Re volver n°05

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Re-volver opera unicamente per il conseguimento di scopi culturali, al di sopra di qualsivoglia connotazione politica e ideologica

Evoque - Officina d’Arte

Evoque – Officina d’Arte Casella Postale 91 64011 Alba Adriatica (TE) Partita Iva 01486500679

Cover photo: “Lysergic Glasses - Igor Salipchic” - Luca Torzolini - Fotografia digitale - 2010


Contents Contatti sito: www.re-volver.it mail: re-volver@hotmail.it cell.: 3381774824

CONTENTS Editoriale

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Re-portage - Intervista a Igor Salipchic

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Cinema - Intervista a Tonino Guerra

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Teatro - Intervista a Dario Fo

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Musica - Intervista ai Betty Poison

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Letteratura - Intervista a Giuseppe Genna

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Storia e attualità - History re-visited

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Pittura e scultura - Intervista a Rocco Sambenedetto

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Fotografia - Intervista a Ferdinando Scianna

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Fumetto - Intervista a Ryioko Ikeda

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Animazione - Aoi Bungaku

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Videogioco - Le mutazioni genebytiche

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Scienza - Nikola Tesla

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Enogastronomia - Intervista ad Alfio Cavallotto

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Pagina 88

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Racconti - The special adventures of Luca Torzolini and Hanry Menphis

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Fuori Controllo - Il catodo incallito

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Fuori Controllo - Intervista a Francesco Ferraiolo

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READAZIONE DIRETTORE: Luca Torzolini DIRETTORE RESPONSABILE: Luca Zarroli VICE-DIRETTOTRE: Giorgia Tribuiani CAPOREDATTORE: Luca Torzolini EDITOR: Stefano Tassoni TITOLISTA: Hanry Menphis GRAPHIC DESIGN: STS - Servizi Editoriali FOTOGRAFI: Luca Torzolini, Eclipse.154, Michele

Di Giacomo, Jessica Di Benedetto, Denis Bachetti Illustratori: Ulderico Fioretti, Alessandro Di Massimo, Alberto Dabrilli WEB MASTER: Luca Zenobi ADMIN WEB: Luca Torzolini RESPONSABILi SETTORE CINEMA: Eclipse.154, Mauro John Capece RESPONSABILi SETTORE LETTERATURA: Giorgia Tribuiani, Stefano Tassoni

RESPONSABILI SETTORE MUSICA: Marco Sigismondi, Cesare Del Ferro responsabile settore arti visive: denis Bachetti RESPONSABILE SETTORE VIDEOLUDICO: Luca Di Berardino COLLABORATORI: Domenico Pantone, Stefano Caselli, Davide Valentini, Chiara Di Biagio, Emidio De Berardinis, Federica Lamona, Elisabetta L’Innocente, Thomas Kha-

rim, Edward Ray Davies, Walter Matteo Micucci, Isabella Costerman, Saverio Tassoni, Federica Marinozzi, Marco Cortellini, Walter Zenobi, Luca Sigismondi e Luigino Iobbi. Si ringraziano di cuore Filippo Taricco, Francesca Tablino, Paola Eusebio, Alessandra Valsecchi e tutto lo staff di Collisioni 2010 www.collisioni.it



STS - Servizi Editoriali presenta

Classici per Hotel quando il turismo diventa cultura

PER INFORMAZIONI STS - SERVIZI EDITORIALI Sito: www.stsonline.it

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Editoriale

UNO SPARO NEL BUIO

VOL.5

N

el 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano “la révolution surréaliste”, indirizzato ai direttori dei manicomi, così concludeva: “Domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza”. Franco Basaglia Incipit del discorso su “La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione”, A se stesso Or poserai per sempre, Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, In noi di cari inganni, Non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai Palpitasti. Non val cosa nessuna I moti tuoi, né di sospiri è degna La terra. Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo T’acqueta omai. Dispera L’ultima volta. Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Omai disprezza Te, la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera E l’infinita vanità del tutto. Giacomo Leopardi, Ciclo di Aspasia Coloro che vengono qui soltanto per ascoltare una commedia gaia, licenziosa e rumore di scudi cozzanti; coloro che vengono qui per vedere un buffone multicolore resteranno delusi nella loro aspettativa. William Shakespeare, Prologo dell’Enrico VIII ed Epigrafe del primo numero dell’Zeitschrift für musik Il futuro non è qui. In questa desolata Italia, teatro di mutui suicidi. L’omologazione è una cosa claustrofobica. Non lo senti l’affannoso soffocare della tua mente, lettore? È tutto uguale, tutto sistematicamente uguale. E noioso. E indifferente. Non la senti la tua tristezza, lettore, come lo sguardo di un povero vecchio che guarda in una sera malinconica una lampadina di Natale fuori periodo? Lettore, mi senti? Senti la rabbia con cui parlo e mi porto alle tue orecchie, con la pretesa di farti paura e di non

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Foto di Luca Torzolini

lasciarti dormire la notte? Ogni opera d’arte, ricorda, deve differire dalla precedente, cercare un’elevazione o tentare una via alternativa per far giungere il proprio messaggio. Mai l’arte deve riprodurre in serie un oggetto: si chiamerebbe industria. Ti piace l’industria? Operai incollati all’alienante routine, privi persino del coraggio di guardarsi l’un l’altro. Così non può andare. Quasi duecento anni or sono, Leopardi scrisse la poesia A se stesso denunciando “l’infinita vanità del tutto”. Eccomi, con l’identica sensazione, osservare il panorama culturale italiano. A me, nonostante tutto, qualche battito d’amore è rimasto: è necessario creare un nuovo paradigma editoriale. Con volontà viscerale mi propongo quindi di donarvi una rivista; una sfida con me stesso che m’impone di non scodinzolare festante dietro i classici modelli editoriali del nostro vecchio, marcio, brutalizzato paese. Con incoscienza mi espongo a voi, mostrando un manufatto artigianale intriso di spiriti. A Roma mi hanno chiamato “il pazzo editore”, attorno ad un tavolo ove i più grandi e ignobili

editori bisbigliavano coi più grandi e venduti scrittori. Luca Torzolini con quattro euro in tasca, in attesa della sua poltrona in prima fila allo spettacolo di Fo; Luca Torzolini che avrebbe grondato lacrime per la sua grandezza, l’invidia provata e l’istinto d’emulazione provocatogli dal grande vecchio. Sapeva già che si sarebbe odiato in futuro, quando, rendendo pubbliche queste parole, avrebbe ucciso quell’emozione. E allora chiamateci anche pazzi, ma noi avremo la forza, noi ce l’abbiamo la forza, di strapazzarvi come bambole vecchie e dimostrare che la pazzia è ancora una volta simbolo di superiorità. Scriveremo una storia, scriveremo La Storia come voi non avete saputo fare. E mentre voi cercherete di sopravvivere, affannando e sbavando come iene attorno alle carcasse di poveri cristi caduti, noi saremo lì a guardare le stelle attraverso un antico cannocchiale e, senza accorgervene, mentre noi guarderemo il cielo e voi ci guarderete, avrete finalmente la netta sensazione di essere caduti proprio in basso. Luca Torzolini

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Il pensiero come si faceva una volta

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Intervista a

Igor Salipchic, artigiano del pensiero

RE-PORTAGE

Re-portage

di Denis Bachetti e Luca Torzolini foto di Jessica di Benedetto e Luca Torzolini illustrazioni di Ulderico Fioretti e Alessandro Di Massimo

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Re-portage

R

oma. Molta gente spera di trovarci qualcosa di più rispetto alle piccole realtà di provincia. Forse è così, ma le risorse di un luogo sono amplificate dalla ricchezza del proprio animo: chi è vuoto resti pure dove sta, tanto spostarsi non serve a nulla. Per Re-volver la capitale è una realtà dove coesistono migliaia di piccoli e grandi universi artistici. Alcuni validi, altri decisamente no. A noi l’ardua sentenza di scernere e decidere per voi cos’è il genio. Sfortunatamente la cultura viene sempre in aiuto a chi la possiede e ci ruba la possibilità di pronunciare parole nostre, poiché altri hanno utilizzato maggior grazia e minor saccenza per esprimere lo stesso concetto. Quindi, per riprendere il discorso, citeremo Monicelli: “Cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione.” Igor Salipchic incarna la figura del No! Igor Salipchic ci piace. Non ci saranno per lui complimenti o prefazioni roboanti. Non sarà necessario adularlo o descriverne le capacità artistiche. A lui tutto questo non serve, e speriamo d’altronde non serva soprattutto a voi. Ma chissà non vi abbiano già abituati… Ci parli delle sue origini. Sono nato a Dolenjske Toplice nel 1967. Mio padre è di origini slovene, mia madre è di Cra-

covia. In seguito alle tensioni indipendentiste con la Serbia e a causa di un notevole peggioramento delle condizioni di vita, ci siamo spostati da alcuni nostri parenti a Trieste. Dopo alcuni anni, per motivi di lavoro, mi sono trasferito a Roma. Qual è il suo lavoro? Io vendo idee. A chiunque. Anche tesi totalmente opposte. Credere di poter avere una vera e propria linea di pensiero è ridicolo. Ma attenzione: anche non crederlo lo è. Vendo idee, come dicevo. È un lavoro che permette di sopravvivere; in Italia nessuno ha delle idee. A che prezzo mette in vendita le sue idee? Il prezzo varia a seconda dell’idea. Ci si basa sull’originalità e sulla possibile efficacia di applicazione. Fino agli anni ’90 sono riuscito a sopravvivere vendendo quasi esclusivamente idee artistiche, poi l’arte ha subito un declino e sono stato obbligato a riversare la mia creatività in ambiti più modesti. Non posso farvi un esempio con possibile riscontro perché sono vincolato dai termini di contratto con i miei clienti. Vi farò un esempio aspecifico per farvi capire: ho degli appalti con certe catene di ristorazione cui ho venduto l’idea di riempire i locali con gruppi designati di comparse. Come lei sa, gli

L’uomo è inferiore all’universo perché tenta di capirlo nella misura in cui l’universo non ha bisogno di capire lui. Il pensiero cerca di ridurre tutto a leggi fisiche e chimiche, ma lo spazio da sempre seppellisce tra i vermi il cervello che le ha codificate, e beato sogghigna. individui si spostano seguendo le stesse dinamiche della transumanza. Gente attira gente. Ci spieghi meglio. Si tratta di assoldare degli individui rendendoli avventori apparentemente occasionali. Non importa la loro formazione o estrazione sociale, sono persone “X” designate a vendere la propria presenza in quel dato luogo per quel determinato lasso di tempo. Avete mai sentito parlare di “Crowd-Bathing”? È un fenomeno ormai sviluppatosi nei più battuti itinerari turistici del mondo, e quindi anche qui nella capitale.

Tutti dovrebbero portarla per tagliare le parole superflue. E non si respira ormai in giro che del superfluo.

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Perché ha deciso di rilasciare un’intervista a Re-volver e venire allo scoperto? Perché voi siete una rivista sottoterra, per pochi. Sento una particolare affinità con Re-volver. Sapete, parte del mio lavoro fino ad oggi consisteva nel restare nell’ombra. Non dovevo essere nessuno. Rifiutare la notorietà per permettere agli altri di acquisirla. Ma presero le mie idee, pure e fantasiose, per trasformarle in mostruose macchine da denaro. Le trasformarono adattandole al pubblico, per raggirarlo. Mi ritengo una persona di sani principi: odio la finzione e l’ipocrisia. Credere nell’improbabile è ormai un comandamento per gente comune. Il mio messaggio è “Scavate dietro ogni cosa”. Spero quest’intervista possa agevolarvi. Perché non converte le sue idee in prima persona invece di appaltarle? Come cercavo di suggerirvi prima, non sono interessato al comune modello capitalistico del guadagno infinito.

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Re-portage biliardino subacqueo o il calcio in discesa. E sarebbe? È semplicemente il calcio senza corner per chi gioca in salita; il campo da gioco è quindi scosceso. La porta che sta in basso è più piccola, quella in alto è più grande. Il resto credo possiate dedurlo.

Sotto di me la città è il presente; sopra di me le stelle mi raccontano il passato. E allora cosa si trova al di là del cielo? Le mie modeste origini mi hanno educato a una vita semplice, lontana dall’opulenza trimalcionica che ispira le nuove caste dominanti. Però devo ammettere che il vero motivo per il quale non converto le idee è legato a un tratto specifico della mia personalità: durante il giorno, dal momento in cui mi rado la barba fino a quando fumo l’ultima sigaretta, sono inondato da un flusso costante e continuo di idee. Realizzarne una significherebbe lasciarne troppe da parte. Qual è l’incarico che l’ha soddisfatta di più? Tempo fa un editore avvenente, per un vezzo personale, a seguito di una sua triste vicenda giudiziaria, mi contattò per rivelare la realtà di corruzione e connivenze di cui era caduto vittima. Era stato minacciato da persone intoccabili, ma non potendole denunciare, si rivolse a me per uno sfogo: voleva gridare al mondo il suo sconforto. Inventai un codice, ben nascosto in un romanzo d’amore, che permise all’editore di denunciare attraverso quel libro ad altissima tiratura la corruzione del giudice in questione. Il messaggio è scritto chiaramente, ma leggibile solo attraverso la conoscenza di determinati passaggi di lettura. Una verità sotterranea e scottante, un caso che mi colpì molto. Il libro è ancora lì, sotto gli occhi di tutti.

Passiamo alla letteratura, il motivo per cui abbiamo deciso di incontrarci: quali sono innanzitutto i generi e gli autori che predilige? Sono certo che l’infinita lista di autori validi vada elencata in altro luogo. Facile mi è dirvi che sono quasi tutti morti. I generi, così fermamente fissati nelle etichette in cui gli invalidi critici li costringono, sono identificazioni di personalità scialbe in regole utili per chi ha da vendere. I maggiori autori sono quelli per i quali, a ogni pagina letta, il lettore è portato a mangiare un “biscottino”. Due pagine, due biscottini: tre pagine, tre biscottini e via di seguito… e alla fine le pagine lette sono fatalmente più numerose dei biscotti mangiati. Due generi che mi hanno impegnato molto sono il poliziesco e il mistery-novel, generi in cui la suspence e il colpo di scena sono pulcini affamati da nutrire con dosi continue e caden-

zate di grassa inventiva. Dashiell Hammett era un mitragliatore di fantasia e non a caso ha tenuto per buoni decenni il cinema al laccio come gli scrittori di oggi fanno nel migliore dei casi con i loro dobermann. Philip K. Dick e Ray Bradbury sono, per via della loro creatività visionaria, le uniche persone che hanno spinto la mia testa nel lavandino. Secondo me anche Ridley Scott e Truffaut, impressionati dalle sortite visionarie di questi scrittori, hanno deciso di abdicare verso sceneggiature affini al loro ego. E il cinema? A mio avviso non esiste confine tra cinema e letteratura. Io opero nel plottery [sic!]. Sono chiamato dai miei amici cineasti a fabbricare soggetti. Senza trama i film, i romanzi, le pièces teatrali cadono a terra come invertebrati. Il plot o la trama costituiscono il motivo di una storia, anche se credo sia fondamentale il linguaggio e lo stile con cui si sceglie di trasporla. Sappiamo che sta scrivendo un libro. Di cosa tratta? Trascurerei innanzitutto il concetto canonico di libro. Un libro racchiude. Il mio libro rinchiude strani personaggi e vicende in strutture sintattico-morfologiche sperimentali. Ispirandomi

Gli individui si spostano seguendo le stesse dinamiche della transumanza. Gente attira gente.

Ha mai inventato uno sport? Sì, per i villaggi turistici. Lì si tende sempre a ricreare la realtà a scopi ludici secondo una chiave comico-animata. Una grande agenzia di animazione mi chiese un pacchetto di sport divertenti e totalmente innovativi. Inventai nel ’95 il twaddle e altri sport mirabolanti come il

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Re-portage alla saga del romanzo gotico, inaugurata da “Il castello di Otranto” di Horace Walpole, ho voluto trasporla in tempi moderni riadattando, rivedendo e riabilitando l’underground del terrore e dello sconcerto secondo canoni inaspettati e anticonvenzionali. Vi spiego: un romanzo che incute terrore è sempre ambientato in un castello o in una angusta dimora visibile solo negli intervalli tra un lampo e l’altro. Quando si ha paura fuori piove sempre e il nostro carnefice è puntualmente alto e spigoloso. Ci insegue con un incedere da atleta decaduto. Brandisce uno strumento primitivo che a lui non farebbe mai male. I personaggi del mio libro, di contro, hanno paura di chi li insegue con la lettura e di chi, rileggendo le torture cui sono sottoposti, li vuole far soffrire più volte. Sono esseri raccapriccianti, pingui e perennemente in sovrappeso. Vivono all’interno di mostruose tensostrutture ad aria, campi da tennis in disuso o vecchie fornaci cui hanno divelto le ciminiere prima di dimorarvi. Si nutrono di frattaglie, scarti di macelleria e verdure sparse a terra dopo i mercati. Sono perennemente nudi ed escono solo durante le ore diurne. Il titolo provvisorio del libro è “Non è un Magritte”.

“Chi di voi ad occhi chiusi giurerebbe di trovarsi al buio?”

Perché indossa questi occhiali? Mentre il mio naso così appuntito sorregge questi occhiali, la mia vista è assorta in altre faccende: sonda al contempo realtà astratte, scollate, filtrate a malapena dalla coscienza. Gli occhi riposano e facendolo nutrono la mia immaginazione… Ricordate che la vista può trarre in inganno. Potete anche essere dei geni, ma il mondo riuscirà sempre a ingannarvi se fate affidamento solo sulla vista. Chi di voi ad occhi chiusi giurerebbe di trovarsi al buio? Dicono che lei porti sempre una lametta in bocca… Tutti dovrebbero portarla per tagliare le parole superflue. E non si respira ormai in giro che del superfluo. Cosa ne pensa del reality show? Stanno cercando di farvi perdere il senso della realtà. Guardatevi intorno. Il reality è tutto ciò che accade dietro la macchina da presa, non davanti come siete oramai abituati a credere. Il reality è quest’aria rarefatta, il colpo di tosse che ho appena fatto. E dei Social Network? Sono le giostre della nostra contemporaneità. Il lunapark del nostro subconscio, dove tutti proiettano il proprio per fini onanistici. È una forma di voyeurismo di se stessi e di ciò che si vorrebbe essere. Qual è la cosa più importante al mondo secondo lei? Non avere il bisogno di chiederselo.

“Vi hanno nascosto il dolore e quando arriverà non sarete pronti.”

Da cosa non si può sfuggire?

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Cinema e videoarte

L’ultima presa di coscienza italiana D

di Thomas Kharim

opo la fine della Grande Guerra il cinema italiano entra in una lunga fase di crisi, in cui si assiste a un calo verticale della produzione. Il regime di Mussolini, che ha preso il potere nel 1922, sulle prime non presta molta attenzione al cinema. La situazione si modifica radicalmente a partire dall’introduzione del sonoro. Nel 1932 viene istituita la Mostra del Cinema di Venezia, il primo festival cinematografico al mondo, mentre la successiva fondazione del Centro Sperimentale di Cinematografia (la scuola per la formazione di registi e tecnici) e, nel 1937, degli studi di Cinecittà, fanno del cinema italiano uno dei più avanzati in Europa. Il fascismo vede nel cinema una forma di promozione a livello internazionale, un luogo in cui dimostrare la “modernità” dell’Italia, che ambisce al ruolo di potenza industriale e militare. Non per nulla, per definire il cinema italiano degli anni Trenta si usa spesso l’espressione di «cinema dei telefoni bianchi»: il telefono bianco, che cosi spesso compare in questi film, in mano a dive bellissime, è simbolo di eleganza e tecnologia, icona di un’Italia ricca e moderna che esiste più sullo schermo che nella realtà. Il regime è interessato a un cinema di alto livello professionale, in grado di competere con le pellicole hollywoodiane. Ma la maggior parte dei film sono opere di puro intrattenimento. Si inizia a discutere di un «ritorno a Verga», di un recupero della tradizione realista italiana in opposizione alla rimozione della realtà della vita del Paese che era stata operata dal regime. Si tratta, insomma, dei primi germi del neorealismo. Non per nulla, film come Quattro passi tra le nuvole (1942) di Blasetti, I bambini ci guardano (1943) di De Sica e, soprattutto, Ossessione (1943) di Luchino Visconti, che anticipano il neorealismo, in quanto raccontano una dura realtà sociale e/o psicologica, vengono realizzati quando il fascismo è ancora in piedi. Il neorealismo cinematografico italiano non ha avuto una lunga vita. Si è manifestato solo per una breve ed intensa stagione, se come molti sostengono la sua spinta propulsiva si è esaurita tra il 1945 di Roma città aperta di Roberto Rossellini e il 1948, con l’uscita di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica e di La terra trema di Luchino Visconti. Risulta però piuttosto difficile

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stabilire una fine. Con Ossessione (1943) di Luchino Visconti, alcuni romanzi, quali Gli indifferenti di Alberto Moravia del 1929 e Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro del 1930, viene messa a punto una scrittura pienamente legata all’esperienza del reale, al contempo non scevra da suggestioni psicoanalitiche, e soprattutto lontana in modo radicale da forme di perfezione linguistica, grazie all’utilizzo di una lingua contaminata con idiomi stranieri e linguaggi settoriali. Seguire da vicino la realtà significa dunque prospettare un cinema per nulla sceneggiato, ma vincolato in maniera esistenziale al solo momento rivelatore e sacro della ripresa. A Zavattini-De Sica si affiancano infatti, in questa ricca polifonia di personalità, le figure di Roberto Rossellini, di Luchino Visconti e di Giuseppe De Santis. Quattro punti di vista distanti, quattro posizioni a volte in netta contrapposizione e soprattutto con formazioni differenti: Rossellini arriva al neorealismo dopo aver fatto film di propaganda fascista, Visconti; dietro al quale c’è l’esperienza come assistente di Jean Renoir, fa leva su una profonda conoscenza della letteratura e del teatro americano, delle arti figurative e della cultura europea del decadentismo; De Santis arriva da una vivace militanza nella critica e dall’impegno, durante la guerra, nelle fila della Resistenza, mentre De Sica può vantare una grande esperienza d’attore. Per quanto riguarda la coppia Zavattini-De Sica, essi procedono verso una riduzione, quasi una minimalizzazione, dell’intreccio narrativo, favorendo i tempi morti, valorizzando il gesto minimo della quotidianità, «pedinando» l’individuo nella sua semplicità. Anche Rossellini cerca l’impatto tra macchina da presa e flusso delle cose. Anche i suoi film sono mossi da un intento divulgativo della realtà. L’umanità pervasiva del cinema di Rossellini, il suo insistere sull’uomo come cardine di una storia dove sostanzialmente non esistono né buoni né cattivi. Rossellini rivela un’attenzione inusuale alle piccole cose, ai fatti insignifican-

ti, alla realtà così come si offre all’improvviso. L’obiettivo è quello di fare «film a basso costo realizzati fuori dai teatri di posa e parzialmente sganciati dagli interessi e dai condizionamenti dell’industria». Lo stile di Luchino Visconti sembra allontanarsi notevolmente dai parametri neorealisti così come si sono delineati per i precedenti autori. In primo luogo per Visconti la distanza tra il momento dell’ideazione del soggetto e la fase finale di edizione del film è molto ampia: tutto il materiale destinato all’immagine è sottoposto a un preventivo processo di selezione ed entra a far parte del film solo in quanto strettamente necessario. Nulla viene lasciato al caso. Anche per La terra trema, film emblema di un’apparente spontaneità, il rapporto con i pescatori siciliani protagonisti è frutto di un lungo processo di elaborazione tanto a livello recitativo quanto a livello di presenza scenica per l’inquadratura. Visconti ricorre spesso a fonti letterarie come soggetti per i propri film. Questo lo porta ad allontanarsi dalla totale aderenza al presente. Giuseppe De Santis ha cercato, all’indomani della Liberazione, di costruire un cinema per il popolo che avesse come protagonisti figure di reduci, mondine, contadini uniti in cooperative e fosse capace di appassionare alle storie avventurose quelle stesse platee popolari che nel frattempo disertavano le proiezioni di Germania anno zero e Umberto D. Riesce a comporre film, pensiamo solo a Riso amaro (1949), con una forte carica innovativa e densi di riferimenti riconoscibili dal popolo. In primo luogo esiste forte la comune volontà di ampliare l’orizzonte del visibile cinematografico: sullo schermo vengono promossi soggetti e situazioni marginalizzati dal cinema precedente. I film neorealisti sanciscono la visibilità di realtà estremamente quotidiane, fatte di personaggi e ambienti fino a quel momento esclusi dalla scena.

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Cambio di Cappello Max Linder e l’avvento del sonoro

I

l profilo umano e professionale di Max Linder - Gabriel-Maximilian Leauville - si snoda attraverso una serie di piccoli curiosi aneddoti, gli stessi per cui val la pena tutto. O quasi. Conobbi questo straordinario artista in un periodo in cui, da studente, ero molto attratto dal cinema e, a seguito d’illuminanti lezioni, volli un giorno saperne di più partendo dal profilo storico di questa roteante forma d’arte. Acquistai così un libro che mi avrebbe fornito le necessarie informazioni. Era un libro sobrio, lineare. A pagina 39 lessi: “Quando Andrè Deed abbandona la Pathé nel 1905, un altro comico gli succede: Max Linder. Con lui si passa dalla gag alla psicologia e alla comicità di situazione”. Ultimata la lettura, decisi di percorrere a ritroso la vita di questo comico, che da quel giorno mi s’impresse addosso come l’immagine del violinista di Chagall che danza tra le case; ad oggi, quando penso a Max Linder, vedo un ometto col cilindro che, con un frac verde ossido, bastone alla mano, tutto pieno di cenere e detriti, sogghigna accigliato intonandomi la canzone del buio e della miseria umana. Tale deprimente visione può scaturire da un attore comico quale Linder era, se non s’ignora quanto segue: Max Linder esisteva quando La Pathé e la Gaumont erano le case francesi di produzione e diffusione di prodotti cinematografici più grandi e operose del mondo. In America a quel tempo (appena cento anni fa o poco più) il cinema non c’era ancora e i pesci piccoli (le case indipendenti), incalzate dal monopolio della casa Edison (il pesce grande), dovevano ancora trovar riparo in quel posto conosciuto oggi da voi e da tutti come il luogo delle meraviglie e delle macchine decappotabili: Hollywood, California. Linder diede prova presso la Pathé di essere tutto sommato un artista raffinato: di formazione teatrale, egli si ritrovava a rimpiazzare il suo collega Andrè Deed e a dover fornire allo spettatore una fresca, fulvida alternativa alla comicità di tradizione circense delle torte in faccia e delle gag esilaranti. A ogni frase scritta, riapro lo stesso libro di allora alle stesse pagine e l’omino verde seguita col suo ballo macabro: sarà forse il trasporto del momento, ma in tutta franchezza, al contrario di quanto mi accade con quasi tutti i bravi della storia con la loro onta di fiducia ed intoccabilità, non ricordo Linder se non attraverso l’indelebile, miserabile immagine dell’ uomo scarnito, col cilindro di traverso, aberrante e malinconico. Sospeso in aria come un dardo. Esibito al pubblico esanime e sghembo, egli è l’emblema un po’ retrò del primo cinema: il cinema muto. Max sembra funzionare, egli interpreta un signorotto

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r ia to i e s im ev in Br ei m d

Cinema e videoarte

di Denis Bachetti

austero coinvolto, suo malgrado, in situazioni comiche; le sue pellicole sono un successo e lo proiettano in pochi anni in un palcoscenico alato che fa spola tra l’Europa e l’America. Mentre il Titanic affondava implacabile, Max sorvolava il mondo dall’alto della sua enorme popolarità. Di questi anni le pellicole Vicino e Vicina (1910), Max e le nozze (1911), Max e la china (1911), Max convalescente (1911). In Francia ha carta bianca in fatto di scelta dei soggetti e delle regie dei suoi film, l’America lo aspetta e tutto sembra andare per il verso giusto proprio quando la guerra, letale guastafeste, lo strappa al cinema per due lunghi anni (1912-1914), per restituirlo alla gente malato, frustrato, depresso. Le schegge delle granate e i gas asfissianti inalati durante le campagne belliche compromettono seriamente la sua salute e d’ora in poi Max sentirà in corpo un divario incolmabile tra sé e il personaggio della gente. L’eroe del cinema muto cade soggiogato da un doppio scherzo del destino: lui, 400 film con la Pathé e cento ancora da affrontare, il suo cilindro e quell’aria signorile, le gag indimenticabili dei tempi buoni nel torbido walzer di una malattia irrefrenabile, lacerante, sacrilega. Il palcoscenico scricchiola, il proscenio cede sotto i suoi piedi e Max Linder muta in Charlie Chaplin. Il cambio di cappello ha luogo: quando torna dal fronte Max Linder trova il nuovo eroe che gli ha rubato la scena, che molto da lui ha imparato e che, ben rodato, saprà dar vita ad

una folgorante carriera, la stessa forse che Max non avrebbe disdegnato. Storicamente la prima pellicola con audio sincronizzato alla cui proiezione a pagamento si poté assistere ebbe luogo in America nel 1926; Linder, sotto contratto con la Essenay a Hollywood, firmava sei lungometraggi, alcuni dei quali di grande rilevanza: Sette anni nei guai, 1921; Vent’anni prima, 1922; Siate mia moglie, 1922; prima della definitiva resa, il prodromo del nuovo mondo che lo falciò come la malattia: l’avvento del cinema sonoro. Max Linder morì a Parigi in circostanze poco chiare. Lo trovarono esanime vicino al corpo della moglie diciassettenne, della cui morte, dicono, fu responsabile. Era la notte di Halloween e indossavano entrambi un vestito scarlatto, ma questo ha tutta l’aria di un finale costruito. Un finale carino, da cinema di oggi. Credo non lo meritasse.

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Cinema e videoarte

di Emidio De Berardinis

L

o spettacolo digitale ha cannibalizzato le altre forme di spettacolo. L’ibridazione è il risultato della fusione dei linguaggi e dei codici “nuovi”. La narrazione è stata frantumata in eventi; la rottura della linearità è la risposta alla coscienza del soggetto “non lineare”. Non si segue più un fine, la struttura attanziale non è più norma e caratteristica principale della narrazione. Lo spettacolo digitale vuole raccontare un evento, il passare del tempo, le modificazioni spaziali e liberare le possibilità. L’arte dello spettacolo digitale è lo scarto tra dionisiaco e apollineo, lascia parlare il corpo, il gesto, il movimento, l’espressione, il perturbante. Quanto l’influenza del digitale, delle telecamere di sorveglianza e della televisione, abbiano influito su questa rottura della narrazione lineare è evidente, l’attore perde la sua predominanza scenica. Gli oggetti hanno la stessa importanza dei corpi che perdono vita (non è forse il digitale a ridurre una realtà qualsiasi, anche organica, ad un numero?), e lo spazio è parte dell’attore, dello spettatore, dell’oggetto. Non più uno spazio-topos (il teatro), ma uno spazio

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che può essere anche la strada, l’ufficio, una chiesa (“Ocean without a shore” – Bill Viola), qualsiasi luogo. Qui l’influenza dell’happening. Come un’ evoluzione della ricerca dell’arte del Novecento tra figura e ambiente, gli spazi si intrecciano, i livelli si fondono, sia da un punto di vista spaziale, sia a livello temporale. Non più una concezione “classica” di tempo e spazio: il tempo perde il suo valore “ordinatore” e “sequenziale”. È un tempo frammentato, esposto al peso della relatività, non ci sono più un prima e un dopo, ma “immagini cristallo”, “immagini tempo”. Il tempo è la durata di un evento, di una modificazione; può durare per sempre o essere impercettibile e dilatato, velocizzato, rarefatto. Presente e passato convivono, sono presenti nello stesso luogo o non luogo. Così come lo spettatore. Può rimanere fuori dall’evento e “guardare fuori dalla finestra” come nell’ opera-mostra di Maurizio Cattelan (la fuga dell’artista al castello di Rivara), ma è comunque parte dell’opera (Rirkrit Tiravanija). Dopo l’ happening è lo spettatore colui che rende possibile l’opera; è lo spettatore l’opera che si fa scena, il pubblico nel momento in cui interpreta dà valore e contesto all’avvenimento (o al non avvenimento) (Dominique Gonzales-Foerster). Nello spettacolo digitale forme narrative come spazio e tempo, ma anche lo spettatore, sono come “liberati” dalle possibilità, nelle possibilità, e spariscono il dentro e il fuori, il performer e lo spettatore, l’ora, il già stato e il sarà. I vecchi media sono presenti e attivi. Gli spettacoli hanno luogo in vecchi cinema, ad esempio, utilizzano proiettori o televisori in scena, giornali come materia per le sculture, etc. L’evento digitale non ha scartato i vecchi linguaggi. Nell’era della post-produzione dove l’artista è il DJ e il programmatore, comunque colui che si riappropria della cultura, il mixage è il montaggio materico, spaziale e temporale dell’evento estatico (Douglas Gordon). Non una sostituzione, dunque, ma una riconfigurazione, una decontestualizzazione funzionale, un passaggio da una convenzione ad un’altra.

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EN S IO N I R EC

An American Pastoral - Paul Ferrara Jim Morrison studiò cinema alla UCLA prima di abbandonare e dedicarsi ai Doors. Qualche anno dopo mise insieme una troupe di amici (Ferrara, Lisciandro e Hill) per realizzare un film: è il 1969, momento in cui le major hollywoodiane (e la società americana in generale) affrontano la prima grande crisi ed emerge in modo deciso anche in America una cinematografia giovane e indipendente. È la prima generazione americana che, avendo completamente assimilato la lezione delle “nouvelles vagues” europee e del cinema d’autore internazionale, voglia fare dei film d’arte. In effetti, si tratta di un film sperimentale, stilisticamente all’avanguardia (largo uso di teleobiettivo e jump cut) e narrativamente ambiguo: nonostante possa essere considerato il viaggio di un vagabondo dal deserto alla città, metaforicamente interpretabile come il viaggio dell’eroe/

sciamano – lettura rafforzata dalla narrazione in voice over di Morrison del celebre episodio riguardante l’incidente sull’autostrada cui assisté da bambino – il film non ha una vera e propria trama, come lo stesso protagonista dichiarò. Ad accentuare il carattere sperimentale comune a molti film americani coevi sono la quasi totale assenza di dialogo e il finale aperto: il film è chiaramente non finito, e solo poiché fu proiettato a un festival l’anno successivo, poté essere considerato un’opera conclusa. Non uscì mai nelle sale né tantomeno in home video. di Edward Ray Davies

Il petroliere - Paul Thomas Anderson

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ulla scia di Oil! (1927) di Upton Sinclair, in There will be blood (titolo originale certo più convincente de Il petroliere), capolavoro visionario di abbagliante bellezza figurativa, è raccontata l’ascesa (e, si badi bene, non la caduta) di Daniel Plainview, spregiudicato cercatore d’oro nero interpretato da un grandioso Daniel Day Lewis. Ossessionato da una smisurata ambizione mefistofelica e sempre più incline al delirio, Plainview, antieroe del sangue e della terra, trionfa non solo sui miserevoli burocrati delle grandi compagnie petrolifere, ma anche sul fanatico leader spirituale della piccola comunità californiana di nuova trivellazione. Da qui l’emergere della più bruciante antinomia a stelle e strisce — risolta nei termini di un conflitto titanico — tra epopea western e integralismo religioso. Ci sarà sangue, appunto, quale barbara conciliazione di due etiche solo apparentemente antitetiche,

in realtà facce della stessa medaglia: l’umana “volontà di potenza” che parimenti contempla neocapitalismo laico e fanatico collettivismo misticheggiante. Evidente che la più urgente attualità si manifesta, al solito, nelle strutture archetipiche. di Domenico Pantone

La sottile linea rossa - Terrence Malick Dopo vent’anni da I giorni del cielo (1978) e venticinque da La rabbia giovane (1973), Terrence Malick torna sul grande schermo con il suo capolavoro definitivo, secondo il parere di chi scrive: un’opera panteista che sembra stridere al contrasto tra la location, una lussureggiante natura indifferente alle ragioni dei personaggi che vi si muovono dentro, idilliaca anche nei momenti più cruenti; e il contesto socio-culturale: soldati americani del calibro di James Caviezel, Sean Penn, Nick Nolte, Adrien Brody, John Cusack, John C. Reilly, George Clooney, Jared Leto, John Travolta ed altri, partecipano alla presa dell’isola di Guadalcanal da parte delle forze alleate segnando così una dura sconfitta alle forze dell’Asse. Ma ciò che risalta ad una prima visione è subito la completa assurdità della guerra, in totale disaccordo con le meraviglie della flora locale.

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Spettacolare è infatti la fotografia, per la quale ebbe la nomination, insieme a “film”, “regia”, “sceneggiatura non originale”, “montaggio”, “sonoro”, “colonna sonora per un film drammatico”. Ebbe però anche la sfortuna di dover gareggiare con Salvate il soldato Ryan di Spielberg che adombrò ingiustamente il futuro autore di Il nuovo mondo (2005). Insomma, un film sicuramente da vedere. Il titolo, tratto dall’omonimo romanzo di James Jones, sembra essere l’unica cosa rimasta in comune dopo l’adattamento del regista e calzare meglio alla luce del verso di Rudyard Kipling: “Tra la lucidità e la follia c’è solo una sottile linea rossa.” (Tommy). di Stefano Tassoni

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EC R I

N IO S EN

Niente da nascondere - Michael Haneke Che ci sia proprio il cinema dietro quelle videocassette anonime minacciosamente recapitate a Georges Laurent (Daniel Auteuil) non parve ipotesi peregrina nemmeno a Roberto Escobar (“niente è vietato alla sua onnipotenza, nell’universo separato che è ogni film”). Tormentato dall’invio di misteriosi piani-sequenza che riproducono immagini quotidiane della sua vita privata, Georges, critico letterario per la televisione, è costretto a un’accidentata quanto infruttuosa anamnesi di un funesto misfatto infantile. La “quest” psicoanalitica percorsa dal protagonista, innescata dal mezzo filmico, non trova però sbocco in un’auspicabile “renovatio animi”, ma rimane impelagata nell’ottusa ostinazione di un uomo tragicamente immaturo. Lungi dal ricomporsi nella sintesi catartica di una serena consapevolezza, insomma, la

drammatica disarmonia umana non sa riconoscersi e resta demistificata senza appello, nella sua orrenda meschinità. di Domenico Pantone

Zodiac - David Fincher Originale rievocazione dell’assassino seriale che terrorizzò la San Francisco Bay a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, piuttosto che il parto ben riuscito di uno dei più contraddittori artisti/artigiani hollywoodiani, Zodiac è una sobria e onesta decostruzione di un genere ad alta spettacolarizzazione, encomiabile per l’ardimentosa rinuncia alla tirannia gnoseologica del mezzo cinematografico che stavolta, pur tra mille compromessi, restituisce nella loro interezza gli accidentati sentieri della realtà. Evidente che il valore (e la novità) della scommessa non risiede tanto nella proposta di un insolubile groviglio di aporie indiziarie e ordinari detectives che girano a vuoto, ma, bandito ogni esibizionismo, nella limpida onestà della messa in scena e del sobrio piglio narrativo. Se il caso Zodiac, con il passare degli anni, retrocede dalle prime pagine alle

brevi della cronaca locale dei quotidiani californiani, la cinepresa resta docilmente impassibile, lasciandosi confondere e imbrogliare senza mai alzare la voce. di Domenico Pantone

Il settimo sigillo - Ingmar Bergman “Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri?” Antonius Block, di ritorno dalla Terra Santa, viene accolto da una Danimarca devastata dalla peste e si pone questi interrogativi quando, sulla spiaggia, incontra la Morte. Egli non è pronto per lasciare la vita, così intraprende con Lei una partita a scacchi, una battaglia che gli consenta di trovare il tempo necessario per prepararsi al passo. “Non credi che sarebbe meglio morire?”, domanda la Morte. Egli, però, non sa accettare: incapace di aver fede, teme il nulla. “Vorrei confessarmi – afferma – ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare [...] Vi

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leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini di incubo nate dai miei sogni e dalle mie fantasie”. A sbloccare la situazione sarà l’incontro con dei saltimbanchi che non hanno sfidato la Morte, ma sono riusciti ad ignorarla, a non curarsi della peste, perché ebbri di sentimenti diversi. Diretto da Ingmar Bergman nel 1957, “Il settimo sigillo” non rappresenta il rapporto dell’uomo con il trapasso, ma la difficoltà di accettare quest’ultimo in assenza di fede. Non a caso il film è ambientato nel ’300, un’epoca caratterizzata dalla “crisi delle certezze” che si fa parabola dei nostri tempi. di Giorgia Tribuiani

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Tonino Guerra I retroscena Intervista a

della sceneggiatura

di Stefano Caselli e Davide Valentini In collaborazione con la Fondazione E. di Mirafiore Screenshot estrapolati dal documentario realizzato da Andrea Icardi, Igor Mendolia e Francesca Vaccaneo. Producer: Filippo Taricco e Francesca Tablino

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uest’anno al festival “Collisioni” abbiamo parlato di vite parallele, persone, esperienze artistiche che corrono l’una accanto all’altra, si intrecciano. La storia di Tonino Guerra è una storia di grandi intese creative: Antonioni, Tarkovski, Francesco Rosi, i fratelli Taviani, Angelopoulos. E Fellini naturalmente. Fellini era di Rimini, io di Santarcangelo. Lui era della città ed io della campagna, a dieci chilometri. Ma il nostro incontro è avvenuto a Roma. Fellini mi ha aiutato molto nel lavoro, nei primi tempi, quando facevo la fame. Ed è stato un gesto di grande amicizia. Sono passati molti anni ed è venuto il tempo in cui abbiamo fatto insieme Amarcord, ricordando la nostra infanzia. Si sono inventati un sacco di balle sul titolo. Per trovare un titolo al film, nemmeno immaginate quanti giorni siamo rimasti a pensarci. Si navigava attorno a ipotesi come il Piccolo Borgo, Il borgo di Campagna. Poi un giorno dicemmo: “Qual era quell’aperitivo che andava di moda e che le persone ricche compravano? Mi dia un Amaro Cora. Un Amaro Cora… Ecco, Amarcord.” Tanti episodi; come la scena che tutti gli sceneggiatori del mondo m’invidiano. Quella del matto che dice “Voglio una donna!”, sapete, è venuta da Torino. Un giorno, leggendo La stampa, fui attirato dalla notizia di un pazzo a Torino affacciatosi una domenica dal balconcino del suo manicomio che aveva cominciato a gridare “Voglio una donna!... Voglio una donna!”. Io intanto avevo scritto la storia di un uomo che saliva su un albero e gridava. Ed è così che nacque quell’episodio del film. Lei ha lavorato con i più grandi maestri del cinema internazionale ed erano personalità molto diverse tra loro, con poetiche molto differenti. Immagino che con ognuno lei abbia dovuto trovare un modo per lavorare, un’affinità creativa... In realtà erano loro che trovavano in me qualcosa da utilizzare. Ricordo una conversazione tra Fellini e Tarkovski. Uno di loro ha detto: “Ma sai, noi registi prendiamo sempre dei brandelli di un poeta”. Per questo dico sempre ai giovani: “Non scrivete sceneggiature o soggetti, sono inutili, dovete scrivere racconti, dimostrare che siete capaci di scrivere per conto vostro”. Io con Fellini, ma anche con Antonioni e Tarkovski, cominciavo a lavorare senza che nessuno di noi avesse la minima idea di quello che avremmo raccontato nel film. Le cose nascevano insieme, incontrandoci. Ho sempre avuto massima libertà creativa con


Cinema e videoarte

loro, un rapporto alla pari. Una cosa che non piaceva a me, non si faceva. E viceversa. I litigi, poi, erano esplosivi. Per esempio con Antonioni in America, mentre lavoravamo a Zabriskie Point, si rasentò quasi la follia. Un giorno Sam Sheppard, che allora era giovanissimo e veniva lì a imparare, è uscito da casa dicendo: “Quei due sono pazzi, stamattina hanno rotto un armadio mentre litigavano sul film!”. Nella miriade d’incontri che hanno costellato la sua vita, ce n’è uno che non posso fare a meno di ricordare: quello con Ennio Flaiano, con cui lei ha collaborato a La Notte di Antonioni. Credetemi: nessuno parla come si deve degli sceneggiatori. Si parla del cinema italiano e non degli sceneggiatori. Prendete Sordi, per esempio: senza Sonigo non sarebbe esistito. Così Fellini non poteva fare 8½ senza Flaiano. In La Notte di Antonioni, la lettera finale scritta da Flaiano ha qualcosa di magistrale. Ricordo che, in quel periodo col regista, passavamo il tempo a giocare sul pavimento di casa sua. Perché con lui non si sceneggiava in modo convenzionale, si passava il tempo a giocare. E s’inventavano giochi, come vincere a tirare una palla di carta in un cestino. Appena ci incontravamo al mattino, lui chiedeva: “Che gioco facciamo oggi?” Ed erano giochi terribili. Ecco perché rompevamo i mobili! Sul pianerottolo della mia casa di Roma, per esempio, gareggiavamo a chi arrivava primo nell’appartamento, che era al quinto piano, lui di corsa, il grande tennista, e io con l’ascensore. Correva così veloce che quando aprivo la porta dell’ascensore lo trovavo già dentro casa. Prendeva molto sul serio i giochi ed era molto competitivo. Mentre scrivevamo La Notte, il nostro gioco consisteva nel tirare una pietra piatta sul pavimento di marmo di casa sua e nel centrare le strisce oblique. Un bel giorno arrivano i produttori dalla Francia dicendo: “Siamo pronti per girare”. Lui dice: “Sì sì, stiamo finendo”. Non avevamo scritto una sola riga, così telefonammo spaventati a Flaiano. Era un uomo spiritoso al massimo, tutta Roma andava avanti con le sue battute. Un uomo di un’intelligenza folle. Anche un uomo che si portava dentro un dolore enorme, però, per via di sua figlia paralizzata che viveva con lui. Poi purtroppo è morta. Un po’ come tutta Roma andava avanti con le

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battute di Flaiano, una buona parte d’Italia, compresi noi che siamo nati dopo, è andata avanti con l’immaginario erotico di Amarcord. Questi personaggi, la Tabaccaia, la Gradisca, la Volpina, le mogli del Sultano, come sono nati? Che tipo di rapporto c’era tra lei e Fellini? Un rapporto sincero, il rapporto tra due romagnoli! Ho centinaia di ricordi con lui. Spesso ci facevamo insieme una passeggiata. E un giorno abbiamo visto dalla vetrina di un barbiere due poltrone libere, siamo entrati e ci siamo seduti. Il barbiere ha chiesto: “Barba o capelli?”. “No, niente ci stiamo solo riposando”. “Ma ragazzi, queste sono le poltrone di un barbiere!”. “E dai! Dieci minuti, un attimo di riposo!”. In un’altra occasione, siamo entrati in una bottega, dove vendevano cravatte. Il problema di Federico sono sempre stati i capelli. Non riusciva mai a tenerli a posto. Entrando in quel negozio chiese: “Avete dell’unguento per capelli?”, e il commesso “No, qui vendiamo cravatte”. E Federico: “Va bene, prendo la cravatta. Mi piacciono le cravatte. Voglio questa, quant’è?” “Venticinque”. “Facciamo Venti”. “Il prezzo è fisso, non si può”. “Come non si può? Noi veniamo dalla campagna. In campagna il prezzo lo trattiamo sempre. Facciamo ventidue”. “Ma qui non funziona così”. “Va bene, me la dia”. Lui gli dà la cravatta e Federico paga trenta. “Scusi e il resto?” E lui: “Se devo pagare un prezzo fisso, almeno voglio deciderlo io!”, quindi se n’è andato. Di queste cose ne avremmo fatte a migliaia. Ne ricordo una in particolare quando arrivò a Roma una giornalista tedesca, un donnone che doveva intervistare Fellini. Io ero stato prigioniero in Germania durante la guerra, gli dissi allora: “Traduco io”. Non sapevo un cazzo di tedesco. La giornalista fa la prima domanda ed io traduco: “Ultimamente è andato a letto con molte donne?”. Lui fa un salto sulla sedia: “Com’è possibile che mi abbia chiesto una cosa del genere?” Ed io: “Cosa posso fare io, se non tradurre? Lascia stare e rispondi” Siamo andati avanti un’ora. C’era da morire. Amarcord ci ha regalato l’immaginazione. Ginger e Fred ci ha profetizzato l’Italia che entrava nell’era della pubblicità e del Cavalier Lombardoni. In Ginger e Fred quel che colpisce veramente è la presenza di un Mastroianni davvero potente. Guardatelo bene. Questi due ballerini di campa-

gna finalmente hanno l’occasione di esibirsi in televisione. C’è quel momento prima del loro numero con tutte quelle ballerine intorno, una scenografia che loro nella vita non avrebbero mai sognato. Mastroianni è lì, in attesa, e ha paura. Gli brillano gli occhi per l’emozione. Lei è più composta, più sicura di sé. Da un momento all’altro lo spettacolo avrà inizio. Poi finalmente attacca la musica. Ma Mastroianni al primo passo subito cade. E lì non cade un uomo, cade l’umanità contadina, cade l’umanità povera, cade questa bellezza, questa ingenuità. È una cosa grandiosa, questa caduta. Non cade Mastroianni. Cadiamo tutti noi. Che cosa direbbe oggi a un giovane che volesse intraprendere la carriera di sceneggiatore? Dico di non seguire la mia strada. Viviamo in un momento terribile. Noi siamo stati fortunati. Venivamo dal Dopoguerra, quando la sofferenza era di tutti. E le storie avevano qualcosa di universale, il ritorno del soldato dal fronte, che fosse russo, inglese o italiano. Avevamo un sogno collettivo. È vero che i grandi temi tipo: “Perché siamo al mondo? Dove andiamo a finire? Chi siamo?”, restano universali. Ma questi non interessano più a nessuno. Leggendo le sue opere, e anche sentendola parlare, mi pare che lei abbia un rapporto privilegiato con il paesaggio. E con la natura, ovviamente. Io sono un uomo che non vorrebbe avvelenare l’aria e l’acqua come si sta facendo oggi. Ritorniamo ad avere devozione per la terra, a capire che tutto dipende da lei! Amiamo l’orto! Io amo l’orto, non il giardino. E alle persone anziane (come me) vorrei dire: “Non fatevi i giardini all’inglese vicino a casa, fatevi l’orto!”. Perché una persona anziana ha bisogno di veder crescere l’insalata, che nasce, che muore qualcosa. Cerchiamo di avere un rapporto con la natura. La cattiveria dell’uomo è incalcolabile. Fermiamo questa cattiveria. Qui vicino, nell’orto, è da stamattina che vengo a vedere un giovane albero fiorito, un piccolo melo che non aveva mai fatto niente. E adesso improvvisamente si è riempito di fiori tanto che non riesce più a stare in piedi. “Non esagerare”, gli ho detto passandogli accanto.

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Nereto: Residenze e locali commerciali a partire da 1100 euro al mq!!! Valutiamo la locazione finalizzata all’acquisto con recupero degli affitti pagati fino al momento del rogito notarile

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Teatro

L’origine della bollywood dance N di Isabella Costerman

Danzatrice: Lucrezia Maniscotti Fotografo: V. Santosh Raj

Danzatrice: Vijna Vasudevan Fotografo: Babu

Danzatrice: Vijna Vasudevan Fotografo: Babu

Danzatrici: Lucrezia Maniscotti e Deepa Baba Fotografo: Anna Volpicelli

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ella musica, così come nel cinema, nel teatro e nella danza, si sta diffondendo un fenomeno chiamato “fusion”, che consiste nel miscelare diversi stili alla ricerca di un rinnovamento che a volte si fonda su tradizioni già radicate. Sempre di più l’Occidente attinge dall’Oriente, pozzo ricchissimo di storia e tradizioni, ed è così che è nata per esempio la musica New Age, che prende in prestito dall’India alcuni canti religiosi chiamati bajan (preghiere cantate e suonate) per reinterpretarli e mescolarli ai suoni della natura, arrivando a creare musiche dall’atmosfera spirituale. Al contrario, il cinema indiano vorrebbe creare un’industria simile a quella americana; così, per citare Hollywood, è fiorito e prospera a Mumbai lo stile Bollywood. Milioni sono i film prodotti ogni anno, tutti caratterizzati, oltre che da trame semplici e sentimentali, da una particolarità: la presenza della danza e della musica. In effetti, queste arti fanno parte della grande tradizione culturale dell’India, Paese che spicca per la sua capacità di fondere le tradizioni, al fine di creare contesti, situazioni e linguaggi moderni. A tal proposito, non tutti sanno che le danze rappresentate in questi film attingono alle danze classiche indiane. In particolare si basano su discipline molto antiche, come la danza Kathak, tipica del nord dell’India, conosciuta in Occidente per il suo legame con il flamenco (si dice che la danza spagnola abbia avuto origine dalla fusione di danze gitane indiane). Ma un’altra fonte per i balletti Bollywood è la danza Bharata Natyam, uno stile classico che si sta diffondendo sempre più in tutto il mondo. Si tratta di una forma di teatro danzato e cantato in cui le azioni mimiche non sono lasciate al caso o all’invenzione degli attori, ma sono fissate da un testo o partitura. Questa danza ha, secondo il mito, un’origine divina e si è sviluppata all’interno del Tempio più di 2000 anni fa, come strumento di comunicazione tra la divinità e il popolo. Alcune fanciulle venivano offerte al Tempio e diventavano devadasi, cioè danzatrici sacre che si dedicavano al canto, alla musica e alla danza. Attraverso queste arti rivelavano al popolo le storie della mitologia indù, trasferendo gli insegnamenti dei Veda (i testi sacri dell’Induismo). La danza Bharata Natyam che si studia attualmente è frutto di un recupero della tradizione compiuto all’inizio del XX secolo grazie alla studiosa e danzatrice indiana Rukmini Devi che, attraverso un attento lavoro con importanti maestri depositari di quest’arte, ridefinì la disciplina. È un’arte complessa e regolata da una tecnica molto rigida, che richiede lo svuotamento della mente. Esattamente come per la meditazione, tanto da essere definita “yoga in movimento”. Per informazioni su spettacoli e scuole di danze indiane in Italia: www.danzeindiane.com

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Teatro

L'uomo che divenne maschera, la maschera che divenne Nobel, il Nobel che divenne mito INTERVISTA A DARIO FO Lei sostiene che l’unica vera regola della satira sia “non avere regole”. Quali sono, invece, i limiti e le regole della satira da un punto di vista “di genere”? Quando si fa del teatro satirico, bisogna prima di tutto partire da un fatto drammatico, anche se poi lo spettacolo diventa comico. La base del teatro, e in particolare della satira, è costituita dal dramma: la satira deve andare contro l’ipocrisia, la violenza, la cancellazione della giustizia, l’abolizione dei diritti dell’uomo e della donna. Si tratta di momenti tragici che poi si capovolgono nel gioco del grottesco: è a quel punto che subentra l’elemento provocatorio, il capovolgimento della logica; si prendono consuetudini e luoghi comuni, li si capovolge e li si fa diventare risibili. Quindi possiamo dire, in sintesi, che la componente tragica sia imprescindibile per la satira e che il riso non debba essere fine a se stesso. Quali sono, a suo avviso, gli altri elementi fondamentali che devono costituire uno spettacolo satirico? Un elemento importante è la capacità di togliere il pubblico dalla sua condizio-

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di Luca Torzolini e Giorgia Tribuiani ne di “guardone”: il pubblico non deve ritrovarsi, al buio, ad osservare come un guardone una scena alla quale non è stato invitato. Questa situazione è pericolosissima. Per evitarla, allora, si può ricorrere anche ad un coinvolgimento fisico del pubblico. Si tratta di utilizzare espedienti anche banali: se uno arriva in ritardo o starnuta in modo esagerato, se una donna ride in maniera particolare o si addormenta, coinvolgere il pubblico in questi fatti estranei alla scena diventa importantissimo e contribuisce a rompere la “quarta parete”. L’attore deve quindi puntare sul coinvolgimento del pubblico anche al di là della scena: lei ci ha parlato di fatti esterni che possono nascere “oltre il canovaccio” e che poi vanno valorizzati da parte dell’attore, che deve improvvisare. L’attore, comunque, può anche dare il “La”, stimolare la nascita di questi “fatti esterni”, giusto? Sì, l’attore può provocare certe situazioni. In questo i Comici dell’Arte erano bravissimi: fingevano che accadessero degli incidenti gravi, simulavano un incendio del teatro, un allagamento

(ad esempio a Venezia), un’improvvisa lite… C’è qualche particolare espediente, tra questi, che l’ha colpita particolarmente? Potrei fare l’esempio di un numero famoso, del quale però non abbiamo che una specie di canovaccio, che è quello

della vespa. In scena entra una vespa e comincia a mordere qualcuno e a dar fastidio agli attori che, per questo, non riescono più ad interpretare i propri personaggi: la presenza di questa vespa diventa così importante da capovolgere tutto lo spettacolo e da divenirne la chiave fondamentale. Dà anche il nome

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Teatro

allo spettacolo, che si intitola, appunto, La vespa. Tutto ciò che accade, invece, passa in secondo piano: gli innamorati che si lasciano, i personaggi che stanno male, eccetera.

efficacia. Un altro testo importante, russo, parla di un personaggio che inizialmente muore, ma che poi improvvisamente sale sul palco e dice: “Scusate, io non sono morto e tutto quello che avete raccontato di me è falso”. E allora lo Questi espedienti richiamano mol- spettacolo viene recitato nuovamente da to quelli del teatro futurista, dove lo capo, nella chiave di lettura che, tenendo spettatore finiva per diventare l’attore. conto del nuovo personaggio, corregge lo spettacolo visto fino a quel momento e lo svolge in maniera differente.

Esattamente. Il senso era sempre quello di provocare lo spettatore affinché prendesse posizione e magari arrivasse ad insultare l’attore, a smentire dei fatti o a salire sul palcoscenico. Anche Pirandello, con Sei personaggi in cerca d’autore, parte da quella chiave, nonostante poi lo spettacolo diventi letterario e perda di

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leggi che non permettono di parlare di determinate questioni o che non venga dato spazio ad alcune trasmissioni: è ciò che è accaduto, ad esempio, ad Anno Zero. Si crea, inoltre, un’altra cosa molto grave: l’autocensura.

Possiamo affermare, dunque, che il coinvolgimento del pubblico sia una componente essenziale e imprescindibile dello spettacolo? Il coinvolgimento è la chiave fondamentale del teatro: se un teatro non coinvolge, se non rompe la “quarta parete”, significa che non comunica; lo spettacolo, per essere efficace, deve attraversare quella parete che divide il pubblico dalla scena. Le maniere per arrivare a coinvolgere il pubblico sono multiple: una di queste è quella del “teatro di situazione”.

In conclusione, quale beneficio può apportare il teatro alla società, rispetto alla parola scritta? Il teatro, a livello sociale, dovrebbe affiancare la comunicazione giornalistica? Molti cardinali, molti vescovi pensano che il teatro sia una cosa quasi “immonda”: pensano che la parola scritta debba rimanere parola scritta. Se noi ostacoliamo il teatro, però, quel poco che viene letto da chi legge non basta. Col teatro, anche coloro che non si interessano di politica possono venire a sapere cosa sta succedendo: il teatro viene a far parte del gioco della comunità; lo spettacolo riesce a coinvolgere molta gente, una società intera. È per questo che non bisogna proibirlo.

Rimanendo in tema di “satira”, a questo punto, vorrei chiederle come se la passa oggi con la censura. Essenzialmente noi non abbiamo una censura diretta: le leggi che abbiamo non permettono al potere di censurare. Accade però che alcuni programmi siano cancellati, che siano promulgate delle

Foto: www.archivio.francarame.it

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Musica

Fa b r i z i o

De André

L ’ u o m o

dietro

I

il cantautore

l Bigo a Genova ormai lo conoscono tutti. Ispirato alle forme delle gru sulle navi mercantili, il Bigo è un’attrazione turistica, un maestoso ascensore panoramico ai piedi del porto antico. Il costo del biglietto è un’inezia, si sale ed è possibile contemplare dall’alto tutta la città. Dopo dieci minuti si torna giù. Fu progettato da Renzo Piano e realizzato nel 1992 per il cinquecentenario della scoperta dell’America. Genova era frizzante in quelle settimane, l’inaugurazione del Bigo apriva un mese di festeggiamenti in tutta la città. Fu chiesto anche a Fabrizio De André di tenere un proprio concerto per celebrare la ricorrenza. In realtà quel concerto non ebbe mai luogo. Fabrizio declinò l’invito bruscamente; del resto, non era mai stato innamorato del microfono, dell’esibizione.“Non c’è un belìn da festeggiare” diceva. “Almeno per quanto mi riguarda sarò vicino agli indiani d’America e ricorderò insieme a loro quello che considerano il giorno del più grave lutto nazionale, portato avanti piccolo massacro dopo piccolo massacro”. Le sue canzoni preferiva cantarle sulle spiagge, sui monti, non dentro ai locali o sopra ad un palco. All’inizio della sua carriera, l’agiata condizione economica gli permetteva di poter fare a meno delle performance dal vivo, dei proventi derivati dai concerti. Nella metà degli anni Settanta, decise di acquistare un terreno in Sardegna per mandare avanti una sua azienda agricola, in modo tale poter continuare a scrivere in totale libertà creativa, senza dover tenere conto delle impietose classifiche di vendita. Diceva che l’agricoltura era il suo vero mestiere, perché era quella che gli dava concretamente il pane quotidiano. Le sue canzoni non le scriveva certo per il mercato, si pensi all’album Creuza de ma, scritto completamente in genovese antico, che poi genovese non è, perché contaminato dall’arabo e da altre influenze mediterranee. Quello stazzo a Tempio Pausania gli permetteva di non dover trarre sostentamento dal suo lavoro di cantautore, anche se tale acquisto ebbe una conseguenza inattesa. La tenuta dell’Agnata fu considerata, dai servizi segreti italiani, un potenziale rifugio per appartenenti ai movimenti extraparlamentari di sinistra e fu sottoposta a periodici controlli

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a distanza da parte delle forze di polizia. Perché prima di essere un pacifista, un cantautore o un agricoltore, Fabrizio De André è soprattutto un anarchico. Dalle letture approfondite di Stirner, in età giovanile, aveva apprezzato l’anarco-individualismo e dai dischi in francese di Brassens, regalatigli dal padre, aveva imparato a lasciar correre i ladri di mele. “Brassens, per quanto mi riguarda, è stato soprattutto, prima ancora che un maestro d’espressione, un maestro di pensiero. Io non sono sicuro che se non avessi ascoltato le sue canzoni non avrei scritto quello che ho scritto. Sono invece sicurissimo del fatto c h e , se non avessi ascoltato l e canzoni di Brassens, non avrei vissuto come ho vissuto”. L’animo anarchico di D e André non è dominato dalla passione politica, ma dalla passione per l’uomo, per il prossimo. Fin da piccolo si manifesta la sua straordinaria umanità quando, con i ragazzi di via Piave, mentre giocava a inventarsi nuove parolacce o a tirare sassi contro le altre bande, aveva crea t o un ricovero per i gatti randagi e abbandonat i del quartiere. Li curavano e li sfamavano, saccheggiando le cucine delle loro madri, con ogni ge-

di Saverio Tassoni nere di viveri. La bella iniziativa terminò quando Fabrizio si rese conto che, man mano, lui e i suoi compagni erano sempre più interessati al numero dei randagi assistiti, piuttosto che alle loro condizioni: si era addirittura arrivati a “sequestrare” i gatti delle altre case di Genova solo per poter vantare un gruppo più nutrito, un numero più alto. Fin da giovane Fabrizio ha saputo riconoscere ed evitare il germe dell’accumulo. La sua attitudine alla solidarietà lo accompagna in tutta la sua vita, quando scambia la propria maglia con quella di un suo ammiratore a pochi minuti prima di un concerto; quando considera se stesso come “la minoranza di uno”; quando perdona i suoi sequestratori che per quattro mesi lo avevano costretto in una stanza di tre metri per tre, il suo Hotel Supramonte. Ma dietro il cantautore pacato e solenne, c’è anche Fabrizio con le sue debolezze, le sue passioni, i suoi vizi. C’è Fabrizio che ammette di non essere un buon padre per Cristiano e che recupererà il rapporto con lui solo in età adulta. C’è Fabrizio che, appena finito di comporre Verranno a chiederti del nostro amore, in piena notte sveglia Puny per dedicargliela, con il piccolo Cristiano che, destato dalla chitarra, spia incuriosito dall’altra stanza. C’è Fabrizio che la domenica si accende di passione per la sua squadra di calcio, il Genoa. C’è Fabrizio che, se il vizio dell’alcool lo abbandonerà per una promessa fatta al padre in punto di morte, quello del fumo se lo terrà ben stretto fino alla fine. Le sigarette, che hanno scandito i ritmi della sua vita fin da giovane, lo accompagneranno sino agli ultimi giorni. Lo accompagnano persino adesso: in via del Campo, nel negozio di Gianni Tassio, c’è un posacenere sproporzionato colmo di sigarette ancora intatte che i passanti lasciano lì per lui, come a dire: “Io te la offro, te la fumi dopo...”. Il fumo gli impedirà anche di fare ritorno nella sua “Zena”, che lui amava pensare lasciata nella naftalina, come si fa con i vestiti fuori stagione, per conservarli. Gli impedirà questo viaggio perché gliene regalerà uno più difficile, più malinconico. Dove sarà diretto potrà guardare tutti dall’alto, come se fosse sopra il Bigo. Ma da lì sopra non si torna giù dopo dieci minuti. Neanche dopo undici anni.

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EN S IO N I R EC

L.A.M.F. - Johnny Thunders & The Heartbreakers

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unk newyorkese, cioè euforia rock’n’roll nella sua versione più monolitica ed avvinazzata, unita all’esplicita consapevolezza del proprio destino di perdenti: L.A.M.F. riesce a condensare tutta la magica energia dei suoi autori e diventa un classico dei classici della musica che più ci piace. Si parte con Born To Lose ed è già tutto lì: le chitarre gemelle di Johnny e Waldo riffano all’unisono e una voce ti dice che non c’è proprio niente da divertirsi, né nella giungla, né in città, né da un cazzo di nessuna parte. Segue quel trattore che è Baby Talk; su tutto la voce sovraeccitata di Johnny. Con All By Myself e I Wanna Be Loved, è già feticismo del riff. It’s not Enough è una lercia ballata rollingstoniana: puoi darmi questo, puoi darmi quello, ma non è mai abbastanza, mai. Poi viene Chinese Rocks: devo dire qualcosa

di Chinese Rocks? Get Off The Phone è un punk’n’roll losangelino, di quelli che renderanno gloriosi gli X, mentre Pirate Love è un’altra di quelle canzoni strofa-ritornello da una tonnellata, con cambio di tempo finale da infarto. One Track Mind, cantata da Lure (sua canzone più bella assieme a All By Myself), non è altro che quattro selvatici accordi ascendenti, mentre I Love You di Thunders è la dichiarazione d’amore più sublimemente stonata che ci sia capitato di sentire. Nelle versioni remixate del disco la traccia finale è una travolgente cover della classica Do You Love Me di Gordy: rock’n’roll primordiale portato ad un livello espressivo assoluto. di Edward Ray Davies

Notre-Dame de Paris - Riccardo Cocciante

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il poeta Gringoire il primo a cantare, annunciandoci che stiamo per vivere Il tempo delle cattedrali, quello in cui l’uomo elevò “le sue torri con le sue mani popolari” e cantò l’amore e gli ideali. È il tempo in cui “la scrittura è architettura”. E sullo sfondo, ovviamente, c’è Notre-Dame, la cattedrale per eccellenza: al suo interno, il deforme e solitario Quasimodo; all’esterno, gitani e saltimbanchi (I clandestini) che cercano ospitalità a Parigi e danzano e si esibiscono in piazza. Tra tutti, spicca la bella Esmeralda (Zingara), di cui è facile invaghirsi e della quale, effettivamente, gran parte delle voci comincerà a cantare le lodi. È così che il primo cd di “Notre Dame de Paris” alterna lodi alla bellezza dei personaggi (Bella o, ancora, la canzone dedicata a Febo: Bello come il sole), alla storia del campanaro Quasimodo, a una panoramica sulla Parigi dell’epoca. Si apre, invece, con una panoramica su Firenze, il secondo cd: Parlami di Firenze è probabilmente una delle canzoni (almeno per quanto riguarda il testo) più riuscite del musical. Ci troviamo di fronte a un magistrale duetto (i cui protagonisti sono Frollo e

Gringoire) dove si racconta di come a Firenze si sia saputo di “un continente alla fine del mondo”, di come Lutero “inventa un nuovo Testamento” e di come ci si trovi “all’alba di un mondo che si scinde”. “Ogni piccola cosa ucciderà le grandi – proseguono le due voci – il libro ucciderà altari e cattedrali. La stampa imprimerà la morte sulla pietra, la Bibbia sulla Chiesa e l’uomo sopra Dio”. È a questo punto che la storia ha una svolta: di grande passione sono le canzoni che narrano le vicende di Esmeralda (Il processo, La tortura) o dei gitani (Liberi), ma non mancano melodie drammatiche (Luna, Balla mia Esmeralda), in grado di lasciare l’amaro in bocca e stringere un nodo alla gola. Attraverso i testi di Luc Plamondon e le musiche di un Riccardo Cocciante in ottima forma, il romanzo di Victor Hugo torna ad essere magia. di Giorgia Tribuiani

The Black Album - Metallica

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etallica (1991), il quinto lavoro in studio della band omonima (informalmente conosciuto come The Black Album per la copertina) è, nel bene o nel male, il disco (c’è chi lo definisce “metal”, chi “hard rock”) più venduto delle ultime tre decadi. Già, perché se da un lato è stata la consacrazione dei “four horseman”, dall’altro è stato considerato un vero e proprio tradimento da parte dei fan più estremi del “thrash-metal”, cullati dai precedenti quattro lavori in studio. Personalmente è così che li ho conosciuti, e solo consequenzialmente ho scoperto le suddette (tradite?) origini. Ci sarà chi rimarrà di sasso nel leggere questa recensione, ma i brani sono tutti appetibili al primo boccone, chi più, chi meno (ed è la maggior critica degli amanti del “thrash”: troppo melodico, troppo armonico). Sei brani su dodici, l’esatta metà, diventeranno future hit del

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gruppo e loro cavallo di battaglia (Enter sandman, Sad but true, The unforgiven, Wherever I may roam, Nothing else matters, Of wolf and man) conosciutissime per chiunque, per cui su di esse non mi dilungherò soffermandomi invece sulle restanti. È senza dubbio la canzone più rapida, anche se è in lizza con Through the never, veloce e potente “track” che sembra voler riallacciare (miseramente?) i Metallica al loro (glorioso?) passato, Holier than thou. C’è poi Don’t tred on me, fortemente cadenzata dalla pesante batteria e dai classici riff da metà canzone. Chiaramente la più discutibile. Chiudono il disco tre stelle neglette, surclassate da ben più splendenti sorelle, che comunque però valgono l’ascolto: The God that failed, My friend of misery, The struggle within. di Stefano Tassoni

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EC R I

N IO S EN

Vertigo - John 5 Primo album da solista per l’ex chitarrista di Marilyn Manson, Vertigo ci presenta 13 tracce strumentali, alternando i generi che hanno maggiormente influenzato la carriera di John 5. È evidente una predominanza industrial metal, specialmente in brani come Feisty Cadavers e Flatlines, Thin lines, tornando però anche indietro nel tempo con pezzi rock’n’roll, tra i quali Zugg Island Convinct, e bluegrass, come Sugar Foot Rag, 18969 Ventura Blvd e la cover Sweet Georgia Brown, solo per citarne alcuni. Con virtuosismi di banjo e mandolino, infatti, Mr. 5 ci dimostra di non disdegnare affatto il proprio passato da musicista country. Saltando in questo modo da un genere all’altro è impossibile restare indifferenti di fronte alla title track Vertigo, una ballata dark che sa di sofferenza, e a Dead Man’s Dream, un potente brano che mescola sonorità industrial e blues con un utilizzo di effetti che farebbe

impallidire Steve Vai. Ci troviamo così di fronte ad un’opera che non oserei definire “per tutti”, sicuramente capace di entusiasmare gli appassionati delle sei corde, ma vittima di una frammentazione che non rende del tutto facile l’ascolto. Tuttavia si tratta di un album che di certo riesce a non annoiare e sento di rivolgermi anche ai tanti che, ascoltando un qualsiasi pezzo strumentale, dicono: “ma non canta mai?”. di Hanry Menphis

Himalayan Necromantia - Eight Hands for Kali Un Natale di tanti anni fa mio zio mi regalò un CD: si trattava di Paranoid, uno dei primi album dei Black Sabbath. Ricordo che corsi subito verso lo stereo, affascinato dall’assurdo soldato ritratto in copertina; quando l’oscuro suono della chitarra di Tony Iommi arrivò per la prima volta alle mie orecchie, decisi inconsciamente che avrei ascoltato doom metal per tutta la vita. Per anni ho cercato sonorità simili a quelli di Ozzy e compagni, passando dalla Gran Bretagna all’America, per poi tornare in Europa, più precisamente a Barcellona, dove dal 2003 gli amplificatori degli Eight Hands for Kali fanno tremare le pareti dei locali. Il loro è un tetro sludge metal, con trovate psichedeliche che scuotono il cervello. In questa unica traccia, di 55:22 minuti, ci schiantiamo contro un muro di suoni che risvegliano i nostri demoni più reconditi. Veniamo catapultati in un incubo, scandito

da una batteria lenta ed inesorabile, in cui un riff infinito di basso e chitarra si insinua dentro di noi senza chiedere il permesso; in tutto ciò urla deformi e strazianti. “Non è roba per femminucce”, mi verrebbe da dire, ma rischierei di sembrare un maschilista. La trovo comunque una descrizione adeguata. di Hanry Menphis

Carnaval – Robert Schumann “Da un punto di vista superiore, la storia del genere umano può ben apparire come nient’altro che un lungo ballo mascherato”, scriveva Jean Paul nelle ultime pagine del Flegeljahre. E indubbiamente il Carnaval op. 9 di Schumann incarna alla perfezione questo passo, presentandosi come un incontro fantastico tra musica, opera letteraria e vita reale, dove un caleidoscopio di maschere, turbinando davanti ai nostri occhi, diventa lo specchio della cultura romantica allora emergente. Lentamente compaiono una dopo l’altra le figure di Paganini, Chopin, Clara (Chiarina), futura sposa del compositore, Ernestine von Fricken (Estrella), allora sua fidanzata, e lo stesso Schumann, sdoppiato tra il sognante Eusebio e l’appassionato Florestano. Personaggi reali che quasi si confondono tra le vere maschere di Arlequin (Vivo in Si bem Maggiore), Pantalon e Colombine (Presto in

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fa minore), reclutate nell’immaginaria lega dei Davidsbundler, che sfila unita contro ogni ottuso accademismo per aprire la strada ad una nuova era musicale. Schumann abbandona la forma della Sonata per la più libera “variazione su tema”, difatti un orecchio attento può scorgere riferimenti a Schubert (Sehnsuchtswalzer) e Beethoven (Quinto Concerto), ma anche alle più classiche musiche da salotto, con chiaro intento ironico. Alla fine il compositore giudicherà la sua stessa opera “senza alcun valore artistico” e affermerà: “soltanto i suoi differenti stati d’animo mi sembrano di qualche interesse”. Ma tanto è bastato a renderla immortale. di Chiara Di Biagio

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Musica

Istinto puro da palcoscenico Intervista ai Betty Poison

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di Luca Torzolini foto di Michele di Giacomo

hi sono i Betty Poison e come è nato il vostro gruppo? I Betty Poison sono tre dismorfofobici che attraverso la musica riescono a sconfiggere i loro demoni e a potersi finalmente guardare allo specchio. Siamo nati come Betty Ford Center,

Qual è il vostro stile musicale? Il nostro stile è stato influenzato da moltissimi ascolti, anche se poi ha preso una direzione assolutamente originale. Sicuramente abbiamo tutti amato molto il rock anni ’90, i Nirvana, gli Smashing Pumpkins e gli Hole, con cui

lissime parole sulla nostra band e che almeno due membri dei Betty hanno vissuto il foxcore come un importantissimo passaggio della loro formazione musicale. Avevano anche comprato i biglietti per quel concerto, senza sapere che alla fine avrebbero diviso il palco con miss

che è il nome di un centro di disintossicazione per miliardari fondato da Betty Ford, la vedova dell’ex presidente americano. Questo proprio perché ci piaceva il contrasto tra lo sfarzo e i lustrini hollywoodiani di questi “tossici di lusso” e il marcio che ogni patina dorata spesso nasconde. Abbiamo dovuto rinunciare al nome Betty Ford Center perché, in seguito ad un incremento internazionale di visibilità da parte della band, abbiamo subito un’inibitoria legata all’uso del nome, sia su myspace che su youtube. Per prevenire ulteriori grane abbiamo quindi preferito cambiarlo e adesso siamo i Betty Poison.

peraltro abbiamo avuto la fortuna di dividere il palco, a febbraio di quest’anno. Ma amiamo anche molte altre cose diversissime tra loro: Siouxsie and the Banshees, David Bowie, Lou Reed and The Velvet Underground, Nina Hagen, Dresden Dolls, Pj Harvey e molti altri.

Courtney Love in persona! La serata è stata stupenda, ci abbiamo messo tutta la passione possibile, la gente cantava le nostre canzoni e l’impatto emotivo è stato davvero potente… indimenticabile.

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Cosa potete raccontarci del concerto con gli Hole? Il concerto con gli Hole è stato un’esperienza meravigliosa, considerando peraltro che sono stati proprio loro a sceglierci e a spendere bel-

Come vi presentate in scena, di solito, ai concerti? Sul palco trasferiamo la nostra fondamentale natura, primitiva per quanto riguarda la cantante, che spesso si presenta completamente coperta di scritte rosso fuoco dalla valenza “rock-totemica”, mentre il batterista e il chi-

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Musica tarrista oppongono un’eleganza naturale assolutamente total black… Quest’anno avete intrapreso un tour in tutta Europa. Raccontateci com’è stato. È stato meraviglioso, abbiamo suonato ovunque, Germania, Francia, Belgio, Austria, Bulgaria, Rep. Ceca… spesso scoprendo che già ci conoscevano e riscuotendo ovunque calore e gratificazioni. Non è stato il nostro primo tour internazionale e non sarà di certo l’ultimo, ma ogni volta proviamo le stesse emozioni e ci commuoviamo di fronte alle stesse cose: sco-

prire mille paesaggi e sentirci sempre a casa, confrontarci con mille diverse tipologie di pubblico e realizzare che quando si crea quella particolarissima alchimia che unisce un artista a chi lo ascolta; la magia è sempre la stessa. Fondamentalmente siamo dei nomadi. Dei “nomadi sonici”. So che state girando un video... Abbiamo appena finito le riprese di un bellissimo video prodotto dalla Minimal Cinema e diretto da Claudio Romano e Mauro John Capece, con l’apporto fondamentale di Eli-

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sabetta L’Innocente, di Tiziana Porrazzo e Maura Narcisi. Questo video tradurrà in immagini la dissacrazione feroce del modello Paris Hilton, senza risparmiare forti contrasti e scene poco adatte ai perbenisti e ai profeti del glam. Vi invitiamo a visionarlo a breve su youtube e molti altri canali... Perché fare un video contro Paris Hilton sapendo che questo contribuirà a metterla in luce? Non è forse l’utilizzo di una star del grottesco per garantirsi un rimbalzo mediatico immediato?

Paris Hilton è già visibile, perché è il simbolo del nulla generalizzato rumoroso e prepotente che s’impone a tutti, anche a chi non vorrebbe neanche sentirne parlare. La nostra pelle ispida reagisce alla stupidità e alla volgarità che Paris Hilton rappresenta, trasudando acido muriatico, e contrappone al “pornoconformismo” la “pornoanarchia” del modello Betty. Volendo infine fare una precisazione, il brano Paris Hilton up your ass è stato ispirato non direttamente dalla bionda e vacua ereditiera, ma da una top model che Lucia (la cantante) ha avuto modo di incontrare e conoscere e che considerava

miss Hilton un importantissimo modello di riferimento. Povero mondo! I vostri testi rimandano spesso a un senso di malessere. Potete spiegarci dove ricercate l’ispirazione per le liriche? I nostri testi sono la diretta emanazione della nostra vita, ma sono tecnicamente partoriti dalla melodia, che ne determina il peso, l’altezza, le caratteristiche generali. Diciamo che sono figli di un suono e riflesso di un abisso biografico fatto di slabbrature, incisioni, lividi e lampi.

Molti gruppi italiani tendono a snobbare il pubblico di casa nostra in favore di quello straniero. Come vi trovate col pubblico italiano? Noi ci troviamo benissimo con il pubblico in generale, sia straniero che italiano, forse perché lo rispettiamo e lo amiamo sopra ogni cosa, ritenendolo la fonte prima e ultima del nostro respiro artistico e professionale, e probabilmente questa cosa arriva. Nel caso di gruppi magari più noti all’estero che in patria, mi sento di dire che non credo ci sia qualcuno che snobbi il pubblico italiano in favore di quello straniero.

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Musica Semplicemente una band suona dov’è chiamata a suonare, e se alcuni gruppi riescono a farlo esclusivamente all’estero vuol dire che solo lì è data loro la possibilità di esprimersi e realizzarsi. Il concerto più bello che ricordate? Da quando la band si è formata, nel 2005, non ci siamo mai fermati. Di concerti belli ne ricordiamo a dozzine, ognuno speciale a suo modo, ognuno con la sua unicità e col suo bagaglio di ricordi. A parte l’apertura agli Hole, possiamo, pescando tra i tanti, ricordare il concerto tenuto a L’Aquila quest’anno, che ci ha commosso per il calore e la profondissima dignità di una popolazione colpita da una vera tragedia e tuttavia pronta a ricominciare con forza e coraggio, comunicandoci un’energia che raramente ci capita di incontrare. Meravigliosi. Ricordiamo poi un concerto a Friburgo, in cui un foltissimo pubblico, letteralmente invasato, non ha fatto altro che pogare e rotolarsi a terra durante la nostra esibizione. Praticamente un “baccanale”. E poi a Reims, in Francia, quando la cantante ha lanciato ripetutamente profilattici al pubblico durante una serata pro-sesso sicuro organizzata dalla militanza gay francese. Ma potremmo citare mille altri episodi. Dai tempi delle band “scoperte nei locali di provincia” è passato molto tempo. Oggi le nuove tecnologie e i mezzi di comunicazione globale hanno segnato molto profondamente il modo di emergere e farsi conoscere delle band. Cosa ne pensate di questo nuovo modo di fare musica? Ne pensiamo tutto il bene possibile, siamo sempre a favore dell’uso intelligente di ogni nuovo strumento generato dal progresso al fine di ingrandire il paniere di opportunità, di cui può concretamente disporre chi fa musica. Non rimpiangiamo affatto i tempi in cui, per farsi notare, si spediva il materiale in giro alla cieca o ci si affidava alla chimera dello “scouting ex machina”. Myspace, youtube e i nuovi social newtworks hanno cambiato la vita di chi suona musica inedita e hanno permesso a molti di evidenziarsi e farsi ascoltare nel mondo, ricevendo spesso feedback fondamentali e oggettive possibilità di trasformare una passione in una professione. Progetti per il futuro? Solo e sempre uno: vivere su un palco.

Gentilmente concessa da Betty poison4night italian.5 a cura di Marco Fioramanti, Anton Perich, manager Betty L’innocente.

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Letteratura

L’anno della morte di

Saramago L

a citazione del titolo prevederebbe che focalizzassi l’articolo sul duemiladieci come lo scrittore fece inquadrando bene il Portogallo salazarista, estrema falange di una già martirizzata Europa nell’aurora della sua più nera pagina: è il 1936, un anno dopo la scomparsa del suo inventore (Fernando Pessoa) muore Ricardo Reis. Ed è chiaramente un pretesto per parlare della dittatura portoghese, ma non solo; è anche l’occasione per Saramago di “affontare” vis-avis l’altra colonna portante del Novecento letterario portoghese. Non è da tutti misurarsi con i propri predecessori. Petrarca, ad esempio, finse per tutta la vita di non aver mai letto la Commedia poiché sapeva (per sua stessa futura ammissione) di non poter uscire incolume dal paragone con il Poeta, né tanto meno potevano farlo i suoi Trionfi. Onore al merito dunque dello scrittore lusitano: se è vero che Pessoa non è assolutamente accostabile a Dante come Saramago non lo è a Petrarca, confrontarsi con la propria tradizione resta comunque un atto di lodevole coraggio. Non a caso, a farlo è l’unico scrittore di tutto lo stato insignito di Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. Il riconoscimento a livello internazionale arrivò, infatti, solo negli anni Novanta, pur avendo alle proprie spalle una già corposa serie di opere, con Storia dell’assedio di Lisbona, una delle più belle storie d’amore mai scritte, il controverso Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Cecità. Tratteremo gli ultimi due per costatare post-mortem il suo rapporto con la religione, sapendo si dichiarò ateo in seguito alle polemiche scatenatesi dopo il suo Vangelo che lo indussero a trasferirsi alle Isole Canarie. Polemiche riaperte nel 2009 con l’uscita di Caino, altro romanzo con soggetti attinti dal libro sacro, e specificatamente dal Vecchio Testamento, nel quale si descrive un Dio “vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia”. Sembra quindi che nel suo ultimo lavoro lo scrittore intendesse chiudere specularmente la parentesi aperta nel 1991 rivisitando il Nuovo Testamento. Il Gesù Cristo di Saramago, da alcuni cristiani ortodossi ritenuto blasfemo, è un carattere fortemente spirituale, ma in tutto e per tutto umano, che incarna i dubbi e le sofferenze propri della condizione universale di uomo. Il figlio di Dio, dalla nascita a Betlemme alla morte sul Golgota, affronta le medesime esperienze descritte nei Vangeli, qui però narrate secondo una prospettiva terrena, con spirito critico e senso logico. Viene così ri-immaginata tutta la storia terrena del protagonista dal suo concepimento, carnale come per ciascuno di noi, all’amore verso la Maddalena, all’erosione della linea di demarcazione tra Bene e Male, tra Dio e Satana interpretati come le facce di una stessa medaglia. In questa storia non c’è fede nei miracoli, bensì coscienza di trovarsi in balìa della volontà di potenza di un Dio padre distante e indifferente al dolore che provoca. La serie di disgrazie,

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di Stefano Tassoni

stragi e morti che costellano l’esistenza di Gesù, fino al non cercato e non accettato compimento del destino di vittima sacrificale, diventa così un’occasione per riflettere sulla problematicità di compiere il giusto tramite l’ingiusto, sull’imperscrutabilità del senso della vita umana e sulla sconcertante ambiguità della natura divina. Il romanzo, come già detto, verrà fortemente contrastato dalla Chiesa, ma incurante di ciò l’autore continuerà il suo iter alla ricerca dell’essenza primaria degli uomini. A tal fine, la critica nel 1995 indica in Cecità il capolavoro dello scrittore lusitano. In un tempo e un luogo non precisati, all’improvviso l’intera popolazione diventa cieca per un’inspiegabile epidemia. Chi è colpito da questo male si trova come avvolto in una nube lattiginosa e non ci vede più. Le reazioni psicologiche degli anonimi protagonisti sono devastanti, con un’esplosione di terrore e violenza, e gli effetti di questa misteriosa patologia sulla convivenza sociale risulteranno drammatici. I primi colpiti dal male vengono infatti rinchiusi in un ex manicomio per la paura del contagio e l’insensibilità altrui, e qui si manifesta tutto l’orrore di cui l’uomo sa essere capace. Si capisce qui il vero intento dell’autore: attraverso l’escamotage della cecità globale, disegna la grande metafora di un’umanità bestiale e feroce, incapace di qualunque forma di razionalità, artefice di abbrutimento, violenza, degradazione. Il romanzo acquista così portata e valenza universali sull’indifferenza e l’egoismo, sul potere e la sopraffazione, sulla guerra di tutti contro tutti; una dura denuncia del buio della ragione, con un catartico spiraglio di luce e salvezza. Infine, nel suo ultimo romanzo, Caino è protagonista e voce narrante. È lui che racconta della blasfema convivenza fra Eva e il cherubino Azaele, l’assassinio del fratello Abele e il suo successivo dialogo filosofico con Dio, la maledizione, il marchio e l’incontro con l’insaziabile Lilith nella città di Nod. È attraverso i suoi occhi che assistiamo al sacrificio di Isacco, alla costruzione della Torre di Babele, alla distruzione di Sodoma. È lui che dialoga con Mosé in attesa sul monte Sinai e che vede nascere l’identità israelita, fino a un ultimo duro confronto con Dio. Saramago rivendica il diritto di dire la sua in materia di religione. E lo fa, anche questa volta, a voce ben alta, con quella sua inconfondibile ironia capace di trasformare in sublime letteratura la storia di un Caino che accetta, sì, il proprio castigo per l’uccisione di Abele e il destino di errante, ma, insieme, insorge contro un dio crudele e sanguinario che considera corresponsabile. È a questo dio che Saramago, per voce di Caino, chiede spiegazioni, per affermare ancora una volta che “la storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, perché lui non capisce noi, e noi non capiamo lui”. Ed è essenzialmente l’uomo, purtroppo per l’ultima volta nelle pagine del grande scrittore, a essere protagonista.

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Letteratura

&

Dumas

Alexandre

La provvidenza arrivò da una penna

il conte di Montecristo di Giorgia Tribuiani

F

u romanziere e drammaturgo, Alexandre Dumas, nonché una delle migliori firme dei romanzi d’appendice: i “feuilletons”, antenati dei racconti popolari e delle storie a puntate, raggiunsero uno dei loro picchi più alti attraverso la penna dello scrittore francese e il pubblico dei lettori ebbe forse a reclamare il nuovo capitolo de “Le Comte de Monte-Cristo” più di qualsiasi altro inserto. Dumas visse del suo mestiere di scrittore al quale poté dedicarsi completamente, firmò importanti rubriche di famosi quotidiani ed ebbe accesso alla prestigiosissima “Comédie Française”. Cosa spinse quest’uomo, votato all’intelletto e alla cultura, a delinearsi nel marinaio Edmond Dantès, giovane protagonista del romanzo “Le Comte de Monte-Cristo”? La risposta a quest’interrogativo va rintracciata, probabilmente, in uno dei più profondi desideri dell’autore: quello di rappresentare, per i suoi nemici quanto per i suoi amici, la “Provvidenza”. “Ai tempi in cui scrive Dumas – afferma André Maurois nel saggio “Le Comte de MonteCristo” – l’Incantatore si confonde col Nababbo, la cui fortuna permette ogni fantasia e ogni audacia. Dumas sognava di essere il dispensatore di tali beni terrestri. Nella misura, ahimè ridotta, in cui le finanze glielo permettevano, egli si divertiva a interpretare questo ruolo per i suoi amici e le sue amanti. Una coppa bastava a contenere tutto il suo oro, ma egli la versa-

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va con un gesto generoso, come quello di un Nababbo”. Dal canto opposto, Dumas nutriva particolari risentimenti nei confronti della propria società, di cui suo padre era stato una vittima e che lo perseguitava attraverso creditori e calunniatori. In Edmond Dantès, dunque, Dumas vide l’oppresso per eccellenza, il calunniato che – imprigionato innocente nel Castello d’If in seguito a false testimonianze – ha l’occasione, grazie all’abate Faria, di ereditare una fortuna immensa e di trasformarsi nella Provvidenza, un uomo in grado di punire crudelmente i propri calunniatori e di divenire un magnifico benefattore per i propri amici. Nell’intelligenza con cui il piano di Dantès si compie, del resto, ritroviamo il logico e colto Dumas: la trasformazione del marinaio in conte è completa e l’autore può specchiarsi completamente nel suo protagonista. La storia di Edmond Dantès, nata da un fatto di cronaca, appassionò immediatamente Dumas, che trovò nelle vicende del povero Picaud l’intreccio perfetto per il suo romanzo. Romanzo al quale, d’altra parte, egli fu sempre legato, al punto da acquistare un terreno a Port-Marly per farvi costruire il proprio “Castello di Montecristo”, o da fondare un giornale intitolato appunto “Le Monte-Cristo”.

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d to n ot ou S rgr e nd

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Letteratura

L’INTELLETTUALE FASHION TRASH

Come il mito del “genio ribelle” sia riuscito a compromettere intere generazioni d’inconsapevoli illetterati

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iei cari lettori… Provate a prendere una persona terribile, diciamo decisamente insopportabile, dotatela di un talento fuori dal comune e otterrete un decadente o giù di lì. Bene… a quanto si vede in giro, i “ miracoli” della selezione naturale hanno bissato sulla genialità e ci hanno lasciato una fantastica gamma di personaggi discutibili e quasi teneramente non coscienti della cruda beffa darwiniana. Maledetti, poeti e non, “dandy”, intellettualoidi di ogni sorta popolano il grande schermo (compreso quello piccolo), i giornali… i pub. Ebbene sì… anche i pub. E poi, diciamoci la verità, non c’è niente che fa più tendenza di ciò che è in controtendenza. Così l’approvazione indiscriminata nei confronti di chi ostenta un’ipocrita e costosa sciatteria nel vestiario, damascata da un falso atteggiamento relativistico, infarcito di un solitamente ristrettissimo repertorio di citazioni, meglio se provenienti da fonti ignote ai più, lava via dalla coscienza la brutta idea di far parte di un grasso branco di “pecoroni” con il cervello sotto formalina. Perfino gli opinionisti delle trasmissioni di gossip cercano di darsi un contegno

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citando Proust, perché la cultura è come il “nero”… sta bene con tutto! D’altra parte il nostro compianto conterraneo Ivan Graziani cantava giustamente in Pigro: “Una mente fertile, dici, è alla base, ma la tua scienza ha creato l’ignoranza”. Allora da dove nasce il fascino del ruolo sopra le righe? Probabilmente dai Wilde (saccheggiato a sproposito soprattutto nel repertorio degli aforismi), Rimbaud, Verlaine e prima ancora di loro, dai Benvenuto Cellini, François Villon e molti altri fino ad arrivare a Jim Morrison. Epoche storiche, esseri umani e geni diversi: tutti entrati nel mito per la sregolatezza, il disgusto dell’anonimato, il disprezzo del limite. Limite che risulta un elemento interessante in questo frangente. Infatti, sembra che la coscienza delle proprie effettive attitudini sia un carattere recessivo e che questa carenza abbia generato una grandiosa e pittoresca “fiera dell’incapacità” in cui i nostri campioncini dell’immodestia quasi sempre riescono ad ottenere molto più di quello che meritano. E ciò accade in ogni ambito, artistico e non. In particolare i “signori” che sono stati citati prima e su cui è stata costruita la leggenda,

vivevano intensamente un’arte che affondava le sue radici nella sofferenza; una sofferenza non patinata, non recitata, una sofferenza che era carne e sangue. Scimmiottare talenti che non si hanno mostra la fragilità e la piccolezza di chi non ha consapevolezza di sé, di chi cerca di soddisfare sottilmente una fame inesauribile di compiacimento. Seguire la propria natura è un atto di filantropia a questo punto. Magari il mondo potrebbe diventare un posto vivibile se ognuno riconoscesse in maniera onesta il fatto che si è ciò che si è. E nient’altro. Senza cucirsi nessuna identità artificiale addosso. E magari questi tizi che vogliono a tutti i costi salire a bordo del “battello ebbro” o che s’“inebriano” in tutta autonomia con i deliri di onnipotenza, non ce li ritroveremmo tra i piedi quando guardiamo un film, quando ascoltiamo della musica, quando leggiamo un libro, quando sfogliamo la pagina politica. Comunque il loro scopo lo hanno raggiunto anche stavolta. “Purché se ne parli”. di Federica Lamona

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Flatlandia - Edwin Abbott Abbott Tra critica sociale e avanguardia matematica, Flatlandia mira da un lato a descrivere la società vittoriana e dall’altro formula teorie sulla presenza di un universo multidimensionale, anticipando aspetti della teoria della relatività e temi cari a scrittori come Asimov. Qui il mondo appare bidimensionale, popolato da linee rette, poligoni e cerchi liberi di muoversi, incapace di sollevarsi dalla superficie, alla maniera delle ombre. Arriva un giorno una sfera, che in virtù delle sue tre dimensioni non può essere percepita nella giusta maniera dagli abitanti: attraversando un mondo bidimensionale, si manifesta come un cerchio che accresce e diminuisce il suo diametro, cosicché il suo spostamento spaziale viene colto come un mutamento temporale. Intuitiva è la conclusione: da esseri tridimensionali, difficilmente saremmo in grado di cogliere elementi con più di tre di-

mensioni. Non si ferma qui, tuttavia, il genio di Abbott, intenzionato a dare alla sua Flatlandia una connotazione sociale. Avere degli angoli molto ampi, infatti, nel fantomatico paese significa avere una maggiore intelligenza, cosa che permette ai poligoni con molti lati di ottenere posti di prestigio e che relega gli “isosceli” ai lavori più umili; infine l’analogia tra le donne e le “linee”, costrette a ondeggiare per essere notate, lungi dal voler legittimare una condizione femminile svantaggiata, rappresenta un encomiabile specchio della loro condizione nella società vittoriana. di Giorgia Tribuiani

Hocus Pocus - Kurt Vonnegut Hocus Pocus è la storia di Eugene Debs, reduce della guerra del Vietnam e di un’altra miriade di guerre domestiche, il quale giunse alla carica di direttore carcerario per trovarsi, in seguito alla “grande evasione”, carcerato. Narrata con lo stile colloquiale che è caratteristica fondante delle storie di Vonnegut, il romanzo è narrato attraverso frammenti (a volte pagine, altre volte una parola) che l’autore attribuisce al protagonista e che sostiene siano stati scritti in carcere su pagine di libro, fogli di giornale e scontrini. Attraverso la penna di Debs, così, il lettore fa la conoscenza di Mildred e Margaret, moglie e suocera del protagonista, vittime di una follia ereditaria; raggiunge il Vietnam in compagnia di Jack Patton, sempre pronto a “sbellicarsi dalle risate”; apprende di Tex, il rettore cornuto, e di Matsumoto, che da bambino si è infilato in un fosso per riprendere un pallone e, tornando su, ne è

uscito che la sua Hiroshima, il suo mondo, non c’era più. Narrando la storia di un uomo, Vonnegut narra la storia di tanti, di una nazione, di troppe nazioni. Parte dal Vietnam e sorvola un Giappone colonizzatore, la cui moneta vale ormai più del dollaro, e una Germania postbellica, che torna con l’orrore di Auschwitz e dei suoi forni crematori, per approdare negli USA, sopraffatta ormai, nel ventesimo secolo - dal suo stesso passato di sopraffazioni. di Giorgia Tribuiani

Lezioni americane - Italo Calvino “Sei proposte per il nuovo millennio”: caratteristiche che la letteratura, e quindi indirettamente gli scrittori, posteriori al Duemila dovrebbero non dimenticare di portare con sé... Un libro dunque comprensibilmente essenziale per chiunque si accinga a scrivere: da magnifico mentore, l’autore riesce a non opprimere mai il lettore con la sua erudizione da intellettuale (poiché denota ignoranza chi lo consideri semplicemente uno scrittore) anzi, appassiona e sorprende con la stessa familiarità colloquiale tipica di un fratello maggiore. Nello specifico le sei caratteristiche, analizzate nei relativi saggi (queste le intenzioni, ma purtroppo la morte colse il conferenziere poco prima realizzasse l’ultima) derivati da relative conferenze, sono nell’ordine: la “leggerezza”, la “rapidità”, l’“esattezza”, la “visibilità”, la “moltepli-

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cità” e l’incompiuta “consistenza”, di cui abbiamo solo il titolo e il libro-simbolo: Bartleby di H. Melville. Sei ‘modus scribendi’ incarnati per ogni saggio da diverse opere, non soltanto romanzi, ma anche racconti, miti e leggende popolari: dal Decameron al Voyage dans la lune di Cyrano de Bergerac, dal De Rerum Natura alla Morfologia della fiaba di Karl Propp e l’elenco sarebbe infinito per gli innumerevoli esempi pur limitandosi al primo saggio. È bene infine premettere che considerando tali qualità Calvino non esclude i loro opposti anzi, li include come facce della stessa medaglia: « ...sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io considero le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’avere più cose da dire.» di Stefano Tassoni

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Sostiene Pereira - Antonio Tabucchi Pereira è un personaggio comune, non un eroe: cittadino del Portogallo di Salazar, ex- militante della cronaca nera di un grande giornale, si è ora ritirato nell’angusta redazione culturale (composta da lui solo) del “Lisboa”, accontentandosi di scrivere necrologi anticipati e traduzioni di classici, mentre apprende i mutamenti politici solo grazie a Manuel, cameriere del Café Orquìdea. Questo, fino all’arrivo di Monteiro. Che pur non essendo un eroe, è innamorato di Marta, una donna che si crede eroina e vuole sfidare il regime di Salazar. Pereira si affeziona quindi a questi giovani, venendo coinvolto in una spirale che mette a rischio la sua vita, ma salva la sua anima (o la sua “confederazione di anime”, secondo la teoria del dottor Cardoso, convinto che di volta in volta ci sia un diverso io egemone a guidare le azioni di un uomo).

Se, da un lato, l’incontro con Monteiro pone fine alla tranquilla apatia di Pereira, dall’altro è grazie a questo che egli scopre che il Portogallo si sta avviando verso la dittatura, che si è instaurato un regime di violenze ed intimidazioni in cui anche la stampa è sottoposta ad una rigidissima censura. Pereira è un personaggio comune, non un eroe, come dicevo, ma è proprio grazie a questo che si rende capace di un’azione di commovente grandezza, strappando a Cardoso parole che segnano, nella confederazione di anime, il passaggio del potere ad un io egemone più consapevole: “Dica al dottor Pereira di scrivere un articolo sull’anima, che ne abbiamo bisogno tutti”. di Giorgia Tribuiani

Sputerò sulle vostre tombe - Boris Vian La rappresentazione caricaturale del critico che conosce a menadito l’intera bibliografia riguardante un determinato autore, ma non legge (o perlomeno non rilegge, o non legge compiutamente) i testi del suddetto, ha la sua prima attuazione nella figura del mediocre docente. Nulla di più lontano dal celebre artista francese… Personaggio di culto per la futura generazione sovvertiva francese (ma non solo) degli anni ’60 – ’70, Boris Vian muore la mattina del 23 giugno 1959 (lo stesso anno in cui Piero Ciampi lascia Parigi per la sua Livorno) a causa di un colpo apoplettico susseguente le prime scene del film tratto dal suo controverso romanzo “Sputerò sulle vostre tombe”, durante cui, pare, sia esploso in preda all’ira: “E questi dovrebbero essere americani?? Col cazzo!!!”. La storia di questo romanzo è la storia di uno scandalo. Nell’estate del 1946 l’editore D’Halluin era a caccia di un ro-

manzo americano, considerato il successo ottenuto all’epoca dagli autori d’oltreoceano. Vian propose di scrivergli in quindici giorni, e meglio di un americano, un libro scabroso dalle tinte davvero forti. Nacque così Vernon Sullivan, scrittore nero censurato in America a causa del razzismo, e nacque Lee Anderson, nero dalla pelle bianca, che vuol vendicarsi per l’assassinio del fratello e quindi stringe amicizia con una cerchia “bene” di bianchi, con il progetto di sedurre le splendide e inavvicinabili sorelle Asquith... Il plot si sviluppa sui tratti salienti della “gioventù bruciata”: automobili a folle velocità, brividi dell’avventura, alcol, violenza, sesso, per poi raggiungere una crudezza esemplarmente riassunta dal titolo. Ma Vian non fu solo questo. di Stefano Tassoni

Il lupo della steppa - Herman Hesse Attraverso un mosaico composto da tasselli autobiografici e surreali, Hesse pone il suo personaggio, Harry Haller, in un mondo borghese che da tanto tempo non gli appartiene più. L’ambiente banale e ipocrita che lo circonda ha reso il protagonista un “lupo della steppa”, incapace di relazionarsi al mondo in cui vive, compensando la solitudine con un profondo amore per la cultura e per l’arte. Ed è proprio questo alternarsi tra “l’uomo” e il “lupo” che Harry esamina a lungo, arrivando ad abbandonarsi a se stesso. Giunto ad un punto di non ritorno si ritrova ad un passo dal suicidio, ma viene salvato dall’inaspettato incontro con Erminia, una donna esperta e seducente che lo riporta ad apprezzare le piccole gioie della vita comune. Con lei impara a ballare e frequenta locali in cui conosce persone che dapprima non riesce a com-

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prendere, ma dalle quali, con il trascorrere del tempo, impara qualcosa che i libri non gli possono insegnare. Ma Harry dovrà prima o poi ricambiare esaudendo un doloroso desiderio di Erminia, e lo farà nell’onirico epilogo in un “teatrino magico”. Questo romanzo, scritto in un periodo di crisi dello scrittore, parla sì di sofferenza, ma indirizzata verso un futuro ottimista; in uno spaccato della società in cui Hesse viveva, lo stesso autore tratta i temi della solitudine e della multiformità della personalità umana. di Hanry Menphis

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Letteratura

Il potere taumaturgico della scrittura Intervista a

Giuseppe Genna

di Luca Torzolini e Stefano Tassoni

Immagine: Copertina del libro Hitler di Giuseppe Genna, Mondadori

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’immaginario popolare è sempre stato in netta contrapposizione alle reali (spesso misere) condizioni di vita del popolo stesso. Come sottolinea Calvino in Lezioni Americane, la letteratura ha sempre cercato di evadere da questi problemi tramite il mondo fiabesco o di affrontarli metaforicamente come usa fare più volte Kafka (Es. Il cavaliere del secchio). Per l’Italia odierna trovi i metodi di comunicazione sopracitati utili o pensi sia più pratico, seppur meno confortante, un ritorno al realismo, sia esso di natura “comico-bukowskiana” o ancor più ferocemente verista? Non concordo con l’analisi sull’elaborazione dell’immaginario o del fantastico. Detto che Kafka proprio non compie una simile operazione (e tanto meno lo fa proprio con “Il Cavaliere del secchio”, su cui, come notava Scholem, si potrebbe attagliare alla perfezione non solo un’interpretazione cabbalistica, ma anche una alchemica), il riduzionismo quasi feuerbachiano, ma comunque tipicamente occidentale, perde di colpo il punto centrale dell’esistenza dell’immaginario – che è quella di porre un punto umano fuori e dentro al tempo, fuori e dentro al legame di causa-effetto. Mi chiederei, a questa altezza, come può esistere un realismo: non sarebbe derivato da un apparato percettivo e, quindi, totalmente fantasmatico anche ciò che si desume dalla realtà? E perché la natura comica, che non è bukowskiana in quanto Bukowski era tutt’al più sardonico, dovrebbe suonare come una poetica in alternativa ad altre? La verità è che, terminata l’enfasi critica sui generi e la loro contami-

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nazione, si passa grossolanamente al confronto tra poetiche... La sofferenza, non solo fisica e psichica, ma soprattutto come prodotto di una caratteristica empatica, aiuta a capire il mondo e permette allo scrittore di penetrare il mondo reale tramite la descrizione dei moti interiori delle personae. Tu sei uno scrittore altamente empatico. Che rapporto hai con questa caratteristica, variabile congenita della tua scrittura? La sofferenza, a mio parere e secondo l’insegnamento eschileo, aiuta a capire il se stesso, e dunque se stessi. Cogliere ciò che è comune, stabilmente comune, tra umano e umano, o tra creaturale e creaturale, significa sforzarsi di indagare l’interno quanto l’esterno, la realtà in quanto fantasma e la fantasia in quanto potenza reale. Ciò mette in secondo piano due forze che sembrano in gioco e invece appaiono soltanto occasionali: cioè lo “io” psicologico (dell’autore, ma anche del lettore) e la forma di arte con cui si entra in contatto. Tali forze sono assolutamente messe sotto scacco da ciò per cui esistono: che è altro dall’arte stessa e qualunque cosa di reale o fantasmatico che sia la sostanza di cui è fatto l’“io”. Leggevo un grande scrittore, l’altro giorno, dichiarare che morirebbe per la letteratura. Io ritengo che la letteratura muoia sempre per il “me”. Descrivici il rapporto tra Genna scrittore e Genna personaggio. Perché Genna personaggio ha così bisogno di emozioni forti?

Da cosa scaturisce questa rabbia latente che non esplode mai? Perché in Internet ti definisci “Il miserabile”? Che il nome del grande Divisore sia legione, è cosa nota. Resta da comprendere chi o cosa sia tale Divisore. Ciò che sottintende la domanda è la differenza tra componenti dello “io”, razionali o meno, emotive o meno, psicologiche o reali. Potrei affermare che “Giuseppe Genna”, che sia autore o personaggio o l’ologramma vero e falso che appare su Rete, è una legione. Sono componenti multiple, che tentano di prendere sagomatura e possibilità di rappresentazione, per oggettivarsi davanti a una forza di discriminazione, di osservazione priva di giudizio, che non coincide con “Giuseppe Genna” (espressione che comprende anche Giuseppe Genna). Della mia vita privata molto coincide con l’esistenza o le movenze del personaggio a cui do il mio nome; molto altro, no. In Rete, poi, io seguo una retorica cangiante e contraddittoria, che molti purtroppo ha irritato. Questa personalità di Rete è la sagoma che, a ora, vorrei disciogliere con l’acido della mia capacità di sopravvivenza – e non riesco in ciò perché questo ologramma è uno strumento di lavoro, di sussistenza. Il Miserabile è un omaggio a Victor Hugo da un lato, un’autoironia circa il mio spesso esasperato o esorcistico pauperismo dall’altro lato, e infine un aggettivo bino, poiché contraddistingue lo “io”, essendo questo davvero perverso e davvero da commiserare nel senso dell’empatia. Nell’assenza di contenuti che investe ogni campo culturale, si sente la forte mancan-

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Letteratura za di un intellettuale come Pasolini, il quale abbia il coraggio di una presa di posizione netta, estrema. Credi sia possibile oggi la diffusione mediatica di un pensiero intellettuale al pari di quello “pasoliniano”? O, altrimenti, quali ostacoli incontrerebbe? Pasolini è anzitutto un artista – si tende a scordare questa semplice verità e a ignorare che l’atto estremo di questa conclamata nitidezza politica è essenzialmente un’opera d’arte: cioè Petrolio. Detto ciò, oggi non ravvedo alcuna possibilità di penetrazione, da parte dell’intellettuale, nel contesto pubblico e politico. Ciò non significa che l’intellettuale o il creatore non debba prendere una posizione netta: anzi, se non lo fa, non è artista. È la posizione del pasolinismo tribunizio che trovo intollerabile e deviante. È ovvio, per fare un esempio, che Roberto Saviano ha inciso in parte su una realtà; ma non illudiamoci che i suoi lettori siano stati “educati” al civico dalla scrittura di Saviano. Inoltre io trovo che Kafka o Celan sortiscano una potenza del politico di abnormi dimensioni. È soltanto il momento presente a volersi apolitico, anideologico – risultando così violentissimo, discrimatorio, ingiusto e peraltro infondato dal punto di vista umanistico. A uno scrittore, di fatto, cosa spetta? Raccontare il mito, che è anche e soprattutto ritmo. Secondo te in cosa risiede precisamente il potere taumaturgico della scrittura? Nel momento preciso in cui si scrive, si è e non si sa cosa si è – se maschio o femmina, se giovane o anziano. Questa è la porta della taumaturgia attraverso la scrittura. Accade lo stesso per chi legge, se è nell’incanto della lettura. Si è – questo è tutto, bisogna trarne conseguenze non semplicemente intellettuali. Facci un’analisi del cinema contemporaneo italiano. È inesistente se non in fenomeni (faccio un nome per molti) come Davide Manuli, autore di Beket, premiato a Locarno e vincitore del Miami Film Festival. Cosa ne pensi delle fiere del libro che si svolgono in Italia? Quale paese sceglieresti per pubblicare? Non ho opinioni circa le fiere. Sulla nazione in cui pubblicare: dal punto di vista linguistico, solo l’Italia e l’India detengono una lingua talmente antica da avere trapassato la propria morte, per entrare in uno stato di esaustività ed esaurimento. La lingua esausta determina una frontiera interessante sulla quale lavorare. Poi: mi piacerebbe pubblicare in America per motivi prettamente materiali, nel senso che ravvedo là più chance di vivere con la scrittura, quindi di potere studiare di più. Nella letteratura del Novecento molti hanno scritto riguardo il trapasso dei propri cari.

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Gadda, ad esempio, racconta la morte della madre, Svevo quella del padre; In Italia De Profundis cosa ti ha spinto a fare altrettanto? La verità, che è amore. La necessità libera ad accedere alla zona paterna. Non certamente il lutto. Jodorowsky, Battiato, Lynch: tutti sostenitori di varie pratiche esoteriche. Come mai

anche tu ti schieri con loro? Cosa ti affascina di tale filosofia? Non mi schiero affatto con nessuno. A me interessa la pratica metafisica, che è filosofia autentica, e circa la quale non c’è da dire molto. In ogni caso sono estraneo a qualunque attività di ordine esoterico, che proprio non mi interessa. Dubito inoltre che Lynch, dei tre citati, sia legato a pratiche esoteriche. Il resoconto delle varie esperienze borderline da te praticate in Italia De Profundis sembra in realtà pura finzione letteraria essendo non credibile che una tale accuratezza lessicale, culturale e introspettiva appartenga a chi ha tentato coscientemente di abiurare al proprio raziocinio. Quanto c’è di vero in tali esperienze? Cosa significa per te “romanzare”? Non ravvedo assolutamente questa distinzione tra raziocinio ed emotivo. Anzi, per me il problema è proprio quello di unificare, stando a me e me soltanto, psichico emotivo e somatico attraverso la scrittura. È la possibilità di una sutura per un’antica ferita, quella che mi offre il refe della scrittura. Tra credibile e incredibile, poi, proprio tenderei a fare molta attenzione – in presa diretta, se si è stati molto immersi nella lingua che si percepisce come propria lingua, è possibile raggiungere gradi estremi di esattezza. Inoltre va detto che parte della critica, proprio laddove voi ravvedete accuratezza, percepisce cadute e incapacità linguistica. Se si cerca di sapere se sono stato con tre travestiti, dirò che no; se mi sono praticato inoculazioni di eroina, dirò di no; se ho ucciso un uomo affetto da SLA, dirò di no; se mi sono inviato una lettera a distanza di anni, dirò di no; se sono stato in un villaggio turistico in Sicilia, dirò di sì; se sono stato davanti a uno sciamano che somiglia vagamente al ministro Frattini, dirò di sì; se ho sofferto di orticaria insedabile perfino dal cortisone, dirò di sì. Tutto ciò non apporta nulla al grado di eventuale verità del libro. Romanzare, per me, significa spingere, attraverso verisimiglianza data a priori dalla lingua, a una domanda extraletteraria che è: “Chi sono io?”. Romanzare, per me, è tentare di giungere e far giungere al grado zero.

Quanto ti ha influenzato il filone “espressionista” (identificato da un noto critico letterario quale G. Contini) che parte da Dante e ha come sue peculiari caratteristiche ad esempio il pastiche linguistico, seppur tu lo utilizzi in ambiti stilistici? Moltissimo, sebbene non segua alcuna indicazione teorica in tal senso. Mi è molto chiaro, e principalmente perché vengo da una

militanza pluriennale nella poesia contemporanea, che la mia lingua di superficie è porosa, scarta, si muove addirittura grossolanamente, precipita per sbagli. Ciò è tipico di quella che il grande critico e traduttore Giuseppe Guglielmi definiva “linea calda”, la quale nozione molto ha a che spartire con quella continiana. Rifiuto totalmente invece l’idea del pastiche come approdo o effetto – si tratta, al limite, di un segmento di retorica, la quale retorica è un patrimonio umanistico che va reinterpretato, se non rifondato, secondo le indicazioni di Burroughs. La lingua di superficie, se di matrice espressionista, sta a indicare una lingua più carsica, fatta di ritmo e di retoriche che sono anch’essi sotterranei. Che cos’è www.ripubblica.net? È un’iniziativa editoriale della web agency in cui lavoro, Siris (www.siris.com), la quale iniziativa ha uno scopo che si scoprirà col tempo. Progetti futuri? Lavorare con più precisione, e più in silenzio, su me stesso. Dal punto di vista editoriale, che immagino interessi maggiormente, tre libri.

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Storia e attualità

History

Io non sono morto, sono diversamente vivo

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el 1612, dopo diciannove anni di sudore uscito dai venerabili pori di trentacinque accademici, venne alla luce il Vocabolario degli Accademici della Crusca: il primo vocabolario della lingua italiana. Centoquarantanove anni prima dell’unità d’Italia, si era cercato di unificarne la lingua – o perlomeno far sì che il fiorentino lo parlassero un po’ tutti, una specie di unificazione all’itagliana – e il perché è chiaro: bastano poche parole, scelte con cura, per fare qualsiasi cosa. Dopo trecentonovantotto anni dalla storica impresa, eccoci a fare i conti con il nostro italiano, non quello degli acronimi e delle kappa, ma quello delle parole vere spogliate del loro significato. In che senso? Handicap: inglese, originariamente ‘gioco nel quale la posta era tenuta con la mano (hand) in (in) un berretto (cap)1’. Gioco nel quale c’era l’usanza di rendere la partita un po’ più equa svantaggiando il giocatore più forte in favore 1 Fonte: Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli, 2001.

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del più debole. La parola viene data al popolo, inizia ad essere usata e immancabilmente finisce tra gli insulti. Non per qualcosa, ma tutto diventa un insulto prima o poi. Anche “giacobino” lo è diventato. Fatto sta che non va più bene, bisogna inventarne un’altra: invalido: di chi non può svolgere un’attività lavorativa a causa dell’età, di malattia o di infortunio2. Insomma, se prima eri uno cui dare qualche punto di vantaggio a cricket, ora sei uno che non produce, un peso per la società. Quanto tempo ci vuole affinché diventi anche questa un’offesa? Pochissimo tempo, ora siete: diversamente abili. Cioè? Sempre un peso, ma visto che a forza di dirvelo ci siete rimasti male, non è più vero che non siete buoni a niente, anzi, siete bravissimi a fare un fottìo di cose. Quali? Gli accademici moderni si astengono dal precisare, roba da tecnici. Ma non prendetevela, la mannaia delle parole cade su tutti. I poveri non sono più tali, ma “meno abbienti” (meno ricchi insomma); uno spazzino diventa un “operatore ecologico” (non spazza, ma opera); un bidello un operatore scolastico (insegna ai cessi a rimanere puliti) e un criminale diventa… diventa un pregiudicato. Così non fa più tanto schifo e lo si può anche mettere dietro a una scrivania; tanto è pregiudicato, è finito di fronte al giudi-

ce e la parola non specifica se assolto o meno. Io, da parte mia, mi adeguo alla nuova lingua (buonanotte accademici) e per questo non sarò più morto, ma diversamente vivo. di Marco Sigismondi

2 Fonte: Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli, 2001.

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Storia e attualità

I postumi della sbornia rivoluzionaria nella Francia di di Luca Sigismondi Napoleone III

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urioso come ogni rivoluzione partorita dalla lotta di classe, in Francia, abbia portato ad una dittatura… La rivoluzione del febbraio 1848, con le sue riforme, le sue speranze, muore dopo appena un anno di vita, soffocata dal riflusso conservatore delle masse contadine. Il divario tra Parigi e i piccoli centri, che soltanto ventidue anni più tardi segnerà la fine della Comune e della “democrazia diretta”, si andava facendo insormontabile. Le prime elezioni libere difatti, tenutesi nell’aprile del ’48, vedono la secca sconfitta dell’estrema sinistra e la vittoria dei “moderati”, persone più attaccate al portafoglio che agli ideali di democrazia e libertà; le masse contadine, finora estromesse dal voto, ripagano l’ impegno dei democratici per il suffragio universale eleggendo un’assemblea di clericali reazionari e borghesi corrotti. A trionfare è la creatura subdola e abortita dell’ignoranza: e “Marianne”, simbolo di libertà, di fraternità, d’uguaglianza, muore agonizzante tra le strade di Parigi, l’ultima città libera di Francia costretta a soccombere sotto i colpi dell’esercito nazionale. Gli operai e gli studenti scesi in piazza per protestare contro la chiusura degli Ateliers Nationaux (cooperative di lavoro) e la coscrizione obbligatoria, trovano ad attenderli i moschetti dei reparti regolari agli ordini del ministro Cavaignac, troppo “moderato” per giustificare la violenza, troppo padrone per non utilizzarla. Lo spettro del comunismo fu avvertito, quello della farsa democratica no. La nuova costituzione, approvata in novembre dall’Assemblea Legislativa, era ispirata al modello statunitense e prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo. Dal popolo ignorante, diseredato, troppo stanco per non cedere ai moniti e alle lusinghe dei conservatori e della chiesa che volevano un Bonaparte al potere. Luigi Napoleone Bonaparte III, reazionario, cospiratore, nemico del popolo viene eletto con quasi sei milioni di voti il 10 dicembre 1848. In pochi mesi il neoeletto presidente scatena una violenta repressione contro i democratici: sono arrestati gli oppositori, riaperte le porte delle università al clero e aumentate le tasse

sulle imprese giornalistiche di modo che solo i giornali finanziati dallo stato possano pubblicare regolarmente. Perché i tiranni possono essere pazzi, ma non stupidi: come Hitler abolì lo studio del greco (lingua che sviluppa fortemente la capacità di pensare), ma non l’inglese, così Napoleone III preferì una censura “morbida” che fosse in grado di zittire gli oppositori senza scandalizzare l’opinione pubblica benpensante. Da lì in poi, spianata la strada verso l’assolutismo, quella di Luigi Napoleone è una corsa facile e priva di ostacoli; le forze conservatrici che lo avevano portato al potere nella speranza di manovrarlo come un burattino (si vedano a tal proposito le dittature del secolo scorso nel Sudamerica) tentano disperatamente di metterlo in minoranza, ma inutilmente. Nel 1851, dopo il no della Camera alla sua proposta di legge volta a modificare la costituzione e ad estendere il potere del Presidente a tutti gli organi statali, Napoleone III irrompe nel luogo di riunione dell’assemblea, la scioglie d’autorità e ne arresta i rappresentanti. La strenua resistenza di Parigi, rimasta nuovamente isolata rispetto le circoscrizioni rurali, viene spezzata dalle pallottole dell’esercito e il 21 Dicembre dello stesso anno Napoleone viene eletto, tramite plebiscito a suffragio universale, “imperatore dei Francesi per grazia di Dio e volontà della nazione”. Sed vita brevis, ars longa: l’impero sopravvive vent’anni fino alla resa di Napoleone ai prussiani, il 2 settembre 1870 a Sedan. L’onnipotente sovrano muore tre anni dopo in Inghilterra, esiliato e dimenticato da tutti. La comune degli insorti di Parigi, in data 17 Maggio 1871, per concludere definitivamente il ciclo infame delle dittature francesi, decreta: “che la colonna imperiale di piazza Vendôme è un monumento alla barbarie, un simbolo di forza bruta e di falsa gloria, una affermazione del militarismo, una negazione del diritto internazionale, un insulto permanente dei vincitori ai vinti, un attentato perpetuo ad uno dei tre grandi principi della Repubblica Francese: la fraternità. La colonna Vendôme verrà demolita”.

La colonna Vendôme a piazza Vendôme, Parigi, nel 2007, cenotrentanove anni dopo il decreto. La colonna è ancora lì.

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Storia e attualità

Nascita della prigione. Sorvegliare e punire. di Elisabetta L’Innocente

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e pene si dividono in pecuniarie, correttive, detentive, pena di morte. La pena pecuniaria si divide in multa e confisca. Le pene correttive consistono nelle bastonate, nelle nerbate, nella marchiatura a fuoco, nell’esposizione alla berlina; le bastonate e le nerbate sono sia autonome che accessorie alle detentive e sono in pubblico o in privato, mentre l’imposizione del marchio e la berlina accedono sempre a pene detentive. Queste ultime sono di tre tipi: la prigionia sola, la prigionia con lavoro pubblico, la prigionia con catene. La prigionia, nei suoi tre tipi, si congiunge dando luogo così a tre intensità: mite, dura, durissima. Ciascun tipo di prigionia in ciascun’intensità viene ulteriormente qualificata dalla durata, distinguendosi a sua volta in: temporale, lunga, lunghissima e ciascuna lunghezza viene distinta in “di primo grado” e “di secondo grado”. Come evidente il sistema è ispirato ad una notevole durezza e non può dirsi unitario. Nel 1810, Napoleone Bonaparte mette in vigore il suo codice penale, vero masso granitico nella storia della codificazione penale. Bisognava proteggere, persuadere, minacciare e scoraggiare. L’arbitro della legge occupa il posto del giudice, senza nulla togliere alla mirabile articolazione del codice. Acquisire o garantire la più piccola delle libertà comportava la riscrittura di una norma penale, di un divieto, di un crimine. I giuristi hanno di fronte un nuovo dilemma: ordine o libertà? Può uno stato sospendere la libertà dei cittadini per conservare se stesso? Il conflitto si presenta nell’eterna dialettica di prevenzione e repressione, nella difficile convivenza tra le ragioni della giustizia e quelle degli incolpati che farà da sfondo allo scontro tra le classi durante tutto l’Ottocento. “Modernizzazione” del crimine, interventismo dello stato, “civilizzazione”* della società: queste tre componenti sembrano apparentemente congiunte, ma resta la difficoltà di assegnare a ciascuna la propria parte nel complesso processo di formazione della giustizia statale. Sotto quest’aspetto appare evidente in Europa che gendarmerie, pubblici ministeri, tribunali, prigioni, giudici contribuiscono a rendere sempre crescente l’influenza dello stato sul corso della giustizia. Ritornando alla questione sulla libertà di ciascun individuo, una notevole importanza ha la privazione di essa. L’imprigionare comporta un progetto tecnico. La prigione è meno recente di quanto si affermi quando la si fa nascere con i nuovi codici. C’è una svolta epocale tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX. Il passaggio ad una penalità, dunque, di detenzione. I modelli di detenzione penale: Grand, Gloucester, d Street, segnano i primi punti visibili di questa transizione, piuttosto che innovazioni o punti di partenza. La prigione

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segna un momento importate nella storia della giustizia penale: il suo accesso all’“umanità”**. Una giustizia che si afferma uguale, un apparato che si vuole autonomo, ma che sia investito dalle dissimmetrie degli assoggettamenti disciplinari; tale è il connubio da cui nasce la prigione: “Pena delle società civilizzate”***. È facile capire il carattere di evidenza che la prigione-castigo assume ben presto. Vaan Meenen nel 1847 dirà, in merito alla nascita del sistema penitenziario, al congresso penitenziario di Bruxelles, che “esso è il progresso delle idee e l’addolcimento dei costumi”****. Sebbene ci rendiamo conto, oggi, della pericolosità e degli inconvenienti della prigione stessa, essa rappresenta la detestabile soluzione di cui non si saprebbe fare a meno. Il tempo privato come castigo. La perdita della libertà come condanna nel tempo. Possiamo, perciò, parlare di una forma-salario della prigione, che costituisce, nelle società industriali, la sua evidenza economica e le permette di apparire come una riparazione: prelevando il tempo del condannato, si traduce concretamente l’idea che l’infrazione ha leso la vittima, ma in primis l’intera società. Si sta in prigione “per pagare il proprio debito”, “il fio”. La detenzione non fu mai confusa con la semplice privazione della libertà, essa è o deve essere un meccanismo differenziato o finalizzato. Carcere, casa di correzione, penitenziario devono corrispondere a queste differenze e assicurare un castigo non solo graduato in intensità, ma diversificato nei suoi scopi. La riforma della prigione è quasi contemporanea alla prigione stessa, ne è come il programma. Ci fu una loquace tecnologia della prigione. Famose in Francia le inchieste di Chaptal del 1801 riguardanti l’apparato carcerario, o quelle negli Stati Uniti di Beaumont de Tocqueville nel 1831, o i celebri questionari indirizzati da Montalivet nel 1835 ai direttori centrali e ai consigli generali nel periodo in cui era al culmine il dibattito sull’isolamento dei detenuti. Divenuta punizione legale, essa ha riaperto il vecchio problema del diritto di punire e tutte le agitazioni che hanno ruotato intorno alle tecnologie coercitive dell’individuo. Si arriva così al principio, formulato da Charles

Lucas, sul discutibile funzionamento del sistema penale moderno; una sorta di dichiarazione d’indipendenza carceraria: “la prigione deve essere un microcosmo di una società perfetta”*****. Si evince il chiaro riferimento al modello monastico e alla disciplina tipica di una fabbrica. Bisogna tener presente che la prigione, figura concentrata ed austera di ogni disciplina, non è un elemento endogeno nel sistema penale definito durante la svolta tra il secolo XVIII e XIX. Il tema di una società punitiva e di una semiotecnica generale della punizione che ha sotteso i Codici ideologici beccariani o benthamiani non richiedeva l’uso generalizzato della prigione. La prigione viene da altrove, viene da meccanismi propri ad un potere disciplinare. La giustizia penale definita nel XVIII secolo dai riformatori tracciava due possibili linee di oggettivazione criminale, due linee divergenti: l’una era la serie dei “mostri”, morali o politici, caduti fuori dal patto sociale, e l’altra era quella del soggetto giuridico riqualificato dalla punizione. Che l’innesto della prigione sul sistema penale non abbia prodotto violenti rigetti è dovuto a molteplici ragioni, una delle quali è che, fabbricando delinquenza, si è dato alla giustizia criminale un campo oggettivo unitario. La prigione, spiega Michel Foucault, è la zona più buia entro l’apparato della giustizia, è il luogo dove il potere di punire organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui il castigo potrà funzionare in piena luce terapeutica e la sentenza s’inserirà tra i discorsi del sapere. Si capisce come la giustizia abbia adottato tanto facilmente una prigione che non era stata tuttavia figlia del suo pensiero. Note: * P. Piasenza, Polizia e città, Bologna, 1990, pp. 337-352. ** M. Faucault, Sorvegliare e punire, To, 1976, p. 181. *** L. Rossi, Trattato del diritto penale 1829, op. cit. in G. Solfaroloi Camillocci, Nel palazzo del potere, To, 1989, p. 81. **** M. Foucault, Nascita della prigione, To, 1986, pp. 211-213. *****L. Cajani, Criminalità, giustizia penale e ordine pubblico nell’Europa moderna, Mi, 1997, p. 118.

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Pittura e scultura

marcel

duchamp

il ready made

“V

olevo far sì che la pittura servisse ai miei scopi e volevo allontanarmi dal suo lato fisico. A me interessavano le idee, non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente […] Di fatto fino a cento anni fa, tutta la pittura era stata letteraria o religiosa: era stata tutta al servizio della mente. Durante il secolo scorso questa caratteristica si era persa a poco a poco. Quanto più fascino sensuale offriva un quadro – quanto più era animale – tanto più era apprezzato”. A quindici anni, Duchamp cominciò a dipingere sotto l’influenza degli impressionisti, dai quali prese poi le distanze per abbracciare il Fauvismo, altra corrente che avrebbe presto abbandonato; non ancora trentenne, insoddisfatto dalle possibilità espressive che la pittura metteva a disposizione degli artisti, cominciò a dedicarsi al Grande Vetro, opera costituita da un insieme di elementi grafici riportati su lastre di vetro e metallo, permeata da una serie di simbologie e da apparenti non sense. Duchamp voleva dimostrare che l’arte non era rappresentazione, ma presentazione; il compito dell’artista, perciò, consisteva nel donare un senso all’oggetto. “La pittura – sosteneva Duchamp – non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe avere a che fare con la materia grigia della nostra comprensione invece di essere puramente visiva […] Per approccio retinico intendo il piacere estetico che dipende quasi esclusivamente dalla sensibilità della retina senza alcuna interpretazione ausiliaria. Io ero talmente conscio dell’aspetto retinico della pittura che, personalmente, volevo trovare un altro filone da esplorare”. Dalla necessità di donare il senso agli oggetti, nacquero allora i “ready-made”, strumenti d’uso comune che, attraverso la “scelta” dell’artista, si trasformavano da elementi ordinari in opere d’arte. Un esempio lampante è quello della ruota di bicicletta, o quello ancor più famoso di Fountain, l’orinatoio rovesciato che la giuria della Society of Independent Artists rifiutò indignata. In realtà quella di Duchamp non era una provocazione, ma l’espletazione di un concetto: da quel momento, per lui, il lavoro dell’artista non consisteva più nella creazione dell’opera, ma nella selezione e ricontestualizzazione dell’oggetto che, in questo modo, avrebbe perso il proprio significato oggettivo per acquistare il valore soggettivo proposto dall’artista; al contempo anche lo spettatore, divenuto “soggetto interpretante”, avrebbe acquisito un ruolo attivo rispetto all’opera. di Giorgia Tribuiani

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Pittura e scultura

un viaggio tra i grandi del Novecento Intervista a Rocco Sambenedetto

di Denis Bachetti e Luca Torzolini

“L

’arte non si vede”, una sua dichiarazione. Cosa signifca esattamen-

te? L’arte è ciò che l’artista ha in mente e non ciò che la tela esplicita. L’intensità della presenza umana nel quadro sovrasta ogni artifizio tecnico; la presenza sentita del pittore si palesa in tracce e campiture preziose ed inaspettate. Un bel quadro è nulla rispetto ad un quadro sentito.

bene e semplicemente guidati da una grande moralià intrisa di passione. Di Piero Guccione, dicevamo, ammiro quella sua estatica meticolosità: ama tornare sullo stesso quadro anche dopo 10 anni, per lui è importante solo il risultato finale. Inoltre Guccione scrive in modo sublime: ho avuto la possibilità di avere con lui un continuo scambio epistolare. Di Saetti mi ha stupito la semplicità incredibile: le

tà. Era un pittore lirico, un colorista. Il colore lo sentivi, c’era una vibrazione notevole nei suoi quadri. A mio avviso egli ha influenzato e continua ad influenzare molti pittori italiani. La storia lo ha un po’ penalizzato relegandolo, in ambito internazionale, ad un ruolo più modesto rispetto al suo talento. Sono sicuro che in futuro verrà fuori il suo genio. Non dipengeva ciò che vedeva, dipingeva ciò che

Lei ha avuto la fortuna di allacciare stabili e sinceri rapporti di amicizia con personaggi di prim’ordine nell’ambito dello scenario artistico italiano della seconda metà del 900. Tra gli altri, Saetti, Guccione, Licata, Guttuso, Guidi: quali sono le vicende che ricorda con maggior piacere? La frequentazione di Guidi mi ha arricchito molto, soprattutto il suo consiglio di ascoltare gli altri: tutti hanno qualcosa da insegnare osservava, Guccione si impegnava allo stesso modo, sempre al massimo, per ogni faccenda, per ogni cosa, dalla più piccola alla più grande. Ritengo che dietro ad ogni grande artista si nasconda un grande uomo; incline all’amore, alla passione, alla comprensione. Si vive

sue figure semplici e maestose così lontane dal clamore: lo ricordo esclamare davanti ad un manifesto affisso a Venezia; “questi americani non sono niente. Hanno comprato anche l’arte!”. Con Guttuso il contatto umano era massimo: si metteva al tuo livello, ti faceva sentire un grande amico. Le mie esperienze con lui e con gli altri hanno avvicinato il mio ideale di artista ad ambiti di altruismo e generosità; onde fluttuanti di emozioni verso spiagge di placida sapienza. E cosa ci dice di Alberto Gianquinto? Gianquinto aveva lo sguardo proiettato verso il futuro. Usava grandi formati e riusciva ad esprimere l’essenza della propria interiori-

pensava. Egli precedeva il pensiero. Dell’incontro con David Rauschenberg cosa ricorda? Ricordo il comportamento alla mano. Il suo inglese cadenzato, il suo sorriso. Lo ritengo un grande artista del suo tempo. Ha posto l’Europa di fronte all’ America e viceversa, rimescolando a suo modo le carte artistiche del pianeta. Cosa pensi dei critici? Molti critici sono sterili, fanno giri di parole da giostrai, in realtà il loro scopo è non farti capire ciò che vogliono dire, se davvero hanno qualcosa da dire. Pochi sono validi e quelli validi sono davvero essenziali per la pittura.

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Pittura e scultura Quali sono le doti che dovrebbe possedere un talentuoso gallerista? Una grande sensibilità. Saper leggere nelle persone ed essere a volte più sensibile dell’artista stesso. In secondo luogo saper promuovere, richiamare personalità e gente al fine di far emergere dell’artista il messaggio, la poetica, la Weltanschauung o come si dice... Cosa non dovrebbe mai fare un gallerista di oggi e cosa non ha più opportunità di fare rispetto ad un gallerista dei suoi tempi? Molti galleristi promuovono tutti i quadri. Sono tutti belli, in effetti, ma tutti uguali.. È

È un’iniziativa a cui di quando in quando do seguito. È semplicemnte una serata dove ci si riunisce, anche in pochi, ad osservare uno o al massimo due quadri. Si discute delle sensazioni che suscita il quadro, della tecnica e si finisce a parlare di tutt’altro, magari di nuovi progetti artistici. Qual è a suo avviso il futuro dell’artista? Cosa ci rimane ora dopo un secolo di straordinarie espressioni quale il ‛900 è stato? Il futuro è duro, arduo, insidioso, sterile. La linea di condotta dell’artista è in simili circostanze fondamentale per poter porre seguito ad un’esperienza di sì bruciante creatività quale quella del secolo scorso. Ancora creare: creare senza sosta.

Cosa senti di consigliare al giovane artista in erba? Frequentare le mostre valide e i grandi artisti. È importante frequentare ambienti molto evoluti per mettersi in rapporto con gente che può farti crescere spiritualmente e tecnicamente. Come ti approcci alla tela? Mi concentro sulla memoria, do un senso al tempo. Più si pesca a ritroso, più la trasposizione acquisisce senso.

stato sempre così, ma oggi la cosa è peggiorata. La condizione essenziale per la qualità in un quadro è che sia unico, diverso da tutti gli altri. Oggi c’è frastuono e confusione; si sceglie a caso e ci si fida di tutto tranne che dell’intuito. Oggigiorno l’affermazione di un artista prevede un excursus? Ci vuole tempo. Non serve fare il giro d’Italia e avere esposizioni dovunque. Non serve avere il sito internet se ancora non avete creato un’opera. L’unica cosa importante è creare, creare senza sosta.

Che ne pensi della pop art? Che ne pensi dell’arte concettuale e delle performance? E dei nuovi mezzi espressivi come la videoart? Andy Warhol era un grafico e un pensatore. Ritengo che l’operato grafico di Warhol sia di alto profilo. Aveva una sovraumana capacità di comunicare. Inarrestabile. Ma non era un pittore, non c’entra niente con la pittura quella roba. Lo stesso giudizio è da me riservato all’arte concettuale e alle performance: non appartiene più al mio modo di concepire l’arte; sono nuove forme di espressione. Avulse, scollate dal mio tempo, ma non meno rispettabili del fulgore dei miei decenni.

aspira semplicemente a togliere polvere dai ricordi, rendendoli vivi sulla tela, rievocando l’intensità emotiva del vissuto. Maggiore è lo scarto temporale, maggiore risulterà l’intensità emotiva del mio viaggio empatico.

Cos’è una serata nomade?

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In che stile ti identifichi maggiormente? Il mio è un lirismo simbolico. Una volta usavo l’olio, oggi prediligo l’acrilico. La mia pittura

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Fotografia

Come commercializzare l’aggettivo “umano” La campagna Shock degli organi di marca

di Luca Torzolini

(La lettura di questo articolo è consigliata ai fragili di spirito e ai deboli di cuore) Le opere d’arte, che rappresentano il più alto livello di produzione spirituale, incontreranno il favore della borghesia solo se verranno presentate come qualcosa in grado di generare direttamente ricchezza materiale.

L’arte moderna non è altro che lo strumento con cui terrorizziamo noi stessi. Tracey Emin

Karl Marx

Nel secolo ventesimo primo di Vostro signore (e non scusate l’auto-esclusione), ogni bene, primario o secondario, ha da tempo assunto un valore commerciale. Prendendo come riferimento un qualsiasi modello, dal comunismo al capitalismo, dovremmo considerare necessario il rispetto dei diritti umani; non mi riferisco ai dettami che elencano le leggi, modificabili a piacimento dai nostri “sovrani”, ma a quelli che ogni essere umano dovrebbe garantire all’altro senza troppo togliere a se stesso. Resta da stabilire quale sia la linea di confine tra ciò che può essere prezzato e ciò che, concernendo la sfera della dignità umana, esula dalla possibilità di avere un equivalente in denaro. Ma la storia non ci ha insegnato questo; le strazianti urla di miliardi di schiavi echeggiano da tutte le ere per il commercio bestiale che se ne fece. Poi fu la volta della chiesa: stabilì elevate tariffe per le differenti tipologie d’indulgenze, così come oggi si paga il peso di esistere tramite la voglia di bere una bevanda energetica dopo una corsa. Perché il bicchiere d’acqua non basta più? Troppo semplice, scontato, insapore. Eppure

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è un bene che rischia di rimanere gratuito ancora per poco: presto privatizzeranno l’acqua. Poi verrà la volta dell’aria. E infine l’umanità, inginocchiata, elemosinerà qualche spicciolo ai potenti per trovare il fiato che gli consenta di continuare a leccargli le scarpe. Resterebbero le stelle in cui sperare. Peccato! Sono in vendita. Giovani innamorati si sono affannati a donare a caro prezzo il nome delle loro metà agli astri più splendenti e, se oggi ci si limita a battezzarli, probabilmente domani chi vorrà far sostare il proprio desiderio su essi dovrà pagare una tassa al proprietario, similmente al giocatore di Monopoli che versa l’imposta al possessore del territorio su cui indugia. Ma a proposito di battesimo si sente addirittura parlare, forse provocatoriamente, di bambini in carne ed ossa venduti in America tramite annunci legalizzati sulle riviste, al modico prezzo di un’assenza di senso di colpa. Per salvaguardare la vostra salute, invece, che ne dite di due anni come cavie per farmaci d’avanguardia tumorale? D’altra parte opinion makers pagati dalle industrie farmaceutiche scriveranno i discorsi in difesa del medicinale assassino. Arringhe non troppo dissimili, d’altronde, dagli aulici discorsi che critici senza rispetto per la cultura imbastiscono per un ingente versamento sul loro conto bancario: vi prego, donateci ancora pseudointellettuali! E se in passato si vendeva l’anima al diavolo per raggiungere vette intellettuali o artistiche, oggi la si vende insieme alla sapienza e all’arte al miglior offerente. Troppi scienziati hanno messo il sapere nelle mani di ricchi industriali. L’industria genetica si sta spingendo oltre i propri limiti. In parte questo è un bene. Ma immagino già il giorno in cui vedrò in vetrina organi creati in laboratorio appositamente per i trapianti. Organi “made in China” nei mercati e “organi di marca” nei negozi. Sperando di indurre ad una riflessione sulla vita e sul suo significato, ho prodotto una serie di fotografie che riproducono immagini pubblicitarie degli organi della LT Corporation. Ho inoltre impaginato un catalogo pubblicitario e scritto gli

appositi testi che ne enunciano proprietà anatomiche e fisiologiche innovative. Il modello più richiesto del catalogo sarà sicuramente il cuore LT 417. “Ultimo prodotto dell’industria genetica moderna, il cuore LT 417 è necessario per chi voglia assaporare sensazioni piene e grandi amori. L’elevato numero di coronarie garantisce una durata maggiore rispetto ai vecchi modelli e la produzione di particolari molecole anfipatiche da parte dell’apparato di Stronks, presente nelle cellule del ventricolo sinistro, impedisce la formazione di coaguli nel cuore assicurandone un risciacquo interno. Necessario menzionare il meccanismo vocale per interrompere l’attività dell’organo: settando anticipatamente al trapianto un piccolo congegno in titanio sarà possibile ottenere degli infarti a comando in modo da avere sempre l’eutanasia in tasca” Sono un avvoltoio che plana sopra le rotaie. Voi siete le rotaie. Ogni tanto scendo in picchiata e mi accorgo che se vi afferrassi con gli artigli sarei per sempre intrappolato a terra.

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Intervista a

ferdinando scianna

l'artigiano della fotografia

di Eclipse.154 e Luca Torzolini

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hi è Ferdinando Scianna? Ci parli di lei. Ho quasi sessantasette anni e faccio il fotografo. Da oltre quarantacinque. Questo mi ha portato a lasciare la Sicilia, a fare il fotoreporter, il giornalista e a fare esperienze diverse nel mio mestiere che mi hanno fatto campare e mi hanno anche fatto pubblicare una trentina di libri. Una buona vita, tutto sommato. Molto fortunata, forse. Certo, ho avuto dalla fotografia molto più di quanto abbia dato alla fotografia. Nelle sue opere possiamo riscontrare svariati temi, quali la guerra, il viaggio, la religione. Cosa la spinge a indagare in queste direzioni? L’antropologia, nel senso dell’interesse per quello che succede ai miei simili intorno a me, mi ha spinto, ancora ragazzo, a occuparmi delle feste religiose in Sicilia, che è un po’ diverso dall’occuparsi di religione. Il mio mestiere mi ha poi portato a viaggiare. Per un reporter, viaggiare e fare il fotografo sono quasi sinonimi. Cos’è la fotografia? Per me è una maniera di vivere, di entrare in relazione con il mondo, di guardare cercando di vedere, di capire. Un grande diario della mia esistenza. Un suo celebre aforisma è “Credo che la massima ambizione per una fotografia sia di finire in un album di famiglia”. Qual è il motivo di questa sua convinzione? Adesso si vuole considerare la fotografia come fosse una semplice immagine, una pittura, un disegno; ma non è questo la fotografia. La sua novità, il suo scandalo, in un certo senso, consiste nel fatto che le immagini fotografiche, per la prima volta nella storia dell’umanità, ci hanno fornito immagini non fatte, ma ricevute, piccoli strappi di esistenza. Per questo le incolliamo nei nostri album di famiglia. Farle, usarle e guardarle togliendogli questo misterioso senso di frammento di vita è rinunciare, buttare via la polpa della fotografia per accontentarsi della buccia formale. Se dico Leonardo Sciascia, lei cosa risponde? La persona determinante della mia vita. Padre, amico, maestro. Mi ha insegnato a pensare e a distinguere l’autentico dalla paccottiglia, lo stile dallo stilismo. E se dico Henri Cartier Bresson? Maestro e punto di riferimento, già da molto tempo prima di incontrarlo. Ho visto i suoi due grandi libri a casa di Sciascia. Poi è diventato uno dei grandi amici nella mia vita. Gli devo moltissimo. È stato con me di una generosità esagerata.

ITALIA, Sicilia, Bagheria: MARPESSA a Villa Palagonia. ©Ferdinando Scianna / Magnum Photos/ Contrasto

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Fotografia

L’arte come testo: come vanno lette le sue immagini? Ogni immagine contiene implicitamente un testo. Quello di chi la fa, quello di chi la usa, quello di chi la guarda. Il massimo che ti possa succedere, come fotografo e come uomo, è che altri, guardando le tue foto, ci leggano lo stesso “testo” che ci avevi messo tu, o meglio ancora lo arricchiscano con un testo nuovo nutrito, della propria esperienza e sensibilità. Come s’inserisce la memoria nel procedimento fotografico? Proprio perché la fotografia è quello strappo di vita di cui parlavo, la sua irruzione nella cultura occidentale ha profondamente trasformato la nostra stessa maniera di concepire e usare la memoria. La fotografia dà l’illusione di potere risalire nel tempo; siamo i primi a sapere che aspetto avevamo da bambini e come da bambini erano i nostri genitori. Ha cambiato il no-

maniera di concepire un libro con fotografie. Che differenza c’è, in termini di qualità di resa, fra una fotografia in bianco e nero e una fotografia a colori? Nessuna. Ognuno usa la lingua che meglio esprime quello che vuole dire. Qual è la situazione in Italia per quanto riguarda la fotografia? Nel tempo il ruolo sociale del fotografo è mutato? Era un artigiano. Lo si vuole trasformare in artista. Cattivo segno. Nessuno sa più che cosa sia l’arte. Allora che me ne importa di essere chiamato artista? Questa divinizzazione assomiglia a un funerale. Cosa consiglia a chi vuole intraprendere questo mestiere? Di farlo, appunto, come mestiere. Credendoci, divertendosi. Di non pensarlo come una carriera. “LA GEOMETRIA E LA PASSIONE”, la fotografia capace di narrare

ITALIA. Sicilia. Provincia di Catania. Trecatagni. Festa di Sant’Alfio, San Cirino e San Filadelfo. 1963 ©Ferdinando Scianna / Magnum Photos/ Contrasto stro sentimento del tempo. Proprio perché da l’illusione che se ne possa fermare un istante. Ci parla della morte, nutre la nostra memoria. Che significato riveste per Ferdinando Scianna la città di Bagheria? È il mio paese, quello in cui sono nato e vissuto fino a ventidue anni, nel quale si è costruito il mio immaginario e la mia educazione sentimentale di uomo, i miei amori, i miei rancori. La cassapanca della memoria da cui incessantemente si cavano i frammenti per costruire il proprio presente. In una delle sue ultime conferenze a Roma ha spiegato che mettere insieme un libro di fotografie equivale a raccontare una storia. In che senso? Un libro è la messa in prospettiva e la materializzazione di una scrittura, con parole come con immagini. Io ho una concezione molto letteraria della fotografia e questo determina, ovviamente, la mia

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Ferdinando Scianna incarna una forma rara di fotografia, quella che si può leggere a diversi livelli di significato e in cui una vasta cultura è la base per le qualità plastiche ed estetiche. Siciliano, scrittore e letterato, amante appassionato di antropologia e scienze umane, Ferdinando Scianna trasferisce con irruenza, nella fotografia, il pathos e la lirica con cui percepisce la vita. Cooptato da Henri Cartier-Bresson, suo “maestro di sempre”, è il primo fotografo italiano a entrare a far parte, nel 1982, dell’agenzia Magnum: conferma e consacrazione della forza e dell’importanza della sua fotografia, da sempre strettamente legata ai temi della sua terra, del ricordo, di una memoria che è fatta di pensieri, di miti antichi rivissuti in chiave contemporanea, di maestri da cui imparare, di improvvise intermittenze del cuore, di volti riconosciuti e mai dimenticati. Di umanità. Questo volume presenta una scelta retrospettiva delle immagini realizzate da Scianna.

01. ITALIA. Sicilia. Province di Palermo. Villaggio di Polizzi Generosa. ©Ferdinando Scianna / Magnum Photos/ Contrasto

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Fumetto

La Raje e l’utopia del fumetto S

di Luca Torzolini

pesso definito “letteratura disegnata”, il fumetto esprime un pensiero, una visione o a volte semplicemente un’emozione dell’autore tramite un particolare codice narrativo. Esso è costituito da sequenze illustrate montate a ricreare il tempo in cui si vuole raccontare la storia. La Raje, progetto dell’etichetta Abruzzocomics, è un magazine finanziato dall’associazione culturale no profit L.N.D. di Cellino Attanasio. Nata dal desiderio di rendere noti i talenti dell’entroterra abruzzese, si presenta sottoforma di raccolta di fumetti disegnati e sceneggiati da diversi autori. Il nome, ripreso da una canzone di Lou X, simboleggia gli abruzzesi che restano e non se ne vanno, nella speranza di seminare un futuro florido e creativo. Nel numero zero è possibile visionare una rabbia sottile, giocata a rimbalzo, come quella di Ulderico Fioretti, che presenta cinicamente i retroscena surreali del confessionale di una chiesa attraverso uno stile realistico, a tratti quasi fotografico. O ancora la rabbia diretta e ironica dei disegni di Alessandro di Massimo (“Dimas”) che dona tentacoli a un fricchettone-pianta per fare a pezzi il classico poliziotto invasato; qui la matita underground richiama il mito dei fumetti indipendenti da fanzine, esplorando uno scenario splatter. È presentata poi una rabbia evocativa, quella di Simone Zaccagnini, che racconta tramite le

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parole di Nicola Di Giansante il senso di vuoto ridondante regalato da una vita comune tramite una notte insonne, resa tale dal pulsare sistematico di un dente; l’utilizzo di una tecnica mista fa da banditore per l’entrata di un genere insolito che uniforma in un’unica trama fotoritocco, utilizzo di pastelli e pittura a olio. C’è inoltre la rabbia disperata di Aurora Canfora che immagina il fantasma di un morto-suicida galleggiare nel tempo perché non ci si può ammazzare una seconda volta; lo stile dark-underground con la particolare impaginazione crea, in accordo con la storia, una netta sensazione di spaesamento. E infine Fabrizio Di Nicola ci proietta nella sua rabbia comico-demenziale, dove il “Tottor Zozzenstain” cercherà di conquistare il mondo tramite la distruzione delle lettere S, R e C; surrogato di un nonsense portato ai limiti dell’inverosimile, il fumetto si presenta in stile cartoon, con accenni a Cavazzano ed altri. L’utopia del fumetto ancora una volta fa da padrona, scavalcando le case editrici e imponendo i propri prodotti senza sentire ragioni. Questa grande arte visiva ha un’anima, radici ben conficcate nell’identità di chi trae dalla propria storia e dal proprio bagaglio culturale la linfa che lo porterà a comunicare al mondo il proprio messaggio. Che La Raje sia con voi! Per maggiori informazioni scrivere ad abruzzocomics@hotmail.it

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Fumetto

Visita guidata

all’Arkham Asylum

di Marco Cortellini

Autore: Grant Morrison Disegni: Dave McKean Albi originali: Arkham Asylum (1989)

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utto nacque nel lontano 1989, quando un giovane scrittore scozzese, appena arrivato negli States, propose alla DC di promuovere l’Arkham Asylum, manicomio di Gotham City sino allora apparso solo come sfondo, a protagonista assoluto, presentandolo ai lettori sotto tutt’altra luce: una luce mostruosamente oscura. Il capolavoro di Morrison certo non è un fumetto tradizionale, costruito su stereotipate scene d’azione o sonore batoste al cattivone di turno, né tantomeno un thriller mozzafiato; s’impone, al contrario, come un’ambiziosa opera letteraria, un “must” che trascina il lettore dinanzi ad un alienante viaggio onirico nella mente umana; protagonista è un Batman terrorizzato da se stesso e dagli inquietanti punti di contatto che avverte nella sua controfigura, un Joker terribilmente psicopatico. Quale Virgilio nell’Inferno dantesco, Joker scorta il protagonista attraverso le stanze del manicomio di Arkham, popolate dal Cappellaio Matto, Due Facce, Spaventapasseri e da molteplici figure bizzarre che finalmente hanno la possibilità di giocare con la propria nemesi in un non-luogo dove nulla ha più un senso. Grazie ai flashback che cadenzano la disperata quest del protagonista, Morrison ci lascia poi esplorare i segreti del dottor Arkham, raccontandoci di un ragazzino spaventato e insieme affascinato dalla malattia mentale della madre, che decide di sacrificare la propria vita allo studio della psiche sino a persuadersi, ossessivamente, di poter effettivamente scoprire gli enigmi più oscuri dell’infermità mentale. A questo punto cambia tutto: l’irrazionale diventa razionale. Mediante un epifanico balzo temporale che riconduce di colpo il lettore nel presente, Morrison tramuta la casa d’infanzia nell’inquietante Arkam Asylum, mentre la figura del dottore sembra stagliarsi come un’ombra sciamanica sul manicomio sino a permearne le stesse pareti. Avvalendosi delle meravigliose tavole di Dave McKeane, l’autore ci racconta insomma la tormentata catabasi di un eroe “maledetto”, che corre il rischio di perdersi, pagina dopo pagina, oltrepassando quel confine che i reclusi di Arkham hanno già da molto tempo attraversato. Predominano nell’opera il simbolismo e l’occultismo, grandi passioni di Morrison, qui rimodulate nelle forme più varie, dai tarocchi al sale sino alle insistenti citazioni veterotestamentarie: basti ricordare l’arcangelo Michele che sconfigge il drago biblico, personificazione del male. Doveroso, infine, lodare il package: un’edizione notevole, in formato absolute con elegante copertina rigida, arricchita dello script originale in inglese e in italiano, ottimo viatico per accedere alle diverse chiavi di lettura che lo scozzese ci regala. Arkham Asylum è la graphic-novel più venduta di tutti i tempi: ci sarà un motivo, no?

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«Io non voglio stare tra i matti - esclamò Alice. Oh, non puoi farci niente - disse il gatto - qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta. Come fai a sapere che sono matta? - chiese Alice. Devi esserlo - disse il gatto - altrimenti non saresti qui.» (Lewis Carroll)

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Fumetto

Se questo è un topo di Chiara Di Biagio

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e questo è un uomo, si chiedeva Primo Levi. Art Spiegelman gli rispose alla prima vignetta. E l’effetto della sua risposta fu così dirompente che nel 1992, al Premio Pulitzer, dovettero creare uno “Special Award” per poterla premiare: fu il Big Bang del mondo del fumetto, l’evento che diede inizio all’era della Graphic Novel. Perché Maus

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è un fumetto, ma è anche un capolavoro che andrebbe posto nelle librerie affianco a opere come I racconti della Kolyma di Salamov, Arcipelago gulag di Solženicyn e Se questo è un uomo, naturalmente. Per non storcere il naso davanti a questa affermazione bisogna liberarsi di tutti i pregiudizi che relegano il fumetto a mero intrattenimento per ado-

lescenti, andare oltre il mezzo usato, capire che le immagini hanno la stessa dignità della parola scritta; anzi, forse questa è zoppa – rimane sempre un passo indietro – a suo confronto. Perché l’immagine ha qualcosa che la parola non ha: l’immediatezza, la capacità di comunicare tutto in un solo istante, prima ancora che il cervello abbia avuto il tempo di comprendere con la ragione. Basta una sola vignetta a dare un volto – quello di un topo – all’orrore dell’olocausto. Il topo, animale ripugnante per molti (compreso Hitler che pensò bene, per uno dei suoi filmati di propaganda, di utilizzare immagini di orde di ratti per descrivere la minaccia ebraica), ma che qui si fa veicolo di un transfert emotivo intenso e struggente. Come ebbe a dire anche Umberto Eco: “Quando questi due topolini parlano d’amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in un linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi da un ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico.” Maus sa essere un capolavoro per questo: perché narra una storia fatta di uomini e di topi, di uomini come topi. Non conosce la freddezza dei libri di storia che sanno parlare solo per numeri, cifre piene di zeri che nascondono sofferenze uniche di singoli uomini: la crudeltà nazista che uccide le identità, prima ancora dei corpi, non ha ancora fine. È una tragedia Orwelliana costruita come una scatola cinese: c’è un padre che narra la sua terribile verità a un figlio, Art, che a sua volta la racconta a noi (ecco, Maus è anche questo: è un passaggio di consegne, un dono. Ascoltare non è forse farsi carico del fardello altrui?) e silenziosamente, sotto i nostri occhi, pagina dopo pagina, prende vita Maus: il libro racconta se stesso. È una storia che in fondo gravita attorno ad un unico perno: l’incomprensione. L’incomprensione di un figlio per il padre, incapace di vivere se non in quel passato che riaffiora continuamente, squarciando la realtà, sottoforma di infinite manie; l’incomprensione per il gesto scellerato della madre, suicidatasi nel silenzio (forse uccisa dalla ferocia subita, forse oppressa dal dolore di madre che è stata incapace di proteggere i suoi figli, l’uno dalla bestia nazista, l’altro dalla depressione); l’incomprensione per un orrore più grande di ogni loro forza, quell’olocausto che ha segnato la fine della Civiltà Occidentale, dopo il quale non abbiamo più potuto considerarci uomini. Ma come diceva Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. E Maus assolve il suo dovere alla perfezione.

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Francesco Guzzi Pittore 3297169824 www.re-volver.it

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Intervista a

Riyoko Ikeda

Dai manga alla musica

Intervista realizzata nell’ambito del festival Collisioni 2010. www.collisioni.it di Hanry Menphis e Luca Torzolini Traduzione di Simona Stanzani

la rivalsa di una donna giapponese

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el fumetto giapponese ci sono varie categorie. Lei è divenuta famosa grazie ad uno shoujo manga, cioè un fumetto per ragazze. All’epoca, nel ’72, non c’erano altri esempi di manga per ragazze che trattassero temi storici. Anzi, lo stesso editore che ha pubblicato La rosa di Versailles aveva forti dubbi. Com’è nata l’idea di trasporre “La Storia” in un fumetto indirizzato alle ragazze giovani? Quali sono state le varie difficoltà? Negli anni ’70 era veramente difficile per un’autrice di shoujo manga parlare di temi storici, poiché si rivolgeva a bambine dai 10 ai 14 anni. A me interessava principalmente creare un’opera innovativa, una cosa mai fatta prima. Inoltre volevo parlare di una donna che avesse un ruolo importante nella società. A quell’epoca in Giappone, una società supermaschilista, il problema della donna che lavorava era discusso dagli uomini. Quindi non volevo soltanto scrivere una biografia di Maria Antonietta, ma soprattutto affrontare la società maschile nei panni di Oscar e sperimentare quella realtà nei panni femminili. All’inizio non sapevo come sarebbe andata a finire e pian piano, insieme al personaggio, ho iniziato a vivere io stessa la storia che scrivevo. Ciò che emerge da tutte le sue opere come La rosa di Versailles, La finestra di Orpheus e nelle altre biografie che ha realizzato, ad esempio quelle dell’imperatrice Caterina II di Russia e della regina Elisabetta I d’Inghilterra, si percepisce l’interesse per la condizione della donna all’interno della società nelle varie epoche. Voleva raccontare l’emancipazione della donna nel periodo storico esaminato o era lo specchio di quello che negli anni settanta stava avvenendo anche in Giappone? Una scena di La rosa di Versailles per me molto importante è quando Oscar parla con suo padre e gli chiede “Ma se tu mi avessi cresciuta come una donna, avrei fatto come le mie sorelle, sposandomi, andando ai balli, indossando bei vestiti?” e lui dice “sì”: in quella scena lei lo ringrazia di averla cresciuta come un uomo. Per me la vita di Lady Oscar, questo personaggio tragico, è una vita pienamente soddisfacente e lo ritengo il mio modello ideale di vita femminile. Ai tempi di Oscar, se una donna voleva vivere autonomamente la propria vita doveva per forza trastiversi da uomo, mentre nel Giappone di quarant’anni fa c’era una sorta d’indipendenza apparente poiché la società era egualmente molto maschilista, e lo è anche adesso. Altro elemento interessante di La rosa di Versailles e di La finestra di Orpheus è l’immagine di una protagonista donna che si traveste da uomo, quindi il travestitismo come elemento quasi di liberazione della sessualità per decretare l’affermazione personale. Ce ne può parlare? Quando ho iniziato a scrivere Lady Oscar non

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Fumetto

avevo pensato al concetto di travestitismo: lei era vestita da uomo per necessità. Successivamente mi sono interessata a questo fenomeno, l’ho studiato e mi sono accorta che in Europa non era una cosa così strana. Anche Caterina di Russia disse che per fare un mestiere da uomo era necessario vestirsi come tale. Un’altra donna che si travestiva era Giovanna D’Arco; lei non fu messa al rogo perché ribellatasi al regno d’Inghilterra, ma perché andava in giro travestita da uomo. Anche per il fatto che la Chiesa condannasse duramente questa cosa, per una donna che voleva combattere per vivere la propria vita, aveva senso vestirsi da uomo. È un peccato che non valga il contrario, cioè che, per combattere, un uomo non debba travestirsi da donna.

La rosa di Versailles è una storia romantica, una storia che riusciva a regalare speranze e sogni alle ragazze che la leggevano. Nei manga moderni si trovano disperazione e ansia nella rappresentazione delle ragazze di oggi. Cosa ne pensa?

Quando la Austen ha scritto Orgoglio e pregiudizio ha affermato che il signor Darcy rappresentava il suo uomo ideale. Nel personaggio di André, in La rosa di Versailles, c’è qualcosa che rimanda al suo ideale di uomo?

Quale crede sia il messaggio più forte che La rosa di Versailles è ancora in grado di dare alle giovani donne?

La storia Europea è ben presente nei suoi manga. Come si è sviluppato quest’interesse? Ha mai preso in considerazione l’idea di ambientare altre storie in contesti non europei, tipo la guerra d’indipendenza Americana?

Un messaggio importante è nella frase che dice Oscar prima di morire, riguardo al vivere la propria vita pienamente, senza rimpianti; mentre dall’altra parte c’è Maria Antonietta, un esempio di come non diventare.

Per scrivere la biografia di Maria Antonietta ho dovuto studiare la rivoluzione francese e studiando mi sono appassionata sempre di più. L’America ha una storia molto breve; mi interessano maggiormente Paesi con una storia lunga come quella

André è l’uomo ideale della donna lavoratrice. Sarebbe comodo avere un uomo come lui.

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Anche le altre forme di espressione oltre ai manga, ovviamente, descrivono l’epoca in cui nascono. Gli autori della mia generazione rappresentavano la società del momento; man mano che si va avanti, però, si capisce sempre meno dove stia andando questa società. La mia generazione ha combattuto per permettere alle donne di lavorare, ora le giovani ragazze giapponesi vogliono fare le casalinghe. Non possiamo fare altro che stare a guardare.

Lei ha dichiarato di non aver mai visto per intero la serie animata di La rosa di Versailles. Qual è il suo rapporto con l’anime e quant’influenza ha avuto sulla sceneggiatura? In quel periodo stavo scrivendo La finestra di Orpheus, che usciva settimanalmente su una rivista, per cui non avevo tempo neanche per mangiare. Il film di animazione che verrà realizzato in 3D su La rosa di Versailles rientra tra le sue preferenze? Sì, sto collaborando per la realizzazione del film.

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Fumetto

giapponese, non credo che scriverò mai un manga ambientato in quei luoghi.

non ci ho mai pensato. È una cosa che mi viene naturale.

famiglia e sulla felicità domestica; hanno sempre il lieto fine. Tutto ciò non è realistico.

Quali sono gli autori che l’hanno influenzata maggiormente nello scrivere e disegnare fumetti?

Il Giappone e i manga sono molto cambiati nel tempo. Cosa ne pensa della situazione di oggi?

In Giappone ha realizzato illustrazioni utilizzate per fini commerciali. Che impatto ha l’arte del disegno sulla pubblicità?

Come per la maggior parte degli autori della mia generazione, Osamu Tetsuka è stato di certo il più influente.

Da quando ho smesso di scrivere manga, quindici anni fa, non ne ho più letti.

Ho fatto disegni per delle pubblicità, ma ho dei dubbi sull’efficacia della cosa. Credo sia meglio utilizzare persone vere.

Qual è il processo creativo per la realizzazione dei suoi personaggi?

Qual è il suo pensiero riguardo ai messaggi dei tipici cartoni disneyani rispetto a quelli più profondi e crudi degli anime giapponesi?

È difficile rispondere a questa domanda perché

I cartoni animati della Disney sono incentrati sulla

Lei ha scritto anche alcuni saggi, tra cui un’opera sulla vita oltre i quarant’anni, e adesso ha intrapreso una carriera musicale che l’ha portata a fare concerti in tutto il mondo. Perché ha scelto di affrontare queste nuove sfide? Prima ancora di diventare autrice di manga il mio sogno era studiare musica. Quando sono arrivata a quarant’anni mi sono resa conto che la vita era ancora lunga, così ho deciso di accettare questa sfida. Ora che le aspettative di vita si sono allungate così tanto, cosa fare degli anni che restano è diventato un argomento importante sul quale riflettere; sarei contenta se le persone mi vedessero come un buon esempio da seguire su come utilizzare la propria vita. Quali difficoltà ha dovuto affrontare per iniziare la carriera musicale a 47 anni? Ho avuto difficoltà a livello fisico: per fare la cantante lirica occorre molta forza. Il baritono Yoshitaka Murata ha 37 anni e tutti i giorni si chiede quando dovrà andare in pensione. Scriverà mai un’opera lirica in italiano? La scriverei in giapponese per poi farla tradurre in italiano. Ovviamente sarebbe quella la versione ufficiale a livello internazionale. Si sente realizzata o ha qualche altro sogno in sospeso? Ho ancora tantissimo da studiare riguardo la musica e ora voglio concentrarmi su quello. Nella mia vita non ho alcun rimpianto perché ho fatto tutto quello che potevo, con tutte le mie forze. In Giappone si ha sempre paura di cosa pensi la gente, l’opinione altrui è molto pesante, per cui non è facile fare tutto ciò che si vuole. Io ho avuto la fortuna di essere sempre stata circondata da persone che mi hanno spronata. Ho sempre vissuto scegliendo ciò che credevo migliore per me, mi sono sempre assunta la responsabilità delle mie scelte, per questo non ho rimpianti. Quali sono i suoi progetti futuri, sia in campo musicale che fumettistico?

Riyoko Ikeda a Collisioni 2010

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Per quanto riguarda la musica, nonostante la mia età, sono ancora alle prime armi, per cui voglio cogliere tutte le occasioni per fare esperienza il più possibile. Quest’anno è il bicentenario dalla nascita di Chopin: la televisione nazionale Giapponese ha in progetto uno sceneggiato su di lui e io sto scrivendo la sceneggiatura. Inoltre, da Gennaio, c’è una collana di manga che racconta la storia del Giappone e io sto scrivendo la storia di Hatsu Hime, la suocera dell’ultimo Shogun.

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Fumetto

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Fumetto

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Fumetto

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Fumetto

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Animazione

Aoi Bungaku

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er il centenario della nascita del famosissimo scrittore di romanzi giapponese Osamu Dazai, il gruppo Madhouse gli rende onore trasponendo in animazione non solo alcuni dei suoi più importanti lavori, ma anche quelli di alcuni autori che hanno fatto parte della sua stessa corrente letteraria. Il risultato è una serie di cinque differenti racconti costituiti in tutto da dodici episodi. Personalmente li ritengo dei veri e propri capolavori, tranne il secondo racconto, che appare meno bello esteticamente nel charadesigner confrontato con gli altri. All’inizio di ogni episodio troviamo una prefazione-presentazione del racconto fatta dall’attore giapponese Masato Sakai, che ci illustra la vita, lo stile, le pene e le vicissitu-

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dini dell’autore, spiegandoci di conseguenza il collegamento col racconto stesso. Al primo racconto, tratto dal romanzo Ningen Shikkaku (Non più umano), sono dedicati ben quattro episodi, forse perché è il racconto più autobiografico dell’autore giapponese. Sinceramente lo trovo il più bello in assoluto, i disegni e le animazioni sono stupendi (parliamo degli stessi disegnatori e dello stesso regista del celebre Death Note) e riescono veramente a trasmettere il senso di vuoto e la disperazione del protagonista. Tutti gli altri racconti sono costituiti da due episodi l’uno. Spicca tra questi altri Kokoro, che tratta del rapporto tra due amici e una donna tra di loro contesa, in cui il romanzo è trasposto in una sola puntata per dedicare la seconda

Autore cartone animato A.A. V.V. Numero episodi 12 Genere Letteratura

all’adattamento della storia dal punto di vista personale del regista, raccontata attraverso gli occhi dell’antagonista. Non penso sia possibile discutere delle trame dei vari racconti. Non sono delle serie come le altre: vanno visti e basta. Qui siamo davanti ad un vero e proprio capolavoro dell’animazione che si mette al servizio della letteratura classica per rivisitarla, ridarle vita e ri-analizzarla con gli occhi di poi. Non stiamo parlando di un cartone da guardare con gli amici in una serata qualsiasi, o per passar del tempo guardando qualcosa. Aoi Bungaku è da guardare e seguire con attenzione, riflessione, sul vostro computer nel buio silenzio della vostra camera.

di Walter Matteo Micucci

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Videogioco

di Luca Di Berardino

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e nelle rubriche precedenti abbiamo trattato l’evoluzione Darwiniana del gene videoludico, adesso ci occuperemo delle sue mutazioni: nuove forme di fruizione mediatica lontane dal mero intrattenimento. Punto di contatto fra il gene comune e il gene videoludico è la comune forma di selezione naturale: il primo si adatta all’ambiente, il secondo all’interesse del pubblico. E come i geni comuni, anche quelli videoludici lottano, si fagocitano o cooperano per raggiungere nuove strategie evolutivamente stabili. Stavolta osserveremo le mutazioni, che ultimamente si fanno sempre più forti, per cercare di coprire nuovi interessi e nuove forme di mercato. Prima per importanza è indubbiamente la Nintendo; la sua politica in netta controtendenza consiste non nell’accontentare i giocatori di vecchia data, già aspramente contesi da Microsoft e Sony, ma nell’aprire il mercato ai cosiddetti giocatori occasionali tramite nuove idee e nuove forme di interazione. Una per tutte, il nuovo controller: sensibile alle oscillazioni, permette di translare il suo stesso movimento nel piano virtuale. Grande svolta è indubbiamente la combo Wii/ BalanceBoard unita agli originalissimi Wii Fit e Wii Music; Wii Fit unisce l’allenamento fisico con il videogiocare: esercizi di equilibrio per migliorare la posizione del baricentro e allenamenti mirati per rassodare muscoli specifici o smaltire calorie. Wii Music si occupa della ritmica e del solfeggio: il simulatore musicale offre la possibilità non solo di seguire le note sullo schermo, ma di modificarle tramite nuovi strumenti e nuove tempistiche, il che dà la possibilità di creare frattali musicali di un numero prossimo all’infinito! Mutazione ancora più interessante è l’utilizzo della consolle Nintendo come una lavagna elettronica. Johnny Chung Lee, già famoso per il remote finger track, dimostra su Youtube come con una Wii, un videoproiettore e una penna laser si

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possa costruire un’efficace ed economica lavagna elettronica; chiunque volesse tentare l’esperimento puo seguire tranquillamente i link sul tubo e scaricare i programmi di supporto che lui stesso ha creato. Le variazioni arrivano anche da contesti molto distanti dal videoludo. Sicuramente la più atipica è quella partorita dallo Zio Sam. America’s Army è un Fps scaricabile gratuitamente su Internet, nasce nel 2002 su commissione del governo americano come pubblicità per favorire il reclutamento nello scenario post 11 Settembre: missoni speciali iperrealistiche in disaccordo dai comuni Fps; qui un colpo ben piazzato vi manda al creatore e anche uno non letale, se non curato in tempo, vi eliminerà dalla partita. Non è stato confermato ufficialmente, ma le possibilità di utilizzo di simulazioni simili per allenare i militari a specifiche situazioni sul campo non è poi così remota. Il brodo primordiale dei geni ­videoludici ribolle e pulsa come magma: molteplici combinazioni si formano continuamente; molte di esse muoiono sul nascere, mentre altre trovano una quasi perfetta stabilità. E come per la selezione naturale non possiamo soffermarci su canoni comuni di giudizio come il giusto e sbagliato: l’unico atteggiamento possibile è osservare questa continua evoluzione e vedere fino a quanto si possa spingere, anche se la risposta è abbastanza scontata... oltre ogni immaginazione! http://www.americasarmy.com/ h t t p : / / w w w. y o u t u b e . c o m watch?v=5s5EvhHy7eQ Jhonny Lee e la lavagna elettronica Wii.

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Videogioco

di Luca Di Berardino Titolo: Blood Bowl Piattaforma: PC Genere: Strategico Sportivo a turni Software house: Focus Home Interactive Sviluppatore: Cyanide Studios Distributore: Koch Media

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inalmente la Games Workshop ha deciso di portare nei mondi virtuali uno dei suoi prodotti meno famosi. È con una conversione videoludica che la francese Cyanide si lancia seriamente sul mercato; con solo una simulazione di ciclismo alle spalle, tenta il colpaccio sfruttando un famoso marchio nel mondo dei giochi con miniature. Blood Bowl: lo sport più praticato nel vecchio mondo di Warhammer; una versione estremamente violenta del football americano dove orchi, nani ed elfi se le danno di santa ragione. Create, amministrate e guidate la vostra squadra nelle arene più famose e scontratevi con l’AI (di spielberghiana memoria, N.d.R.) o in internet contro avversari umani per avere soldi, fama e nuove abilità da assegnare ai vostri giocatori! Apparentemente facile, risulta quasi ingiocabile se non imparate le regole fondamentali, le statistiche e le abilità dei vostri giocatori; qui non si tratta di sparare e correre o di picchiare selvaggiamente antiche divinità. In Blood Bowl si usa la testa! Non fatevi ingannare dall’ultraviolenza demenziale che pervade il prodotto; avrete bisogno di tattica, discreta abilità nel calcolo probabilistico e un pizzico di fortuna per segnare più mete dell’avversario… o per spaccare più crani… Otto razze, ognuna con il suo stile personale di gioco: dal gioco agile fatto di passaggi e smarcamenti degli elfi silvani, fino alla violenza pura delle squadre caotiche. Piccola tirata di orecchie alla Cyanide per alcuni bug che affliggono il titolo e una leggera ripetitività delle animazioni che appesantiscono un po’ il tutto. Infine, se avete voglia di impegnare i neuroni per della sana ultraviolenza virtuale, Blood Bowl non vi deluderà.

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Videogioco

World Of Goo

di Luca Di Berardino

Titolo: Piattaforma: Genere: Software house: Sviluppatore: Distributore:

World of Goo PC / Wii Puzzle 2D Boy 2D Boy WiiWare

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e pensate che per creare un buon videogame servano migliaia di dollari e un numero incredibile di programmatori vi sbagliate alla grande! World of Goo vi sbatte in faccia i vostri preconcetti! Due ragazzi di San Francisco, sfruttando il codice di programmazione Wii, libero sulla rete, hanno partorito un prodotto che per rapporto qualità-prezzo batte moltissimi titoli generati da illustri “software house”. L’idea alla base è semplice e geniale: a partire da una struttura composta si dovranno costruire architetture sfruttando delle palle appiccicose (i “goo”) da unire all’impalcatura di partenza per ampliare la struttura ed arrivare fino alla fine del livello, solitamente un tubo che aspirerà via le palle rimanenti, necessarie a completare il quadro. Banale? Nulla di più errato! Perché le simpatiche sfere saranno d’innumerevoli tipi, da quelle nere classiche a quelle fatte di zolfo a rischio incendio, fino a quelle verdi che potrete riposizionare continuamente per modificare le strutture preesistenti. Un prodotto non molto longevo, ma originalissimo che vi proporrà sempre nuove sfide fino ad arrivare alla torre di “goo”: un luogo dove saranno spediti tutti i globi in eccesso: il vostro compito sarà costruire una torre altissima ma al tempo stesso stabile; una competizione mondiale che lascia spazio alle tempeste di idee. Spulciando la rete troverete facilmente le torri più alte: per ironia della sorte, riproposizioni dell’Empire State Building e della torre Eiffel. Se non siete dei fissati per pelati che scuoiano animali mitologici e preferite giochi passatempo, World Of Goo vi rapirà senza che ve ne accorgiate. http://www.xfire.com/video/435a9/ una delle torri piu alte di World of Goo

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Scienza e tecnologia

Nikola

Tesla Q

Un genio osteggiato dal business di Federica Marinozzi

uando 96.620 lampade a incandescenza illuminarono l’Esposizione Universale di Chicago del 1893, i presenti ebbero la consapevolezza di trovarsi di fronte alla vittoria del genio visionario di Nikola Tesla sul suo ex datore di lavoro e rivale, Thomas Edison. Ma il vantaggio della corrente alternata su quella continua fu solo uno dei geniali contributi dell’uomo che era riuscito a convogliare la potenza delle cascate del Niagara nella prima centrale idroelettrica. Studia matematica, fisica e ingegneria al Politecnico di Graz. Dalla natia Croazia si trasferisce a Parigi: è qui che il suo superiore capisce

di avere a che fare con una persona straordinaria e, con in tasca una lettera di presentazione da mostrare a Thomas Edison, lo trasferisce a New York. Ma la preziosa collaborazione si conclude in soli 4 mesi: Edison è un abile uomo d’affari capace di trasformare ogni scoperta in business, lui è incapace di arricchirsi con i frutti del suo ingegno. E sostituire il sistema di distribuzione di energia elettrica continua con la più efficiente corrente alternata inventata da Tesla, implica ricostruire tutti gli impianti di produzione e trasporto energetico. Pur di difendere i suoi interessi, Edison comincia una campagna denigratoria tesa a dimostrare

la pericolosità della corrente alternata. D’altra parte, l’industriale Westinghouse è convinto della validità delle tesi del croato: è l’inizio di una nuova collaborazione. La superiorità della sua concezione risulta infine oggettiva: vince l’appalto per illuminare l’Expo di Chicago e poi il Niagara. È al colmo del prestigio, fa ricerche avveniristiche sull’elettroterapia e sul trasporto di energia elettrica attraverso onde. Ha intuizioni d’avanguardia per il laser, l’auto elettrica e la super-conduttività all’origine dei transistor e poi dei microchip. Completamente disinteressato ad arricchirsi, cede tutti i suoi brevetti al gruppo di Westin-

ghouse per una cifra irrisoria e continua i suoi studi sulle trasmissioni senza fili. Nel 1898 fa una dimostrazione al Madison Square Garden del funzionamento del primo sommergibile telecomandato: in anticipo di anni sulle tecnologie militari del tempo, non viene preso in considerazione dal Pentagono, ma desta l’attenzione del ricco banchiere Morgan. Ricominciano gli investimenti e, con essi, la costruzione dei leggendari laboratori di Colorado Springs. Qui, con i suoi fulmini artificiali da milioni di volt, effettua spettacolari esperimenti che suggestionano l’immaginario collettivo al punto da essere citati oggi in fumetti, film,

videogiochi, libri di fantascienza quali stereotipi dello scienziato mefistofelico. Il suo scopo ultimo è il dominio completo della mente sul mondo materiale, l’imbrigliamento delle forze della natura per le necessità umane, incanalare la fonte d’energia illimitata proveniente dalla Terra e trasmetterla senza fili: in altre parole, vuole energia libera e gratuita per tutti. I finanziamenti s’interrompono però quando Marconi effettua la trasmissione radio attraverso l’Atlantico prima di lui. La comunità scientifica lo considera un eccentrico; sempre più solo, è afflitto da disturbi ossessivo-compulsivi: non rientra nella sua camera se non fa 3 volte il giro

dell’isolato. Eppure la sua fervida mente continua a dare contributi decisivi, come quello all’invenzione del radar e dell’aereo a decollo verticale. Giunge infine il 1943: Tesla muore, in miseria, a 86 anni. Lo stesso giorno l’FBI dichiara top secret i suoi appunti. Ma la rivincita postuma è ormai nota. Lo immaginiamo, oggi, come egli stesso scrisse: soddisfatto nel sapere che il suo sistema polifase è usato in tutto il mondo per illuminare i momenti oscuri dell’esistenza; e che il suo sistema senza fili, nelle sue essenziali carat­teristiche, è utilizzato per rendere un servizio che migliora la qualità della vita.

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Scienza e tecnologia

Alla base di tutto c’è la prevenzione

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revenzione: adozione di una serie di provvedimenti per cautelarsi da un male futuro. Il risultato emergente da studi commissionati nel 2005 dal Ministro della Salute al Centro di Collaborazione dell’OMS dimostra che i bambini italiani di quattro anni, nell’80% dei casi, hanno denti e gengive sane, ma a 12 anni la percentuale di sani si riduce al 50%. Associando la definizione del vocabolario di “prevenzione” al risultato di tali studi, noteremo che, o la definizione di prevenzione è errata, o più realisticamente che nel mondo odontoiatrico italiano la prevenzione è ancora un tabù. La mancanza di un adeguato Servizio Sanitario Nazionale a livello odontoiatrico (ma non solo odontoiatrico!) obbliga gran parte della popolazione nazionale a terapie odontoiatriche in ambito privato. E che dire del mancato impiego di figure professionali che promuovano la salute orale nelle scuole? La mancanza, dal punto di vista normativo, di pene che possano arrestare il dilagante fenomeno dell’abusivismo odontoiatrico (si stimano circa ventimila esercenti abusivi della professione odontoiatrica in Italia) incide non solo sulla salute dei pazienti, ma anche sui tanti professionisti che, lavorando onestamente, non possono essere “competitivi” dal punto di vista economico. Al tempo stesso diverse potrebbero essere le domande provocatorie da rivolgere ai lettori: “Chi è l’igienista dentale?” “Quanto tempo al giorno dedica alla sua igiene orale?” “Quanto spende in sigarette e quanto per la sua salute?” Queste, e molte altre purtroppo, potrebbero essere le domande che emergerebbero da un’attenta analisi del problema; individuare le “ cause” e i “colpevoli” di tutto ciò

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non sarebbe certamente facile e, se volessimo farlo in queste poche righe, non sarebbe edificante per nessuno: equivarrebbe a buttare nel calderone diverse problematiche riguardanti l’argomento, mentre tutte meriterebbero di essere analizzate a fondo e nessuna potrebbe prevalere sull’altra. Con la speranza di aver lanciato una provocazione/riflessione, vediamo cosa si deve fare nella vita di tutti i giorni per prendersi cura della propria salute. Prima di tutto non ricordarsi di andare dal dentista solo quando si presenta il problema, e questo vale per tutti i campi della medicina; intercettare prematuramente una patologia è spesso la chiave del successo. La prevenzione è, per il momento, l’arma più importante di cui il professionista dispone per la sua disposizione: intervenire precocemente vuol dire non solo limitare i danni alla salute, ma anche alle nostre tasche. Quindi, prima di tutto, recarsi dal dentista almeno ogni sei mesi, per fare visite di controllo e sottoporsi a sedute d’igiene orale professionale; è stato ormai da tempo dimostrato scientificamente che, alla base dell’eziopatogenesi delle lesioni cariose, così come di fenomeni flogistici a carico della gengiva e del parodonto, giochi un ruolo principe la presenza della placca batterica che quotidianamente colonizza il cavo orale, già poche ore dopo la seduta di detrartrasi. Da qui è semplice evincere quanto sia fondamentale non tralasciare mai l’igiene orale domiciliare, poiché la sola professionale sarebbe del tutto inefficace. Lavare i denti dopo i pasti principali per “almeno” due minuti, pulire gli spazi interdentali con il filo o lo scovolino, cambiare lo spazzolino almeno ogni

di Walter Zenobi (dott. in Igiene Dentale)

due mesi e ricordarsi di spazzolare bene anche la lingua; ricordiamo inoltre che non esistono dentifrici o collutori “miracolosi” e che, se c’è un prodotto che la pubblicità non ha ancora pompato ed ha del miracoloso, quello è “l’olio di gomito”. Infine seguire una dieta bilanciata è fondamentale, non solo per la salute orale. La mancanza di vitamine e minerali rende l’organismo meno resistente agli attacchi dei batteri; le proteine sono importanti per la crescita e la guarigione dei tessuti, mentre i carboidrati sono la principale fonte d’energia dell’organismo: per questo una dieta sana prevede un’alimentazione varia, povera di zuccheri a grassi, ricca di vitamine, proteine e minerali. Attenzione particolare va riservata ai carboidrati, primi promotori della carie. Ogni volta che li ingeriamo, gli zuccheri sono metabolizzati dai microrganismi della placca, con una produzione di acido lattico responsabile della caduta del pH salivare a valori tali da provocare la demineralizzazione dello smalto per circa venti minuti. Tornati a valori normali, grazie alla saliva, si ha un processo di ricalcificazione; se il consumo di cibi cariogeni avviene a intervalli frequenti, il processo s’interrompe e il pH acido facilita la formazione del processo carioso; gli accorgimenti da adottare saranno i seguenti: evitare di mangiare dolci fuori pasto, masticare cibi consistenti per autodetergere i denti, spazzolare adeguatamente i denti dopo aver mangiato, ma se questo non è possibile masticare una gomma senza zucchero per venti minuti, dopo i pasti, per aumentare il flusso salivare.

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La qualità nasce dall’esperienza Intervista ad Alfio Cavallotto

di Denis Bachetti e Giorgia Tribuiani


Enogastronomia

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’etichetta “Cavallotto” nasce nel 1948, portando con sé una ventata di innovazione. Cosa c’è di nuovo nella vostra scelta di produrre vino? La principale novità risiede nel fatto che a quei tempi l’agricoltore piemontese che si occupava delle viti non procedeva alla produzione di vini in bottiglia: ovviamente tutti producevano un po’ di vino, ma lo finalizzavano al consumo familiare o alla vendita in damigiane; si trattava di una produzione ben poco commerciale. Nella nostra zona mio nonno è stato il primo a scegliere di seguire tutta la crescita della pianta per poi occuparsi della vinificazione, dell’invecchiamento, dell’ imbottigliamento e infine della vendita. Inoltre sappiamo che la famiglia Cavallotto è stata pioniera della produzione artigianale biologica del vino. Sì, esatto. Abbiamo intrapreso un percorso biologico con l’aiuto dell’Università di Torino e del Dott. Corino dell’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Asti, che ci ha aiutati a compiere i primi passi. I primi studi sono stati fatti nel ’74, quando la chimica in agricoltura aveva raggiunto livelli per noi insostenibili; abbiamo scelto di procedere all’inerbimento, un procedimento che può apparire banale, ma che allora si mostrava rivoluzionario: abbiamo lasciato crescere l’erba nel vigneto per far sì che non ci fosse più erosione; in questo modo, gli strati di terra superficiali non venivano rovinati dagli agenti atmosferici. Inoltre l’erba toglieva alla terra gli eccessi di acqua, facendo sì che si producesse un’uva con sostanze nobili più concentrate. Un ulteriore passo è stato fatto invece dal ’76 al ’78 con l’introduzione di insetti predatori. Puoi spiegarci questa scelta? La nostra intenzione era quella di eliminare, oltre ai prodotti chimici erbicidi, tutti i prodotti chimici di sintesi pericolosi, come gli insetticidi

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e gli acaricidi. Abbiamo scelto, perciò, di reintrodurre gli insetti predatori, insetti indigeni che erano stati distrutti. La loro azione si è subito dimostrata eccezionale, specie con il Ragnetto Rosso, un piccolo acaro molto pericoloso che si era arrivati a trattare chimicamente dalle quattro alle sei volte all’anno. Siamo stati i primi a portare avanti questo esperimento, facilitato anche dal fatto che la nostra azienda, essendo accorpata, era abbastanza isolata dal resto. Non vi è mai capitato di avere problemi con confinanti che utilizzavano prodotti chimici? Sì, i confinanti continuavano ad utilizzare prodotti chimici distruggendo anche gli insetti buoni. Il problema principale è che gli insetti vegetariani, che sono dannosi perché si nutrono della linfa delle foglie o vanno a rovinare l’acino, hanno dei cicli di riproduzione molto più veloci dei carnivori: per ogni generazione, o al massimo due, di insetti buoni, abbiamo almeno sei generazioni all’anno di insetti negativi. Quindi bisogna cercare di raggiungere un equilibrio con il trattamento e riuscire a mantenerlo. Ci sono dei metodi per far sì che l’agricoltura biologica non venga danneggiata dai confinanti? Per chi ha degli appezzamenti molto piccoli, questo diventa molto difficile. Dovrebbero essere degli enti super partes a creare una regolamentazione, ma capita che ci siano troppi interessi e troppi soldi in gioco. Inoltre, per noi che siamo produttori di vino, la qualità è importante in tutte le fasi della lavorazione; per un’azienda più industriale, invece, diventa più importante l’abbattimento dei costi di produzione, obiettivo che viene raggiunto anche attraverso l’uso di prodotti chimici. Quanto tempo è necessario perché un terreno trattato chimicamente divenga depu-

rato e possa essere finalizzato ad una coltivazione biologica? Il suolo acquista di nuovo l’humus molto rapidamente: bisogna attendere un paio di anni per avere il primo riscontro; poi, dopo cinque o sei anni, la cosa comincia a funzionare veramente. Più delicato e più complicato è avere una buona ecologia sulla pianta, perché oltre agli insetti e agli acari ci sono altri fattori di rischio, come le malattie fungine. Chi ha una produzione convenzionale e usa prodotti chimici fatica molto, nei primi due anni, a cambiare sistema: il prezzo

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Enogastronomia

agronomi nel caso della viticoltura e ad enologi nella fase della vinificazione. Io, personalmente, sono agronomo ed enologo. Il punto è che al giorno d’oggi è possibile fare vigneti nel deserto, in punti estremi, ma senza preparazione si va incontro a grossi rischi. Il primo rischio è quello di produrre un vino senza difetti, ma privo di personalità; un rischio maggiore è invece quello di ottenere un effetto chimico negativo: magari si usano sostanze che, pur non contenendo rame, possono essere ugualmente molto pericolose: entrano nel sistema circolatorio della pianta e rovinano l’uva. In generale il mondo agricolo si affida troppo alla chimica, sia in agricoltura che in cantina: usano una miriade di prodotti, come un eccesso di solforosa, e hanno sistemi negativi di concentrazione. La tecnologia è utile perché consente di ottenere un vino buono a prezzi bassissimi, ma non bisogna abusarne.

da pagare può essere molto salato, soprattutto in annate sfavorevoli, quando la pianta è preda di molti attacchi. Bisogna mettere in conto una certa perdita nei primi due anni, se si sceglie di fare agricoltura biologica, ma poi la pianta ne giova sicuramente. Quanto è importante, per il viticoltore, essere preparato scientificamente per la coltivazione? La preparazione scientifica è importantissima e il viticoltore impreparato dovrebbe affidarsi ad

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Voi non utilizzate anidride solforosa? Oggi, con molta tecnologia, con anidride carbonica ed azoto, si riesce ad avere un imbottigliamento privo di ossidazioni: grazie alla mancanza di ossidazioni, possiamo risparmiare tantissima solforosa. L’utilizzo di solforosa è dunque minimo, ma viene fatto poiché il rischio di ossidazione durante la fase di invecchiamento nel legno è molto alto. Se io aggiungo solforosa al vino, l’ossigeno viene captato da questa molecola e si trasforma in solfato, che ha una nocività a livelli di milligrammi per litro: nulla, quindi. Ci sono miriadi di prodotti naturali che contengono solfato e sono naturalissimi. Il problema non è quindi l’aggiunta di solforosa; il problema si presenta quando queste aggiunte sono molto grandi: quando si mette tanta solforosa c’è il rischio che la quantità di ossigeno nel vino non sia sufficiente a combinarla. Ci sono vini per cui è maggiore il rischio di concentrazione di solforosa?

Sì, questo accade più frequentemente con i vini bianchi, che contenendo poche sostanze riducono le possibilità per la solforosa di legarsi all’ossigeno. È possibile che bevendo dei vini bianchi giovani o degli spumanti con le bollicine venga il mal di testa: bere un bicchiere di questi vini non è un problema, ma berne mezza bottiglia non è salutare. Vini con un buon invecchiamento come il Barolo, invece, sono nettamente più genuini. Abbiamo parlato di vinificazione e invecchiamento. Quali procedimenti seguite per queste due fasi? Le modalità di invecchiamento cambiano a seconda dei vini. Qui nelle Langhe il vino più importante è il Barolo, che richiede tempi molto lunghi: il nostro Barolo Bricco Boschis richiede un mese per la vinificazione e poi, per l’invecchiamento, da tre ai quattro anni e mezzo. Anche il Vignolo, che è una seconda tipologia di Barolo, ha un invecchiamento molto lungo: dura anche quattro o cinque anni. Altri vini importanti per la zona sono la Barbera (la chiamiamo al femminile), che ha tempi di vinificazione e invecchiamento abbastanza simili a quelli del Barolo, e il Dolcetto. Noi qui abbiamo il Dolcetto d’Alba, che ha un invecchiamento nel legno di soli sei mesi. Quindi adesso quanti vini producete? Abbiamo tre tipi di Barolo: il Barolo Bricco Boschis, il Barolo con riserva Bricco Boschis e il Vigna San Giuseppe. Poi abbiamo un tipo di Barbera e due tipi di Dolcetto. Oltre a questi vini tradizionali abbiamo dei vini molto rari, come la Freisa e il Grignolino, che in questi anni è andato scomparendo. Probabilmente siamo gli unici, qui nella zona del Barolo, a sacrificare una piccola parte di terra, che potrebbe essere dedicata al Barolo, a vini più rari. In una zona molto buona per la vite, coltiviamo anche un ettaro di Chardonnay: si tratta di un

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Enogastronomia vino francese importato in Piemonte; abbiamo comprato questi vigneti nell’anno ’89 e sono tra i più vecchi delle Langhe. Pensi sia una forzatura piantare dei vitigni lontano dal loro paese d’origine? Finché lo si fa per divertimento e non si toglie spazio a vini locali, non è un male: il nostro Chardonnay impegna solo il 5% della produzione. Il problema è quando si inquina eccessivamente la produzione locale. L’Italia è un Paese che segue molto le mode ed è difficile abbinare una moda al vino: se voglio fornire dello Chardonnay dovrò prima piantarlo, poi aspettare tre anni per la produzione, poi un altro anno in bottiglia, eccetera: passeranno cinque o sei anni prima della messa in commercio e la moda sarà già passata. Questi vini quindi non possono andare a prendere il posto di vini storici come la Freisa o il Grignolino. Abbiamo parlato di vini francesi. Puoi darci una tua personale opinione su questi vini? C’è moltissimo da dire sui vini francesi, anche perché hanno iniziato a produrre vino circa duecento anni prima di noi: Borgogna e Bordeaux, ad esempio, hanno una storia molto più antica della nostra. Io paragono molto il Piemonte alla Borgogna e la Toscana con il Bordeaux. Al di là di questo, credo che i francesi abbiano dei vini straordinari, eccellenti, ma anche che noi siamo riusciti, soprattutto in questi ultimi trent’anni, ad avere una qualità uguale alla loro con vini diversi. Loro hanno delle strutture istituzionali che lavorano molto bene a livello di consorzio, di ministero; noi invece siamo lasciati liberi a noi stessi e questo può essere sia un bene che un male. Inoltre loro hanno un approccio commerciale diverso che noi piano piano stiamo imparando.

alla fine si producono circa 35 quintali. Io sono contrario all’abbassare troppo le rese: queste possono essere ridotte anche in maniera molto semplice, manualmente, quando il grappolo inizia a cambiare colore. Però produrre troppo poco significa fare un vino particolare, non più tipico. Si rischia che ci siano troppi zuccheri, troppa acidità: bisognerebbe quindi raccogliere presto l’uva, rischiando che non sia matura, e fare vinificazioni molto brevi. Voi vi occupate anche di esportazione? Sì, le prime esportazioni sono iniziate già alla fine degli anni ’50 e in tutti gli anni ’60: c’è stato il boom nel ’61 e soprattutto nel ’64. Il ’71, poi, ha segnato una svolta, decretando il Barolo come uno dei migliori vini d’Italia, se non il più importante dal punto di vista qualitativo. La nostra esportazione, oggi, si aggira intorno al 30%, che in Italia è l’ideale per un vino come il Barolo o la Barbera. Per quanto riguarda il Dolcetto, invece, l’esportazione è sempre stata intorno al 50%. L’Italia ha sempre preferito vini più semplici: manca una cultura del vino.

E dal punto di vista del gusto, cosa risulta dal confronto? In media i vini italiani sono più buoni, secondo me. Nel loro caso c’è un enorme differenza tra un vino costoso e uno economico: per me i vini francesi, se vengono pagati poco, sono imbevibili; se invece si spende molto, questi vini possono essere buoni o buonissimi. In Italia, invece, non c’è questa regola: capita di bere dei vini economici buonissimi e capita anche, purtroppo, di pagare le bottiglie a prezzi altissimi per poi trovare un vino non buono. Questo non accade in Francia: loro sono riusciti a fare un mercato molto serio, per cui le bottiglie costose sono buone. Però se si spende poco il vino non è buono: per questo preferisco bere vini italiani, perché a dei prezzi bassi, entro i trenta euro, in Italia si beve nettamente meglio che in Francia; se si raggiungono invece i cento euro e da lì si sale, penso che i vini francesi possano essere veramente eccezionali. Torniamo all’etichetta “Cavallotto”. Qual è la resa per ettaro dei vostri vigneti? In collina ripida è molto bassa. Per il Barolo si parla di rese intorno ai 65 quintali per ettaro;

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LE CHIAVI

“le unità basilari di uno stile”

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a permanenza in Italia della Maestra Lin Yan Sheng, che da Qingdao, Cina, è venuta in Italia per far conoscere agli allievi della scuola di arti marziali del Maestro Iobbi lo stile di Taiji Quan della Famiglia Chen (www.luiginoiobbi.com), ha segnato l’inizio di un nuovo capitolo nelle arti marziali, che porta sempre più alla rivelazione di quelle nozioni su queste arti, rimaste nell’oblio della cultura cinese per migliaia di anni. L’evento, più unico che raro, è stato reso possibile dall’intermediazione del Maestro Angelo D’Aria (www.angelodaria.com), di cui il maestro Iobbi è allievo.

Lin Yan Sheng Lao She è nata nel 1956, nella regione dello Shandong, a Qingdao, una stupenda città situata sulla costa nord-orientale della Cina, affacciata sull’oceano Pacifico, e che oggi conta più di dodici milioni di abitanti. La maestra Lin ha cominciato a studiare WuShu Chang Quan e Taiji Quan all’età di sei anni, pertanto pratica da più di 47 anni, ma nel corso della sua vita si è esercitata anche in molti altri sottostili di Kung-Fu cinese. In gioventù e fino al 2005 la maestra Lin ha partecipato a molte competizioni nazionali cinesi e internazionali, vincendo molte medaglie d’oro e il titolo di campionessa di Taiji stile Chen. Nel 1990 è divenuta allieva del gran maestro Chen Zheng Lei, depositario dei segreti del Taiji Quan della famiglia Chen, che ha diffuso e reso famoso questo stile in tutto il mondo. Il maestro Chen Zheng Lei è stato eletto uno dei tredici gran maestri di Taiji in Cina ed è uno dei quattro guerrieri guardiani di Buddha (BUDDHAS’ WARRIOR ATTENDANTS). * Le origini dello Stile Chen risalgono al XIV secolo, ma fino al XIX la sua storia coincide esattamente con quella di tutto il Taiji (sic!) in generale, in quanto fino a quell’epoca non esistevano altri stili. Lo stile Chen è nato in un villaggio denominato ancora oggi Chen Jia Gou, che porta appunto il nome stesso della

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di Luigino Iobbi

famiglia, infatti letteralmente significa “la fattoria della famiglia Chen”. Chen Jia Gou si trova a 100 km dalla montagna di Shaolin (Cun), nella provincia di Henan, nel centro della Cina. È interessante notare che anticamente il Taiji non era assolutamente una semplice ginnastica per le articolazioni o per favorire il rilassamento, ma un’arte basata sul duro addestramento e sul combattimento, esattamente come poteva essere il Gong-Fu (sic!). I membri della famiglia Chen svolgevano anche mansioni quali guardie del corpo di persone facoltose e ricche, quindi stiamo parlando di un’arte marziale vera e propria, praticata solo da uomini. Il fondatore dello stile, Chen Wang Ting (IX generazione della Famiglia Chen - XVII secolo) era un guerriero professionista a tutti gli effetti, nonché maestro di arti marziali (Wu Shu). Chen Wang Ting ereditò tutte le conoscenze marziali della famiglia e, per la prima volta, le codificò in uno stile. Con il suo lavoro si gettarono le basi dell’attuale Taiji Chen. Prima di lui il Taiji della famiglia Chen - sempre tramandato a membri della famiglia, quasi sempre di padre in figlio - non aveva mai assunto una struttura codificata. Egli creò varie forme anche con le armi e riuscì a combinare definitivamente l’arte marziale con le pratiche taoiste per l’energia interna, basando lo sviluppo della forza non solo sul lavoro muscolare, ma anche sulla forza dell’intenzione e sulla capacità della mente di veicolare il Qi. Nel XIX secolo alla XIV generazione della famiglia troviamo un’altra figura importantissima nell’evoluzione di questo stile. il maestro Chen Chang Xin. Egli codificò quello che oggi è definito “stile vecchio”, composto da due forme: LAO JIA YI LU – forma 74 LAO JIA ER LU – forma 41 Fu il primo dopo Chen Wang Ting a riordinare lo stile in modo da lasciargli l’impronta conservata fino ai giorni nostri. Chang Xin è diventato famoso anche per essere stato il maestro di Yang Lu Chan, che ha dato vita allo stile di Taiji Quan stile Yang, oggi famoso in tutto il mondo. Ripercorrendo velocemente le tappe più importanti della storia della famiglia Chen, arriviamo al maestro Chen Fa Ke, che nel 1928 codificò la versione semplificata dello stile Chen, denominata oggi “stile nuovo”: XIN JIA YI LU – forma 83

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Sport XIN JIA ER LU – forma 60 Queste due forme sono anche chiamate Ti Gao Jia (struttura migliorata). È grazie a Chen Fa Ke che lo stile Chen si diffuse in tutta la Cina. Infatti egli ebbe un numero elevatissimo di allievi in tutto il territorio cinese, partecipò e vinse vari tornei, guadagnandosi il titolo di grande combattente. Uno dei migliori allievi di Chen Fa Ke fu Chen Zhao Pei; siamo giunti alla XVIII generazione , ventesimo secolo (data della morte di Zhao Pei nel 1972). Grazie al suo lavoro e alla preparazione di quattro formidabili discepoli, oggi lo stile Chen è diffuso in tutto il mondo. I 4 discepoli, oggi riconosciuti come grandi maestri erano: Chen Xiao Wang, Chen Zheng Lei, Wang Xian e Zhu Tiancai. Oggi la Maestra LinYan Sheng è discepola diretta di Chen Zheng Lei, responsabile della Qingdao Chen Taiji Quan Association e direttore tecnico della Qingdao Wu-Shu Sports Association. Considerata una dei massimi esperti mondiali, è Chen Taiji Quan 6°Duan nonché arbitro di livello internazionale. Il suo grado di maestra di prima categoria è stato riconosciuto anche dal Ministero dello Sport cinese. La maestra Lin, inoltre, svolge la sua attività d’insegnamento collaborando con alcuni centri medici e case di cura della regione, in cui la pratica del Taiji è inserita nelle terapie delle persone anziane. Oggi ha centinaia di allievi a Qingdao, in Giappone, in Australia e ora anche in Italia. Fondamentale è stato l’apporto della maestra Lin per chiarire alcuni concetti, ancora avvolti nella confusione, alimentata da una scorretta pubblicità per conferire al Taiji quell’alone di mistero per renderlo ancora più prezioso. Lin Lao She è stata molto chiara circa l’uso del Qi nell’arte del Taiji. Infatti, se analizziamo gli ideogrammi utilizzati per scrivere in cinese la parola “QI GONG”, ne vengono fuori quattro:

In altre parole “potenza acquisita con il mangiare, respirare, lavoro” (addestramento). Il Qi all’interno dell’organismo è prodotto principalmente dall’inspirazione dell’aria e dal consumo del cibo. L’addestramento corretto aumenterà sempre più la produzione del Qi e l’intenzione (YI) lo direzionerà in tutto il corpo o dove si vuole sprigionare la forza, colpo o parata che sia. Alla base di tutto questo processo deve assolutamente esserci la “presenza”, la capacità di essere consapevole, che permette di mettersi nella condizione di attrarre e produrre il massimo dell’energia. Un movimento consapevole produrrà molto più che un movimento senza attenzione! In ogni caso, però, tutto questo sarà inutile se il corpo non sarà posizionato nella giusta direzione e nella giusta postura. La maestra Lin insegna che ogni singola parte del corpo (le mani, le gambe, il tronco, le braccia) devono muoversi nella giusta direzione e nel giusto tempo e allora grande sarà la potenza che si sprigionerà (JIN). Ecco che entrano in gioco le unità basilari dello stile: le “chiavi”. Contattare, stendere, schiacciare, spingere, intrappolare, appoggiare, ovvero BENG, LU, JI, LIE, KAO, ecc. caratterizzano ogni singolo movimento dandone una spiegazione realistica. Ed ecco che dietro a movimenti leggeri, fluidi, quasi inconsistenti si nascondono leve, intrappolamenti, colpi micidiali. La maestra Lin insiste nello studio di queste unità basilari, altrimenti l’interpretazione dei movimenti sarà sempre superficiale. In pratica, è come voler imparare a scrivere parole senza studiare le lettere dell’alfabeto. Alla luce di quanto descritto, se pensiamo che ogni singolo movimento può e deve essere scisso nelle sue singole parti per poter essere studiato, possiamo capire quando la maestra Lin dice che è necessario addestrarsi ogni giorno e per anni prima di poter padroneggiare realmente il Taiji.

MI - che significa “riso” (quindi una corretta alimentazione) CHI - che può significare “respirare energia cosmica”, o semplicemente “mangiare” GONG - che significa “lavoro”, “addestramento” LI - “potenza”

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un torero.

TORO tua moglie ti tradirà con un torero; se sei una donna, tuo marito ti tradirà con GEMELLI smettetela di punzecchiarvi a vicenda!!!

LEONE giorni duri nella savana con Plutone in Venere. Occhio ai bracconieri. VERGINE mattinata tranquilla con risvolti positivi nel lavoro; serata movimentata. (Sarebbe stato troppo facile giocarcela sulla prima scopata)

que venderli a 10€ al grammo.

SCORPIONE non salite sulle rane a causa della vostra natura. SAGITTARIO incontrerete una donna a cui piace un torso da uomo e un pene da cavallo. Novità in campo sanitari: troverete finalmente il cesso adatto ai vostri bisogni.

ACQUARIO prendetevi un po’ di tempo da dedicare all’igiene personale; o almeno compratevi un paio di pesci pulitori. PESCI da oggi smetterete di abboccare a queste baggianate per cernie. Fatevene una ragione: i segni zodiacali sono solo illusioni ottiche!

concorsi CONCORSO LETTERARIO “GIURIA INCAPACE” Non preoccupatevi di scrivere una bella poesia, vincerà la peggiore. Primo premio: un posto nella giuria per il prossimo concorso. CONCORSO FOTOGRAFICO “BELLA SIGNORA DI PAESE” Portateci foto sconce della signora Franca Vasella. Se si vedono

un bel paio di poppe o un pezzo di fica vi premiamo a iosa. CONCORSO CINEMATOGRAFICO “YOUTUBE” Continuate pure a caricare video insensati, fatti male, senza alcuna direzione sociale, culturale, filosofica. Il premio sarà la proliferazione di un pensiero popolare scadente, ignorante fin nel profondo.

CONCORSO MUSICALE “TI PREGO, ROVINA ANCORA LA MUSICA ITALIANA” Saranno premiati i cantautori che riusciranno a fare maggiore uso delle parole “cuore” e “amore”. CONCORSO CULINARIO “FAME CHIMICA DA CAMPIONI!” Quante schifezze riuscireste a mangiare dopo due grammi di Orange Bud? Mettiamo a di-

sposizione quantità industriali di rifiuti organici. Evento sponsorizzato dalla Netturbino Gigante S.R.L., società di smaltimento immondizia. CONCORSO DI BELLEZZA “MODELLE E VELINE” Chi di voi farà più pompe ai giurati? Attenzione agli herpes, potrebbero rovinarvi la carriera. Per sempre.


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IDEATORE: Igor Salipchic CAPO DEI SEGRETARI: Luca Di Berardino SEGRETARIO CAPO: Hanry Menphis INSULTATO SPECIALE: Luca Torzolini

CONCORSO RE-VOLVER DOMANDE SENZA RISPOSTA?

(per il regolamento visitare il sito www.re-volver.it) Ma se leggo re-volver sono un intellettuale o un idiota?

La finestra è un buco in un muro o un muro intorno a un buco?

Non c’è un copyright sui neologismi?

Qual è il valore di X sapendo che X³ = Y³ + Z³?

Perché per augurare fortuna si dice “in bocca al lupo”?

Ma un pelo di fica può letteralmente trainare un carro di buoi?

Perché la prima causa della mortalità femminile in Italia è l’omicidio per mano di ex?

Il barbiere rade sempre e solo tutti coloro che non si radono da soli. Chi rade il barbiere?

È il pene di Luca Torzolini ad essere un’escrescenza del suo corpo o è Luca Torzolini ad essere un’escrescenza del suo pene?

Se mi ubriaco e vomito l’anima… poi vado all’inferno?

Chi invia lettere all’ultima Tule?

La noia è una clessidra vuota o una

clessidra piena?

Che cos’è il genio?

necrologi

Ne dà il triste annuncio Qua. ficiali, ormai anche la mente del singolo.

previsioni meteo per i prossimi tre mesi

Ne dà il triste annuncio Igor Salipchic.

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Racconti

la rubrica Luca Torzolini & Hanry Menphis The Special Adventures of

Q

uella sera eravamo strafatti di Ketamina e MDMA, io e Menphis. Era la sera adatta per l’invenzione di una nuova rubrica. - Cosa serve per scrivere una rubrica? - chiese Hanry Menphis. - Non so, forse alcol. Vuoi dell’alcol? - risposi. Sapevo già che avrebbe accettato e gliene versai. Poi mi misi a sedere sulla grande poltrona di giaguaro. - Sai Menphis, in questo periodo le storie mi escono dalle dita come se dovessi pisciare. Sono delle vescicone piene di piscio con forti problemi di ritenzione. Menphis rimase in piedi, con il suo bicchiere in mano - Ti capisco Luca, a volte ho la sensazione che il mio cervello sia troppo grande per il cranio. Sento la corteccia cerebrale premere prepotentemente sulla ossa. Forse sto diventando un dobermann. I due continuarono a parlare e la storia d’un colpo passò ad essere narrata in terza persona: le trame, signori miei, non accettano di farsi calpestare dall’ordinario. Allorché, mentre i due sorseggiavano alcol e la notte passava, una creatura astratta prendeva vita: la rubrica. E lei non riusciva a sopportare l’ignorante voce con cui il primo si rivolgeva all’altro, ancor a

più ignorante. Ma era nata dal loro bisogno di parlare di qualcosa,

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di qualsiasi cosa, purché riempisse quel dannato silenzio. Era una rubrica che non esprimeva alcun concetto, quasi a volersi dire sopra le parti. Ma in effetti sentiva un profondo e viscerale disagio per la sua inutile esistenza. Rubrica senza senso, almeno apparentemente simile al resto della popolazione, ma cosciente della mentalità comune che l’avrebbe connotata come rifiuto. Decise di suicidarsi. Il difficile stava nel trovare un modo. Poteva sperare che i due, risvegliandosi il giorno dopo, si rendessero conto della cazzata che avevano fatto. Ma il giorno dopo prevedeva un equivalente dosaggio di MDMA e Ketamina. Sarebbe rimasta in vita, reduce di cicatrici cerebrali di due venticinquenni che non accettavano la realtà. Troppo banale, sarebbe troppo banale ridurre la sua infinita superficialità a del semplice “troppo banale”. Troppo umana. E allora che senso aveva tendere alla perfezione per sapersi alla fine comunque incompleti? Che senso aveva laurearsi in economia per poi non vedere neanche un soldo? Non aveva senso cercare un senso fittizio se alla fine della giornata la morte sarebbe venuta lo stesso, travestita da preoccupazioni per il giorno seguente, mentre della Marlboro non sarebbe rimasto che il filtro, e il catrame nei polmoni sarebbe stato sempre più forte di qualsiasi menzogna si potesse usare per giustificarlo. Così i due decisero di non cercarlo, quel senso; di non inventare un’arte che si arrogasse il diritto di spiegare tutto, ma limitarsi a passare il tempo, scrivere per riempire quel grasso disagio interiore, figlio del terzo millennio. Hanry Menphis e Luca Torzolini alternavano letture di elevatissimo spessore a cose totalmente demenziali, Popper ai Monty Python, , Happy Tree Friends a Pasolini. Quindi cosa poteva fare la loro creatura? Le sembrava impossibile abituarsi all’idea di quella vita, trascorsa tra l’essere un abominio dell’editoria e la rubrica preferita di tanti imbecilli. All’improvviso, nell’affermazione di uno dei due su un certo Gurdjieff, prese la direzione della rubrica esoterica. Ma ad un chiasmo romantico recitato dall’altro si sentì subito sturmunddranghiana. Il lungo silenzio a venire le tolse di dosso il grande fardello: i due stavano pensando ora ad ammucchiate selvagge; ognuno nella propria testa scopava un numero indecifrato di ragazze mulatte, asiatiche, caucasiche. Prendendo esempio dalla facoltà femminile di sincronizzare il giorno del mestruo con le donne con

cui si convive, le menti funamboliche dei due scrittori si diressero verso il medesimo punto, al centro di quell’orgiastico universo, per incontrare la stessa fanciulla. Una telepatia sincronica l’incollò per sette minuti e quaranta all’identico, infimo pensiero sconcio: la presero, Juliette, 21 anni, la presero e legarono il suo corpo al letto. Lei protestava, impotente, mentre i due indossavano i loro abiti di scena. Luca Torzolini, d a ca-

rismat i c o Zorro, cavalcava la puledra imbizzarrita e, con grevi colpi di fianco, assestava potenti penetrazioni nel foro anale. Hanry Menphis, alias Aquaman, esplorava ogni condotto fino a sverginare anche il foro lacrimale. All’unisono vennero con urla e gesta inconsulte sul corpo esanime di colei che - nonostante fossero fatti come muli - avrebbero ricordato per sempre. La fantasia finì. La realtà, in tuta mimetica e berretto verde, li attendeva pronta all’agguato. - Oh, ma questa rubrica? - disse Torzolini. - Alcol, serve alcol! - rispose Menphis. E i due se ne versarono ancora. La rubrica era rediviva, come un vampiro risve-

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di Luca Torzolini e Hanry Menphis gliato da un lungo torpore, e si stava avviando con profondo disagio verso le strazianti rotte della rubrica a tema. Nulla di più inquietante poteva capitare, dalla sua nascita, ad un rubrica. Etichettata, identificata in un pericoloso modello che riproponeva di volta in volta lo stesso schema esplicativo per narrare aneddoti di Rimbaud, Diogene o chiunque altro, o per intersecare fra loro periodi storici e correnti arti-

stiche, facendo ciò che alla fine dei conti può essere letto come un semplice sproloquio soggettivo senza alcuna attinenza con la realtà. - Si potrebbe chiamare “Ma chi sono io per fare una recensione critica su un quadro?”. disse Torzolini. - Sì - rispose Menphis - in realtà parliamo solo del pittore e del suo escursus artistico, senza scrivere nulla sul dipinto. - Esatto - si esaltò Luca mentre stappava altre due bottiglie di alcol - e concludiamo ogni volta la rubrica scrivendo “All’interpretazione del quadro, a questo punto, pensateci voi”... Bene, visto che è un’idea figa lasciamola per un’altra

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rubrica. Adesso pensiamo a questa. continuò Torzolini, che frettolosamente si dirigeva verso il bagno per vomitare. Hanry Menphis, rimasto solo, contemplava con avidità la luce scarna della lampada da cucina, affezionato all’arcaico impulso elettrico che dominava un tempo le scimmie nel circo dei fratelli Watislava. Di colpo si destò dal suolo l’editor, che ore prima era stramazzato a terra a causa di una sfida leggendaria: tracannare una damigiana di vino rosso non fermentato, da due litri e mezzo. Tassoni Stefano, questo era il suo nome, cominciò da subito a sparlare della rubrica in modo saccente e viperino. - La rubrica sarà sulla storia culturale dell’Italia centromeridionale! O no, meglio ancora, sarà invece sulle disquisizioni sopra i Paralipomeni della Batracomiomachia!! - Dopodiché perse di nuovo i sensi. Era l’unico acculturato del gruppo. Poverino, avrebbe fatto una brutta fine. Loro là a cercare di sbarcare il lunario con la rivista più cazzona della storia editoriale italiana e lui imprigionato con loro, in quella litote d’impertinenza che mitragliavamo contro il genere umano. Eppure nel frattempo qualcuno prendeva appunti, là, nell’angolo della stanza. Una donna saggia senza età scriveva senza sosta le lettere che ora v’imbocca a viva forza senza le giuste precauzioni. Più tardi sarebbe morta, per non avervi fatto usare il preservativo. Hanry Menphis e Luca Torzolini l’avrebbero seppellita in giardino, scrivendo sulla sua lapide:

che presto invecchiare v’ha fatto con “l’identico” a contratto. A tempo indeterminato. A quel punto le idee stavano per finire. Nelle menti dei due scavava con forza il proprio rifugio Il Grande Vuoto. Presi dalla scintilla dell’ultimo impulso vitale, due neuroni sull’orlo del collasso incrociarono i propri assoni per dare un senso al finale. - Quale credi sia l’unico modo in cui una rubrica possa suicidarsi? - chiese Hanry Menphis. Torzolini rispose - trasformandosi in un semplice racconto - poi si alzò e se ne andò da casa dell’amico, portandosi via le sue buste piene di piscio.

“FANTASIA, NATA IL 00/00/00, MORTA IL 21/05/10” Sarà difficile senza lei creare, cercare motivazioni scomposte che le vostre proposte potessero stupire. Magari andare avanti di poesia, purché non rubino a vossia talento e grazia. L’artista ipocrita ringrazia e s’inginocchia umile ma sapiente al vostro dio penitente

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horror smack! Luca Torzol ini & Hanry Menphis The Special Adventures of

Non troppo distante dalla terra un essere la osservava. Era verde, con le classiche antennine. Uno di quegl’alieni che parlano sempre di come conquistare altri pianeti. - Che ne dici, ci mischiamo in mezzo a loro? disse ad un suo simile, seduto accanto a lui nella comoda astronave. L’altro alieno era più verde, come se la pigmentazione della pelle avesse fatto indigestione di bile. - Ma no, dai, lasciamo perdere - Ma sei pazzo?! Guarda che solo sulla terra puoi trovare della fresca Vodka Watislava! I due esserini verdi si guardarono tra loro e dissero all’unisono - Vodka Watislava, la vodka che lo stomaco ti lava! - Stop, ciak buono! - disse il regista. La troupe cominciò a disfare la scenografia e le luci; gli alieni si tolsero le facce. Hanry Menphis era quello più verde. Quel mese i due non avevano trovato nulla di meglio. In fondo il lavoro era buono, la paga alta e l’esigenza di trovare dei soldi davvero esagerata. Luca Torzolini ed Hanry Menphis avevano speso tutto il compenso del lavoro precedente a puttane e alcol. Sembrava facessero a gara nel cercare sempre nuovi metodi idioti per sperperare i loro averi. - Che ci compriamo? - chiese Hanry Menphis. - Potremmo acquistare quella macchinetta fo-

tografica gigante - rispose Torzolini - oltre all’alcol, ovviamente. - Mi piace! - Ribatté Menphis - Così grande da dover usare due mani per schiacciare il pulsante e scattare una foto Andarono in uno di quei grandi centri commerciali, dove la gente trascorre i week-end a riempire le tasche degli altri. Cosicché i pezzenti restano sempre più pezzenti, con la casa piena di cose inutili. I due lo sapevano bene, Mazzarò era stato un idiota e loro non volevano portarsi dietro nemmeno un gallo. - Credi che il padrone di queste mura ci guardi dall’alto mentre spendiamo nei suoi negozi? - chiese Torzolini mentre cercava di comprare una commessa con 70 euro. - È probabile che abbia uno di quei teleschermi giganti da dove ci osserva, masturbandosi con entrambe le mani. Nel frattempo una sessantenne platinata gli porge di tanto in tanto una sputacchiera - rispose Menphis palpandosi il pene. Continuarono a camminare. Il primo, disinvolto, insisteva nell’importunare il personale femminile; il secondo, colto dalla sindrome dell’“Ok il prezzo è giusto”, conduceva insulsi discorsi con gli oggetti contrattando sul loro effettivo valore. Dopo due ore si ritrovarono nel reparto cosmetici e si consultarono nuovamente sulle possibilità di spesa.

- Abbiamo 300 euro sonanti - disse Menphis. - T’immagini a vincere il superenalotto? Ottanta milioni di euro. Con un milione ci finanzio la rivista Re-volver. La facciamo uscire gratuita e senza pubblicità. Al posto del prezzo mettiamo il quoziente intellettivo che abbisogna per leggerla. Te la vedi la scena? Tutti a prendere Re-volver pensando di essere dei geni. Con tre milioni apro un megabar in un paese dell’entroterra abruzzese, solo per il gusto di osservare l’alone di tristezza di quella gente, una mandria di buoi che trangugia anacardi e sorseggia ama-

ri, dolci in confronto alle loro vite. Con il resto dei soldi ci finanziamo i film di quel regista indipendente, Mauro John Capece! Si sapeva che questa era una lista totalmente fittizia. Ma loro credevano in quelle sparate senza meta, anche se in realtà, ad avere ottanta milioni di euro, si sarebbero giocati tutto a puttane e alcol. - Giochiamo al superenalotto! - ribatté Menphis esaltato. Si avvicinarono a lunghi passi al dipendente di uno di quei barettini da centro commerciale dove la gente finge di bere un caffè pur di incontrarsi. Dopo anni trascorsi all’interno di quelle strutture, inizi a riconoscere con pochi sguardi mirati quali fra quei figli di puttana che lavorano là dentro ti farà penare per trovare una

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di Luca Torzolini e Hanry Menphis tuta da sci, per illuminarti sulle caratteristiche di un portatile, per farti un cazzo di semplice caffè. Per loro sfortuna quel dipendente era uno di questi. - 300 euro di schedina dell’enalotto - disse Luca Torzolini. - 300 euro, ma sei matto? - esplose il dipendente - Con tutti quei soldi ci fai un viaggio in Marocco di una settimana, pesce pranzo e cena. - Non rompere il cazzo e gioca quella schedina! - lo interruppe Hanry Menphis. - Con 300 euro affitti una Mercedes-Benz con

cui rimorchiare fica per un week-end, facendo credere alle pollastrelle che il tuo portafoglio è rigonfio di denaro. Ti fanno una pompa e quando arrivano a esplorarti le tasche tirano fuori la targhetta dei pantaloni in affitto. I due si guardarono per alcuni secondi, poi si diressero verso l’uscita. Arrivati a un concessionario in cui affittano automobili Luca Torzolini esordì con uno dei venditori - una Lamborghini Murcielago, abbiamo 300 euro! Il tizio porse le chiavi dicendo - riportatela entro un’ora - abituato a ragazzi testosteronici in cerca di potenti mezzi acchiappa-gnocca. Menphis e Torzolini si avviarono trotterellando verso la sgargiante autovettura. - Abbiamo un’ora per rimorchiare delle pollastrelle - disse Torzolini, con la voce che sem-

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brava aver preso la tonalità caratteristica dei maniaci sessuali. - Sono le due di pomeriggio, le donne sono tutte a pranzare - rispose Menphis. - Bene, sfondiamo una casa. Attraversiamo il muro con la macchina per metà, così da ricreare una scenografia classica da pub americano, dove la macchina è incastonata nella parete. - Dannazione, ci servirebbe una Cadillac per fare queste cose... - Vabbe’, allora sai che ti dico? Passiamo dalla fruttivendola a far vedere questo gioiello, poi dalla fornaia e infine davanti casa della mia ex. Appena vedrà questo macchinone si pentirà di avermi scaricato per Mimmo “Il Zozzo”. - Perché non passiamo da tua madre? È un sacco di tempo che voglio farmela... Passò un’ora e il venditore tornò a reclamare le chiavi della macchina. I due non erano ancora partiti. - Ma che cazzo vuole! La macchina è nostra per un’ora dalla partenza… - Nessuno aveva parlato di partenza - rispose il venditore - era un’ora e basta, come si fa con le puttane. Anche se non consumi, paghi! - Brutto frocio di merda!!! Questa macchina è mia per un’ora ho detto! - a queste parole di Torzolini, i due si allacciarono le cinture iniziando a urlare insulti sconnessi. - Signori, mi costringete a chiamare la polizia. - Chiami chi cazzo le pare, noi da qui non usciamo - rispose Hanry Menphis guardandolo dallo specchietto. I carabinieri arrivarono e per un’ora il maresciallo non fece altro che pregare i due di venire fuori con le mani alzate. Ma Torzolini e

Menphis continuavano a ripetere a voce alta: - Vogliamo un elicottero e dei passaporti falsi! minacciando con un accendisigari i venti agenti fuori dalla macchina. L’auto s’accese d’un colpo come un grande mostro atavico dei teatri greci, che sembrava animarsi di forza empatica. Il pedale, in un crescendo di giri, stuzzicava il motore. La macchina sarebbe andata a finire contro quei carabinieri, che per una volta non si sarebbero trovati di fronte piccoli drogatelli con due canne in tasca, da accusare come se fossero il principale problema del mondo. Il maresciallo cambiò espressione, di colpo la sua faccia s’annerì di serietà brutale: diede l’ordine e i suoi bravi fecero fuoco. Un uragano di colpi investì la scintillante autovettura; in breve fu silenzio e canne fumanti e volti sbiancati. La portiera cigolò e poi cadde, riversa sul pavimento come Che Guevara, tradito e colpito sotto il cielo boliviano. Un rivolo di sangue scese dal sedile in pelle blu attraverso la carena e poi la gomma, fino a creare una pozza magnifica di metafore morenti. Poi, con un suono gommoso venne giù la faccia dell’alieno meno verde.

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Fuori controllo

di Luca Di Berardino

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a quando è arrivato nei nostri salotti il tubo catodico ha accompagnato intere generazioni nel corso della loro vita. Da quel momento tutti siamo stati suggestionati, seppur in maniera minima, dal nuovo mezzo mediatico; ci ritroviamo così in una posizione dialettica subalterna dove siamo costretti a fagocitare qualsiasi concetto senza la possibilità di contraddittorio. Ogni informazione che filtra, per quanto futile, acquista un potere condizionante impressionante; così da arrivare a lanciare nuove mode e nuovi modi di essere, capaci di formare un modello comportamentale di imitazione e influenzare intere generazioni ancora in cerca di una propria identità. Importante notare in questa dinamica il centrale ruolo che riveste l’informazione: l’imparzialità è una mera utopia in quanto anche la semplice scelta del palinsesto televisivo impone un punto di vista sul reale! Se a ciò si aggiunge che circa l’80% della popolazione italiana sfrutta i telegiornali come unica fonte di informazione, è molto facile dedurre come ciò possa alterare la percezione della realtà che ci circonda. Nei primi anni di vita era concepito come mezzo per informare e aumentare il livello culturale medio, ma a partire dagli anni Novanta assistiamo ad un radicale cambiamento: il messaggio condizionatore dominante ci avvicina ad una realtà priva di contenuti basata sull’estetica. Il palinsesto è drammaticamente intasato dalla famigerata tv spazzatura come reality, varietà e talk show. Prende vita così una realtà fittizia che ci promette visibilità e denaro facile: un mondo dove, se scegli il pacco giusto, puoi vincere anche un milione; un mondo dove un corpo sexy non ha bisogno di QI a tre cifre per guadagnare migliaia di euro. Come ci dimostrano le folle di ragazze in coda per i provini delle veline, le greggi in fila per le selezioni del Grande Fratello o del pubblico in qualsivoglia talk-show: la televisione attira a sé come falene una percentuale di popolazione che trascende il mondo reale. Si abbandona un mondo troppo grigio e stressante per cercare un’arcadia fatta di luci e colori che condurrà al successo, alla notorietà e al guadagno. Una nuova concezione del lavoro e del profitto che rischia di allontanare simbolicamente dall’osservare, analizzare e criticare la realtà circostante. La realtà fittizia creata ha degli standard da rispettare; si entra nel mondo televisivo solo se si possiedono le caratteristiche necessarie. Le quali sono selezionate in base a criteri puramenti estetici: il bagaglio culturale e le conoscenze

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specifiche sono, ormai, solo un’appendice a cui le luci della ribalta non sono interessate. Questi criteri, imposti in maniera indiretta, sono ormai sacrosanti fonti di ispirazione e imitazione. Parte delle nuove generazioni, i dirigenti di domani, è attratta a tal punto da sacrificare tempo, denaro e personalità per conformarsi alla concezione televisiva e alle sue regole. Un sogno da realizzare che promette fama, ma necessita l’omologazione al pensiero unico televisivo. Se una parte della popolazione è completamente immersa nella realtà illusoria, la stessa non

avrà la consapevolezza necessaria per comprendere i problemi che attanagliano il Paese. E una volta che lo scollamento tra il piano politico e il piano socio-culturale è completo, il rischio di vedere erosi i diritti fondamentali di una società democratica è molto alto. Una perdita di diritti direttamente proporzionale alla perdita di consapevolezza generata dalla televisione. Fonti: Sergio colabona intervista su youtube http:// www.youtube.com/watch?v=lHeIZIiKJ8k Pasolini: http://www.youtube. com/tch?v=CW6NEVr8CC0 fabio regista del grande fratello http://www. youtube.com/watch?v=xMFjSjvQUdA videocracy Karl Popper: http://www.youtube. com/watch?v=nYVtjqoyTqQ http://www.youtube. com/watch?v=75M6vTSZBOE current : le veline

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Fuori controllo

L’arte benefica del burattinaio Intervista a

Luca Torzolini Francesco Ferraiolo e diGiorgia Tribuiani

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ome e quando nasce la passione per i burattini da parte della famiglia Ferraiolo? In fine ’800 il mio bisnonno, mentre camminava nella villa comunale di Napoli, vide un signore che faceva le “Guarattelle” (il burattino antico, composto da una testa di legno scolpita e un pezzo di stoffa). Una di queste due era appunto Pulcinella. Questo signore faceva solo danzare o picchiare tra di loro i burattini. Con la “pivetta” (piccolo pezzo di plastica da mettere in bocca, vicino alla gola, per modulare il timbro vocale) dava la voce a Pulcinella. Il mio bisnonno, riprendendo l’idea di questo artista ambulante, cercò di riproporre gli spettacoli sperando di migliorarli. Creò quattro farse, prendendo come riferimento la vecchia commedia dell’arte napoletana. Attraverso le commedie di Goldoni e Scarpetta (padre di Eduardo De Filippo) ha creato i burattini attuali. Costruì un carretto con tre ruote trascinandolo da un paese all’altro per sopravvivere tramite la rendita di modesti spettacoli. Poi ci fu la seconda guerra mondiale e dovette smettere. Due anni dopo mio nonno Francesco e suo fratello Salvatore hanno ripreso l’attività e hanno scritto 18 farse che ancora oggi noi rappresentiamo in tutta Italia. Per i vostri spettacoli preferite utilizzare i personaggi della tradizione o siete più orientati verso l’innovazione? Avete mai dato vita a nuove figure? Essendo gli unici a rappresentare la vecchia commedia dell’arte non vogliamo contaminare troppo le trame con nuovi personaggi, pur avendone reinventati due per alcune sceneggiature. In Pulcinella e Sandokan, Sandokan fu utilizzato in uno spettacolo con effetti pirotecnici in cui incontra Pulcinella che lo aiuta a salvare il padroncino rapito. Pulcinella naturalmente non si muoverebbe mai dalla sua carissima Napoli, quindi è Sandokan che tramite una magia compare nella città partenopea. Il secondo personaggio reinventato è Babbo Natale in Pulcinella, Babbo Natale e il flauto magico. Non è stato facile accostare questi due personaggi a Pulcinella, ma lo abbiamo fatto su richiesta dei bambini. Quali sono gli espedienti utilizzati nei dialoghi per stimolare il riso? In pratica la nostra base principale per far ridere le persone è Pulcinella che, facendo finta di non capire ciò che gli viene detto, riesce a

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prendere in giro tutti, comprese le autorità e le persone più colte di lui; come ad esempio nella storia in cui Felice Sciosciammocca, il plurilaureato intellettuale dei burattini, esce dall’ospedale in preda alla fame più feroce e, recatosi alla casa dove Pulcinella è responsabile della cucina, riceve del cibo dalla sua padrona. Ma Pulcinella gli impedisce di mangiare le polpette offerte tramite indovinelli dove si dimostra più furbo del malcapitato. Considerate necessario l’inserimento di una morale all’interno dei vostri spettacoli? La morale è necessaria e sempre positiva. In tutti gli spettacoli vince sempre Pulcinella, dietro la cui maschera da classico furbone c’è un cuore estremamente sensibile. Pulcinella incarna il bene assoluto e universale. Chi si occupa della scenografia? Tutti gli oggetti utilizzati (fucile, sciabola, bastone, accetta, sedie, tavolo, scarpe, scopa, pennello gigante, cappelli particolari) sono realizzati artigianalmente da noi che con la cartapesta creiamo anche i burattini. Il letto ad esempio è costituito da un piccolo materassino, un soffice lenzuolo e un grazioso cuscino cuciti da mia madre. Al contrario gli sfondi sono dipinti da un pittore, il quale traspone su tela i particolari necessari alla narrazione della commedia. Abbiamo oltre 42 scenari diversi: bosco, cimitero, piazza di paese, camera nobile e camera di castello, cantina, veduta Napoli (si vede il mare a destra e il Vesuvio a sinistra), ecc. Qual è il target cui mira uno spettacolo dei fratelli Ferraiolo? Il nostro spettacolo è adatto per i bambini dai due ai novant’anni. Lavoriamo con il 70% del pubblico adulto, perché ci sono parecchie battute comprensibili solo per loro e soprattutto perché il significato recondito dei nostri spettacoli è compreso solamente dal pubblico maturo.

non di burattinai ma di altri commercianti e ambulanti, si è fatta asfissiante. I contratti con gli enti sono diminuiti del 70%. Inoltre noi lavoriamo con un pubblico non agiato e quindi i guadagni sono ridotti all’osso causa la crisi. Le tasse sono aumentate e il bilancio va in rosso. Io continuerò finché le forze mi permetteranno di continuare, finché tornando a casa troverò il piatto in tavola. Ma per ora e da sempre la forza più grande me la danno le risa di milioni di bambini che attraverso i miei spettacoli si divertono fino all’inverosimile: ciò colma il mio cuore di gioia e mi dona la volontà per continuare. Come finiscono i vostri spettacoli? Di solito, alla fine della commedia c’è sempre un personaggio che chiede a Pulcinella: “Sei contento di come sono finite le cose?” e lui risponde: “Sì, sono contentissimo, ma lo sarei di più se avessi il perdono e un applauso da questo rispettabile pubblico”. Un finale molto particolare, ereditato dal Goldoni, consiste in Pulcinella che non ha più un soldo né un mobile a causa di Felice Sciosciammocca, il quale ricevendo un lascito ne dona una parte a Pulcinella e a questo punto gli chiede “Vuoi dare superbia anche al pubblico ora che sei ricco?” e lui dice rivolgendosi prima a Felice, poi alla fidanzata di lui e infine al pubblico: “Un momento, non prendiamo equivoci, questi signori nu’ stann’ miscate ‘n miezz’ a ‘sta mazzamm’. Pe’ te songo ‘nu principe, pe’ te so’ ‘nu signor, ma per questo colto pubblico sono un umile servitore”. E a questo punto si chiude il sipario.

Quali sono le difficoltà che deve affrontare chi si accinge a divenire un maestro burattinaio? Forse noi saremo l’ultima generazione di burattinai. I motivi sono vari: non abbiamo sussidi o sovvenzioni da parte di nessun ente, abbiamo grosse difficoltà burocratiche, gli spazi per lavorare sono diminuiti e la concorrenza,

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La follia, come non l’avete mai vista.

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