Ramòn, che ha portato alla Banda quella dose di ritmo caraibico che mancava. Fin dall’inizio ci siamo scoperti diversi e tra noi ci sono stati molti litigi, ma sempre costruttivi. Quei litigi necessari come ce ne sono nei matrimoni, senza mai mettere in discussione il seguito del rapporto.

Se qualcuno fa un viaggio in furgone con noi pensa subito che ci odiamo, invece ci vogliamo bene come fratelli. C’è un rapporto diretto, senza mediazione e abbiamo avuto la fortuna di ritrovarci tutti insieme. Ci incrociamo per i nostri hobby, per i nostri gusti musicali, per il nostro amore per il tempo libero: siamo una... una famigliona e andiamo avanti così.

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Ritmo do coração Intervista a Rosalia de Souza

di Cesare Del Ferro foto di Claudio Romano

“Madre Tierra” è solo uno dei tanti appuntamenti musicali organizzati nel locale albense “Peccato Originale”, punto di rendez-vous jazz nel Teramano, caratterizzato dall’ottima qualità dei cocktail, dispensati dal barman freestyler “Cugg”, e dalla particolare disposizione di luci e pitture. Rosalia de Souza, rinomata artista musicale del panorama brasiliano e celebre 30

anche per la collaborazione con il musicista italiano Nicola Conte, stasera è accompagnata dagli arrangiamenti latin jazz di Daniele Ferretti e Martin Diaz. Nel finale della serata l’artista brasiliana parla con me dei propri progetti:

Come definisci il tuo rapporto con la musica jazz? Mi piace ascoltare la musica jazz, ma non ritengo di essere una musicista che si può racchiudere in questo genere musicale, perché non considero la bossanova come musica jazz, ma piuttosto un genere a sé. Artisti come Antonio Carlos Jobim, Stan Getz, Joao Gilberto e altri sono e rappresentano


Attualmente stai lavorando a qualche nuovo progetto? Sto lavorando a tanti progetti. Ho in cantiere un disco che sarà prodotto in Brasile e ne ho inciso un altro (che uscirà a marzo) di musica Drum’n’Bass con un gruppo tedesco. Mi piacerebbe fare tante altre cose, ma è difficoltoso per questioni di tempo e per le abitudini di alcuni musicisti. Non è un modo di fare cui sono abituata (i brasiliani in quindici giorni riescono a produrre un cd); qua le cose funzionano un po’ a rilento: da un progetto musicale alla relativa realizzazione passa So che vivi e lavori a Roma. davvero troppo tempo. All’estero Come trovi questa città dal è più semplice portare a termine certi progetti. “D’improvviso”, il tuo ultimo punto di vista ispiratore? album, fonde in sé sonorità L’ispirazione non la trovo nella Il mio sogno più grande è quello istituire un’associazione classiche della bossanova, città di Roma, anche perché i mie di con qualche sfumatura afro contatti musicali sono proiettati italo-brasiliana d’interscambio e jazz. Come mai la scelta verso il sud. Roma è il centro culturale: vorrei organizzare di introdurre una traccia in dei miei legami familiari, ma per eventi legati non solo alla le mie performance mi sposto a musica, ma anche al teatro, alla italiano? musica e alla pittura. Non è la prima volta che canto Bari e Salerno. la bossanova, considerata il rifacimento della musica classica brasiliana. Per esempio, il modo di suonare di Jobim interpreta in chiave contemporanea la bossanova; le sue composizioni sono caratterizzate da accordi che tutti classificano come jazz, ma in realtà è musica classica brasiliana. Tornando al nostro discorso, il mio rapporto con il jazz è ottimo: nella sua concezione classica è un genere basato soprattutto sull’improvvisazione e l’interpretazione che il musicista sente di dare ad ogni brano. Amo spaziare e cercare il massimo della libertà sia negli accordi sia nella vocalità.

in italiano. Nel 1994 ho cantato con il gruppo Quintetto X la canzone Senza paura, cover di Or nella Vanoni. La gente, purtroppo, non l’ha recepita più di tanto. La scelta di introdurre D’improvviso è quindi dovuta al mio forte desiderio di richiamare il pubblico italiano. Sono diciotto anni che faccio questo lavoro e da sempre mi chiedono di cantare brani di Mina, Pino Daniele e altri; alla fine ho deciso di portare questo brano, originalmente scritto in spagnolo, anche in italiano, adattandone le sonorità.


Note e pensieri tra le pagine del nuovo libro Intervista a Enrico Ruggeri Enrico Ruggeri è un artista che fuga il pericolo contenuto nel detto: “non esistono domande stupide, esistono risposte stupide”. Con Enrico non esiste mai una risposta banale, anche quando la domanda sembra ovvia le sue risposte sono ricercate e mai simili tra loro. In questi mesi Enrico è uscito dal suo seminato abituale. Infatti, la prestigiosa carriera di cantante è stata affiancata dal suo primo romanzo, intitolato Che giorno sarà edito da Kowalski. L’ennesimo tassello della sua poliedricità: basti pensare che una delle canzoni più amate e cantate dalle donne, Quello che le donne non dicono, sia stata scritta da lui e dal chitarrista che con lui ha condiviso trent’anni di percorso musicale, Luigi Schiavone. In occasione del “tour” di presentazione del libro è nata questa piacevole intervista.

Il tuo libro narra di un cantante che realizza una sola canzone di successo e poi sparisce dalla scena. Scrivere di Francesco Ronchi, il protagonista del romanzo, è stata una forma di esorcizzazione? Sicuramente, l’arte è una forma di esorcizzazione. Io faccio spesso l’esempio di Foscolo che fa morire Jacopo Ortis per non suicidarsi, oppure dei bisticci tra fidanzati o delle preoccupazioni per un parente. Queste cose ti portano a scrivere canzoni su due che si lasciano o sulle persone che non hai più. Scrivere è il modo migliore per esorcizzare le proprie paure e conoscersi meglio.

E n r i c o

L u i g i

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R u g g e r i

e

S c h a v o n e

-

di Ettore Zanca

Hai detto che le bozze del libro, durante la sua stesura, sono state lette dal regista Fausto Brizzi. Se ne venisse fatto un film, che canzoni tue e non tue sceglieresti? Di mie probabilmente non ne sceglierei, poiché questo libro è un po’ il contrario di me. Io non sono Francesco Ronchi, ma non sono nemmeno Paolo Europa (l’antagonista di successo ndr). Non ci sono personaggi riconducibili direttamente a me: parlo di un mondo degli anni ‘80 dal quale mi distaccai presto. Di canzoni non mie, forse sceglierei quelle delle meteore che attraversarono gli anni ‘80, gli eroi di una stagione.

F o t o

d i

M i r a b e l l i


Tuttavia, in alcune parti emergi prepotentemente. Nei capitoli si dipana una descrizione abbastanza cinica della parte peggiore dello show-biz musicale, personaggi grotteschi che sono pronti a sbranare chi sogna il successo. È possibile fare associazioni e provare a immaginare che dietro i personaggi fittizi del libro si nascondano persone che davvero hai conosciuto? Sì, ma non in maniera automatica. Nessuna persona della mia vita assomiglia precisamente a quelle descritte nel libro: sono immagini sovrapposte. In questo credo di aver lavorato molto bene; ho utilizzato delle caratteristiche umane costruendo come puzzle i vari personaggi. Alla luce di quanto hai descritto nel libro, come vedi il mondo della discografia italiana? Adesso è un mondo più freddo. Forse ci sono meno cialtroni rispetto agli anni ‘80, ma è venuta meno anche questa forma grossolana di creatività. Cercare di lavorare più sul personaggio, oggi, è mordi e fuggi; in più la pirateria musicale ha creato un mondo in cui non si investe più con le risorse di prima, quindi i cialtroni nemmeno ci provano o restano subito confinati. Sicuramente era più romantico e meno cinico il mondo della musica degli anni ‘80. Oggi, con “Amici” e “X Factor”, le case discografiche vedono subito se il personaggio funziona e chi non funziona resta fuori; è tutto più asettico. Dai il disco alla radio, la radio non lo passa, fine della storia. Forse qualche personaggio del mio libro potremmo trovarlo, adesso, in qualche concorso canoro minore, ma le multinazionali fanno solo copia e incolla. Non per colpa loro, è il mercato che glielo impone. Vittorio Gassman diceva che per esprimere la propria arte bisogna prima di tutto accettare compromessi con i media. Pensi che sia così oppure godi di molta libertà espressiva? Con i media devi interagire, volente o nolente. Al di là di questa intervista,

Enrico Ruggeri in concerto - Foto di Mairold che è molto piacevole, devi parlare con giornali che non leggeresti mai e andare in trasmissioni che non vedi. La comunicazione è abbastanza indiscriminata. Credo che sia dannoso il compromesso artistico, come anche cercare le amicizie, il giro che conta, l’appoggio giusto. Anche perché essere riconosciuti come liberi pensatori è una soddisfazione. In Italia sembra essere importante sapere da che parte sei schierato. L’autonomia di pensiero e di azione è cosa rara. Questo clima e questa esigenza di schieramento viene avvertito anche nel mondo della canzone? È quella la vera prostituzione: andarsi a prendere l’applauso dicendo la cosa

che è di moda e facendo il soldatino. Ho sempre evitato di far parte di uno schieramento: ogni volta è bello poter prendere una posizione a seconda di quello che ti suggerisce il tuo cervello. Tempo fa hai detto che se adesso esistesse un De Andrè, farebbe molta fatica a venir fuori. Cosa consiglieresti tu a un giovane per farsi largo nel mondo musicale? Di battersi affinché cessi la pirateria su internet, perché riduce gli spazi e la libertà nel mondo musicale, che sono la sua salvezza. In secondo luogo, preferire sé stesso ai propri modelli e considerare la musica come una bella esperienza, sempre e comunque.

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Per una volta prova a essere presuntuoso, anche se non ti appartiene. Di cosa vai fiero? Caratterialmente mi rende fiero il non abbattermi mai troppo per le sconfitte e il non esaltarmi troppo per i trionfi. Il fatto di non essere catalogabile artisticamente. Inoltre, mi sono tolto grandi soddisfazioni: la tournee con l’orchestra, quella acustica, da solo con piano e contrabbasso, da jazz folk con Alberto Guareschi e Davide Brambilla (ora fisarmonicista di Davide Van De Sfroos).

Con chi ti piacerebbe duettare, a parte le star che si sono succedute in All in (triplo album con una parte composta di canzoni in duo)? Mi viene in mente mio figlio Pico, ma lui non vorrebbe e non è il caso. Mi direbbe di no e avrebbe ragione! Per cui non glielo chiederò mai.

Hai detto che rileggere il tuo libro, Che giorno sarà, prima di darlo alle stampe ti ha commosso, come convincere anche il pubblico che è un libro da leggere? Prendo in prestito quello che mi ha scritto Dario Ballantini: questo non è il più bel libro che sia mai stato scritto nella storia dell’uomo, ma è un libro interessante e tratta temi attuali.

Quale cantante della tua città hai più ammirato? E in assoluto? In assoluto Francesco De Gregori. Della Aggiungo io, con un finale totalmia città, Nanni Svampa (cabarettista e mente imprevedibile. cantante), perché ha fatto l’ironia de I Gufi (gruppo di cabaret da lui fondato) e perché Hai una profonda cura, non solo ha tradotto Brassens, dicendo che lo tradella musica, ma anche dei testi. duceva mentre altri non lo dicevano. La tua cultura è figlia di curiosità o è un retaggio familiare? Tutte e due le cose. Probabilmente la gente curiosa ha più cose da dire. Mi piace leggere, è una bella avventura.

Tra le tue canzoni e il repertorio altrui, c’è qualche brano che ti ha commosso particolarmente? Ci sono canzoni mie che mi commuovono e che ho pudore di cantare: per esempio, La medesima canzone e Vorrei (l’una descrive un ospedale psichiatrico, l’altra racconta il momento in cui si sta per morire) le tengo per me. Non sono canzoni nate per essere passate in radio, chi ha voglia le ascolta su disco. Canzoni di altri che mi emozionano? L’album Berlin di Lou Reed: meraviglioso, uno degli imprinting del mio mondo musicale. Chi vedi attualmente tagliato per cantare una tua canzone? Per chi ne scriveresti una? Non so risponderti. Le mie collaborazioni nascono in maniera informale, per amicizia o tramite un contatto. È stato così con Fiorella Mannoia e con Morandi; l’ultima mia canzone per Giusy Ferreri è nata perché ci siamo conosciuti, abbiamo fraternizzato e tutto è sorto per caso. Se leghi con una persona che fa musica può essere che poi si faccia qualcosa insieme.

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JAPAN MAD E IN ITALY. di Marcello Arcesi

“Going places sitting down” HIRAKI Sfogliando riviste e settimanali che si occupano degli eventi culturali di Roma e passeggiando per la capitale, ci si rende conto che il Giappone è da tempo arrivato in Italia. La terra del sol levante affascina artisti e curatori, tant’è che in poco più di un mese due mostre distinte hanno raccontato il Giappone. Il 30 ottobre del 2010 è stata inaugurata Tokyo Landscape, mostra di fotografia e di scrittura. Antonio Saba ha disposto su grandi pannelli le immagini di Tokio, città simbolo di tradizioni millenarie e di un’economia modernissima e in continua evoluzione. Foto che descrivono soprattutto la gente: un elegante manager fra edifici di vetro e scintillanti; umili commercianti in

S AWA , C o u r t e s y o f t h e a r t i s t

piccole botteghe; adolescenti che spiccano nelle folle caotiche grazie a vestiti sgargianti. Le foto di Saba si caricano di maggior enfasi grazie alle parole che Gianluca Floris dedica a ogni scatto. Lo scrittore ferma l’attenzione sul rapporto intrigante tra le architetture e l’entità culturale, tra i colori e l’individuo. Il Museo Carlo Bilotti di Roma ha offerto una prova affascinante dell’uso di segni diversi all’interno della mostra, una pratica ormai diffusissima che rimanda a quelle del movimento Fluxus, per il quale pittura, poesia, danza e musica dovevano essere gli elementi costituenti di un unico intervento artistico. Il 7 dicembre 2010, il teatro Sala 1, centro internazionale d’arte

contemporanea di Roma, ha messo in mostra nei propri spazi, e per la prima volta sui televisori di un negozio, la nona edizione del progetto Videozoom. La rassegna, dedicata alla video arte internazionale, intende promuovere il lavoro di giovani artisti provenienti dai paesi di tutto il mondo. Questa volta Sala 1 ha scelto il Giappone e si è affidata a Kenichi Kondo del Mori Art Museum di Tokyo per la selezione dei dieci artisti partecipanti. Scopo di Videozoom: Giappone è re-inquadrare il quotidiano, interpretarlo attraverso banali oggetti e analizzarlo tramite le azioni comuni che spesso sono sottovalutate, come nel caso di un pranzo tra un padre e una figlia, forse unico momento di un confronto serio e costruttivo durante la giornata 35


di una vita frenetica (Have a meal with FATHER, di Mariko Tomomasa). Con Videozoom: Giappone è stato rispettato il “credo” di Nam June Paik, precursore della video arte che afferma la necessità di un’arte contemporanea fatta per divertire. Nella mostra non manca poi la qualità espressiva e comunicativa dei giovani artisti. Di particolare importanza è stato il tentativo di far uscire l’arte contemporanea dagli spazi canonici. Infatti, la galleria che da sempre si opera per il nuovo, ha deciso di “mandare in onda” i video anche

all’interno di un grande negozio di elettrodomestici (Trony presso il centro commerciale Euroma 2). È chiaro il naturale legame tra la video arte e gli apparecchi televisivi; meno intuitiva ma altrettanto diretta è la relazione tra gli ambiti economici e lavorativi, che tanto influenzano le opere dal Giappone, e il luogo fisico dove si concretizzano i processi sociali e dell’economia del XXI secolo, cioè il centro commerciale (quello di Roma è, tra l’altro, uno dei più grandi del Sud Europa). L’azione di portare l’arte contemporanea in un luogo diverso

dalla galleria sembra seguire le intenzioni di Bill Viola, che ha dichiarato: “L’arte deve essere parte della vita quotidiana, altrimenti non vale la pena parlarne”. Il futuro dell’arte risiede nell’evoluzione di linguaggi legati alla fotografia, alle videoinstallazioni e alle installazioni sonore; ciò che conta è che lo spettatore non si senta escluso da un’espressività troppo accademica o incomprensibile.

Paint it Black, and Erase 280510 (single channel excerpt) , Takehito Koganezawa, Courtesy of the artist 36


Impellizzeri va in scena. O forse no! La nuova arte visiva. di Marcello Arcesi L’attuale panorama artistico internazionale assiste ad un ritorno dell’astratto, l’avanzare dei nuovi media (Sound e Video Art) e la persistenza della fotografia. In un simile scenario si colloca l’opera di Francesco Impellizzeri, artista visivo che negli ultimi vent’anni ha realizzato performance assai originali e cariche di messaggi, ricordando nei propri mezzi espressivi personalità che hanno lasciato il segno in quel contenitore che è la “Performing Art”. L’elemento distintivo del suo fare artistico sembra essere la totale sottomissione del significante rispetto al significato, cioè del corpo rispetto ai concetti espressi più o meno consapevolmente. Infatti, nelle performance di Impellizzeri, tutte legate in qualche modo alla rappresentazione dei vizi umani, il corpo non è più manovrato dalla ragione, ma dall’istinto e dalle pulsioni più basse come la gola o la vanità. Impellizzeri, pur lavorando con una pratica artistica ormai ben nota, rende la performance nuova e attuale: sembra attingere a quello che di fotografico e di multisensoriale c’è nell’arte contemporanea. Significativa in tal senso è Rinkoboy (1997-2000), performance disarmante che mette a nudo una società troppo legata agli aspetti superficiali e velleitari di una vita spesso monotona e ripetitiva: si noti la ritualità nell’aprire i barattoli e quella nel romperli lanciandoli in un angolo della stanza, gestualità usata anche da Jimmie Durham in Domestic Glass Meets Wild Glass (2006), dove l’artista, salito su una scala in alluminio, frantumò un centinaio

di bicchieri; una performance che nelle intenzioni teatrali mirava ad ipnotizzare gli occhi e le orecchie degli spettatori, risultando opera importante in ambito sonoro oltre che performativo. In Rinkoboy la luce viene e va e in un’atmosfera psichedelica il “ragazzo-copertina” si muove con movimenti meccanici e sembra mettersi in posa come se l’opera fosse l’insieme di tante fotografie. Il personaggio

di Impellizzeri apre i barattoli, assaggia il contenuto, infrange i barattoli vuoti e ripulisce la stanza con uno spandi-acqua: la metafora dell’essere umano medio. L’istinto, il peccato, il pentimento e il tentativo di purificazione sono riassunti dai gesti simbolici di Rinkoboy. Gilbert & George, nel 1970, salirono su di un tavolo in giacca e cravatta, con le mani e il viso dipinti d’oro e d’argento, 37


e lì sopra cantarono per cinque giorni, sette ore al giorno, la canzone popolare Underneath the Arches. L’obiettivo dei due era produrre un’arte di forte impatto comunicativo, intenta a superare i suoi tradizionali confini e ad analizzare in profondità la condizione umana. Impellizzeri si affida ad atteggiamenti simili: il travestimento e la critica alla società contemporanea. In Gilbert & George, così come in Impellizzeri, il corpo svolge un ruolo importante: non rappresenta più l’artista, ma un personaggio, un messaggio o un ideale. Alcune domande all’artista sulla performance e sulla sua attività aiutano a comprendere meglio la sua poetica. Rinkoboy oggi ha più di dieci anni ed è ancora attuale. Nel 1997 c’è stata una rivista o una trasmissione televisiva che ha ispirato la performance o è stata concepita in seguito ad un’attenta analisi della società dell’epoca? Tutti i miei personaggi nascono da un’ironica, ludica e critica elaborazione del “panorama” umano che ci circonda. Rinkoboy, nei suoi tratti fisici, nasce dall’incontro con un ragazzo visto in discoteca e da me “intervistato” sulle motivazioni del suo abbigliamento. A questo ho aggiunto altri concetti base della mia ricerca: i condizionamenti sociali, le difficoltà dialettiche, i pochi spazi per l’espressione dell’artista. Questa è una delle performance che preferisco. Inizia sottolineando, attraverso i tre fari dai colori primari, la mia formazione pittorica e poi sviluppa tutte le altre tematiche; nel frattempo la mia voce registrata dice: “non voglio più, non posso più”. Frase densa dei motivi prima accennati e anche del desiderio di non voler essere definito come “il performer 38

proporre oggi il linguaggio delle performance degli anni 60/70, come rifare un’opera di tipo impressionista o futurista. Nel 1982 la mia tesi all’Accademia di Belle Arti di Roma è stata sulla “Body Art”. Quegli studi mi hanno permesso di capirne il percorso storico e poterne fare uno tutto mio. Il critico spagnolo Paco Barragan nel 2003 mi ha inserito nella mostra Don’t call it Se oggi Impellizzeri dovesse performance che dal museo Reina dar luogo a una nuova Sofia di Madrid ha percorso performance sarebbe più i principali musei spagnoli, ispirato dal linguaggio di Gina terminando al museo del Barrio Pane, cioè quello del corpo di New York. seviziato, o sceglierebbe una Quando Luigi Ontani ha visto poetica in linea con quella di le mie prime performance mi ha Luigi Ontani, ovvero l’artista detto: “potrebbero confondere il mio lavoro con il tuo, ma del corpo narciso? Trovo inutile e fuori luogo tu sei ironico mentre io sono che canta”. La musica è un elemento importante del mio lavoro, ho scritto diverse canzoni e ne ho arrangiate altre con la collaborazione di musicisti. Ma la musica è, come la teatralità, un elemento da me usato come la pittura e attraverso questi mezzi ho parlato di arte e religione, sessualità e diversità, politica e consumo.


onirico!” I miei riferimenti sono la televisione, il cabaret e la pubblicità che, miscelati con tutta la storia dell’arte, dai graffiti al contemporaneo, buona dose di ironia e un gran senso critico, danno vita ai miei tableau vivant. L’utilizzo del mio corpo non è comunque determinato da mero narcisismo, ma dal semplice utilizzo delle mie molteplici potenzialità espressive. Tra le numerose performance che ho realizzato, quasi un terzo sono corali, in cui sono state coinvolte dalle sei persone, come in Desfilè: mannequin per nient, alle cinquanta, nel caso di Il tuo pensierino. E’ chiaro che ho sfruttato anche la mia fotogenia, scoperta da bambino, che mi ha permesso di realizzare molti lavori fotografici prima dei miei studi artistici.

Perché un artista decide di non usare un pennello o una matita, ma il proprio corpo? Trasferire l’idea dal cervello alla mano non è sufficiente? E’ un limite? Chi ha visto la mia mostra al MLAC di Roma sui miei vent’anni di performance si è perfettamente reso conto che dietro ognuna di esse c’è un progetto: vestiti, scenografie, misure, musiche, spazi, costi ecc. Dopo le rappresentazioni nascono i grandi lavori fotografici, le cui cornici, a volte in tessuto dipinto o in legno, sono interamente realizzate da me. È più facile dire che delego agli altri poche briciole, poiché amo mettere le mani su tutto quello che produco. La preparazione di una performance richiede almeno due mesi di lavoro.

La mia produzione, dunque, non si limita alle performance, ma anche alla realizzazione d’installazioni, disegni e dipinti. Gli ultimi lavori sono delle tele di formato irregolare sul cui fondo bianco si spandono vortici di colori. Un testo dipinto con un font a pallini argentati dà regolarità al pezzo e dichiara le mie tematiche sotto forma di brevi poesie, la cui completa leggibilità è determinata da una particolare condizione luminosa. Se alcuni artisti improvvisano le azioni o usano solo il corpo, questo non è il mio caso. Parafrasando la canzone di Joe Squillo e Sabrina Salerno, possiamo dire “Oltre le gambe c’è di più”!!!

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Chi prenderà

“L’ultima astronave”? di Hanry Menphis e Giorgia Tribuiani foto di Luca Torzolini

Verrà un tempo in cui un meteorite grande come l'Alaska si abbatterà violentemente sul nostro pianeta, deformandone l'assetto e mutandone radicalmente l'atmosfera. I cieli si oscureranno e l'aria diventerà irrespirabile; allora per la specie umana sarà finita. E in che modo avremo lasciato il segno in questo universo? Come potranno, un giorno, esseri di altre galassie sapere che l'uomo, in queste poche centinaia di migliaia di anni, ha saputo sfruttare il proprio cervello anche in maniera positiva? Stefano Benni un’idea ce l’ha. 40

Per lui sarà l’arte a rappresentare il meglio della storia umana e allora, accompagnato dal maestro Umberto Petrin al pianoforte (il tutto nel suggestivo allestimento scenico di Fabio Vignaroli), si è fatto portavoce di tutti gli uomini e, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il 21 gennaio 2011, ha selezionato per noi cosa portare su L’ultima astronave. Dunque gli alieni si ritroveranno fra le mani il frutto tangibile dello storico desiderio umano di comunicare: dai graffiti paleolitici al genio di Leonardo Da Vinci, dall’immaginario

fantastico di Hieronymus Bosch ai ritratti di Diego Velàsquez, da Vincent Van Gogh a Cy Twombly; ma anche Klee, Bacon e Walt Disney con i suoi elefanti rosa. Benni non fa economia di sentimenti, buoni o cattivi che siano, per accompagnarci in questo viaggio interspaziale in cui verremo giudicati non per quello che siamo, ma per ciò che abbiamo creato, sia esso letteratura, musica o pittura. E quando giunge la conclusione, coinvolgente è la chiusura dell’artista, un crescendo che appare come una spasmodica


ricerca del senso della vita e dell’arte e che approda in quei definitivi punti di sospensione che ancora lasciano l’umanità col fiato sospeso e che trovano espressione, per Stefano Benni, nelle parole di Van Gogh: “Sto ancora cercando”.

Lo spettacolo è finito, ma il sipario non si chiude: l’artista ha ancora un regalo per il suo pubblico. Un racconto, stavolta, una storia fantastica su quella vecchiaia fin troppo reale che ha il sapore della solitudine. Ma anche della speranza, racconta

Benni, poiché al di là di cosa è reale e cosa no, al di là di cosa sia l’arte e di ciò che ci riserveranno il futuro e la fine del mondo, l’uomo - così come l’anziano del racconto - non cerca che una mano da stringere e un cielo dove poter volare.





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