ioArch REWIRING ARCHITECTURE 2006 / 2022
› OCCH
SPECIAL ISSUE
Anno 16 | Luglio 2022 Supplemento al n. 100 di IoArch ISSN 2531-9779
EMBRACE RADICALITY AND EVOLUTION WILL FLOW. NATIVA esiste per accelerare la transizione verso un modello economico rigenerativo e sostenibile. Da sempre lavoriamo a fianco dei leader che scelgono di lasciare il segno, quelli che con le loro aziende vogliono creare un mondo migliore di come lo hanno trovato. Crediamo che l’evoluzione sia possibile solo andando alle radici e ripensando in profondità il modo di fare business.
Scopri come la tua azienda può accelerare il suo percorso di evoluzione sostenibile.
nativa.eco
SOMMARIO ioArch 100 Special Issue
5 Rewiring Architecture 6 Contributi
18 MATERIA PROFONDA
78 ARCHITETTURA AUMENTATA
20 Attualità senza Tempo
80 Nuova Kunstbau
112 IL MONDO INTORNO A NOI 114 Tecnologia Alternativa
LUIGI CACCIA DOMINIONI
NADER TEHRANI
MICHAEL PAWLYN
CINI BOERI
ARTHUR MAMOU-MANI
MARTIN RAUCH
DANIEL LIBESKIND AURELIO GALFETTI
34 Vedere l’Invisibile
88 Architetture Digitali
ANNA HERINGER
REFIK ANADOL
JULIA WATSON
PATRIK SCHUMACHER
PAOLO BÜRGI
ERIC DE BROCHE DES COMBES
ALBERTO CAMPO BAEZA EDOARDO TRESOLDI
56 Confini Fluidi
DIÉBÉDO FRANCIS KÉRÉ
MAXIM ZHESTKOV
PETER ZUMTHOR
RENATO RIZZI
GILLES PERRAUDIN
102 Spazi in Evoluzione ROBIN CHASE ENSAMBLE STUDIO ALDO CIBIC
140 Città del XXI Secolo MOSHE SAFDIE MARTA SCHWARTZ ALAN WEISMAN
152 Territorio Decentrato
WOLFGANG BUTTRESS
STEFANO FERA
STEFANO MANCUSO
ANTONIO DE ROSSI
STEPHAN HARDING
ARMANDO RUINELLI
CRISTINA MITTERMEIER MARIANNE KROGH
ioArch
› OCCH
SPECIAL ISSUE
Anno 16 | Luglio 2022 Supplemento al n. 100 di IoArch ISSN 2531-9779
REWIRING ARCHITECTURE 2006 / 2022 ph. ©Gabriella Gargioni
Carlo Ezechieli Dottore di ricerca in architettura e progettazione urbana, dal 2016 Carlo è direttore scientifico di IoArch. È titolare di CE-A studio, uno studio di architettura la cui attività si rivolge al rapporto tra luoghi, paesaggio e spazio edificato.
La Repubblica promuove il patrimonio. Emilio Isgrò, 2010
La nostra cover
Acrilico su tela montata su tavola 70 x 50 cm
Edoardo Tresoldi Looking for - Temporary Installation 2015 Roskilde Music and Arts Festival, Denmark
Tutte le interviste contenute in questo numero sono di Carlo Ezechieli, escluse quelle a Luigi Caccia Dominioni – di Sonia Politi – a Daniel Libeskind di Luca Ruggeri e a Cini Boeri.
Direttore editoriale Antonio Morlacchi
Contributi Jacopo Acciaro, Luisa Castiglioni Carlo Ezechieli, Roberto Malfatti Aldo Norsa, Luigi Prestinenza Puglisi Elena Riolo
Direttore responsabile Sonia Politi
Grafica e impaginazione Alice Ceccherini
Comitato di redazione Myriam De Cesco, Carlo Ezechieli Antonio Morlacchi, Sonia Politi
Marketing e Pubblicità Elena Riolo elenariolo@ioarch.it
Editore Font srl, via Siusi 20/a 20132 Milano T. 02 2847274 redazione@ioarch.it www.ioarch.it Fotolito e stampa Errestampa
Prezzo di copertina euro 9,00 arretrati euro 18,00 Abbonamenti (6 numeri) Italia euro 54,00 - Europa 98,00 Resto del mondo euro 164,00 abbonamenti@ioarch.it Pagamento online su www.ioarch.it o bonifico a Font Srl - Unicredit Banca IBAN IT 68H02 008 01642 00000 4685386
© Diritti di riproduzione riservati. La responsabilità degli articoli firmati è degli autori. Materiali inviati alla redazione salvo diversi accordi non verranno restituiti.
Reg. Tribunale di Milano n. 822 del 23/12/2004. Periodico iscritto al ROC-Registro degli Operatori della Comunicazione. Spedizione in abbonamento postale 45% D.L. 353/2003 (convertito in legge 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1 - DCB Milano ISSN 2531-9779
› EDITORIALE
Rewiring Architecture L’evoluzione dell’architettura attraverso i contributi più significativi raccolti in 100 numeri di IoArch L’Architettura propone un modo differente di vedere le cose, ma non può svilupparsi se non in base alla comprensione profonda di un contesto in costante evoluzione. È a partire da questa breve considerazione che, nel corso di buona parte dei sedici anni di attività di IoArch, ho cercato di approfondire aspetti che caratterizzano la nostra epoca con l’aspirazione di comprenderne l’influenza sull’evoluzione del nostro modo di vivere, di fare le cose e, naturalmente, sull’architettura. Il tutto si è sviluppato attraverso la raccolta, densa e metodica, di un repertorio di dialoghi, tradotti in interviste, con autori straordinari, tra i quali molti artisti, scienziati e letterati di enorme statura: alcuni nomi celebri, altri da noi scoperti, spesso anticipandone l’imminente popolarità. Rewiring architecture, riconnettere l’architettura, è un programma, è il titolo di questo numero speciale di IoArch, ed è finalmente l’occasione per comporre
un’antologia di questi contributi, organizzandoli sistematicamente. Il numero si articola secondo tre capitoli, ognuno diviso in tre parti. Tre capitoli, tre aree tematiche, a loro volta vagamente riferite alle tre categorie di ambiente, società e tecnologia – la classica suddivisione secondo la quale, nei trattati di architettura, veniva affrontato il tema del rapporto con il contesto. Senza la pretesa di presentare sviluppi assoluti o incontrovertibili, lo scopo di questo numero speciale è quello di restituire orientamenti che caratterizzano il nostro tempo e che possano stimolare il dibattito. Ne risulta una raccolta del tutto inedita, ricca di spunti, di temi e suggestioni che rappresenta un repertorio interessante non solo per molti architetti, ma anche per coloro che cercano di comprendere il rapporto tra l’architettura e il nostro tempo: questo ventunesimo secolo nel quale ci troviamo ormai immersi, ma ancora così indecifrabile. CE
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› AUTORI
Contributi Rewiring Architecture, riprogrammare l’architettura, non è una semplice antologia di idee e opinioni da fonti autorevoli, ma un repertorio di temi di importanza cruciale per la comprensione e la definizione di scenari futuri. Gli argomenti, tutti sotto forma di intervista, sono raggruppati secondo tre capitoli tematici fondamentali, ognuno articolato in tre parti. Alcuni contributi si riferiscono direttamente alla pratica progettuale, al lavoro di autori capaci di dare forma ad una sintesi, capace di influenzare diventando un riferimento; altri, di impronta più concettuale, indicano la necessità e l’urgenza di ridefinire i valori di base su cui si fonda il progetto di architettura.
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ph. © Serge Hoeltschi
Refik Anadol
Cini Boeri
Refik Anadol (Istanbul, 1985) è un media artist e un pioniere nel campo dell’estetica dell’intelligenza artificiale. Il suo lavoro colloca la creatività in un punto intermedio tra esseri umani e macchine. Prendendo i sistemi digitali che ci circondano come materiale primario e la rete neurale dei computer come collaboratore, Anadol genera visualizzazioni delle nostre memorie virtuali, espandendo le possibilità dell’architettura, della narrativa e dei corpi in movimento. Le sue opere, basate su dati parametrici, sono performance audio-visuali site-specific e installazioni immersive che possono assumere molte forme differenti, e incoraggiano a ripensare sia il nostro ruolo nel mondo fisico, nella sua dimensione spaziale e temporale, sia il potenziale creativo legato all’uso dei computer.
Laureata al Politecnico di Milano nel 1951, dopo una lunga collaborazione con Marco Zanuso inizia la propria attività professionale nel 1963, occupandosi di architettura civile e disegno industriale. Ha progettato in Italia e all’estero case unifamiliari, appartamenti, allestimenti museali, uffici, negozi, dedicando grande attenzione allo studio della funzionalità dello spazio e ai rapporti psicologici tra uomo e ambiente. Nell’ambito del design industriale si è occupata in modo particolare del progetto di elementi per l’arredo e di componenti per l’edilizia. Ci ha lasciato nel 2020.
www.refikanadol.com
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› AUTORI
Paolo Bürgi
Wolfgang Buttress
Luigi Caccia Dominioni
Paolo L. Bürgi svolge dal 1977 la propria attività di architetto paesaggista nel suo studio di Camorino, presso Bellinzona. Lavora prevalentemente con il progetto degli spazi aperti in relazione all’architettura, sia in ambito pubblico che privato, in Svizzera e all’estero. Ha preso parte a concorsi nazionali e internazionali vincendo numerosi premi, tra i quali più recentemente quello per l’area di ingresso al Cern di Ginevra e il museo all’aperto sul Carso Goriziano. Il suo lavoro è stato esposto in conferenze e pubblicato in molti Paesi europei e extraeuropei. Nel 2003 Paolo Bürgi ha ricevuto il primo premio all’European Landscape Award per il progetto Cardada, Reconsidering a mountain e il premio Die Besten 03-bronze per il progetto della Kreuzlingen Hafenplatz sul lago di Costanza.
Artista inglese pluripremiato, la sua opera trae ispirazione dalla natura e dalla scienza, Buttress intende stabilire con le sue opere una connessione con qualcosa di elementare ed eterno. Oltre al Kajima Gold Award per Space (2014), ha vinto lo Structural Steel Award (2013). Il Padiglione del Regno Unito a Expo 2015 è stato premiato dal Bureau International Des Expositions (BIE) come migliore padiglione per l’architettura e il paesaggio. www.wolfgangbuttress.com
Architetto, designer, urbanista, Luigi Caccia Dominioni (1913-2016) è stato una delle figure più rappresentative e interessanti dell’architettura lombarda contemporanea. Laureato a Milano nel 1936, ha sempre espresso attraverso i suoi lavori una personale eleganza e un gradevole equilibrio tra il rispetto della tradizione e la forte capacità di innovazione. Si definiva un ‘piantista’, nel senso che tutti i suoi progetti partono dal dentro, nascono con l’idea di realizzare i desideri e i bisogni delle persone, delle famiglie, delle collettività.
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www.burgi.ch
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› AUTORI
Contributi
Alberto Campo Baeza
Robin Chase
Aldo Cibic
Nato a Valladolid, dove suo nonno era architetto, dall’età di due anni Alberto Campo Baeza ha vissuto a Cadice, dove “ha visto la Luce”. Docente per più di quarant’anni presso la Scuola di Architettura di Madrid (Etsam), ha tenuto conferenze in tutto il mondo e le sue opere hanno ricevuto ampi riconoscimenti. Secondo la sua filosofia, materia essenziale dell’architettura sono la gravità, che costruisce lo spazio, e la luce, che costruisce il tempo. La sua visione dell’architettura è espressa negli scritti raccolti in Palimpsesto Arquitectonico (ediciones asimétricas, Madrid, 2018).
Nel 2000 Robin Chase ha fondato Zipcar: il primo, rivoluzionario e diffuso sistema di car-sharing su piattaforma internet, dal quale sono in seguito derivati i popolari car2go, Enjoy e molti altri. Pioniere e guru della sharing economy, Robin ha profondamente e ampiamente descritto il potenziale di un nuovo modello economico basato sulla condivisione di risorse nel libro Peers Inc.
Collaboratore fin dall’età di 22 anni di Ettore Sottsass, Aldo Cibic (Schio, 1955) è stato uno dei fondatori del Gruppo Memphis, uno dei capitoli fondamentali della storia del design a livello internazionale. Nel 1989 ha fondato lo studio Cibic&Partners. È professore onorario alla Tongji University di Shanghai ed è stato invitato alla Biennale di Venezia da Kurt W. Foster nel 2004 per la presentazione del progetto “Microrealities” e, nel 2010, da Kazuyo Sejima per il progetto “Rethinking Happiness”.
www.robinchase.org
www.cibicworkshop.com
www.campobaeza.com
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› AUTORI
Eric de Broche des Combes
Antonio De Rossi
Ensamble Studio
Eric de Broche des Combes (Marsiglia, 1971), architetto e designer con base a Parigi, è fondatore di Luxigon, studio di visualizzazione architettonica. Collabora regolarmente con gruppi di progettazione, contribuisce a pubblicazioni e dà lezioni sulla teoria, la pratica e la storia dell’immagine. La tecnologia nell’ambito del computer gaming e le sue possibili applicazioni al mondo dell’arte, come del resto l’architettura e l’urbanistica, sono altre sue passioni. Insegna presso la Harvard Gsd.
Professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana e direttore dell’Istituto di Architettura montana presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino. Direttore della rivista internazionale ArchAlp. Vicedirettore, tra il 2005 e il 2014, dell’Urban Center Metropolitano di Torino. Curatore del libro Riabitare l’Italia (Donzelli 2018), e vincitore, con i due volumi La costruzione delle Alpi (Donzelli, 2014 e 2016) dei premi Mario Rigoni Stern e Acqui Storia.
www.luxigon.com
www.antonioderossi.eu
Ensamble Studio è stato fondato nel 2000 da Antón García-Abril e Débora Mesa, entrambi laureati al Politecnico di Madrid. In ogni progetto dello studio – dalla costruzione del paesaggio, come le opere per il Tipper Rise Art Center in Montana, alla prefabbricazione, come la Cyclopean House (2015) e la Hemeroscopium House (2008) – trova spazio la sperimentazione, con l’obiettivo di innovare tipologie, metodologie e tecnologie costruttive. Nel 2020 hanno lanciato la startup WoHo Lab che si propone di migliorare la qualità dell’architettura rendendola meno costosa mediante l’integrazione delle tecnologie offsite sviluppate nella Ensamble Fabrica, disegnata e realizzata a Madrid. Entrambi insegnano al Mit, dove nel 2012 avevano fondato il PopLab; Débora Mesa è anche titolare della Ventulett Chair in Architectural Design alla Georgia Tech. www.ensamble.info
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› AUTORI
Contributi
Stefano Fera
Aurelio Galfetti
Stephan Harding
Stefano Fera, architetto, ha collaborato da studente e a inizio carriera con Ignazio Gardella e Aldo Rossi, quindi col padre Cesare Fera. Attivo soprattutto nel campo del restauro architettonico e urbano, è specializzato nello studio dell’architettura pre-moderna e degli ordini architettonici. Sull’argomento ha curato la riedizione digitale della Regola del Vignola. Ha insegnato in varie università italiane e straniere. Ha collaborato con riviste e quotidiani su temi d’architettura e urbanistica. È stato recentemente invitato da Sergio Maifredi e Corrado d’Elia a contribuire alla rassegna online Racconti in Tempo di Peste col video Il virus, grande urbanista! Ha in corso di pubblicazione il saggio Gusto architettonico per i tipi della Genoa University Press.
Aurelio Galfetti (Lugano, 1936 - Bellinzona, 2021) si laureò al Politecnico di Zurigo. Professore invitato al Politecnico di Losanna e all’UP8 di Parigi, nel 1996 fondò, con Mario Botta, l’Accademia di Architettura di Mendrisio (pggo Facoltà di Architettura dell’Università della Svizzera Italiana). Allo studio di Lugano si affiancava quello di Padova, con l’Ingegner Luciano Schiavon. Più di 80 i progetti realizzati, dalla casa Rotalinti di Bellinzona del 1960 al Net Center a Padova, tra cui numerosi interventi di restauro monumentale. Con l’École Nationale de Musique di Chambery nel 2003 ha vinto il premio Grand Publique de l’Architecture del Ministero Francese della Cultura.
Stephan Harding (Caracas, 1953) è cofondatore e Resident Ecologist presso lo Schumacher College in Illinois. Ha conseguito un PhD in ecologia presso l’Università di Oxford e nel 2007 è stato nominato titolare, con James Lovelock, noto per aver formulato la teoria Gaia, della Arne Naess Chair in Global Justice and the Environment presso l’Università di Oslo. È autore di Animate Earth: Science, Intuition and Gaia, il suo primo libro, pubblicato in Italia da Aboca, un’azienda italiana attiva nel campo dell’innovazione terapeutica.
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www.stefanofera.it
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› AUTORI
Anna Heringer
Diébédo Francis Kéré
Marianne Krogh
Anna Heringer (Laufen, 1977, laurea alla Kunst Universität di Linz nel 2004) è architetto e dal 2010 professore onorario della cattedra Unesco per l’Architettura Sostenibile in Germania. La sua reputazione internazionale nasce con la scuola Meti a Rudrapur in Bangladesh, progettata per la tesi di laurea e realizzata nel 2006 con Eike Roswag. Da allora ha sviluppato il suo metodo basato sull’uso di risorse locali in diversi progetti specialmente in Asia e ne ha fatto materia di insegnamento. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti l’Obel Award, l’Aga Khan Award e il Global Award for Sustainable Architecture. Nel 2016 partecipò alla Biennale di Architettura di Venezia con Lehm Ton Erde Baukunst (la società di Martin Rauch) e l’Architekturmuseum della TU di Monaco.Oltre a guidare il suo studio a Laufen, conduce insieme a Martin Rauch un laboratorio di progettazione all’ETH di Zurigo.
Francis Kéré è nato in Burkina Faso nel 1965. Nel 1990, grazie a una borsa di studio, si trasferisce a Berlino e nel 1995 si iscrive alla Facoltà di Architettura della Technische Universität, dove si laurea nel 2004. Nel 1998 costituisce l’associazione Schulbausteine für Gando con lo scopo di raccogliere fondi per costruire una scuola primaria nel suo villaggio natale. Per la sua qualità, la scuola elementare di Gando desta attenzione e riconoscimenti internazionali, tra cui l’Aga Kahn Award for Architecture nel 2004, il Zumtobel Award for sustainable architecture nel 2007 e il Global Award nel 2009. Tra i progetti in corso, l’Opera village Remdoogo a Laongo in Burkina Faso, il Training Center di Dapoang nel Togo e l’allestimento permanente del Museo della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa a Ginevra con Peter Zumthor. Nel 2022 riceve il Premio Pritzker.
Laureata in storia dell’arte, Marianne Krogh è Ph.D. in Architettura. Curatrice del Padiglione della Danimarca alla Biennale di Architettura di Venezia del 2021 ha curato anche numerose pubblicazioni tra cui Connectedness: An Incomplete Antology of the Anthropocene (2020): un’antologia dei contributi di oltre cento autori appartenenti a diversi campi disciplinari: ricercatori, filosofi, artisti, architetti, tra gli altri Bruno Latour, Donna Haraway, Greta Thunberg, Bill McKibben e la cantautrice islandese Björk.
www.kere-architecture.com www.anna-heringer.com
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› AUTORI
Contributi
Daniel Libeskind
Arthur Mamou-Mani
Stefano Mancuso
Daniel Libeskind (Lód’z, 1946, naturalizzato americano) dopo gli studi di musica presso la American-Israel Cultural Foundation Scholarship si laurea in architettura nel 1970 alla Cooper Union di New York e consegue un Ph.D nel 1972 alla Essex University nel Regno Unito. Nel 1989 vince il concorso per la progettazione del Museo Ebraico di Berlino, dove si trasferisce e fonda il suo studio con la moglie Nina Libeskind. A quell’incarico museale ne faranno seguito numerosi altri tra cui il Denver Art Museum e il museo di storia militare di Dresda. Nel 2003 lo studio si trasferisce a New York e vince il concorso per la ricostruzione del World Trade Center con un progetto che comprende la Liberty Tower alta 1.776 piedi, il memoriale, un museo sotterraneo e quattro torri per uffici.
Laureato all’Architectural Association, l’architetto francese Arthur MamouMani (Arb, Riba e Frsa) guida uno studio specializzato in un nuovo genere di architettura progettata e realizzata digitalmente. Docente all’Università di Westminster, possiede il laboratorio di fabbricazione digitale Fab.Pub che consente a ricercatori e aziende di sperimentare con grandi stampanti 3D e macchine a taglio laser. Dal 2016 è membro della Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce. Con il progetto Wooden Waves installato presso la sede di BuroHappold ha vinto il Gold Prize all’American Architecture Prize e il Rising Stars Award del Riba Journal nel 2017. Arthur ha tenuto numerose conferenze, compresi talk TED-X negli Stati Uniti. Ha fondato il proprio studio nel 2011.
Stefano Mancuso è un botanico, accademico e saggista italiano riconosciuto a livello internazionale come uno massimi studiosi e pionieri degli studi relativi alla biologia e al comportamento delle piante. E’ professore ordinario presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Firenze dove è direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale. È autore di numerosi saggi divulgativi, tradotti in più di venti lingue, fra cui Plant Revolution, vincitore del premio Galileo. www.linv.org
www.libeskind.com www.mamou-mani.com
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› AUTORI
Cristina Mittermeier
Michael Pawlyn
Gilles Perraudin
Cristina Goettsch Mittermeier, laureata in biologia marina, è oggi uno dei protagonisti a livello mondiale nel campo della fotografia rivolta alla tutela ambientale. Il suo lavoro è stato pubblicato su centinaia di riviste, in particolare su National Geographic Magazine, McLean’s e Time. Insignita nel 2010 dello Smithsonian Conservation Photographer of the Year Award, e nel 2018 tra gli Adventurers of the Year da National Geographic.
Architetto, ha fondato Exploration Architecture nel 2007 per sviluppare e approfondire soluzioni innovative per l’architettura ecologicamente orientata e ispirata alla natura. Dal 1997 al 2007 aveva lavorato presso Grimshaw Architects ricoprendo un ruolo decisivo nel progetto di un’opera architettonica rivoluzionaria come Eden Project. Tiene numerose conferenze sull’architettura sostenibile sia nel Regno Unito che all’estero. Nel maggio 2005 ha tenuto una conferenza presso la Royal Society of Arts con Ray Anderson, Ceo di Interface. Nel 2007 è stato relatore alla conferenza annuale “Zeitgeist” organizzata da Google e nel 2011 é stato uno dei primi architetti relatori nel ciclo di conferenze TED. É attualmente impegnato in molteplici progetti di architettura ispirati alla biomimicry.
Dal 1980, anno in cui vince il primo premio in un concorso internazionale sulle energie solari passive, Gilles Perraudin si è imposto sulla scena internazionale per la sua ricerca nel campo delle tematiche ambientali in architettura, occupandosi da lungo tempo della riduzione delle emissioni di CO2 sulla totalità del processo di costruzione. Un’esperienza che dopo otto anni di studio ha portato alla realizzazione dell’Accademia del Mont-Cenis a Herne in Germania completato nel 1999. Gilles Perraudin è stato vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, come la medaglia d’oro del Premio Tessenow nel 2004 ed il premio internazionale architettura di pietra nel 2001. Con grandi blocchi di pietra tagliati alla maniera antica, a sud di NÎmes Perraudin ha costruito le cantine del suo Domaine Perraudin.
www.exploration-architecture.com
www.perraudinarchitectes.com
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www.cristinamittermeier.com
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› AUTORI
Contributi
Martin Rauch
Renato Rizzi
Armando Ruinelli
Nato a Schlins, nel Vorarlberg (Austria) nel 1958, nel 1978 ha frequentato l’accademia di arti applicate di Vienna - Master in ceramica (tra i docenti Maria Bilger-Perz e Matheo Thun). Nel 1983 riceve un riconoscimento del Ministero federale della scienza con la ricerca Lehm Ton Erde (fango-argilla-terra) che è anche il nome della sua impresa di costruzioni in terra cruda. Nel 1984 vince il primo premio nei concorsi Low cost housing for Africa (Pan-Africa Development Corp) e Barriere anti-rumore promosso dal Dipartimento per la tecnologie costruttive in Austria. Con Anna Heringer conduce un laboratorio di progettazione e di costruzione in terra cruda all’Eth di Zurigo.
Laureato in architettura a Venezia nel 1977, dal 1984 al 1992 Rizzi avvia una collaborazione a New York con Peter Eisenman, al termine della quale torna in Italia per dedicarsi all’insegnamento, alla progettazione e alla teoria. Nel 1986 fonda a Trento la sezione trentina di In/Arch. Partecipa a numerosi concorsi internazionali in Nuova Zelanda, Varsavia, Berlino, Barcellona, Copenhagen, Cracovia. Nel 2003 riceve la menzione d’onore della Medaglia d’Oro dell’Architettura Italiana, vinta nel 2009 con il progetto per la Casa d’Arte Futurista Fortunato Depero a Rovereto che nel 2011 riceve anche una menzione al Premio Compasso d’Oro Adi. Nel 2009 ottiene una menzione al Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa. Professore associato di composizione architettonica all’Università Iuav di Venezia, dal 2009 è direttore della collana Estetica e Architettura di Mimesis.
Iscritto nel Registro Federale degli Architetti (Reg.A) dal 1996, membro del Schweizerisches Werkbundes (Swb) e della Società Svizzera degli Ingegneri e Architetti (Sia), Armando Ruinelli (Soglio, 1954) è un architetto autodidatta. Dopo sei anni di apprendistato, dal 1970 al 1976, come disegnatore edile a Zurigo e anni di studi condotti in proprio, apre il primo studio a Soglio nel 1982. Sempre qui nel 2000 fonda, con Fernando Giovanoli, lo Studio Ruinelli Associati Sia.
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www.lehmtonerde.at
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www.ruinelli-associati.ch
› AUTORI
Moshe Safdie
Patrik Schumacher
Martha Schwartz
Nato ad Haifa nel 1938, si trasferisce in Canada e si laurea in architettura alla McGill nel 1961. Dopo un periodo trascorso nello studio di Kahn a Filadelfia ritorna a Montreal per occuparsi del masterplan di Expo ’67, dove realizza il progetto Habitat. Nel 1970 apre uno studio a Gerusalemme e si occupa del piano urbano della città. Nel 1978 diventa professore a Yale e in seguito alla McGill, alla Ben Gurion e ad Harvard, e trasferisce lo studio a Boston. Tra i suoi lavori più recenti il Telfair Museum of Art a Savannah (Georgia), lo Yad Vashem Museum (il museo dell’Olocausto) a Gerusalemme, gli aeroporti internazionali di Tel Aviv e di Toronto.
Principal di Zaha Hadid Architects, dove entrò nel 1988, Patrik Schumacher ha studiato filosofia, matematica e architettura a Bonn, Stoccarda e Londra e ha completato il suo PhD nel 1999 all’Istituto per la Scienze Culturali dell’Università di Klagenfurt. Nel 1996 ha fondato il Design Research Laboratory all’Architectural Association di Londra, dove insegna tuttora. Nel 2010 ha vinto il Riba Stirling Prize con Zaha Hadid. Nel 2008 ha coniato il termine Parametricismo come nuovo stile per l’architettura del 21° secolo. Nel 2010/2012 ha pubblicato la sua opera teorica nei due volumi The Autopoiesis of Architecture.
Architetto del paesaggio e artista. Il suo interesse principale si rivolge a progetti urbani e all’esplorazione di nuove espressioni di progettazione nel paesaggio. Titolare di Martha Schwartz Partners, ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali. È professore di Architettura del Paesaggio presso la Graduate School of Design della Harvard University. Progetti recenti comprendono il Mesa Arts Center a Mesa, Arizona; la residenza privata di Sheikh Saud Al-Thani a Doha, in Qatar, in collaborazione con Arata Isozaki, Philip Johnson, Santiago Calatrava e Jean Nouvel, e molti altri progetti in tutto il mondo.
www.safdiearchitects.com
www.zaha-hadid.com
www.msp.world
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› AUTORI
Contributi
foto Leo Sorel, Cooper Union
Nader Tehrani
Edoardo Tresoldi
Julia Watson
Nader Tehrani è preside della scuola di architettura dell’Università Cooper Union di New York. In precedenza professore e capo del dipartimento di Architettura del Massachusetts Institute of Technology di Cambridge, è il fondatore e direttore di Nadaaa, studio di architettura il cui lavoro è orientato verso l’innovazione nel progetto, la collaborazione interdisciplinare e il dialogo con l’industria delle costruzioni.
Era già da tempo nel radar degli architetti, ma dopo che il suo intervento del 2016 per la Basilica paleocristiana di Siponto, commissionatogli dal Mibact, ha vinto una Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana alla Triennale di Milano la sua affermazione nel mondo dell’architettura si è ulteriormente consolidata. Nel 2018 realizza ‘Etherea’ per il Coachella Music and Arts Festival negli Usa. Nel 2019 presenta ‘Simbiosi’ nel contesto di Arte Sella e fonda Studio Studio Studio, laboratorio interdisciplinare a sostegno di artisti, progetti di arte pubblica e produzioni di arte contemporanea. Nel 2020 inaugura l’installazione permanente ‘Opera’ a Reggio Calabria. Iniziato all’arte da giovanissimo, Tresoldi lavora sfidando la materia, e in fondo cercando l’anima nelle cose. Spesso nelle architetture.
Designer, attivista e accademica, Julia Watson è esperta in tecnologie indigene. Il suo Lo-Tek, Design by Radical Indigenism è un’esplorazione dell’ingegno millenario con il quale gli uomini hanno sviluppato modi per vivere in simbiosi con la natura. Basandosi sulla filosofia indigena e sulle infrastrutture vernacolari, il Lo-Tek promuove l’adozione di tecnologie sostenibili, resilienti e in armonia con la natura. Con uno studio di urbanistica e paesaggio che si concentra sulla rinaturalizzazione Julia, nata in Australia, insegna ad Harvard e alla Columbia University.
www.nadaaa.com
www.juliawatson.com
www.edoardotresoldi.com
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› AUTORI
Alan Weisman
Maxim Zhestkov
Peter Zumthor
Nato nel 1947 a Minneapolis, giornalista e scrittore, Weisman è l’autore di Countdown - Conto alla rovescia e Il mondo senza di noi (entrambi da Einaudi). Insegna giornalismo internazionale presso l’Università dell’Arizona.
Maxim Zhestkov (1985) è un media artist il cui lavoro si concentra sull’influenza dei media digitali sulle arti visive. Cresciuto a Ul’janovsk, la città sul Volga che diede i natali a Lenin, e affascinato fin da bambino dall’arte, dalla fisica e dai computer, Maxim ha condotto studi in campo architettonico e artistico. Nel 2015 fonda, con alcuni colleghi, Zhestkov Studio col quale esplora nuovi orizzonti nell’ambito di progetti artistici e spettacoli dal vivo. Molti i commercial prodotti per brand internazionali come Adobe, Google, Microsoft, Samsung, LG, PlayStation, Nike, Under Armour, Jimmy Choo.
L’Atelier Zumthor è un piccolo studio di architettura con circa dodici professionisti dedito alla produzione esclusivamente artigianale di architetture originali con l’obiettivo di creare un incontro tra le funzioni d’uso, la natura del luogo, l’accuratezza dei dettagli e l’eccellenza dell’esecuzione. La progettazione di ogni fase e dettaglio è realizzata o curata personalmente da Peter Zumthor (Basilea 1943, premio Pritzker nel 2009), che con i suoi collaboratori produce un numero limitato di edifici caratterizzati da integrità fisica e distintive qualità atmosferiche.
www.worldwithoutus.com
https://zhestkov.studio
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34 IOARCH_100 Special Issue
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› MATERIA PROFONDA
MATERIA PROFONDA Il territorio culturale dell’architettura
Nonostante la componente tecnica, soprattutto se riferita al tema della sostenibilità, abbia assunto in architettura un ruolo preponderante, il principio ideativo non è solo la base fondativa di qualsiasi progetto ma anche ciò che caratterizza il lavoro di molti autori. Radunati da presupposti comuni, i contributi di questo capitolo si articolano in tre parti: Attualità senza Tempo, di maestri che hanno fatto la storia dell’architettura; Vedere l’Invisibile, ovvero la capacità di vedere in profondità ciò che al primo sguardo è invisibile traducendolo in materia e forma costruita; Confini Fluidi, cioè le ricadute sul progetto di architettura del nuovo modo, sempre più fluido, di intendere il nostro rapporto con la parte di mondo non modificata artificialmente e che ancora chiamiamo natura.
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IOARCH_100 Special Issue
› MATERIA PROFONDA
IOARCH_100 Special Issue
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› ATTUALITÀ SENZA TEMPO
Luigi Caccia Dominioni Esiste ancora uno stile italiano in architettura? Noto per l’eleganza, il buon gusto e la profonda identità milanese Luigi Caccia Dominioni ci parla della sua città. Di come si è trasformata dagli anni Cinquanta ad oggi, delle occasioni perdute e del suo modo di intendere l’architettura. Un parere autorevole e straordinariamente interessante IMP N° 0 - 1/7 - font
2-10-2005
18:43
Pagina 1
Numero Zero - OTTOBRE 2005
Materiali
4
Masselli in cemento per un recupero economico
Ristrutturazione
6
Da un millennio arroccata sul granito
Progetto del mese
8
Il panificio militare diventa scuola
Design
14
Waterblade l’acqua che arreda
ANNO 1 Numero Zero Mensile
Direzione, redazione, amministrazione Font srl, via Siusi 20/a, 20132 Milano tel. 02 2847274 - fax 02 45474060 e-mail: info@fontcom.it Direttore Giovanna Franco Direttore responsabile Sonia Politi Redattore capo Nadia Rossi
I
oArchitetto è un nuovo giornale di cui presentiamo il numero zero. Parla di città, di case e di gente che ci vive; parla di chi è particolarmente impegnato nelle trasformazioni urbane, amministratori e politici, imprese e committenti, produttori, immobiliaristi e operatori; in particolare parla di architetti, per mettere in evidenza il loro lavoro, i risultati ottenuti e tutti i problemi legati alla professione. Non trattiamo solo di architettura però, parliamo di progetti e prodotti, di luoghi e non luoghi, ma anche di sentimenti, di estetica e di arte, di eleganza, di passioni e, perché no, di soldi, insomma di quelle cose, che quando riescono bene rendono felici. Siamo in molti noi architetti, un esercito variegato che con fatica quotidiana e qualche successo, è impegnato nella ricerca della qualità del vivere. L’impresa è improba, la foresta circostante è quella dei pugnali volanti, e spesso ci si dimentica che l’Italian Style è sempre ai primi posti nell’immagine del nostro paese nel mondo: moda, arte, design, arredamento, interiors, eleganza, cibo, recupero dei centri storici. Un primato molto pericolante. Nell’architettura contemporanea invece siamo deboli, e quello che si vede in giro viaggiando per l’Italia non è molto confortante, anzi a volte disperante, perché, anche negli edifici più continua a pag. 2 >>>
Redazione Roberta Basaglia, Andrea Porta, Bianca Urbani Hanno collaborato Enrico Dassori, Sara De Maestri, Alberto Nepi Foto E. Giani, R. Bregani Stampa Graphicscalve srl Vilminore di Scalve BG
Pubblicità Font srl, via Siusi 20/a, 20132 Milano tel. 02 2847274 - fax 02 45474060 e-mail: info@fontcom.it Registrazione Tribunale di Milano n. 822 del 23.12.04
stile
CACCIA DOMINIONI, MILANO E GLI ARCHITETTI
Come sempre si lavora dal cucchiaio alla città
Esiste ancora uno italianoinarchitettura? Noto per l’eleganza, il buon gusto e la della sua città. Di come si è trasformata suo modo di intendere l’architettura.
profonda identità milanese Luigi Caccia Dominioni ci parla dagli anni cinquanta ad oggi, delle occasioni perdute e del Un parere autorevole e straordinariamente interessante.
A
rchitetto, designer, paesaggista. Luigi Caccia Dominioni vive e lavora al 16 di piazza Sant’Ambrogio a Milano, nel palazzo che fu anche la sua prima opera di giovane architetto. Una casa importante, nel cuore di questa città dove è nato, cresciuto e si è laureato nel 1936. Tra i suoi amici e compagni di corso c’erano i grandi nomi dell’architettura e del design come Livio e Piergiacomo Castiglioni, Marco Zanuso, e architetti che hanno raggiunto il successo in discipline diverse come Renato Castellani, Alberto Lattuada e Luigi Comencini, che sono diventati grandi registi cinematografici. La personalità – si capisce – è forte, ma è mischiata con una singolare semplicità e accostata a una gentilezza con la quale nasconde gli spigoli di un carattere molto deciso, tutt’altro che accomodante. Riceve tutti, anche senza appuntamento; la gente entra, gli chiede consiglio e lui risponde, garbato e sbrigativo. Vicino a lui tutto appare più semplice e più bello. Sembra che sappia distinguere immediatamente ciò che è importante da quello che non lo è, per istinto. Il motivo del suo successo? Fin da giovane riesce a capire i bisogni delle famiglie, i desideri
LUIGI CACCIA-DOMINIONI
Architetto, designer, urbanista, Luigi Caccia Dominioni è una delle figure più rappresentative dell’architettura lombarda contemporanea. Laureato a Milano nel 1936, ha sempre espresso attraverso i suoi lavori una personale eleganza e un gradevole equilibrio tra il rispetto della tradizione e la forte capacità di innovazione. Viene definito un piantista, nel senso che tutti i suoi progetti partono dal dentro, nascono con l’idea di realizzare i desideri e soddisfare i bisogni delle persone, delle famiglie, delle collettività.
di scultura s’intendeva, era nato un 7 dicembre. Era scritto. Io sono nato architetto e lavoro con l’intento di far bello. Studio le case e le loro piante in modo tale che la gente dentro ci stia bene, quella è la differenza tra me e gli altri architetti. Io sono un piantista, questo è il mio mestiere e lo dico sempre! Il che significa far nascere le case dal di dentro, partendo dal letto, dal tavolo da pranzo... Dai particolari si arriva al generale, non il contrario. delle persone, li interpreta e li realizza. Caccia Dominioni ha il senso del bello, ce l’ha dentro e lo esprime nelle cose che fa per sé e per gli altri. Per questo è tanto amato, e tanto invidiato da suscitare gelosie e polemiche, ogni volta che fa qualcosa. E di cose ne ha fatte moltissime nella sua lunga e fortunata carriera. Il tavolo dello studio è immenso e pieno di carte, faldoni, libri. Gli ospiti vanno e vengono, parlano sottovoce per non disturbarlo e lo saluta-
“
Sarebbe stato di gran lunga meglio fare dei progetti più seri, posati e tranquilli, ma conoscendo bene la città
”
no piegandosi un pochino. Per parlare tranquilli scendiamo, una scaletta breve e sotto incon-
triamo un altro spazio bellissimo. Architettura come medicina. Una volta era una facoltà che si sceglieva per passione. È stato così per lei? Sì. Ma c’è da dire una cosa, lei deve sapere che io sono nato il 7 dicembre, il giorno di Sant’Ambrogio. Io mi sentivo attratto in modo particolare dalle opere del Bernini, sono andato a vedere sui libri alla voce Bernini Gian Lorenzo e mi sono accorto che anche lui, che
Le sue case sono molto eleganti e molto personali. In Valtellina piuttosto che a Montecarlo, e soprattutto qui a Milano. Dica architetto, che cosa pensa della Milano di oggi? Milano è un disastro in questo momento, non le sembra? Secondo me, a mio parere. Un disastro perché le cose importanti si fanno senza quel minimo necessario discernimento. Si chiamano grandi, bravissimi architetti per poter fare delle continua a pag. 2 >>>
PAESAGGI URBANI IN MOVIMENTO: NOVITÀ, ARCHITETTURA, TRASFORMAZIONI E SPECULAZIONE
L’architettura fra arte,
tradizione e modernità
arte del costruire,
S
embra che l’architettura, almeno nelle sue più recenti e celebrate occasioni, abbia sposato una dimensione decisamente artistica. Le diffuse tendenze verso il “fine a se stesso” e la “totalità estetica” spingono a trasformare tutto in opera d’arte e l’architetto-artista, non è tale in nome
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di
F.O.Ghery Praga 1992
della sua abilità tecnica, ma della sua capacità di concettualizzare, di dominare la tecnica. La storia, tuttavia, ci ha insegnato che, quando il pericolo di omologazione intellettuale è concretamente percepito, scatta negli interessati un salvifico istinto critico, quello che viene altrimenti definito istinto di soprav-
ENRICO DASSORI
vivenza. Agli architetti (la maggior parte) esterni a quel ristretto club di personaggi che formano il cosiddetto star system (orribile esempio di globalizzazione del linguaggio) non resta che attivare i sani meccanismi della coscienza critica per non farsi continua a pag. 3 >>>
FAVOREVOLI&CONTRARI
Il polo della
discordia
Un programma ambizioso e di ampio respiro. Molto ammirato, ma al contempo discusso e contrastato. Il progetto di riqualificazione del vecchio polo espositivo milanese - la storica Fiera - promette di far parlare a lungo di sé. Dite la vostra! a pag. 2 >>>
IoArch numero zero Ottobre 2006
IOARCH_100 Special Issue
Architetto, designer, paesaggista. Luigi Caccia Dominioni vive e lavora al 16 di piazza Sant’Ambrogio a Milano, nel palazzo che fu anche la sua prima opera di giovane architetto. Una casa importante, nel cuore di questa città dove è nato, cresciuto e si è laureato nel 1936. Tra i suoi amici e compagni di corso c’erano i grandi nomi dell’architettura e del design come Livio e Piergiacomo Castiglioni, Marco Zanuso, e architetti che hanno raggiunto il successo in discipline diverse come Renato Castellani, Alberto Lattuada e Luigi Comencini, che sono diventati grandi registi cinematografici. La personalità – si capisce – è forte, ma è mischiata con una singolare semplicità e accostata a una gentilezza con la quale nasconde gli spigoli di un carattere molto deciso, tutt’altro che accomodante. Riceve tutti, anche senza appuntamento; la gente entra, gli chiede consiglio e lui risponde, garbato e sbrigativo. Vicino a lui tutto appare più semplice e più bello. Sembra che sappia distinguere immediatamente ciò che è importante da quello che non lo è, per istinto. Il motivo del suo successo? Fin da giovane riesce a capire i bisogni delle famiglie, i desideri delle persone, li interpreta e li realizza. Caccia Dominioni ha il senso del bello, ce l’ha dentro e lo esprime nelle cose che fa per sé e per gli altri. Per questo è tanto amato, e tanto invidiato da suscitare gelosie e polemiche, ogni volta che fa qualcosa. E di cose ne ha fatte moltissime nella sua lunga e fortunata carriera. Il tavolo dello studio è immenso e pieno di carte, faldoni, libri. Gli ospiti vanno e vengono, parlano sottovoce per non disturbarlo e lo salutano piegandosi un pochino. Per parlare tranquilli scendiamo, una scaletta breve e
sotto incontriamo un altro spazio bellissimo.
Architettura come medicina. Una volta era una facoltà che si sceglieva per passione. È stato così per lei?
Sì. Ma c’è da dire una cosa, lei deve sapere che io sono nato il 7 dicembre, il giorno di Sant’Ambrogio. Io mi sentivo attratto in modo particolare dalle opere del Bernini, sono andato a vedere sui libri alla voce Bernini Gian Lorenzo e mi sono accorto che anche lui, che di scultura s’intendeva, era nato un 7 dicembre. Era scritto. Io sono nato architetto e lavoro con l’intento di far bello. Studio le case e le loro piante in modo tale che la gente dentro ci stia bene, quella è la differenza tra me e gli altri architetti. Io sono un piantista, questo è il mio mestiere e lo dico sempre! Il che significa far nascere le case dal di dentro, partendo dal letto, dal tavolo da pranzo... Dai particolari si arriva al generale, non il contrario. Le sue case sono molto eleganti e molto personali. In Valtellina piuttosto che a Montecarlo, e soprattutto qui a Milano. Dica architetto, che cosa pensa della Milano di oggi?
Milano è un disastro in questo momento, non le sembra? Secondo me, a mio parere. Un disastro perché le cose importanti si fanno senza quel minimo necessario discernimento. Si chiamano grandi, bravissimi architetti per poter fare delle offerte e per poter vincere dei concorsi, ma quello che conta è altro. Sarebbe di gran lunga meglio fare dei progetti molto più posati e molto più tranquilli, ma fatti conoscendo bene la città, le sue esigenze, i suoi problemi, l’ambiente, i necessari collegamenti, l’inserimento del nuovo col vecchio e comunque con quanto c’era e c’è lì da unire, collegare e far crescere insieme.
› MATERIA PROFONDA
Invece...
Invece si chiamano queste grandi autorità dell’architettura, si mettono insieme un po’ come si fa per mettere assieme una équipe sia essa di calcio o di pallacanestro, ecco. Capisce… Quindi sa, siamo nel mondo di queste cose, per vendere i terreni ex Fiera si fa un concorso a chi offre di più. E questa a me non
sembra la via migliore, il modo di risolvere i problemi. Ci vuole ben altro, occorrono capacità e cultura, tanta, tanta buona volontà e impegno.
Sopra, il condominio di piazza Carbonari, a Milano.
E quando passeggia per Milano, cosa le piace?
Quando passeggio per la città quello che mi piace è ancora la vecchia Milano, il centro che ancora ha una certa misura e una certa serietà
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› ATTUALITÀ SENZA TEMPO
Luigi Caccia Dominioni
e compostezza. Anche se quando è stata fatta la ricostruzione dopo i bombardamenti si è persa l’occasione, forse la grande occasione di fare un po’ come a Vienna, un ring di giardini tra il Naviglio e la circonvallazione. E lì fare una città con una specie di anello costellato di grattacieli, una sola semplice ma brillante idea. Che il centro rimanesse centro antico come era, attorno un ring moderno fatto di giardini e torri le più alte possibili; oltre il ring una periferia di qualità. Che allora si poteva e si doveva fare con una Milano semidistrutta com’era. Insomma, una grande occasione perduta. Non è stato fatto. E adesso...
No. Adesso niente, adesso cosa vuol che le dica, io sono vecchio ormai ho finito la mia partecipazione. Ho fatto quello che potevo. Nel mio piccolo, capisce. Ma lei che cosa pensa dell’architettura?
Vede io ho un’idea mia dell’architettura, fatta come servizio, per fare case serie che nascano dall’interno, come un’automobile deve nascere dal telaio e dal motore e non dalla carrozzeria. Invece adesso si fa tutto l’inverso. Si fa la forma esterna e poi l’interno come viene viene. Insomma ecco, un modo proprio differente, un modo diverso di fare. Cioè io concepisco l’architettura come qualcosa che deve dare. Qui invece la prima cosa che si fa è la forma esterna, ci si costruisce il monumento. Comunque Milano resta una grande città, dove si sa lavorare e questa è cosa molto importante. Però è una città che rispetto a Parigi, New York, cosa vuole è come Pavia. Però, però Pavia è bella, è simpatica, piena di cose belle e importanti. E quindi tanto di cappello. Che cosa è cambiato nella sua professione nel corso dell’ultima metà del secolo scorso? Nel modo di lavorare?
È cambiato che più ero giovane, più potevo contare su artigiani bravi, più ero giovane, più facevo disegni buoni, ma non bellissimi; l’artigiano correggeva e le cose riuscivano molto belle. Adesso mi sembra di fare delle cose belle, e mi sembra che non riescano così belle, perché l’artigiano le tradisce in nega-
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IOARCH_100 Special Issue
tivo. Comunque io ho la fortuna di trovare ancora artigiani bravi, sono vecchio, conosco tanta gente e mi appoggio a quelli bravi. Nel nostro lavoro, per raggiungere un ottimo risultato non basta essere bravi, bisogna saper costruire una buona squadra. Il suo lavoro più bello?
Io sono abbastanza soddisfatto dei miei lavori, nei quali alla fine trovo un po’ meno errori che in altri. Purtroppo spesso i più belli sono progetti che non si realizzano. Una casa che mi piace sempre molto è quella di piazza Carbonari, anche Ippolito Nievo è buona così come la casa di Santa Maria alla Porta e quella di via Cino del Duca. Ma i pezzi di cui mi vanto sono due chicche particolari, e cioè il piccolo collegamento tra San Fedele e la casa della Chase Manhattan e il pavimento del presbiterio della basilica di Sant’Ambrogio, che ho realizzato recentemente e che ha suscitato tante polemiche.
Eppure quel pavimento non è solo bello, è straordinariamente bello. Che opera le piacerebbe aver fatto lei?
Tutto. Per la grande passione che ho per il mio mestiere, ma se fossi proprio costretto a scegliere, direi per esempio il San Satiro di Bramante. Chi è Luigi Caccia Dominioni?
Una brava persona, semplice, che cerca di lavorare bene. Ma solo per un’élite...
Non è vero, non è assolutamente vero. Io lavoro per chi mi chiama. Anzi, più la persona è semplice e ha pochi mezzi, più io lavoro con intensità e con maggior gusto. Mi sono divertito una volta a fare degli appartamenti piccoli, che ho chiamato Appartamento Pirelli, Appartamento Agnelli, perché anche l’appartamento piccolo può e deve avere una sua classe, riuscire ad avere alte qualità pur nella piccola dimensione ed un suo tono dignitoso. S.P.
› MATERIA PROFONDA
A sinistra, Golf Club di Monticello. In alto, la Biblioteca civica di Morbegno. A destra, La sala polifunzionale della biblioteca con la grande vetrata che inquadra il panorama sul Monte Disgrazia una delle principali vette delle Alpi Retiche.
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› ATTUALITÀ SENZA TEMPO
Cini Boeri Un muratore dell’immagine libero da stilemi Rapidi tratti della storia professionale di Cini Boeri, determinata esponente di una professione che è arte e impegno. Suoi grandi desideri: progettare una scuola e un ospedale
Sguardo franco, diretto di una donna sulla quale il tempo stenta a lasciare il segno. Una parlata sciolta e schietta, che lascia da parte orpelli e autocelebrazioni per arrivare al nocciolo della questione con rapidità. Cini Boeri tratteggia la sua esperienza di donna e architetto. Com’è cambiato nel tempo l’atteggiamento verso le donne che fanno architettura?
Per le professioniste non è cambiato molto: eccetto rare ma valide eccezioni, la committenza meno colta distingue ancora tra i due sessi. Ad esempio, nella mia storia professionale mancano grandi lavori pubblici. Mi sarei impegnata molto volentieri nella progettazione di una scuola – una realtà che ha bisogno di un profondo aggiornamento e non solo da un punto di vista didattico – o di un ospedale. Anche in questo secondo caso si incontrano strutture assolutamente superate sia per le nuove tecnologie che si trovano in esse, sia per i nuovi modi di esercitare la professione medica. A questo proposito, trovo sempre molto attuale l’ospedale disegnato da Le Corbusier per Venezia e mai realizzato. Esclusa perché donna?
Credo di si.
Le manca qualcosa rispetto ai colleghi uomini?
IOA 9-1a7
5-08-2007
19:52
No, non credo. Noi donne abbiamo caratteristiche diverse, che tuttavia non vengono apprezzate se non dalle persone più colte: grande intuito, la capacità psicologica di interpretare i desideri altrui e trasformarli in qualcosa di reale, di pratico.
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luglio-agosto 2007
Archiscuole
6
Il richiamo di Rotterdam, city of Architecture 2007
Progetto del mese
8
Architettura del verde a basso impatto allergenico
Under 40
Architettinmostra
10
Il valore sociale motore di scelte progettuali
14
Echi di navi a RPBW antologica di Renzo Piano
ANNO 2 numero 9 euro 2,50 Pubblicità Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano tel. 02 2847274 fax 02 45474060 pubblicita@fontcom.it Sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1, DCB Milano
EDITORIALE
La città e le mine antidonna
L
a città è minefield, campo minato per le donne, come sostenevano alcune femministe americane negli anni Settanta, o l’unico luogo dove è possibile essere? La lunga e contorta strada per la libertà delle donne porta in città, la attraversa tutta, ci gira dentro, fino a giungere nei vicoli, ma talvolta i vicoli sono ciechi e non c’è uscita. Chi odia la città contemporanea non ricorda quando il riscaldamento era a legna, l’acqua al pozzo, i servizi inesistenti, niente vestiti, lavori domestici e fatica tutto il giorno. Così è a tutt’oggi in molti paesi. Eppure la modernità fa paura e per affermarsi porta con sè rivoluzioni sanguinose e totalitarismo, crolli di certezze, città sotto le bombe, campi di concentramento e Gulag: fanatismi di ogni tipo e città della morte. E anche un bel numero di depressioni. Grandi contraddizioni e grandi speranze. Periferie immense occupano il mondo, aria e acqua inquinate, condomini, grandi cubi violenti, ma con appartamenti indipendenti. Finalmente per molte donne la stanza per sè. L’architettura si trasforma con le donne. Case curate, comunicazione, vestiti, viaggi, stipendi sempre bassi, figli uno o nessuno, cura del proprio corpo, libertà sessuale. Oppure, ancora dieci figli, corpi infagottati, continua a pag. 2 >>>
LA FUNZIONE ELEMENTO CENTRALE IN ARCHITETTURA
Un muratore dell’immagine libero da stilemi
S
guardo franco, diretto di una donna sulla quale il tempo stenta a lasciare il segno. Una parlata sciolta e schietta, che lascia da parte orpelli e autocelebrazioni per arrivare al nocciolo della questione con rapidità. Cini Boeri tratteggia la sua esperienza di donna e architetto. Com’è cambiato nel tempo l’atteggiamento verso le donne che fanno architettura? Per le professioniste non è cambiato molto: eccetto rare ma valide eccezioni, la committenza meno colta distingue ancora tra i due sessi. Ad esempio, nella mia storia professionale mancano grandi lavori pubblici. Mi sarei impegnata molto volentieri nella progettazione di una scuola - una realtà che ha bisogno di un profondo aggiornamento e non solo da un punto di vista didattico - o di un ospedale. Anche in questo secondo caso si incontrano strutture assoluta-
L’INTERVISTA
L’edilizia
Quali sono le caratteristiche che ritiene debbano essere proprie della professione di architetto?
ha bisogno di cultura della
progettazione
Casa allo Stagno Torto alla Maddalena, il fronte anteriore. Foto Santi Calaca
mente superate sia per le nuove tecnologie che si trovano in esse, sia per i nuovi modi di esercitare la professione medica. A questo proposito, trovo sempre molto attuale l’ospedale disegnato da Le Corbusier per Venezia e mai realizzato. Esclusa perché donna? Credo di si. Le manca qualcosa rispetto ai colleghi uomini? No, non credo. Noi donne abbiamo caratteristiche diverse, che
“
Non si progetta per se stessi. La responsabilità si esplica verso la committenza, l’ambiente, lo scopo del lavoro.
STORIE RECENTI DA MIMETISMO A PROTAGONISMO / arch. mariella zoppi
”
Donne e architettura
I
l dibattito su questo tema, in Italia, inizia soltanto negli anni Settanta del Novecento, quando le prime donne si impongono con i loro progetti nel campo dell’architettura e del design e le studentesse alle facoltà di architettura non sono più tre o quattro ragazze, ma una percentuale in crescita rispetto al totale degli iscritti. È in quegli anni che vengono chiesti i pareri ai saggi dell’architettura italiana sulle potenzialità della parte femminile e le risposte dei grandi mae-
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ARCH. CINI BOERI
Laureata al Politecnico di Milano nel 1951, dopo una lunga collaborazione con Marco Zanuso inizia la propria attività professionale nel 1963, occupandosi di architettura civile e disegno industriale. Ha progettato in Italia e all’estero case unifamiliari, appartamenti, allestimenti museali, uffici, negozi, dedicando grande attenzione allo studio della funzionalità dello spazio e ai rapporti psicologici tra uomo e ambiente. Nell’ambito del design industriale si è occupata in modo particolare del progetto di elementi per l’arredo e di componenti per l’edilizia.
Rapidi tratti della storia professionale di Cini Boeri, determinata esponente di una professione che è arte e impegno. Suoi grandi desideri: progettare una scuola e un ospedale
stri sono su questo versante spesso deludenti e appaiono, oggi, datate e superate dai fatti. Carlo Scarpa, in un’intervista alla rivista Modo (n. 16) affermava, infatti, che le donne non hanno il senso del “grave” e quindi - diciamo noi - non sono in grado di affrontare la complessità statica e strutturale degli edifici, mentre, dal canto suo, Alberto Arbasino (Vogue America, luglio 1970) descriveva Gae Aulenti (la “femmina” per continua a pag. 2 >>>
tuttavia non vengono apprezzate se non dalle persone più colte: grande intuito, la capacità psicologica di interpretare i desideri altrui e trasformarli in qualcosa di reale, di pratico. Quali sono le caratteristiche che ritiene debbano essere proprie della professione di architetto? Prima di tutto un grande senso di responsabilità, la conoscenza profonda del tema da affrontare: continua a pag. 2>>>
Il nuovo stenta a farsi largo nel mondo delle costruzioni. Ne parliamo con Rita Finzi, responsabile del settore grandi contratti del Consorzio cooperative costruzioni di Bologna
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rimula rossa, ago nel pagliaio, Rita Finzi è dirigente di un mondo tipicamente maschile qual è un’impresa di costruzioni. Non un’impresa qualunque, ma il Consorzio cooperative costruzioni di continua a pag. 3 >>>
Esiste un’architettura al femminile? O esiste un mestiere che tende ancora oggi a spingere indietro le donne per garantire migliori opportunità e favorire gli uomini?
IoArch numero 9 Lug-Ago 2007
IOARCH_100 Special Issue
Prima di tutto un grande senso di responsabilità, la conoscenza profonda del tema da affrontare: andare a fondo e capire bene cosa
è stato chiesto e cosa può essere più utile offrire. Di nuovo emerge la grande importanza dell’interpretazione psicologica del committente. Meglio ancora se al tutto si unisce un po’ di arte. Cosa intende per senso di responsabilità?
Capire che non si progetta per se stessi, ma per gli altri. Questa è una cosa importantissima. Oggigiorno molti architetti importanti applicano un loro stilema che fa sì che un’opera venga subito riconosciuta come loro… ma questa è solo ambizione personale! Non a caso Renzo Piano, che stimo molto, cambia ogni volta progetto. E nel mio piccolo l’ho fatto anch’io. La mia responsabilità si esplica nei confronti della committenza, dell’ambiente e dello scopo del lavoro. Ciò presuppone un lavoro preliminare complesso.
Certo: bisogna prima di tutto conoscere il contesto per rendersi conto di come ci si può inserire in esso. Meglio in senso antagonista, con una forma completamente astratta o rispettandolo? È un discorso che precede qualsiasi progettazione seria. Un tempo qualcuno lo faceva. Oggi pochi. Mi spiace, ma è così. Occuparsi di interni sembra un’attività minore…
È vero. Le riviste di settore raramente pubblicano interni. È una grande stupidaggine, ma è così. Spesso le architetture presentate sono solo scatole tridimensionali senza alcun riferimento all’interno che le può avere ispirate. Al contrario, per me l’inizio di un progetto serio è lo studio del contesto, cui segue la funzione interna che è importantissima e dalla quale dipende la tanto celebrata forma esterna. Quali sono i suoi consigli per chi si affaccia oggi alla professione?
Vorrei ricordare agli studenti che fare architettura e svolgere la professione non significa “vo-
› MATERIA PROFONDA
lare” tra l’arte. Il nostro è un lavoro estremamente serio e carico di responsabilità. Bisogna impegnarsi a fondo, lasciando da parte ogni superficialità. Noi siamo i muratori dell’immagine e la nostra costruzione deve stare in piedi. E poi non bisogna credere che ci siano facili guadagni. Subito in proprio o prima una fase di stage?
L’università non dà sufficienti capacità per affrontare la realtà del lavoro. Uno stage presso uno o più studi seri fornisce basi solide per la professione futura. Penso che oggi non convenga realizzare uno studio personale: i costi sono troppo elevati e i committenti sono meno seri di un tempo nei pagamenti. Il mio suggerimento è di associarsi tra più giovani con competenze differenti: un supervisore, uno specializzato nel seguire i cantieri, uno nei rendering, ecc... Credo che un gruppo di 3-4 giovani con specializzazioni diverse possa costituire una realtà positiva. Cosa pensa del mondo del design attuale?
Che realizza cose belle, carine, talvolta oggetti d’arte, ma quello di design è un differente concetto: un prodotto deve essere progettato per una produzione di serie, che dia un prodotto finito dal costo accessibile e dalla funzione molto bene espressa. A volte vedo oggetti molto belli, ma ho il dubbio: come lo prendo? come lo uso? Progettare significa considerare a fondo tutti gli elementi dell’oggetto che si andrà a
Sopra, vista esterna di casa Boeri all’isola della Maddalena: ogni camera ha una sua uscita sul mare e un piccolissimo bagno. Sotto, casa allo Stagno Torto alla Maddalena, il fronte anteriore. Foto Santi Calaca
realizzare e non solo il suo lato estetico. Fabio Novembre è per esempio un nome emergente: è un ragazzo molto intelligente, simpatico, che fa delle cose molto belle che tuttavia sono pezzi d’arte, non design. Tra le opere realizzate, qual è quella a cui è più affezionata?
La casa di vacanza della mia famiglia all’isola della Maddalena, realizzata nel 1967. È un inno all’autonomia: ogni camera da letto ha una sua uscita sul mare, indipendente, e un piccolissimo bagno. L’elemento di unione sono gli spazi comuni: la cucina, il soggiorno e il patio. Una sorta di co-housing?
Sì, esatto. E nonostante la casa abbia ormai 40 anni, piace e viene richiesta ancora oggi per pubblicazioni.
Sempre più spesso le donne rinunciano alla propria femminilità per riuscire nel mondo del lavoro; cosa ne pensa?
Ho vissuto a pieno la realtà di mamma (eravamo in piena rivolta studentesca, con tutte le preoccupazioni che ne derivavano) e di lavoratrice. È faticoso, certo, ma si può fare senza privarsi del piacere di vivere a fondo (e per scelta) la propria vita. Certo, nel privato come nella professione di architetto è indispensabile una buona dose di entusiasmo. Ne sono ancora oggi ricchissima. Chissà se riuscirò a fare l’ospedale o la scuola…
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› ATTUALITÀ SENZA TEMPO
Daniel Libeskind Architettura e comunicazione Spazi fuori dagli schemi innescano nuovi processi economici e culturali
IOA 22-1a11
25-01-2009
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Pagina 1
gennaio/febbraio 2009
milano/MidLand
6
Dalla de-frammentazione alla ri-composizione
architetture
8
La sala consiliare del comune di Segrate
progetto del mese
12
Il Louvre di Mario Bellini
archiartisti
23
Intervista a Luca Scacchetti
ANNO 4 numero 22 euro 2,50
www.ioarch.it Pubblicità Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano tel. 02 2847274 fax 02 45474060 pubblicita@fontcom.it Sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Meccanica
liquida
F
ino a che punto la dimensione “digitale” influisce sul design e sull’architettura? Apparentemente poco. Ma, mentre è difficile pensare a qualcosa di elettronico dotato di “forma”, se non quella delle semplici interfacce grafiche, è proprio l’estetica di entità neutre ed infinitamente malleabili, in una parola “liquide”, che si sta rivelando ultimamente in alcune esempi di design e di architettura. Un oggetto di successo come l’I-phone, frutto di un grande impegno a livello di product design, è una scatoletta nera assolutamente neutra che muta costantemente, con il proprio aspetto, anche le proprie funzionalità. Le ultime piastre a termoinduzione, controllate touchscreen e pertanto prive di qualsiasi tasto o manopola, scaldano solo dove necessario e si presentano come una superficie piatta e del tutto omogenea: una sorta di minimalismo reso possibile dalla tecnologia. In architetture come l’Allianz Arena di Herzog & de Meuron, un involucro neutro formato da cuscinetti romboidali in ETFE diventa una sorta di schermo gigantesco in occasione degli eventi sportivi. E infine, le affascinanti quanto astratte forme prodotte attraverso sofisticati strumenti di modellazione dei solidi, sebbene difficilmente qualificabili come architettura, non mancano di influenzare in modo molto diretto anche autori di orientamento decisamente più “analogico”. Sono solo alcuni esempi che rivelano la ricerca di nuove forme di rappresentazione della contemporanea network society implicitamente fluida ed infinitamente adattabile. Carlo Ezechieli
INTERVISTA A DANIEL LIBESKIND TRA ARCHITETTURE ARDITE E NUOVI RAPPORTI TRA SPAZIO E FORMA
Architettura e comunicazione
Spazi fuori dagli schemi innescano nuovi processi economici e culturali
U
n decennio fa, pensando a tendenze ormai consolidate nell’architettura post-moderna, Martin Pawley aveva lanciato un’interessante metafora, presa dall’aeronautica. Secondo Pawley, contrariamente agli aerei di tipo convenzionale, la cui forma è dettata dall’osservanza di leggi aerodinamiche, il bombardiere Stealth F-114 ha una forma particolare che dipende dalla necessità di essere invisibile ai radar. Un’esigenza prioritaria che rende il volo un aspetto tanto secondario che la manovrabilità dello Stealth è a dir poco problematica. Analogamente, l’architettura di questo inizio di secolo, sotto il fuoco mediatico e di impronta “storico-artistica” del marketing urbano (secondo Pawley, forze
nemiche), finisce per subordinare completamente la funzionalità ad esigenze simboliche e formali. Daniel Libeskind, quale protagonista indiscusso del panorama architettonico attuale, è pienamente collocabile all’interno di questo dibattito. I suoi edifici hanno rotto completamente con la sintassi compositiva convenzionale finendo spesso nel mirino dei razionalisti e dei neo-funzionalisti. I presupposti modernisti-funzionalisti rivelatisi bancarottieri, ormai vecchi di un secolo, decrepiti ma non ancora da seppellire, sono per Libeskind del tutto subordinati alla necessità di espressione formale e comunicativa dell’architettura: una caratteristica che si rivela con una forza notevole nell’eccellente Denver Art Museum.
In questa intervista di Luca Ruggeri, inedita e in esclusiva per IoArchitetto, emerge una visione di Libeskind molto attuale e concreta, in cui spazi fuori dagli schemi assumono un ruolo di catalizzatore simbolico, imponendosi come icone in grado di dialogare e di innescare nuovi processi culturali ed economici. C.E.
L’INTERVISTA: PETER MACAPIA
Traslazioni digitali
Signor Libeskind, ci può illustrare brevemente i principali fondamenti teorici del suo lavoro? Credo che l’architettura sia implicitamente comunicativa. Ogni edificio racconta una storia unica e particolare che riflette sia il contenuto programmatico sia le singolarità del luogo. continua a pag. 2 >>>
ARCHIVISION / DESIGN AND THE ELASTIC MIND
Relazioni tra scienza e design Proiettarsi nel futuro con mente elastica per cogliere i cambiamenti e tradurli in oggetti e spazi quotidiani
L’
esposizione “Design and the Elastic Mind” curata da Paola Antonelli al MOMA di New York ha avuto un enorme successo di pubblico e di critica: è stata indicata da molti osservatori come la mostra dell’anno e paragonata alla famosa “Machine Art” che nel 1934 segnò un cambiamento epocale nella cultura
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americana. La mostra ha esplorato la relazione esplosiva tra scienza e design nel mondo contemporaneo, coniugando oggetti di design e concetti provenienti dalle avanguardie della ricerca scientifica con il criterio dell’intelligenza elastica: alla mente non basta più la capacità di adatcontinua a pag. 2 >>>
Architetture frutto di cortocircuiti tra logiche automatiche e principi organici
N
egli ultimi tempi l’opera di Peter Macapia, riconducibile alla corrente della ricerca digitale in architettura, sta suscitando un notevole interesse. Autore di saggi molto apprezzati, è stato vincitore del concorso a inviti per il Padiglione Seroussi di Parigi: una bolla di acciaio, al cui interno struttura e luce giocano un ruolo fondamentale. La sua opera è stata presentata insieme a quella di autori come Bernard Tschumi, Zaha Hadid, Coop Himmelblau nella mostra Architecture Beyond Forms - the Computational Turn organizzata con il supporto del Centro Pompidou. Un lavoro, quello di Macapia, caratterizzato da uno strano cortocircuito tra la logica “automatica”, propria delle continua a pag. 3 >>> macchine, dove algoritmi e script
IoArch numero 22 Gen-Feb 2009
IOARCH_100 Special Issue
Un decennio fa, pensando a tendenze ormai consolidate nell’architettura post-moderna, Martin Pawley aveva lanciato un’interessante metafora, presa dall’aeronautica. Secondo Pawley, contrariamente agli aerei di tipo convenzionale, la cui forma è dettata dall’osservanza di leggi aerodinamiche, il bombardiere Stealth F-114 ha una forma particolare che dipende dalla necessità di essere invisibile ai radar. Un’esigenza prioritaria che rende il volo un aspetto tanto secondario che la manovrabilità dello Stealth è a dir poco problematica. Analogamente, l’architettura di questo inizio di secolo, sotto il fuoco mediatico e di impronta “storico-artistica” del marketing urbano (secondo Pawley, forze nemiche), finisce per subordinare completamente la funzionalità ad esigenze simboliche e formali. Daniel Libeskind, quale protagonista indiscusso del panorama architettonico attuale, è pienamente collocabile all’interno di questo dibattito. I suoi edifici hanno rotto completamente con la sintassi compositiva convenzionale finendo spesso nel mirino dei razionalisti e dei neo-funzionalisti. I presupposti modernisti-funzionalisti rivelatisi bancarottieri, ormai vecchi di un secolo, decrepiti ma non ancora da seppellire, sono per Libeskind del tutto subordinati alla necessità di espressione formale e comunicativa dell’architettura: una caratteristica che si rivela con una forza notevole nell’eccellente Denver Art Museum. In questa intervista di Luca Ruggeri, inedita e in esclusiva per IoArchitetto, emerge una visione di Libeskind molto attuale e concreta, in cui spazi fuori dagli schemi assumono un ruolo di catalizzatore simbolico, imponendosi come icone in grado di dialogare e di innescare nuovi processi culturali ed economici.
› MATERIA PROFONDA
In questa pagina, vetro e titanio per il Denver Art Museum, Studio Daniel Libeskind e Brit Probst, Davis Partnership Architects (2006).
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› ATTUALITÀ SENZA TEMPO
Daniel Libeskind
Signor Libeskind, ci può illustrare brevemente i principali fondamenti teorici del suo lavoro?
Credo che l’architettura sia implicitamente comunicativa. Ogni edificio racconta una storia unica e particolare che riflette sia il contenuto programmatico sia le singolarità del luogo. Quali sono le più forti influenze del suo lavoro, sia da parte dell’architettura che di altre discipline?
Sono sostanzialmente motivi culturali radicati nei miei interessi: filosofia, musica, arte, letteratura, teatro e cinematografia. Ogni progetto racchiude una visione secondo la quale una buona architettura crea valore aggiunto. I migliori progetti hanno vita più lunga ed esercitano un richiamo generale verso il mercato.
Come pensa di aver trovato il suo attuale stile architettonico?
I miei edifici cercano di dare impulso verso una nuova dimensione del discorso su spazio e forma. È fondamentale per il mio pensiero e la mia motivazione che gli edifici e i progetti a scala urbana prendano forma a partire da un’energia umana percepibile e che siano in grado di dialogare con il contesto culturale in cui vengono realizzati. La Land Art degli anni ‘60 ha avuto un’influenza innegabile sull’architettura del paesaggio e attualmente qualcosa sembra riversarsi anche nel disegno di edifici. Pensa che si tratti solo di una moda o è una tendenza in via di affermazione?
L’architettura è molto lontana dall’idea del XX secolo di scatola, contenitore di oggetti; l’architettura diventa parte del programma e trasporta, con il contenuto, messaggi ricchi di significato programmatico e culturale. In quali dei suoi lavori recenti vede una relazione forte con il contesto?
Abbiamo completato il Denver Art Museum nel 2006 e The Ascent at Roebling’s Bridge (a Covington, Kentucky) all’inizio del 2008. L’incredibile vitalità e crescita di Denver – dalla sua concezione fino al completamento – ispira la forma del nuovo museo. La topografia magnifica, accompagnata alle viste
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IOARCH_100 Special Issue
mozzafiato del cielo e delle Montagne Rocciose, il dialogo tra l’audacia della costruzione e i tratti romantici del paesaggio crea un posto unico al mondo. Costruito secondo le tonalità della terra, The Ascent richiama i colori del Suspension Bridge, con finestre che riflettono immagini del cielo e del fiume. The Ascent si dispone perfettamente lungo il
fiume, e si incurva per massimizzare le viste sia del fiume sia delle colline circostanti. L’altezza crescente dell’edificio riprende il motivo dei cavi del ponte e unisce il basso orizzonte delle strutture residenziali a Est con edifici commerciali più recenti a Ovest. Gli stessi edifici diventano destinazione e generatori di nuova cultura.
› MATERIA PROFONDA
Quali crede siano le principali sfide per l’architettura nei prossimi anni?
Il ruolo dell’architettura del XXI secolo è mutato per via dell’inclusione di nuovi media, nuove tecnologie e mezzi di comunicazione che sono parte integrante di una nuova emozionante identità istituzionale ...
Sopra, il fiume si riflette sulle facciate di The Ascent at Roebling’s bridge, Covington, KY, Studio Daniel Libeskind e GBBN Architects, 2008.
L.R.
IOARCH_100 Special Issue
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› ATTUALITÀ SENZA TEMPO
Aurelio Galfetti La logica del progetto «Alla fine l’architettura segue principi come la fisica, l’ecologia, anche l’economia, che credo siano abbastanza ineludibili ed eterni»
Maestro indiscusso dell’architettura contemporanea, Aurelio Galfetti ha influenzato un paio di generazioni di architetti di tutto il mondo. Autore di opere celeberrime, come il Castel Grande di Bellinzona o il più recente Net Center di Padova, in questa intervista ci espone un punto di vista prezioso per riequilibrare atteggiamenti attualmente sempre più ricorrenti, ma spesso troppo facili, di rifiuto della modernità e la sua opinione circa l’architettura e il restauro. Architetto Galfetti, quali sono le caratteristiche principali del suo lavoro?
Il mio mestiere è quello dell’architetto, il mio obiettivo fondamentale è quello di progettare lo spazio per la vita dell’uomo, per le sue esigenze. Cerco di costruire spazi a varie scale e dimensioni e non credo ad una netta distinzione tra architettura e urbanistica, come non credo nella ripartizione in ambiti di competenza specifica come restauratore, paesaggista o progettista di talune categorie di edifici, proprio perché l’obiettivo rimane sempre e comunque il controllo architettonico dello spazio. Non crede quindi nella figura dell’architetto specializzato? IOA 29-1a11
6-12-2009
22:03
Ovviamente una certa specializzazione è necessaria, ma il mio approccio è sempre quello della collaborazione interdisciplinare finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comune. In molti casi il mio lavoro richiede necessariamente la collaborazione di esperti ma non credo al progetto di uno spazio come semplice sommatoria di competenze.
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Le residenze di qualità di Dolce Vita Homes
Il museo della scienza di Renzo Piano
La città nella città di Steven Holl
Bernini: l’artigianato incontra il design
Trasformazioni veneziane: la Manica Lunga
www.ioarch.it
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Anno 4 - n. 29 - novembre/dicembre 2009 - euro 2,50 - Pubblicità: Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano - tel. 02 2847274 fax 02 45474060 - pubblicita@ioarch.it - Sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Volontà
congelatoria
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i dice che ciò che fondamentalmente distingue una scultura da un’architettura non è solo il fatto di avere uno spazio interno, ma anche che questo spazio sia abitabile e utilizzabile, insomma sia dotato di funzionalità pratica. È un fatto semplice, forse elementare, ma che in molti casi sembra sparire di fronte alla volontà di congelare tutto, dimenticandosi che la maggior parte degli edifici, per quanto la loro forma sia perfetta e poco suscettibile al cambiamento, impara. Gli edifici possono trasformarsi, adattarsi a nuove esigenze e questo non necessariamente significa stravolgimento, quanto semmai evoluzione. Oltre che dai moventi storico-artistici e turistici, evidenziati da Pawley, la volontà congelatoria è senza dubbio animata dalla moderna grande, enorme, disponibilità di risorse che permette di ignorare criteri eterni di economia e razionalità. Paradossale diventa quando strutture completamente prive di caratteristiche tali da evitarne l’estinzione, vengono mantenute artificiosamente intatte. Come nel caso del Building 20 del Massachussetts Institute of Technology, praticamente una baracca dove, durante la guerra, era stata sviluppata la tecnologia radar. Forte di vincoli di tutela, il Building 20 ha resistito per oltre 60 anni finché finalmente non è stato demolito e sostituito dallo Stata Center di Frank Gehry che, forse, verrà a sua volta congelato.
CARLO EZECHIELI A COLLOQUIO CON AURELIO GALFETTI
La logica del progetto
“Alla fine l’architettura segue principi come la fisica, l’ecologia, anche l’economia, che credo siano abbastanza ineludibili ed eterni”
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aestro indiscusso dell’architettura contemporanea, Aurelio Galfetti ha influenzato un paio di generazioni di architetti di tutto il mondo. Autore di opere celeberrime, come il Castel Grande di Bellinzona o il più recente Net Center di Padova, in questa intervista ci espone un punto di vista prezioso per riequilibrare atteggiamenti attualmente sempre più ricorrenti, ma spesso troppo facili, di rifiuto della modernità e la sua opinione circa l’architettura e il restauro. Architetto Galfetti, quali sono le caratteristiche principali del suo lavoro? Il mio mestiere è quello dell’architetto, il mio obiettivo fondamentale è quello di progettare lo spazio per la vita dell’uomo, per le sue esigenze. Cerco di costruire spazi a varie
Carlo Ezechieli
scale e dimensioni e non credo ad una netta distinzione tra architettura e urbanistica, come non credo nella ripartizione in ambiti di competenza specifica come restauratore, paesaggista, o progettista di talune categorie di edifici, proprio perché l’obiettivo rimane sempre e comunque il controllo architettonico dello spazio.
CITTÀ E TERRITORIO / ANTONIO MORLACCHI
L’Alba su Brasilia
Riparte dal verde il futuro di Milano
Prima pietra della futura città di fondazione, il Palàcio da Alvorada ne definì l’asse principale instaurando un dialogo con il cielo e la natura
L’assessore al territorio Carlo Masseroli ci parla della visione che ha ispirato il nuovo PGT della città e le sue regole
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na ventina di visitatori aspetta diligentemente il prossimo turno per entrare al Palàcio da Alvorada (Palazzo dell’Alba), la residenza del presidente Lula a Brasilia. Non è certo la coda ai Musei Vaticani o agli Uffizi, rifletto tra me e me, mentre vado avanti e indietro lungo la recinzione di sicurezza che dista circa un chilometro dall’edificio. Di fronte a noi un enorme prato, verdissimo, e ai lati i primi giardini con alberi rigogliosi e fiori colorati. Silenzio e attesa tra i visitatori, composti dall’umanità più varia: qualche studente che schizza su un quaderno, un prete di Rio, qualche famiglia con bambini, un gruppetto >>>
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Come si sviluppa il suo lavoro? Quali sono i passi principali e quali gli strumenti?
Non crede quindi nella figura dell’architetto specializzato? Ovviamente una certa specializzazione è necessaria, ma il mio approccio è sempre quello della collaborazione interdisciplinare finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comune. In molti casi il mio lavoro richiede necessariamente la collaborazione di esperti ma non credo al progetto di uno spazio come semplice sommatoria >>> di competenze.
ARCHIGLOBAL / MARA CORRADI
l nuovo piano di governo del territorio, che disegna le linee di sviluppo urbano di Milano per i prossimi trent’anni, contiene una visione a cui danno forma documenti attuativi e regole pensate per definire i confini di un percorso di crescita. Un piano “dinamico”, che prevede a monte gli strumenti per adattarsi a una realtà in costante modificazione, al contrario dei tradizionali piani regolatori, la cui apparente rigidità normativa è costantemente “violata” da deroghe e >>> varianti. Diventando così una delle prime cause
IoArch numero 29 Nov-Dic 2009
IOARCH_100 Special Issue
Non riesco a organizzare un lavoro senza una conoscenza approfondita del contesto. Per me
› MATERIA PROFONDA
è fondamentale la percezione della spazialità, delle dimensioni, delle direzioni e degli orientamenti, di aspetti come l’apertura, la spazialità naturale e geografica. Seguo sempre un’idea di movimento, per usare un termine aulico, una dimensione spazio-temporale. Immagino di abitare un luogo muovendomi al suo interno e materializzandone i percorsi. Come ad esempio nel Castello di Bellinzona che da fortezza impenetrabile è diventata un percorso. Infine, più e prima che del programma mi interesso del tema, ponendomi la domanda: che cos’è questo spazio? Cosa significa? Come lo abito? Quali pensa siano le caratteristiche fondamen-
tali di un’ottima, o di una grande, opera di architettura?
Credo sia realizzare uno spazio che susciti delle emozioni, che stimoli una partecipazione ed identificazione spontanea, che diventi fonte di ispirazione. Molto dipende anche dal corretto controllo dalla luce lungo un percorso. Il tutto diventa reale quando è sorretto da una struttura e quando ogni aspetto è riconducibile ad una logica costruttiva. Quali sono le sue principali fonti di ispirazione?
Ho sempre avuto un maestro principale, forse uno solo, che è Le Corbusier. Di lui, tra le altre cose, mi piace molto l’idea di non scindere mai architettura e urbanistica. La mia forma-
in questa pagina, le immagini in bianco e nero di Stefania Beretta riprendono uno spazio aperto e uno interno del Castelgrande di Bellinzona, trasformato da Aurelio Galfetti in museo storico archeologico.
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› ATTUALITÀ SENZA TEMPO
Aurelio Galfetti
zione è stata poi quella di un tipico razionalista tedesco, quando ho studiato a Zurigo negli anni ‘50. La mia influenza e ispirazione è sempre stata l’architettura moderna, anche se negli anni 1970-1975 ho avuto un inevitabile momento post-modernista, che ho infine abbandonato nel 1980, quando ho progettato il restauro del Castello di Bellinzona, a favore di un deciso ritorno al Moderno. Una delle sue opere più famose è stato proprio quel notevole restauro. Qual è il suo orientamento rispetto a temi come restauro, conservazione o demolizione?
Nel Castello di Bellinzona la mia intenzione era quella di continuare un processo di trasformazione lungo 6.000 anni e che aveva avuto origine in quel luogo ancora in epoca neolitica. Invece di ‘mummificare’ ho pensato, senza
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A destra, scorcio degli spazi pubblici del Net Center, centro multifunzionale alla periferia di Padova. Sotto, la torre del Net Center.
cancellare nulla, di adattare la struttura a nuove esigenze come del resto avevano fatto tutti i miei predecessori. Avevo coniato uno slogan, talvolta scatenando dibattiti piuttosto accesi, che era “conservare uguale trasformare”. Non si può ricostruire il passato tale e quale, tant’è che la prima cosa che se ne va, anche riproducendo fedelmente le tecnologie d’epoca, è la patina. La rocca dove si trova il Castello è stata plasmata in milioni di anni dalla forza dei ghiacciai; l’ho spogliata della vegetazione per farla emergere come fosse una scultura e l’ho scavata per rivelarne la genesi. Infine, da luogo di segregazione/inclusione difensiva di quando era una fortezza, è stato trasformato in uno spazio pubblico, di fatto in un giardino: una situazione dove, ovviamente, è impossibile mantenere la situazione esistente.
Dal Castello di Bellinzona al Net Center di Padova? Cosa secondo lei è di più nel suo modo di fare architettura?
Ho l’impressione di aver fatto sempre più o meno la stessa cosa. Ho sempre ricercato uno spazio piacevole stabilendo dei rapporti con il luogo in cui intervengo. Nel castello di Bellinzona volevo rivelare la storia e le glaciazioni, nel Net Center invece volevo creare uno spazio pubblico in una situazione di periferia. Non potrei qualificarlo come una piazza dato che molte sue caratteristiche non corrispondono alla mia idea di piazza, ma è uno spazio pubblico moderno, con un segno forte che è la torre. È interessante il modo in cui inquadra il tema dello spazio pubblico odierno.
Come in passato, una piazza è uno spazio aperto accessibile al pubblico, ma credo che oggi
› MATERIA PROFONDA
abbia o debba avere una maggiore continuità con ciò che gli sta attorno. Del resto Wright ancora alla fine dell’800 aveva rotto la ‘scatola’ muraria permettendo allo spazio esterno di fluire all’interno dell’edificio e viceversa. Lo spazio generato dalla meccanizzazione è uno spazio pubblico fondamentalmente continuo e la città contemporanea è una città fluida e continua. I limiti sono necessari per definire le caratteristiche di un luogo ma trovo la città attuale un tutto in comunicazione dove i limiti si rompono e lo spazio diventa liquido. Nella sua lunga carriera sono cambiate diverse cose. Alcune interessanti, altre meno. Qual è il suo punto di vista?
Anche qui mi riferisco alla mia esperienza di progetto. La torre del Net Center asseconda in parte una tendenza alla deformazione e
alla trasgressione della verticale, che in questo momento è abbastanza alla moda. La pianta è rettangolare, 4 pilastri sono fissi e verticali e 4 sono inclinati. La deformazione dei piani nel mio caso dipende da una sequenza e da un concetto di spazio generato dal movimento e segue una logica profondamente strutturale. Anche la torre di Pisa è storta, ma perché anche la sua struttura è storta. Ho insomma preferito definire un concetto di spazio ancorandolo ad una logica strutturale e a principi costruttivi logici anziché piegando lamiere. Alla fine, l’architettura segue principi come la fisica, l’ecologia, anche l’economia, che credo siano abbastanza ineludibili ed eterni. Per l’appunto, si parla molto di ecologia. Tanto che le targhe di ‘sostenibilita’ ormai si sprecano. Come vede la questione in architettura?
Tener conto dell’ecologia è una necessità oltre che un dovere. Penso però che sarebbe una perdita enorme se per fare una costruzione ‘ecologica’ dovessi ritornare ad edifici costruiti in pisé o con il tetto di paglia con la stessa architettura di 300 anni fa. O se per via di motivazioni ‘ecologiche’ fossi obbligato a costruire un involucro chiuso, con le finestre necessariamente posizionate e proporzionate come in una casa tradizionale. Credo che il concetto di spazio che abbiamo acquisito con la Modernità sia una conquista e un valore che sarebbe un peccato buttare via insieme alle ricadute negative del ‘progresso’: un termine che ormai non viene nominato volentieri ma che comunque coincide, o ha coinciso, con un notevole balzo in avanti. C.E.
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› VEDERE L’INVISIBILE
Peter Zumthor La concretezza dei sogni Mendrisio: lectio magistralis di Peter Zumthor, premio Pritzker 2009 È l’occasione per incontrarlo e parlare della sua idea di Architettura
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Le residenze di qualità di Dolce Vita Homes
Il museo della scienza di Renzo Piano
La città nella città di Steven Holl
Bernini: l’artigianato incontra il design
Trasformazioni veneziane: la Manica Lunga
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Anno 4 - n. 29 - novembre/dicembre 2009 - euro 2,50 - Pubblicità: Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano - tel. 02 2847274 fax 02 45474060 - pubblicita@ioarch.it - Sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Volontà
congelatoria
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i dice che ciò che fondamentalmente distingue una scultura da un’architettura non è solo il fatto di avere uno spazio interno, ma anche che questo spazio sia abitabile e utilizzabile, insomma sia dotato di funzionalità pratica. È un fatto semplice, forse elementare, ma che in molti casi sembra sparire di fronte alla volontà di congelare tutto, dimenticandosi che la maggior parte degli edifici, per quanto la loro forma sia perfetta e poco suscettibile al cambiamento, impara. Gli edifici possono trasformarsi, adattarsi a nuove esigenze e questo non necessariamente significa stravolgimento, quanto semmai evoluzione. Oltre che dai moventi storico-artistici e turistici, evidenziati da Pawley, la volontà congelatoria è senza dubbio animata dalla moderna grande, enorme, disponibilità di risorse che permette di ignorare criteri eterni di economia e razionalità. Paradossale diventa quando strutture completamente prive di caratteristiche tali da evitarne l’estinzione, vengono mantenute artificiosamente intatte. Come nel caso del Building 20 del Massachussetts Institute of Technology, praticamente una baracca dove, durante la guerra, era stata sviluppata la tecnologia radar. Forte di vincoli di tutela, il Building 20 ha resistito per oltre 60 anni finché finalmente non è stato demolito e sostituito dallo Stata Center di Frank Gehry che, forse, verrà a sua volta congelato.
CARLO EZECHIELI A COLLOQUIO CON AURELIO GALFETTI
La logica del progetto
“Alla fine l’architettura segue principi come la fisica, l’ecologia, anche l’economia, che credo siano abbastanza ineludibili ed eterni”
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aestro indiscusso dell’architettura contemporanea, Aurelio Galfetti ha influenzato un paio di generazioni di architetti di tutto il mondo. Autore di opere celeberrime, come il Castel Grande di Bellinzona o il più recente Net Center di Padova, in questa intervista ci espone un punto di vista prezioso per riequilibrare atteggiamenti attualmente sempre più ricorrenti, ma spesso troppo facili, di rifiuto della modernità e la sua opinione circa l’architettura e il restauro. Architetto Galfetti, quali sono le caratteristiche principali del suo lavoro? Il mio mestiere è quello dell’architetto, il mio obiettivo fondamentale è quello di progettare lo spazio per la vita dell’uomo, per le sue esigenze. Cerco di costruire spazi a varie
Carlo Ezechieli
scale e dimensioni e non credo ad una netta distinzione tra architettura e urbanistica, come non credo nella ripartizione in ambiti di competenza specifica come restauratore, paesaggista, o progettista di talune categorie di edifici, proprio perché l’obiettivo rimane sempre e comunque il controllo architettonico dello spazio.
CITTÀ E TERRITORIO / ANTONIO MORLACCHI
L’Alba su Brasilia
Riparte dal verde il futuro di Milano
Prima pietra della futura città di fondazione, il Palàcio da Alvorada ne definì l’asse principale instaurando un dialogo con il cielo e la natura
L’assessore al territorio Carlo Masseroli ci parla della visione che ha ispirato il nuovo PGT della città e le sue regole
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na ventina di visitatori aspetta diligentemente il prossimo turno per entrare al Palàcio da Alvorada (Palazzo dell’Alba), la residenza del presidente Lula a Brasilia. Non è certo la coda ai Musei Vaticani o agli Uffizi, rifletto tra me e me, mentre vado avanti e indietro lungo la recinzione di sicurezza che dista circa un chilometro dall’edificio. Di fronte a noi un enorme prato, verdissimo, e ai lati i primi giardini con alberi rigogliosi e fiori colorati. Silenzio e attesa tra i visitatori, composti dall’umanità più varia: qualche studente che schizza su un quaderno, un prete di Rio, qualche famiglia con bambini, un gruppetto >>>
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Peter Zumthor, come descriverebbe il suo lavoro?
Non crede quindi nella figura dell’architetto specializzato? Ovviamente una certa specializzazione è necessaria, ma il mio approccio è sempre quello della collaborazione interdisciplinare finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comune. In molti casi il mio lavoro richiede necessariamente la collaborazione di esperti ma non credo al progetto di uno spazio come semplice sommatoria >>> di competenze.
ARCHIGLOBAL / MARA CORRADI
l nuovo piano di governo del territorio, che disegna le linee di sviluppo urbano di Milano per i prossimi trent’anni, contiene una visione a cui danno forma documenti attuativi e regole pensate per definire i confini di un percorso di crescita. Un piano “dinamico”, che prevede a monte gli strumenti per adattarsi a una realtà in costante modificazione, al contrario dei tradizionali piani regolatori, la cui apparente rigidità normativa è costantemente “violata” da deroghe e >>> varianti. Diventando così una delle prime cause
Anni fa, qualche anno dopo la pubblicazione di progetti come la Cappella di Sumvtig e i padiglioni degli scavi romani a Coira, tra i primi lavori di Peter Zumthor acclamati a livello internazionale, ebbi la fortuna di assistere a una sua conferenza. Il contesto, notevole, era una chiesa sconsacrata di una cittadina nelle Alpi lombarde, e la presentazione, oltre alle bellissime architetture, era un’incredibile combinazione tra innovazione e tradizione, tra ordine e libertà, arricchita da numerosi riferimenti all’esperienza personale e al lato “artigianale” dell’architettura. Ora, dopo quasi vent’anni e numerosi premi, tra questi il Pritzker, il più prestigioso, Peter Zumthor non è cambiato, né nell’approccio né nello spirito, anche se ancora più grande è la sua capacità di uscire dagli schemi e di tradurre sogni in opere concrete. Nella conferenza che si è tenuta lo scorso aprile presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio, dopo l’ottima introduzione di Valentin Bearth, Zumthor ha sviluppato un lungo e coinvolgente racconto. Tre sole opere, tutte in corso di progettazione, minuziosamente descritte nel loro processo di composizione, che lasciano emergere un approccio inedito, dove studi e schemi concettuali, rappresentati con tecniche tipicamente artistiche, diventano uno strumento fondamentale di esplorazione e conoscenza. Ed è in questa occasione che, grazie al coordinamento di Amanda Prada del Servizio Comunicazione e Conferenze dell’Accademia, abbiamo avuto occasione di intervistarlo.
IoArch numero 33 Giugno 2010
IOARCH_100 Special Issue
Passione, atmosfera, piacere di fare, piacere di avere dei sogni e di trasferirli in realtà. Di iniziare un progetto dove non c’è niente e di
dare forma a un’idea. Comprendere e pensare al luogo e alla sua storia, che è fatta di tracce e di stratificazioni. E circa il luogo, credo sia una sorta di contenitore di storia e comprenderlo a fondo è un processo che non sempre dipende dall’intelletto. Pensando alla storia, alle stratificazioni e alla tradizione, quanto di questo si riversa nel suo lavoro?
La tradizione è un riferimento importante, ma in genere prendo riferimenti che di volta in volta sono più utili rispetto al mio obiettivo. Ha parlato di passione, atmosfera, parole che forse trovano un legame con le sue numerose opere a forte connotazione simbolica: dalla cappella di Sumvitg al memoriale in Norvegia, attualmente in corso di realizzazione. Vorrei saperne di più sul suo approccio verso questi temi.
Lavoro con la materia e con presenze fisiche e un aspetto per me fondamentale è quando la materia diventa di più di quello che è, fino a trascendere la propria materialità. Credo sia un aspetto che accomuna tutti gli oggetti d’arte e alcuni di questi, alcuni dipinti, perfino alcune persone, riescono a trascendere la propria materialità fino ad acquisire un’aura. Quali sono state le sue influenze principali?
Crescere in una casa dove era possibile fare tutto a mano, principalmente con mio padre. Il bello è che quando avevo trent’anni di questo assolutamente non mi rendevo conto. Solo ora capisco quanto sia stato importante per me. Un’altra esperienza fondamentale è stata la frequentazione al corso di preparazione universitaria a Basilea, intorno al 1965. Tra i docenti c’erano molti allievi del Bauhaus. Il loro slogan sia all’inizio sia durante il corso era “niente a che fare con l’arte”. Al momento l’ho odiato con tutte le mie forze ma in realtà,
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Memoriale dei roghi delle streghe nel Finnmark, Vardø, Norvegia. A sud-est della struttura in legno, lunga 118 metri e con 91 luci, tante quante furono le persone bruciate come streghe a Vardø tra il 1598 e il 1692 sorgerà un padiglione formato da 17 alti pannelli di vetro scuro e una copertura in acciaio. Nel sito, già luogo delle esecuzioni, vi sono i resti di una fortezza danese e una chiesa (foto Jan Sverre Ulle, comune di Vardø).
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› VEDERE L’INVISIBILE A destra, la cappella Bruder Klaus a Mechernich, nella regione tedesca dell’Eifel (2000-2007) voluta da agricoltori locali in onore del loro santo patrono. Cinque pareti alte 12 metri, ognuna composta di 24 strati di calcestruzzo prodotto con sabbie e pietrisco del posto, è un distillato della filosofia di Zumthor: uno spazio intenso risultato di un pensiero profondo.
Peter Zumthor attraverso un cammino che ai tempi trovavo noiosissimo, mi ha dato una struttura e mi ha insegnato a vedere. Anche in questo caso, solo a posteriori ho capito quanto sia stato fondamentale per la mia formazione. Come si sviluppa il suo lavoro? Segue un metodo preciso?
Sotto, le Terme di Vals, l’edificio che per primo ha reso famoso Peter Zumthor nel mondo. Dal 1996, anno dell’inaugurazione, 150.000 persone ogni anno visitano il paesino dei Grigioni.
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Ho un metodo che ho sviluppato in più di trent’anni di lavoro e che ha molto a che fare con la comprensione di ciò che sta intorno e l’ho trasmesso durante la mia esperienza di insegnamento, più che decennale, qui all’Accademia. Credo sia fondamentale conoscere se stessi. Per un architetto è importantissimo invecchiare maturando e mettendo a frutto un’esperienza che inevitabilmente si forma in un lungo arco di tempo. Le cose da sapere sono infinite e l’inizio della carriera di un architetto è sempre contraddistinto dal non sapere nien-
te. Più si va avanti più si è consapevoli del valore dell’esperienza. A questo punto della mia maturazione, sono diventato molto bravo nel guidare i ragionamenti, nel segnalare cosa non fare, nell’identificare i percorsi che non portano da nessuna parte e ad abbandonarli prima di perdere tempo ed energie, a indicare una giusta sequenza di azioni e ragionamenti. In fin dei conti credo che nel mio atelier, il mio ruolo sia essenzialmente quello di formulare le domande giuste e di farlo in modo corretto. Per concludere: un consiglio per architetti alle prime armi
Seguire con determinazione un talento …Seguirlo e svilupparlo senza avere fretta di adattarsi a situazioni contingenti.
C.E.
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Paolo Bürgi Osservare con curiosità Intervista a Paolo Bürgi sul paesaggio e i motivi che animano il progetto di architettura
Anno 12 - n 74 - Marzo 2018 - euro 9,00 ISSN 2531-9779
In cosa consiste il suo lavoro?
Luoghi del lavoro
Progettare Il CambIamento
Foster + Partners | Varratta | Costanzi Degw | Progetto Cmr | D2U | Zuccon
Materia profonda
I principi che improntano il progetto
Luce e architettura Elements contract uffici
Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano - Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 DCB Milano
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Avevo assistito anni fa a una conferenza di Paolo Bürgi, organizzata a Milano dall’Aiapp (associazione italiana di architettura del paesaggio). Non conoscevo niente del suo lavoro, ma quello che mi colpì fu l’incredibile capacità di tradurre in architettura cose fondamentali, ma ad un primo sguardo inesistenti. In particolare l’osservatorio di Cardada, da poco completato: un disco di cemento piantato nella roccia. Un gesto semplice che, oltre a mettere in risalto un panorama stupendo, dava forma a qualcosa di molto simile a ciò che i geologi chiamano ‘tempo profondo’, ovvero la matrice sottostante al luogo, ciò che, pur nascosto in profondità, ne determina le caratteristiche attuali. Da allora ho maturato sempre più interesse per il suo lavoro, ho avuto a mia volta occasione di invitarlo come relatore, di pubblicare suoi progetti, di consolidare infine un rapporto che dura ormai da anni. Paolo Bürgi, paesaggista di classe mondiale, ha un atelier in una serra: uno scrigno di vetro che protegge un ambiente tropicale trapiantato nel bel mezzo del Canton Ticino. La sua architettura parte da decenni di ‘curiosa osservazione’, come ama definirla, di ciò che si nasconde nelle pieghe delle cose e dei luoghi. Quello che segue è il resoconto di una nostra recente, lunga e bella conversazione.
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Non è una domanda banale, ma la prima risposta che mi viene in mente è che in fondo il mio lavoro consiste nella ricerca della bellezza, nel piacere dell’esperienza dei luoghi. Del resto, la ricerca della bellezza è un tema tra i più affascinanti, capace di segnare periodi storici, come nel Rinascimento, che pure è stato un momento di incredibile creatività. Cos’è per te la bellezza?
Francamente ho sempre avuto difficoltà a dare delle definizioni, ma credo abbia molto a che fare con il sentirsi bene, in armonia, anche a livello spirituale. Con spirituale non intendo in senso religioso, ma piuttosto la capacità di elevarsi a un livello particolare di coscienza. Qualcosa a che fare con la trascendenza?
Direi di sì. Chiaramente questo dipende dai luoghi ed è legato all’esperienza individuale.
Ci sono allora luoghi che secondo te hanno un significato speciale?
In genere sono i luoghi carichi di storia e di storie. Spesso sono legati a momenti particolari, anche alla storia individuale o personale. Credo ad esempio che anche tu, come molti altri, ricorderai il luogo dove hai baciato tua moglie per la prima volta.
Come si è sviluppato il tuo interesse per il paesaggio?
Avrei potuto diventare un architetto, ma col passare degli anni il progetto del paesaggio è diventato per me sempre più intrigante. La dimensione temporale è una cosa che trovo particolarmente affascinante, e nel paesaggio il tempo conta moltissimo. È qualcosa che si crea nella mente di chi progetta. Un grande bosco, ad esempio, ha origine da una semplice radice se non addirittura da un seme, penso ad esempio al Bosco di Sant’Antonio, Premio Carlo Scarpa nel 2012, e credo che mettere un seme nella terra sia un atto quasi religioso. Chi progetta pensa già alla dimensione futura. D’accordo, il tempo conta anche per gli edifici: hanno una patina, possono cambiare utilizzo e forma, ma quando si parla di paesaggio, la variabile temporale diventa realmente determinante. Basti pensare che in Giappone un edificio dura al massimo 50 o 60 anni, un po’ di più in Inghilterra. Ma se lo confrontiamo con
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In questa pagina, l’osservatorio di Doberdò: un grande taglio attraverso un ammasso di calcare conduce verso un belvedere sospeso su un lago carsico.
l’età di un albero o di un bosco intero questo intervallo può arrivare tranquillamente a 200 o 300 anni.
Rispetto a questa imperante tendenza alla specializzazione, quanto credi sia valida la distinzione tra architettura degli edifici e architettura del paesaggio?
Se penso al padiglione di Venezia di Sverre Fehn è incredibile notare come fin dai primi disegni ci sia una profonda e totale relazione con il luogo, con la topografia, con le presenze vegetali. È un caso in cui veramente non vedo alcuna distinzione. È comunque un dato di fatto che ancor oggi in Ticino, come del resto in Italia, un paesaggista sia molto meno considerato che a nord delle Alpi. Qualcosa sta cambiando, ma spesso il coinvolgimento di un architetto del paesaggio deriva più che altro dalle logiche dettate dal politically correct. È una figura ancora non esplicitamente richiesta. Spesso viene chiamato come consulente, ma più raramente come qualcuno che ha un ruolo chiave nell’ideazione del progetto, fin dal suo avvio. Com’è avvenuta la tua formazione?
È un percorso continuo. Sono ancora in formazione. All’inizio ho frequentato scuole come quella che un tempo si chiamava scuola di disegno Arti e Mestieri. Ho lavorato in diversi studi di architettura e di ingegneria. Mi sono diplomato in ingegneria e paesaggio, laurean-
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Paolo Bürgi
domi come miglior studente del mio anno. Da giovane, ancora ragazzo, per due anni ho fatto una esperienza pratica come giardiniere, un periodo che mi ha dato moltissimo, in termini di preparazione, di concretezza, di conoscenza dei limiti e delle possibilità operative. Ho viaggiato moltissimo. Ho insegnato per dieci anni a Philadelphia, la città di Louis Kahn e in seguito ho tenuto molti corsi all’Università Iuav: un’esperienza bellissima, anche per il rapporto umano con i colleghi docenti. Tenendo corsi, forse non troppo ortodossi – come quelli sui ‘paesaggi letterari’, che partivano dalla lettura di autori classici come Ludovico Ariosto – abbiamo ottenuto risultati incredibili dal punto di vista formativo. Ultimamente al Politecnico di Milano mi sto concentrando sul processo creativo: un discorso davvero affascinante che avevo iniziato ancora a Philadelphia. In breve direi che la chiave di tutta la mia formazione sono stati decenni e decenni di curiosa osservazione. Il luogo e oltre era il tema di una tua conferenza di qualche anno fa. Cosa significa per te il termine oltre?
Devo dire che non ho mai fatto una vera ricerca sul mio lavoro. Solo negli ultimi anni vedo che c’è una sorta di fil rouge e che il mio operato ha sempre a che fare con il luogo. Il luogo in realtà non l’ho mai interpretato secondo il suo limite fisico, ma l’ho sempre pensato facendo lavorare l’immaginazione. Quello che noto nei giardini asiatici, ad esempio, è la caratteristica costante di concepirli in relazione a tutto ciò che c’è attorno. Mi ha sempre affascinato un’immagine di un giardino cinese, con finestre in sequenza aperte sul paesaggio e che guardano oltre. Ci sono comunque molti fil rouge e molti si basano proprio sul tema del ‘guardare oltre’. Come si sviluppa il tuo lavoro?
Ci sono molti aspetti e molte fasi. Innanzitutto il sopralluogo, il percepire la topografia, la vegetazione e quello che succede intorno. Ovviamente molti input vengono anche dal programma, ma credo sia importante che la
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Monte San Michele, Carso goriziano, un semplice percorso in cemento contorna la fortificazione rivelando a un tempo l’asprezza del luogo e il contrasto tra l’intorno verde e il dentro ‘grigio’. Per farlo, il progetto ha conservato e messo in evidenza ogni preesistenza litica e manufatto militare (foto Paolo Bürgi).
fase iniziale si svolga secondo la libertà di inventare cose, se possibile tutte diverse tra loro. Di formulare strategie che, a dir la verità, è un lavoro che si fa spesso in grande velocità. E poi di svolgere diverse valutazioni fino ad arrivare a considerare gli aspetti tecnici, l’acqua, la vegetazione esistente, la topografia, il suolo e molto altro. Tra tutti i progetti che hai fatto ce n’è qualcuno che ti sta particolarmente a cuore?
Ovviamente sono diversi. Forse uno degli ultimi, come il progetto del Carso. È molto profondo e molto rispettoso del luogo. Poi, ognuno interpreta i progetti a modo suo. Ad esempio, ho conosciuto bene Luis Barragàn, e quando vedo alcune monografie sul suo lavoro, talvolta leggo cose che, mi chiedo, chissà se corrispondono davvero a quello che intendeva lui. Ma cosa intendevi esprimere nel progetto del Carso?
Innanzitutto sono tre luoghi differenti che cercano di trasmettere contenuti in modo non nostalgico. Il tema credo fosse principalmente quello di raccontare il paesaggio carsico non attraverso pannelli informativi ma facendo capire il senso di un paesaggio sotterraneo e misterioso. È una regione, come sappiamo, teatro di eventi terribili legati alla prima guer-
ra mondiale. Il territorio è tuttora solcato da una moltitudine di trincee scavate nella pura roccia. È un suolo molto accidentato, dove è già difficile camminare e dove oggi le trincee camuffate dalla vegetazione diventano vere e proprie trappole. Quello che ho voluto fare ad esempio a Doberdò è stato ricavare un percorso nella pietra, una specie di lunga trincea tagliata in una collina. Si passa attraverso uno stretto passaggio scavato nella roccia, l’esperienza tattile con la pietra carsica, per raggiungere un piccolo promontorio, un belvedere che si apre su un lago carsico. Il lago carsico è un fenomeno incredibile che si riempie d’acqua quando piove. Le piante rimangono sommerse per giorni, a volte per settimane. Quando termina la pioggia il lago si prosciuga e le piante tornano a fiorire. Per concludere, cosa consiglieresti a degli studenti?
Innanzitutto di divertirsi, di scoprire che la ricerca delle idee è forse fra i piaceri più grandi. Poi il riconoscersi come una persona individuale, “individuum unicum” che non si lascia trascinare da chi, sempre di più, vuole imporre lo stesso modo di pensare, di comportarsi, di essere, di fare. Ognuno di noi è speciale. C.E.
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In questa pagina, il belvedere a sbalzo rivolto a Sud e un particolare del parapetto sul quale è inciso il verso di Ungaretti L’Isonzo scorrendo / mi levigava / come un suo sasso (foto Chiara Pradel). A destra, il belvedere rivolto a sud (foto Paolo Bürgi).
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Renato Rizzi Tra principio e tecnica Intervista a Renato Rizzi: una riflessione sui principi alla base del progetto e sulla formazione delle persone e degli architetti
Una costante del lavoro di Renato Rizzi è la ricerca incessante del principio, del motivo che genera il progetto. Questo, inevitabilmente, consiste nello scavare a fondo nelle cose, nell’indagare e nello scoprire. Rizzi svolge la propria ricerca sia attraverso l’insegnamento sia attraverso la pratica, arrivando a realizzare lavori di straordinaria raffinatezza e profondità. La coerenza del suo metodo, rivelata da una serie di modelli straordinari, è evidente e si rispecchia del tutto nelle sue opere, come nel pluripremiato teatro shakespeariano di Danzica del 2014 o nel restauro del Museo Depero di Rovereto del 2009. In questa intervista Rizzi riporta in luce temi e termini di importanza cruciale per la nostra disciplina, ma ultimamente, e tragicamente, messi sempre più in disparte. Un discorso fondativo che merita un approfondimento e un seguito. In cosa consiste il suo lavoro?
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Luoghi del lavoro
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La spiegazione è molto breve: consiste nel comprendere il significato profondo del termine architettura. Più specificamente esploro il rapporto tra archè, il principio generatore, e technè, l’insieme delle norme che si applicano e seguono svolgendo una data attività. La archè è indeterminabile, e forse per questo oggi la tendenza diff usa è quella di concentrarsi sulla technè, mettendo i principi in secondo piano, e questo è un problema enorme. La tecnica tende a dividere le cose e il sapere, ritiene che qualsiasi cosa possa essere fatta senza passare attraverso di noi. L’architettura, al contrario, mette inevitabilmente in gioco, non tanto il nostro Io – che coincide con la pura arbitrarietà – ma la nostra singolarità individuale, e stabilisce un contatto con un orizzonte incredibilmente esteso.
Lucio Fontana diceva: “Buco le tele e di lì passa l’infinito”, si ritrova in questa frase?
La struttura archè e technè si rispecchia in noi, perché anche noi abbiamo un corpo e uno spirito. La technè è dominabile, mentre l’archè è invisibile, e in qualche misura intangibile, ma è ciò da cui dipende la forma. Come del resto l’immagine è qualcosa che plasma il visibile.
È possibile spiegare con un esempio il suo concetto “immagine”?
Nel mio Teatro Shakespeariano di Danzica la copertura si apre verso l’alto. Quest’opera è il risultato di un concorso del 2004 ed è maturata in una fase in cui la Polonia era appena entrata nella Comunità Europea, volgendo finalmente lo sguardo verso Ovest dopo la fine della guerra fredda. Pensavo al ruolo del teatro fin dalle origini, nell’antica Grecia, dove il teatro – essendo il luogo di rappresentazione del mito, vale a dire delle immagini collettive – veniva costruito prima ancora della città, nel paesaggio e nei luoghi più belli. Anche il concetto di teatro elisabettiano coincide con un’immagine di libertà. A Danzica si trattava di riproporre gli stessi concetti e nella mia mente sono cresciute immagini che mi hanno portato a disegnare – al posto di un economico, ma banale, sliding roof – due falde di copertura che si dispiegano come ali, lasciando entrare una colonna di luce all’interno.
Per ogni progetto realizza plastici in gesso stupendi, alcuni sono delle vere e proprie sculture. Da cosa deriva la predilezione per questo materiale?
Il celebre scultore Medardo Rosso affermava: «non c’è nulla di materiale nello spazio», una frase geniale e illuminante. E se è vero che non c’è nulla di materiale senza la materia, nessuno oggi pensa a qual è la sostanza che dà origine alla materia stessa. È per questo
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Il modello della Cupola del Brunelleschi utilizzato da Renato Rizzi per l’installazione della Triennale itinerante di Como del 2015 (foto ©Lorenzo Sivieri).
che lavoro sui modelli in gesso. È la ‘materia’ intellettuale che plasma e dà forma alle cose. Il rapporto dialettico tra il calco, fondamentalmente privo di materia, e la colata in gesso, rappresenta questa dualità, e per me è una fase fondamentale del processo intellettuale e creativo. Da cosa deriva il suo interesse per l’architettura?
Oggi, ogni volta e sempre di più, sono meravigliato e incantato dall’ampiezza e dalla profondità dei contenuti che la parola architettura coinvolge. Fin da bambino ho sempre avuto un grande interesse per il paesaggio e per l’architettura. Forse a questo ha contribuito il fatto di essere originario di Rovereto e cresciuto in una casa sulla costa della montagna. Potevo vedere dall’alto la città e il paesaggio che la circonda. Era come essere in un teatro. Insomma ho sempre voluto fare l’architetto anche se credo di aver raggiunto un fi lo di consapevolezza
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› VEDERE L’INVISIBILE
Renato Rizzi
solo dopo i cinquant’anni.
Rispetto al tema della formazione e delle professioni qualcuno parla di “età post-intellettuale”. Tuttavia, di fronte a posti di lavoro che possono ormai essere sostituiti da automi, molti mettono una nuova luce sulle cosiddette “professioni creative”. Crede che in questo contesto la cultura potrebbe tornare d’attualità?
Credo che il concetto di educazione sia ben espresso dal termine tedesco Bildung, ovvero il processo di formazione e scoperta della propria singolarità che, al contrario dell’individualità arbitraria, richiede molto lavoro per essere costruita. È un problema di cultura, dove noi siamo dei recettori. L’universo si concentra in noi solo quando diventiamo dei grandi ascoltatori. Oggi però è lo stesso sistema di istruzione che tende a trasformarci in automi. Si riempiono gli allievi di nozioni annullando la loro individualità e più si va verso la specializzazione, più le professionalità diventano replicabili, e pertanto automatizzabili. Un circolo pazzesco dove le università sono diventate peggio delle multinazionali. È evidente che questo non stimola per niente né la creatività né la capacità di ascolto di cui si parlava prima. Come si sviluppa il suo lavoro: segue un metodo e passaggi ricorrenti?
Il modello in gesso è senz’altro un fase fondamentale, anche dal punto di vista ideativo, dato che per me rappresenta il collegamento tra pensiero in materia. I modelli vengono realizzati con tecniche rigorosamente manuali e artigianali, incorporano tutte le possibili imprecisioni e variazioni connaturate a questi procedimenti. Possono essere fortemente interpretativi del contesto, come nel caso in cui per percepire la consistenza di rilievi su una scala molto ampia è necessario amplificare la scala delle altezze, ma già un’operazione di
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questo tipo è di natura progettuale. Credo che in media, per ogni progetto, sviluppiamo una ventina di modelli. Ha qualche riferimento costante o qualche fonte di ispirazione principale?
John Heiduk, architetto, deceduto. Peter Eisenman, architetto, vivente. Derek Walcott, premio Nobel per la letteratura: un Omero dei Caraibi. Victor Hugo, Shakespeare, Lucrezio. E, per tornare agli architetti, Aldo Rossi. Un suo progetto che le sta particolarmente a cuore?
Tutti quanti. Ma se devo citarne uno, quello che ho realizzato per la Biennale del 2016 sulla cupola del Brunelleschi. Il tema mi era stato assegnato, ed era un progetto per una scuola ideale. L’aula si compone di gradoni che si sviluppano intorno alla lanterna, che si trova all’altezza di circa 60 metri. Una sfera di circa 3 metri di diametro “orbita” intorno alla sommità della cupola e compie un giro completo in 365 giorni. Al culmine del suo percorso di formazione, ogni allievo entra nella sfera immergendosi in una condizione di solitudine meditativa e contemplativa. Credo che l’idea di questo progetto sia maturata nel tempo, dopo un periodo di insegnamento a Firenze in un terribile scantinato che stava proprio ai piedi della Cupola del Brunelleschi. Ammirando la Cupola prima di naufragare in quell’abisso, mi domandavo ogni volta perché mai una scuola dovesse stare immersa nel buio, e nella banalità, pur avendo di fronte una simile meraviglia. A ben pensarci, quando mi hanno chiamato, il progetto l’avevo già in mente da anni. Per concludere, un consiglio per giovani aspiranti architetti?
Cercate di capire se la strada che intendete percorrere sia quella giusta, e seguite le persone che ammirate. C.E.
Sopra, il Teatro Shakespeariano di Danzica realizzato su progetto dell’architetto Renato Rizzi, vincitore del concorso internazionale (foto ©Matteo Piazza). Accanto, sezione.
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Alberto Campo Baeza L’Architettura secondo Campo Baeza «Essenzialità, luce e gravità. Il mio lavoro è il sibilo di una brezza leggera»
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VEDERE L’INVISIBILE VEDERE L’INVISIBILE L’architettura secondo Alberto Campo Baeza L’architettura secondo Alberto Campo Baeza
I PROFILI DI LPP LAPS ARCHITECTURE MASTERPIECES CHATILLON RESTAURA LE CORBUSIER RESIDENZE ALVISI KIRIMOTO | SCAU | 2001 | ARKISPAZIO | KM429 MADE IN ITALY FAVARETTO & PARTNERS ELEMENTS ABITARE BAUHAUS 100
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Corsi, letteralmente, a comprarmi una monografia su Alberto Campo Baeza dopo aver visto per la prima volta pubblicata la sua Casa De Blas del 2000: l’opera che diede il via al fi lone dove si collocano le successive Olnick-Spanu House e la più recente House of the Infinite, nella sua amata Cadice. Avevo a lungo ammirato la stupenda Caja di Granada – completata, dopo un lungo percorso, più o meno contemporaneamente – ma la casa De Blas era essenzialità pura. Un solido di cemento armato, con sopra un volume di cristallo: peso e luce. Punto. Un bunker, un basamento, un garage incompiuto, una specie di “Casa come me” à la Curzio Malaparte, che riprendeva tratti del Moderno come fossero senza tempo, ma soprattutto aveva la stessa capacità di dialogo e continuità con il paesaggio di un monumento costruito, proprio lì, migliaia di anni prima. Partendo da Casa De Blas scoprivo il resto delle opere, la continuità degli spazi, il controllo della luce, la simmetria e la dimostrazione materiale che un’opera di architettura coinvolge un sistema di elementi che si estende ben oltre il semplice involucro. Dati questi precedenti, è stato un vero e grandissimo piacere poter diffondere, attraverso questa intervista, il pensiero che sta dietro ad opere tanto notevoli.
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A destra dall’alto, Guerrero House, Vejer de la Frontera, Cadice, Spagna (foto ©Fernando Alda, Roland Halbe); la Casa dell’Infinito nella luce di Cadice (foto ©Javier Callejas).
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› VEDERE L’INVISIBILE
Alberto Campo Baeza
Nel disegno, Alberto Campo Baeza rilegge Jørn Utzon. A destra, Casa Gaspar, Vejer de la Frontera, Cadice, Spagna (foto ©Hisao Suzuki).
Alberto Campo Baeza, come potresti descrivere in sintesi il tuo lavoro?
Ricerco la Bellezza, con tutta la mia anima. Il mio strumento è il ragionamento. Come ho ripetuto in diverse occasioni. La mia via è lavorare, lavorare, lavorare. E la mia condizione è quella di essere paziente, di non perdere mai il buon umore.
Puoi identificare uno o più punti chiave della tua architettura?
Semplicità (no minimalismo). Essenzialità (no minimalismo). Logica, razionalità. Luce e gravità. Utilitas, Firmitas, Venustas. Trovare nel mio lavoro il Sibilus Aurae Tenuis: il mormorio di una brezza leggera. Nelle prime righe delle tue note biografiche dici che a Cadice hai “visto la Luce”. Cosa intendevi?
Ho vissuto a Cadice dal primo al sedicesimo anno d’età. Ero molto felice. Il New York Times del mese scorso ha dichiarato che Cadice è il posto più bello del mondo e anche per me
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Cadice è il posto più bello del mondo. Ha la luce più bella che uno si possa immaginare. Peso e luce, spazio e tempo, anche la ricerca dell’infinito e dell’eternità fanno parte della tua ricerca, più o meno come “…il mondo in un granello di sabbia” di William Blake?
Il lavoro degli Architetti è materializzare i sogni, e tante volte ho proposto ai miei studenti di seguire il poema di Blake: Vedere il mondo in un granello di sabbia, E il cielo in un fiore selvatico Tenere l’infinito nel palmo di una mano E l’eternità in un’ora. Credo riassuma molto bene il nostro impegno per la realizzazione e la costruzione materiale dei nostri sogni. Un architetto deve pensare e sognare. Quali sono le caratteristiche di un capolavoro di architettura?
Capacità di porre interrogativi a cui dare una spiegazione. Capacità di toccare il nostro cuo-
re. Capacità di rimanere nella storia. Capacità di produrre il Sibilus Aurae Tenuis. Puoi farmi un tuo ritratto da bambino, quando avevi 10 anni?
Quando ero un bambino, quando avevo 10 anni, uno dei miei giochi preferiti era il teatro delle marionette. Una delle mie marionette suonava il piano, come fosse Rubinstein. Mia mamma la vestiva con una toga nera, una camicia bianca e il papillon. E io costruivo un piano con le radiografie di mio papà, che era medico. In una scena fantastica mia sorella, al giradischi, metteva Rubinstein con la musica di Chopin. E di fronte, la folla dei miei amici, incantati, applaudiva entusiasta. Incredibile a pensarci. Ero, eravamo molto felici. Ci divertivamo moltissimo. C.E.
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› VEDERE L’INVISIBILE
Edoardo Tresoldi In fondo all’anima Edoardo Tresoldi ci parla della sua ricerca sulla trasparenza e sull’assenza di materia: un discorso che riguarda molto da vicino l’architettura
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spazio E matEria Conversazione con Edoardo Tresoldi Labics, due progetti per due concorsi
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Nella confusione della Milano ArchWeek, in una lunga e piacevolissima conversazione Edoardo Tresoldi ci racconta del suo lavoro, di materia, di struttura, di trascendenza e di trasparenza. Come ha inizio la tua carriera?
Ho studiato all’Istituto d’Arte a Monza, ma la cosa più importante è che quando avevo 9 anni i miei genitori mi hanno mandato a lezione da un pittore, Mario Straforini, un amico di famiglia. Studio a Monza e quando finisco mi iscrivo ad architettura, ma dopo due mesi smetto, già pensavo di andarmene in Spagna. Per mettere via i soldi per il viaggio lavoravo nella trattoria del paese dove, a un certo punto, arriva una compagnia che sta girando un film. Vedo subito l’occasione della mia vita. Li prego, li inseguo e alla fine mi prendono come galoppino. Caso vuole che dopo una sola settimana che mi trovavo sul set, mentre stavano girando, il pittore di scena cade dalla scala e si rompe una gamba: sembra una barzelletta. Lo scenografo è disperato e visto che sapevo dipingere, mi promuove sul posto a pittore di scena. Lavoro come un matto e l’esperienza si chiude nell’entusiasmo generale. Dopodichè mi invitano a Roma, dove mi trasferisco, per lavorare a un altro film. Faccio quel film ma ho la sfortuna di arrivare proprio nel 2009, anno della crisi. Il mio regista non lo chiamano più. Così sono a Roma senza lavoro. Ormai però mi ero convinto che volevo fare il pittore di scena. Inizio a girare in bicicletta tutti i set, lasciando il mio numero di telefono, proponendomi come tuttofare. Mi chiamano volentieri, all’inizio per scaricare i camion ma poi, dato che era corsa voce che dipingevo, gli scenografi mi notano. Siccome i pittori, troppo costosi, non li chiamavano più, io, che costa-
vo come un manovale, ero molto ricercato. Ed è così che, scalando un po’ alla volta i gradini della gerarchia, ho iniziato il mio lavoro come pittore in ambito scenografico e cinematografico. L’arte è venuta dopo. Da dove nasce il tuo lavoro con la rete metallica?
La rete metallica arriva dal cinema, ma poi rimane ferma per tantissimo tempo. È solo in occasione di un’installazione per una sagra di paese che penso all’immagine di una donna che esce da un campo di grano. Riesco a trovare i soldi per realizzarla, ma la probabilità che venga fuori uno spaventapasseri è molto alta. Usando la rete, non solo riuscii a risolvere il problema, ma il risultato fu decisamente interessante. Anche nel cinema capitava spesso che mi chiedessero di realizzare delle sculture. Nella scenografia si usa moltissimo il polistirolo, un materiale leggero e facilmente spostabile. Non sapendo lavorare col polistirolo utilizzavo continuamente il metodo del cartamodello, un modello in carta che poi viene convertito in rete. Lavorando in seguito come artista, ho iniziato a frequentare il mondo della street art e in particolare Gonzalo Borondo, un pittore spagnolo al quale sono molto legato sia artisticamente che personalmente. Fino a quel punto però ero un tecnico artistico, non un artista. Come artista avevo molte idee ma non avevo mai realizzato niente. L’occasione venne dall’invito di un mio amico a un festival muralista a Pizzo Calabro. Mi avrebbero messo
Dove l’arte ricostruisce il tempo, intervento per la basilica di Siponto, Manfredonia, 2016. Premio speciale alla committenza, VI Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana (foto © Roberto Conte).
› MATERIA PROFONDA
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› OCCH Edoardo Tresoldi, Etherea, Temporary installation al Coachella Valley Music and Arts Festival Indio, CA, USA, 2018 (foto © Roberto Conte).
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› OCCH
L’intervista pubblicata non ha dide
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› VEDERE L’INVISIBILE
Edoardo Tresoldi
a disposizione un muro. Passo tre mesi a capire cosa volevo fare su quel muro, non mi viene in mente niente, finché a un certo punto ricordo la rete, utilizzata in un’opera che si chiamava “Il Collezionista di Venti”. D’accordo una scultura, ma realizzare una cattedrale intera, come a Siponto, richiede una certa organizzazione.
Considera che tutta la mia attività si è sviluppata in cinque anni, in gran velocità, e mi sono dovuto strutturare altrettanto velocemente. Ho fatto un po’ come il Mago di Oz: partendo da solo e incontrando in seguito uno che mi aiuta con le email e poi un altro e un altro ancora, fino ad avere una vera e propria squadra. Circa la tecnica, la chiave è che ogni materiale non lavora da solo ma ha comportamenti che rispondono a configurazioni specifiche. Ad esempio una piastrella, se presa singolarmente, risponde a un certo tipo di sollecitazione, ma un intero pavimento ha un profilo di resistenza completamente diverso. Per la rete è la stessa cosa. In secondo luogo il mio percorso non parte dall’architettura ma da un’indagine sulla trasparenza. Non volevo fare un’architettura, volevo produrre un’immagine incredibile. L’artista non lavora per trovare soluzioni ma per costruire visioni e anche a Siponto l’obiettivo era quello di produrre una nuova prospettiva, una nuova visione. Nel tuo lavoro c’è comunque una componente ingegneristica non banale.
Come calcolavo quelle strutture? Dato che utilizzo sempre lo stesso materiale, posso facilmente calcolare quanti metri quadrati di rete metallica utilizzo e quanto è il peso al mq di quella rete. A quel punto, so che il pilastro ha un certo peso, so che deve sostenere 400 chili. Realizzo un modello in scala 1:1 del pilastro e lo dimensiono per sostenerne 800. Volendo è uno studio ingegneristico, ma si svolge secondo una dimensione fisica, diretta e analogica. Oggi un architetto o un ingegnere le opere semplicemente le progetta, senza realizzarle. Il loro processo è interferito da una serie infinita di filtri. È molto più difficile cogliere l’attività nel suo insieme ed è questo che fa la differenza tra il modo di costruire antico e quello moderno. Ovviamente il sistema corrente è più semplice e più comodo,
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Sopra, Aura, installazione temporanea al Le Bon Marché Rive Gauche, Paris, France, 2017 (foto © Roberto Conte).
ma si perde completamente il contatto.
Insomma le opere le pensi e le costruisci tu, come un maestro dell’antichità
Sì, e c’è un rapporto ancestrale con la materia. Alla fine ho scelto la rete metallica non perché mi piacesse il materiale in sè ma perché deriva da un’esplorazione sulla trasparenza, ovvero sull’assenza di materia, sul concetto di fantasma, che era del tutto intrinseca all’esperienza di quel materiale. È un percorso al quale sono arrivato attraverso uno studio del tutto analogico. Trasparenza perché, e cosa vuole dire per te fantasma?
Trasparenza vuole dire che la fisicità è uscita per esprimere la mia essenza, la mia anima. Tendenzialmente sono una persona piuttosto timida e mi faccio convincere facilmente. Se qualcosa mi convince, va bene, non ho necessità di fare chissà quali battaglie. Il tema della trasparenza però l’ho scelto quasi per istinto. Anche nel linguaggio cinematografico per fare un fantasma si mettono dei filtri, si toglie materia finché non si produce l’effetto desiderato. Significa che alla trasparenza attribuiamo un concetto di assente, di sparito. Del passato che ritorna. Tu parli di trascendenza, cosa significa per te questo concetto?
Io posso, in quanto essere umano, generare riflessioni mischiando dei codici per creare le mie composizioni. Come un musicista, suono con uno strumento e costruisco un ambiente sonoro. Più acquisisco esperienza, più mi ren-
do conto che in molti casi non sono più io che razionalmente sviluppo una forma, ma queste spuntano fuori per conto loro. A settembre inaugurerò un’opera a Arte Sella. Ho pensato ad una forma e l’ho sviluppata. Torno a Milano, vado in studio, e trovo una foto che avevo fatto tempo fa ai Fori Imperiali e me la ritrovo lì, la stessa identica. È evidente che ci sono forme, cose o immagini che sopravvivono, che trovano il loro percorso per resistere all’accumulo e alla sovrapposizione di altre forme. Ed è evidente che le mie scelte compositive seguono un flusso di coscienza del tutto istintivo. Sono infine convinto che il tutto si colleghi a una memoria ancestrale. Un artista è quasi come una pianta, assorbe elementi, cresce e genera e se non è in grado di fare la propria fotosintesi muore e il processo creativo non coinvolge solo l’individuo ma è incredibilmente esteso. Ma forse si tratta anche di rappresentare ciò che a prima vista è invisibile. Come la cattedrale, tu la fai tornare visibile. Eterea, evanescente ma comunque visibile. E questo ha a che fare con il tempo.
Certamente, si ricollega alla ricerca di tutte le cose che non hanno a che fare con la materia. Attraverso lo studio dell’archeologia sono arrivato a sviluppare il concetto di “rovina metafisica”. Funziona così: l’architettura nasce come non materica, la costruisci e diventa materica, la abbandoni e crolla, diventa rovina e ritorna non materica. L’uomo si relaziona sul tema della rovina e costruisce una serie di poetiche. La materia a un certo punto finisce, ma l’essenza
› MATERIA PROFONDA
Sopra, un’altra immagine dell’installazione permanente per la Basliica di Siponto. Sotto, Archetipo, 2017, installazione temporanea realizzata a Dubai in collaborazione con Designlab (foto © Roberto Conte).
di quell’edificio rimanda alla memoria del luogo. Se noi a un certo punto buttassimo giù la Triennale, questo luogo resterebbe il posto della Triennale. Significa che questa cosa continua ad avere una relazione con le persone e con il luogo indipendentemente dal fatto che si manifesti matericamente. E si torna al tema del rapporto con l’ignoto, con l’antimaterico e col trascendente. Molti, come me del resto, sono rimasti affascinati dal tuo progetto per Dubai, è metafisico, evanescente, post-postmodernista.
È stato molto interessante farlo. L’idea era quella della trasparenza e il tema quello del giardino all’italiana, che ha una sua struttura e dinamica nella relazione tra uomo, natura, architettura, cultura: tutti ruoli ben ordinati che la contemporaneità ha sconvolto completamente. La mia idea era di lavorare su un archetipo, su una struttura in cui non è l’architettura classica che contiene e celebra la natura ma l’elemento
naturale che assorbe l’elemento architettonico immateriale trasformandolo in materia. È la natura che costruisce le qualità auliche e rappresentative del luogo. Io ragiono sull’assenza di materia ed è l’elemento vivo che diventa materia, è sensibile al retaggio culturale ma lo riporta in vita secondo una nuova fisicità. Cambia completamente il senso della relazione tra le cose. Primo perché le piante crescono lentamente, definendo una nuova forma dell’architettura, il secondo è che coltivi un’architettura: è un elemento vivo. Mentre si pensa al materiale, alla pietra, io lavoro con la rete, e questo significa assenza di materia. E voglio lavorare sul vivo, parto dall’anima e arrivo a una cosa viva. Ho realizzato principalmente videoclip, ma come film, l’ultimo che ho fatto è stato “Cloro” del 2013. Un film bello, interessante, dai temi non certo leggeri. Dopodiché mi sono dedicato completamente all’arte. C.E.
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› CONFINI FLUIDI
Wolfgang Buttress Il fluido concetto di natura Un dialogo con Wolfgang Buttress, autore di Hive, il Padiglione del Regno Unito a Expo Milano 2015 su architettura, arte e natura
Anno 10 - n 63 - Aprile 2016 - euro 6,00
reloAding nAture
perché in architettura il termine natura ricorre sempre più spesso?
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tre case
Modourbano
tradizione e modernità Elements
climatizzazione Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano - Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 DCB Milano
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IoArch numero 63 Aprile 2016
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Pur essendo un artista, Wolfgang Buttress è colui che ha ottenuto i più importanti riconoscimenti per l’architettura nell’ambito dell’Esposizione Universale di Milano del 2015 (tra questi il principale: il Bie Gold Award per ‘la migliore opera di architettura e paesaggio’). Il padiglione del Regno Unito, The Hive, oltre ad essere un’installazione di straordinaria e sottile bellezza è anche una notevole opera d’ingegneria e una coinvolgente esperienza di una dimensione che sembra trascendere sia il luogo che l’ambiente circostante. Un aspetto costante del lavoro di Buttress è appunto la volontà di esprimere l’indescrivibile, ciò che risiede nel profondo e sta fuori dal tempo. Forse per questo le sue ultime opere, come The Hive, traggono sempre di più ispirazione, attraverso rigorosi approfondimenti scientifici, dalla natura.
Quale interlocutore meglio di Wolfgang Buttress può pertanto aiutarci a comprendere la particolare, e ormai costante, attenzione nei confronti della natura che caratterizza oggi il dibattito in architettura. Wolfgang, hai una carriera di artista ormai ventennale. Qual è l’aspetto principale del tuo lavoro?
L’aspetto principale del mio lavoro è la lotta costante per rendere un’opera d’arte ineffabile [NdT: grande al punto da non poter essere deThe Hive, il padiglione del Regno Unito a Expo 2015 di Milano. Le luci e i suoni del padiglione riproducevano in tempo reale a Milano l’attività di un alveare a Nottingham producendo un paesaggio sonoro.
› MATERIA PROFONDA
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› CONFINI FLUIDI Lucent (allestita presso il John Hancock Center, Chicago 2015), un elemento emisferico del diametro di 4 metri con 3.115 fori che rappresentano le stelle visibili a occhio nudo nell’emisfero settentrionale. Innervata da fibre ottiche, emette una luce pulsante diffusa attraverso orbite in vetro soffiato.
Wolfgang Buttress scritta adeguatamente a parole]
Qual è il tuo concetto di ‘natura’?
Esiste un’idea romantica di natura come l‘espressione del sublime e del primordiale come pure la consapevolezza – dato che la Terra, fin dall’ingresso nell’Olocene, é stata progressivamente alterata dall’uomo - che ciò che intendiamo come natura ‘solida’, ben definibile è, ovviamente, un concetto completamente fluido. È a partire da questi due punti che cerco di esprimere sia l’impatto della natura su di noi sia il nostro impatto e rapporto con la natura stessa. Da dove è venuta l’ispirazione per un padiglione il cui soggetto principale sono le api?
Possiamo considerare le api come sentinelle della Terra: più in salute sono le api e il loro alveare, più in salute è il pianeta. Essendo inoltre impollinatori, dalle api dipende almeno il 30
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per cento di ciò che mangiamo. In The Hive la mia volontà era quella di creare un’esperienza coinvolgente ed emozionale, sia per esprimere l’importanza di tutto questo, sia per dare un segnale di allarme, a livello emotivo, circa le difficoltà e le minacce che le api si trovano attualmente ad affrontare. Perché il protagonista è (finalmente) un essere vivente differente dagli esseri umani?
Siamo tutti collegati, e tutti siamo fatti di polvere di stelle. Talvolta è meglio ascoltare e abbandonarsi a un insieme di cose molto più grande di noi, piuttosto che voler continuamente gridare e sopraffare.
Come vedi il ruolo dell’arte e della cultura in rapporto a una nuova e differente comprensione dell’ambiente in cui viviamo e della natura stessa?
L’arte e la cultura possono farci vedere e percepire il mondo in modo diverso. Possono espri-
mere una verità, che può essere delicata o forte e potente, connetterci alla Terra stessa; l’arte ci può riempire di terrore o meraviglia e forse insegnarci a essere un po’ più umili. Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
L’ispirazione è intorno a noi, continuamente; per apprezzarla e coglierla servono occhi, orecchie e silenzio. Come ti piacerebbe che il tuo lavoro fosse ricordato tra 30, 40 o cento anni?
Quando installo un’opera nel paesaggio prevale un senso di profonda responsabilità nei confronti del sito, e in seguito di distensione, lasciando serenamente che ogni cosa vada al suo posto. La natura e il tempo avranno entrambi un effetto fisico sulla scultura e sul modo in cui questa viene percepita: entrambi sono del tutto al di fuori del mio controllo. C.E.
› MATERIA PROFONDA
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› CONFINI FLUIDI
Stefano Mancuso La coscienza delle piante Parte di Broken Nature, La mostra ‘La nazione delle piante’ organizzata in Triennale e curata da Stefano Mancuso invita a riflettere sulla vastità del mondo vegetale e il suo ruolo nel pianeta. «Il genere umano ha molto da imparare osservando il comportamento delle piante» ioArch
Anno 13 | Maggio 2019 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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CULTURA E SPAZIO PUBBLICO ALA Architects, biblioteca Oodi a Helsinki
XXII TRIENNALE LA GRANDE IDEA DI NATURA I PROFILI DI LPP LILLo GIGLIA WORKPLACES ALVISI KIRIMoTo | FDG | IL PRISMA | PoLITECNICA | DEGW | GLA BARRECA & LA VARRA MADE IN ITALY ELICA SToRY ELEMENTS UFFICI
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IoArch numero 81 Maggio 2019
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Secoli fa Cartesio, uno dei padri del cosiddetto pensiero riduzionista-meccanicista, divise la realtà in due ambiti distinti: la res cogitans e la la res extensa. La prima dotata di intelletto, di pensiero e di coscienza, la seconda intesa come sostanza inanimata o, se viva, comunque priva di intelletto. Partendo da questi presupposti gli allievi di Cartesio vivisezionavano gli animali per comprenderne il funzionamento e i loro lamenti non erano altro che i cigolii di un meccanismo sottoposto a sollecitazione. Se gli animali erano considerati pura ‘materia’ i vegetali erano collocati su un gradino ancora inferiore: ‘cose’ immobili, fisse, inanimate, una convinzione che è perdurata nel tempo. Ciò che invece dimostrano oggi gli studi di scienziati come Stefano Mancuso è che le piante non solo sentono, ma sono capaci di mettere a punto forme di adattamento e soluzioni creative. Una rivoluzione, e forse un importante passo verso un modo completamente diverso di vedere il mondo che ci circonda. Negli ultimi anni lei è stato autore di studi del tutto inediti e dell’elaborazione di concetti quasi rivoluzionari sul mondo vegetale. Cosa l’ha portata ad appassionarsi alle piante?
Fondamentalmente sono uno scienziato. Svolgo una parte di divulgazione che sto portando avanti ormai da alcuni anni attraverso libri, mostre e collaborazioni con artisti, ma il mio lavoro è quello di fisiologo vegetale. Sto in laboratorio, sono direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale che ha sede principale presso l’Università di Firenze e altre sedi a Parigi, Bonn, Pechino e in Giappone, con circa 150 scienziati che studiano le piante quali esseri dotati di capacità cognitive. Il mio interesse per le piante nasce da quando ho iniziato
l’università. Non è un amore che nasce dall’infanzia. Ai bambini normalmente piacciono di più gli animali, perché sono più simili a noi. La comprensione e l’amore per le piante deve essere mediato dalla logica che è una cosa che matura in età adulta.
Neurobiologia vegetale. Non è azzardato attribuire un sistema nervoso ad organismi che ne sono, ovviamente, privi?
Certo, sembra un ossimoro, ne sono perfettamente consapevole. La neurobiologia vegetale è una disciplina inventata dal mio laboratorio nel 2005, e nasce con una buona valenza di provocazione. È ovvio che le piante non hanno un cervello, ma volevamo spiegare in modo scientificamente fondato che, pur non avendo il cervello, le piante possono fare le stesse cose degli animali, solo in modo diverso. In un certo senso anche noi facciamo parte del mondo animale, che già è una piccolissima parte della ‘materia’ vivente di questo pianeta. Il genere umano rappresenta solo lo 0,03% del totale, praticamente nulla, e facciamo parte di questa piccola categoria dotata di cervello. Ed è scientificamente ed eticamente scorretto presumere di essere gli unici esseri viventi capaci di ragionare, di risolvere problemi. Questo non ha senso: qualsiasi essere vivente, per esistere come specie, deve essere in grado di risolvere problemi. Un batterio ad esempio è un soggetto pieno di problemi, se non li sa risolvere muore, si estingue, viene spazzato via, ritirato dal mercato. Le piante invece hanno dimostrato, con la loro quantità e diffusione, una grande abilità nel risolvere problemi. Il senso delle neurobiologia vegetale è quello di far capire che il cervello, ritenuto centro dell’intelligenza unica, è un’ulteriore affermazione della presunzione umana. Non c’è bisogno di un cervello per essere intelligenti.
› MATERIA PROFONDA
In questa pagina, immagini dell’allestimento di La Nazione delle Piante, a La Triennale di Milano (foto ©La Triennale di Milano, Gianluca Di Ioia).
Ed è questo che rende le piante ancora più interessanti. Come fanno le piante ad adattarsi, a comunicare? Noi ad esempio comunichiamo attraverso i suoni, le piante attraverso molecole chimiche. Non è un caso che la chimica sia stata inventata dalle piante. Le piante producono molecole, che sono messaggi, spesso indirizzati agli animali, come il profumo dei fiori. Tra di loro si scambiano miriadi di informazioni e il fatto che non possiamo sentirle non significa che non esistano. Abbiamo fatto un esperimento nel nostro laboratorio: alle piante non piace affatto il sale, coincide con una condizione di stress. Abbiamo provato a sottoporre un gruppo di piante a uno stress da sale. Quando poi abbiamo sottoposto allo stesso stress un secondo gruppo di piante, distante dal primo, questo era molto più resistente, aveva aumentato le proprie difese, perché nel frattempo aveva ricevuto dei messaggi di allerta dal primo gruppo attraverso segnali biochimici.
spostare, le piante costruiscono tra di loro e con le altre forme di vita che le circondano delle comunità collaborative, quasi sempre. La terza è l’organizzazione: le piante non hanno organizzazioni gerarchiche, centralizzate, come le nostre, che ci portano un sacco di problemi. Perché l’unico vantaggio di un’organizzazione gerarchica è la velocità. È costruita come noi: noi abbiamo un capo, degli organi, con una gerarchia. E questo permette di muoversi velocemente. Anche la nostra società è fatta in questo modo, anche se l’unico vantaggio che avevamo, la velocità, ce lo siamo bruciato con la burocrazia. L’organizzazione orizzontale e decentralizzata delle piante, così efficace ma per noi inedita, può essere un’ottima fonte di ispirazione.
Per prima cosa la parsimonia, il crescere e prosperare senza consumare risorse. La seconda è la comunità: proprio perché non si possono
Questo è un punto fondamentale. In molti miei libri ho scritto della necessità di una rivoluzione culturale analoga a quella Copernicana.
Cosa possiamo imparare dalle piante?
Nei suoi libri lei cita spesso quei momenti chiave in cui l’umanità, non senza disappunto, si è resa conto della propria posizione, del tutto relativa, nell’universo. Crede che anche oggi ci siano analoghi momenti chiave tali da avere un impatto sul nostro rapporto con il mondo che ci circonda?
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› CONFINI FLUIDI
Stefano Mancuso
In queste pagine, all’interno della Manifattura Tabacchi, ex area industriale di 100mila mq a Firenze, si trova la Fabbrica dell’Aria, il progetto di Stefano Mancuso per ridurre l’inquinamento indoor migliorando la capacità delle piante di assorbire e degradare gli inquinanti atmosferici (foto ©Niccolò Vonci e courtesy Cosentino).
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Prima di allora si pensava che la Terra fosse al centro dell’universo. Oggi continuiamo a pensare che l’uomo sia al centro della vita e questo deve cambiare. In molti miei libri ho scritto della necessità di questo cambiamento. Nel mio ultimo libro ci sono gli otto articoli della costituzione della ‘Nazione delle Piante’. Noi non siamo affatto centrali, e non siamo neanche meglio degli altri esseri viventi, questa è una questione fondamentale. Il concetto del meglio è estremamente pericoloso, è all’origine di innumerevoli drammi, quando uno si sente migliore di un altro nasce il razzismo e quando ci crediamo migliori delle altre specie le utilizziamo distruggendo l’ambiente. Da dove nasce questa idea? Se uno chiede in giro, la risposta è immancabilmente: ma è talmente ovvio, abbiamo un cervello e siamo in grado di fare moltissime cose che gli altri animali non sanno fare. E questo è pacifico, nessun altro animale è capace di fare la Cappella Sistina, la teoria della relatività o i Fratelli Karamazov: ma questo non significa che siamo meglio. Ad esempio non sappiamo fare moltissime cose che le piante fanno tranquillamente. La questione del meglio ha senso quando c’è un
obiettivo, con dei chiari parametri di riferimento. In una gara di salto in alto, ad esempio, è difficile contestare che il migliore è colui che salta più in alto. Ma la vita ha un unico obiettivo: la propagazione delle specie, fare in modo che la propria specie continui ad esistere, ce lo insegna Darwin. Da questo punto di vista il nostro cervello è un vantaggio? E soprattutto, noi esistiamo solo da 300.000 anni. Considerando che la vita media di una specie è intorno ai 5 milioni di anni, noi siamo una specie giovane. Saremo in grado prolungare la nostra esistenza per i prossimi 4,7 milioni di anni? Al momento non sembra. Se finiremo estinti anche solo tra 200mila anni avremo dimostrato che il nostro cervello era in realtà un impedimento evolutivo. Vale a dire che non era affatto un vantaggio. Se ci estingueremo, dopo 10.000 anni spiegatemi cosa resterà della Venere di Milo, della Cappella Sistina o della Teoria della Relatività: nulla di nulla. A molti potrebbe sembrare un messaggio preoccupante, ma forse è solo relativizzante
In realtà non è preoccupante e, appunto, vorrei relativizzare. Ciò che facciamo potrebbe anche non avere niente a che fare con l’obiettivo del
› MATERIA PROFONDA
perpetuarsi della vita e della nostra specie. Se il nostro cervello da un lato ci permette di fare capolavori e dall’altro di creare situazioni che tendono ad estinguerci, cosa che una mucca, o un albicocco, non sono in grado di fare, allora la mucca e l’albicocco forse sono meglio di noi. Se noi guardassimo l’insieme degli esseri viventi che popolano questo pianeta dall’esterno, supponiamo con gli occhi di un alieno, chiedendosi chi è il ‘meglio’, non ce la caveremmo bene, anzi stiamo dimostrando attraverso le nostre azioni che vanno dritte verso l’estinzione che probabilmente siamo il ‘peggio’. Non esiste un’altra specie che abbia fatto così tanti danni in così poco tempo. Ma anche tanti progressi. In 4,5 milioni di anni non è successo niente, poi è arrivato l’uomo e cinquant’anni fa siamo andati sulla luna. Non ha a che fare con il raggiungimento della longevità media di una specie ma forse c’è qualcosa di speciale in noi che ci rende diversi da tutto il resto.
Non c’è dubbio che siamo in grado di fare cose incommensurabilmente diverse da tutto il resto. L’unicità umana non è in dubbio, sarebbe stupido sostenere il contrario. Noi siamo profondamente diversi dalle altre specie. Ma che questa unicità sia per il meglio o per il peggio è tutto da dimostrare. Ciononostante sono fiducioso. Credo che siamo una specie bambina, stiamo usando il cervello, questo incredibile strumento, come un bambino al quale si dà in mano un martello. Il punto è capire le regole del gioco. Non abbiamo ancora ben compreso che se scompaiono gli altri esseri viventi moriamo anche noi. Insomma, non siamo astratti dalla natura, ne siamo parte integrante. Lasciamo da parte i libri e mi risponda tranquillamente con la prima cosa che le viene in mente. Immagini di fare un film, su cosa lo farebbe?
Un film! Bella domanda. Guardi, abbiamo qui una mostra che si chiama “la Nazione delle piante”, immagini invece che film meraviglioso sarebbe quello che racconti la storia di una nazione vera, di uomini, che però funzioni secondo le regole delle piante.
È fantastico, dobbiamo farlo! E per concludere: quale potrebbe essere un messaggio dal futuro rivolto a noi oggi?
Impariamo le regole del gioco e rendiamoci conto che siamo parte della natura. Credo che il nostro cervello sia un vantaggio, ne sono convinto. Quello che ci distrugge è la nostra presunzione. Pensare che non abbiamo bisogno di tutto il resto, che siamo sufficienti a noi stessi, se non addirittura che possiamo elevarci al di sopra, è una follia. Non dimentichiamo che a chi era portatore della hybris i greci facevano sempre fare una brutta fine. C.E.
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› CONFINI FLUIDI
Stephan Harding Anima Mundi Una conversazione con Stephan Harding, studioso del rapporto tra cultura e ambiente, nonché docente e fondatore dello Schumacher College, istituto di riferimento per l’ecologia a livello internazionale
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Anno 14 | Marzo 2020 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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I TERRITORI dEl lavOrO Architetture e Ambienti DOVe ViVere e cOllAbOrAre
COSTRUIRE
CONNESSIONI
ATELIER(S) ALFONSO FEMIA | MARCIO KOGAN | ALESSIA MAGGIO | TAMASSOCIATI MONOVOLUME | QUATTROASSOCIATI | PARISOTTO+FORMENTON | GIANNI ARNAUDO GENIUS LOCI | GORING&STRAjA | TÉTRIS | COIMA | STEFANO BOERI ARCHITETTI
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IoArch numero 86 Marzo 2020
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Il dibattito sui temi ambientali è presente dovunque, tutti i giorni, più volte al giorno, su tutti i canali, e il mondo dell’architettura non ne è certo immune. La verde foresta dei proclami per un’architettura sostenibile, col suo intricato sottobosco di certificazioni ambientali e di finestre e mattoni sempre più green, rendono difficile orientarsi. Ed è così che anni fa, in fase di recupero da un trip mistico nel mondo degli edifici ad alta efficienza energetica, partii con l’idea di capire cosa ci fosse oltre tanta fitta boscaglia. Seguii un percorso del tutto personale, alquanto tortuoso, ma contraddistinto da alcune interessanti scoperte. Dopo molte letture feci tappa, come molti, alla classica Gaia Theory di Lovelock e Margulis, seguita dalla Deep Ecology di Arne Naess, per arrivare infine, quasi per caso, a un bellissimo libro: Animate Earth di Stephan Harding, Resident Scientist del Schumacher College, che scoprii essere un istituto di riferimento a livello internazionale per gli studi nel campo dell’ecologia. L’approccio di Harding ai temi che riguardano l’ecologia raccoglie, portandola oltre, l’eredità di Lovelock e di Naess, caratterizzandosi per l’incredibile sintesi tra solidità scientifica e cultura umanistica. Dirotta quanto basta dal tecnologismo, tuttora imperante in campo ambientale e, soprattutto, ha l’obiettivo di ricercare e riscoprire, alla base di tutto, una sorta di Anima mundi. Le prime, diffuse preoccupazioni circa l’ambiente sono emerse negli anni Settanta. Il rapporto Brundtland era del 1986. Da almeno vent’anni scienziati e tecnologi sviluppano soluzioni sostenibili, ma le emissioni di CO2 e in generale l’ambiente, perfino nei paesi più consapevoli dal punto di vista ambientale, come la Scandinavia, peggiorano inesorabilmente. Dov’è il problema?
Penso sia abbastanza semplice e complicato allo stesso tempo. Semplice perché noi tutti siamo collegati alla natura. Respiriamo ossigeno, che è un prodotto della natura, ed emettiamo anidride carbonica che va nell’ambiente. Tutti ne siamo consapevoli. Ma finché questo non innesca considerazioni più complesse, non è abbastanza per ricollegarci alla natura in senso profondo. Il problema è che siamo privi di un’immagine biologica corrispondente al livello del nostro rapporto con il pianeta, grazie alla quale qualsiasi problema sarebbe risolto. Si tratta di avere la consapevolezza che quando, ad esempio, fai un lungo respiro sei connesso a una moltitudine di cose. E questo significa comportarsi di conseguenza. Questa consapevolezza si può basare su uno studio approfondito, su libri e su una moltitudine di altre osservazioni, ma principalmente è una questione di identificazione. La parte complicata è che il percorso che va dal discutere di questi argomenti allo sviluppo di una coscienza collettiva vera e propria, non è per niente facile né scontato.
Non credi che questo dipenda in buona parte da una struttura mentale radicata da millenni secondo la quale, in quanto esseri umani, siamo qualcosa di differente, culturalmente distinto dalla natura?
C’è una notevolissima giovane studiosa del mondo vegetale, Monica Gagliano, italiana di origine, che lavora alla University of Western Australia di Perth e che dimostra, con esperimenti scientifici riconosciuti a livello internazionale, che le piante hanno una sorta di immagine del mondo, caratterizzata da una buona dose di intelligenza. Le piante sanno dov’è la luce, ovviamente, e la seguono, ma non solo: dagli esperimenti di Gagliano, risulta che hanno un’immagine del mondo e una memoria di dove si trova la luce. Che è una cosa incredibile.
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Perché sto citando questo? Perché credo che sia parte di una sorta di traslazione culturale che vede riconoscere una qualità intellettuale a organismi tradizionalmente considerati inanimati, privi di qualsiasi intelletto. Il punto è che la nuova scienza che si sta sviluppando oggi, tra queste anche la teoria di Gaia di James Lovelock, o quelle di Gagliano, che trovo del tutto rivoluzionarie, dimostrano l’idea, in realtà molto antica, che la capacità di sentire è diffusa in tutto il mondo naturale. Tutta la natura è senziente, ed è questo che perdiamo completamente di vista. Una considerazione di questo tipo non è semplicemente il frutto di una mediazione intellettuale, ma è qualcosa che va oltre tutto questo. Coinvolge diversi livelli: la percezione, la sensazione, l’intuizione e il pensiero, quattro cose allo stesso tempo. È il tipo di consapevolezza che vede la nostra vita come parte di molte altre. Questa attitudine, molto presente in passato, sta andando oggi completamente persa, sprofondandoci in una sorta di sonno collettivo. Solo quando ce ne saremo resi conto potremo fare un passo avanti. La popolazione mondiale continua a crescere, la
maggior parte delle persone si sta spostando nelle città, perdendo ancora di più la consapevolezza ambientale, molto sviluppata in tempi antichissimi e di cui il mondo rurale conserva un barlume.
La risposta è semplice, e credo che qui gli architetti abbiano molto da offrire: è quella di portare la natura esattamente dentro e dovunque nelle città. Non parlo di un simulacro di natura. Oggi nelle città si trovano giardini comuni dove la gente ha un orto da coltivare. Io ad esempio, ormai ho una certa età, abito in città in un appartamento al sesto piano, e appena posso e molto volentieri scendo nel mio giardino dove incontro amici, altra gente, perfino un giovane chitarrista che mi insegna nuovi accordi. Ma pensa come sarebbe se, invece di andare in un giardino, potessi immergermi in qualcosa di più selvaggio, prendessi il mio zaino per camminare in un bosco, per due o tre isolati, fino all’albero alto 6 piani che in questo momento sto vedendo fuori dalla mia finestra. Potrei inserirmi in un reticolo continuo che si estende dovunque, dentro e fuori dalla città, come le dita di una mano o come un sistema vascola-
La struttura corallina visibile nell’immagine è di ispirazione per la creazione di una rete di piccole città collegate tra loro da spazi verdi.
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Stephan Harding
re. Questo credo sia l’unico modo di concepire le città del futuro: un insieme abitato con tutta l’offerta e il dinamismo culturale ed economico di una città, ma molto più equilibrato dal punto di vista ambientale.
È una visione bellissima, forse un’evoluzione del concetto di polmone verde formulato da Frederick L. Olmsted per la città industriale del 1800 e realizzato, tra gli altri, nel Central Park a New York.
Anche se il problema del Central Park è, appunto, quello di essere centrale. Ciò che ho in mente è un sistema decentralizzato, una rete, resiliente e diffusa ovunque. Una specie di ‘internet verde’: un ottimo slogan.
In verità non sono molto portato per queste analogie tecnologiche, preferirei qualcosa come ‘green web’, ragnatela verde, ad esempio.
Ogni futuro ha un riferimento al passato. Perfino Picasso, profeta Moderno, guardava alle antiche sculture africane. Quali pensi possano essere oggi le fonti di ispirazione per costruire il futuro di domani?
È una domanda che mi piace moltissimo. Ed è vero che guardare al passato è fondamentale. Abbiamo una quantità di riferimenti e questo
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può essere molto legato al singolo individuo, ma è un dato di fatto che abbiamo bisogno di un sistema di immagini, di una narrativa, di riferimenti culturali che affondino le proprie radici in profondità nel passato del genere umano. Il punto fondamentale è identificare queste radici. Si tratta di sviluppare su basi scientifiche un nuovo senso di appartenenza. Di immaginare un percorso all’indietro nella cultura del genere umano: come una specie di cacciatore primitivo, capace di orientarsi nella foresta, di sentire e vedere oltre l’apparenza superficiale, ma restando allo stesso tempo un uomo moderno. Dov’è nato il tuo interesse per l’ecologia?
Sono nato a Caracas, in Venezuela. Quando ero ancora molto piccolo andavo nel giardino sotto casa e osservavo per ore e ore i fiori tropicali. Come formazione sono uno zoologo, ma credo che lo studio del mondo naturale sia per me una cosa innata. Ne sono stato affascinato da sempre e per fortuna in famiglia questa mia passione è stata molto incoraggiata.
L’ultima domanda: immagina di mandare un messaggio dal futuro, verso il presente.
Questa è difficile. Ma la prima cosa che direi è: grazie. Grazie per esservi svegliati in tempo, per aver recuperato un senso di appartenenza al pianeta Terra, per esservi sentiti nuovamente parte di Gaia e per aver fermato un disastro, permettendomi di venire al mondo e di comunicarvi questo messaggio.
Pensando a questo, mi viene spontanea una domanda fuori programma: qual è il tuo punto di vista, come scienziato, rispetto al movimento lanciato da Greta Thunberg. Ha ottenuto un gran-
› MATERIA PROFONDA
dissimo consenso, ed effettivamente anche questo è un messaggio.
Secondo me sta andando nella giusta direzione. Si collega a studi molto fondati e, a livello psicologico, dimostra un intuito formidabile nella comprensione dell’umore collettivo. È un movimento decentralizzato, non ha un vero leader ed è sostenuto da alcuni grandissimi scienziati, molti di questi miei amici, che operano da sempre nel campo dell’ecologia, della conservazione e delle scienze della Terra. In
realtà il passo fondamentale è quello di sviluppare una visione comune, e la visione comune di cui abbiamo bisogno è Gaia. Tutta la Terra è viva, questa è la consapevolezza comune di cui abbiamo bisogno. Questo ci porterà a pensare nello stesso modo, indipendentemente da religioni, nazionalità, credo politico. Un solo concetto centrale: la Terra è viva, ed è molto più viva di ciò che si possa immaginare secondo la cultura moderna. C.E.
Nella pagina di sinistra, particolare di Diploria Labyrinthiformis, chiamato anche Brain Coral per la forma incredibilmente simile alla superficie della corteccia cerebrale. Qui sopra, la spirale all’interno di un ammonite del Cretaceo, che segue la sequenza numerica di Fibonacci e incorpora i misteriosi principi di generazione della forma presenti in natura.
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Cristina Mittermeier Potere alle immagini Dialogo con Cristina Mittermeier, pioniere della fotografia rivolta alla tutela ambientale. Un tema molto attuale, soprattutto per gli architetti
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Anno 14 | Luglio 2020 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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territorio e appartenenza riallineare i luoghi e riconsiderare le realtà locali
diversi modi di abitare brIcoLo fALSAreLLA | ALfoNSo femIA | LombArdINI22 | mdu | gezA | peter pIchLer | km429 rrA | StefANo ferA | crIStINA mIttermeIer | gIANLucA brINI | woLfgANg merANer ArchIcurA | ALfredo vANottI | coStANtINo pAteStoS | fokStrot | LoreNzo bergAmINI
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IoArch numero 88 luglio 2020
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Da secoli il genere umano si è ritenuto qualcosa di differente, se non antagonista, a tutto ciò che chiamiamo natura, vale a dire l’ambiente che è scampato alle nostre molteplici modificazioni e alterazioni. È una sorta di racconto collettivo che per un po’ ha funzionato a meraviglia. Oggi tuttavia, data la pressione alla quale stiamo sottoponendo l’ambiente, viene messo in dubbio. Quale potrebbe essere un nuovo racconto?
Credo che le basi di un modo nuovo di vedere le cose derivino innanzitutto dalla consapevolezza, molto recente e del tutto inesistente fino a 20-30 anni fa, che condividiamo questo mondo con milioni, anzi decine di milioni di altre specie. L’immagine che abbiamo oggi del mondo dipende per buona parte dalla nostra cultura, e questa è molto radicata in profondità, anche nella religione. Nel Cristianesimo, ad esempio, la Bibbia ci insegna che siamo padroni della Terra ed è un concetto che, per l’appunto, per un po’ ha funzionato molto bene. La situazione attuale in realtà è abbastanza diversa ed è pesantemente condizionata dal fatto – di cui la gente non ama molto parlare – che al mondo siamo in troppi e consumiamo troppo. Questo è il motivo per cui ogni racconto che riguarda la “natura” deve assolutamente cambiare. Mi piace pensare che questo possa avvenire secondo una nuova modalità di comprensione che coinvolga anche la sfera religiosa e spirituale. Questo non significa che dobbiamo liberarci del Cattolicesimo, del Giudaismo o di qualsiasi altra religione, ma è fondamentale guardare alla base, ai presupposti di rispetto e venerazione per la natura che, per quanto mi riguarda, è la mia vera religione. Sono cresciuta come cristiana cattolica, ma è una fede in cui a fatica posso rintracciare questo tipo di mentalità. Credo pertanto di es-
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sermi orientata verso una forma di religiosità che corrisponde molto di più al mio modo di pensare e di essere al servizio del pianeta, che in fin dei conti è ciò che provvede a tutto quello di cui ho bisogno. Dobbiamo infine capire che invece di sfruttare la natura, noi siamo al suo servizio: senza una forma mentale di questo tipo non potremo mai sopravvivere. A quale punto pensi che siamo, in questo processo di cambio di mentalità?
Sotto, Amazzonia brasiliana, giovane della popolazione Kayapó (© Cristina Mittermeier).
La generazione intorno ai quaranta e i cinquant’anni, alla quale peraltro apparteniamo tu ed io, segna una specie di linea di confine. Quelli più anziani di noi hanno una mentalità prevalentemente sintonizzata sulla vecchia maniera. Hanno vissuto le grandi guerre,
hanno conosciuto veri e propri disastri economici, provengono da un’impostazione basata sull’accumulo di beni. È una specie di indottrinamento: diventi grande, hai un lavoro, una famiglia, un conto in banca, un mutuo, compri una casa, compri una macchina. Quelli invece un po’ più giovani di noi crescono in un mondo altamente digitalizzato, con un livello di inter-connettività che sta modificando profondamente il modo in cui si sentono parte del mondo. E tutti questi ragazzi – compresi i miei figli, ormai tra i 23 e i 24 anni – hanno piena consapevolezza dei problemi ambientali. Un bel giorno prenderanno il posto dei vecchi, assumeranno un ruolo a livello decisionale, e le cose cambieranno. Penso che già ora siamo in
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Cristina Mittermeier
questa fase di transizione.
…Sperando che non sia troppo tardi
E sperando che succeda molto velocemente.
Cosa ci puoi raccontare della tua esperienza con la popolazione Kayapó dell’Amazzonia, con cui hai vissuto per lunghi periodi, e delle altre tue esperienze dirette con popolazioni native?
Fin dall’inizio della mia carriera come fotografa sono stata molto attratta dalla fotografia di persone. Questo dipende dal mio percorso che è iniziato come biologa marina ed in seguito, dato che sono stata sposata con un antropologo [il celebre ambientalista e antropologo Russell Mittermeier, NdR], ho trascorso molto tempo a stretto contatto con le comunità indigene. Non è gente che necessariamente va in giro vestita di piume o cose del genere. Si vestono come noi, viaggiano come noi, guidano automobili, ma hanno un senso di identità molto forte. Quello che fa la differenza è che sono ancora collegati al sistema operativo del pianeta, sanno ancora bene come funziona in un modo che noi abbiamo ormai dimenticato da generazioni e generazioni. Mi piace il termine “collegarsi con il sistema ope-
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rativo del pianeta”, significa quanto sia importante recuperare un livello di consapevolezza dal quale siamo sempre più distanti.
È un termine bellissimo, coniato da Peter Seligmann, uno dei miei mentori ed uno dei miei primi datori di lavoro. Ogni società dipende, come ovvio, dai propri sistemi di produzione, e credo che gradualmente e sinceramente nell’ambito delle aziende stia penetrando un nuovo tipo di consapevolezza. Ad esempio, tra una settimana sarò tra i relatori di una conferenza sulla sostenibilità: concetto ormai scontato, dato che ogni azienda ha qualcosa dedicato a questo tema. Per molti dei presenti si tratterà solamente di fare presenza, ma qualcuno in sala avrà valori del tutto allineati con la propria attività. La chiave è precisamente l’allineamento dei valori con le cose che si fanno, e questo è il presupposto dal quale proviene un vero cambiamento. Un conto è mettere sul proprio sito una frase carina sulla sostenibilità, un altro è allineare i valori e la cultura con la produttività, dato che il capitalismo è precisamente progettato in modo da contraddire questi principi. Si ricompensa solamente una
cosa: il profitto, per sé e per i propri azionisti, e questo dà origine sia ad una tremenda disuguaglianza sia al degrado ambientale. Vorrei pertanto incoraggiare i giovani a prendere le redini di una radicale ridefinizione del sistema di produzione. Non possiamo pensare di prosperare, come del resto si è fatto finora, sulla base della distruzione sistematica dell’ambiente: questo è un punto fondamentale. Ogni futuro ha radici nel passato, tanto che l’arte Moderna traeva ispirazione delle culture primitive. Secondo la tua esperienza cosa potremmo
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imparare oggi dalle culture indigene?
Ci sono moltissimi insegnamenti, e ogni volta che andavo, imparavo qualcosa. Credo ci siano tre lezioni fondamentali. La prima è che in quanto occidentali, “colonialisti”, parliamo troppo, tanto che spesso i miei interlocutori finivano per alzare gli occhi al cielo. La cosa principale è ascoltare: le persone, la natura, tutto quello che ci circonda. La seconda riguarda il denaro. Il denaro è un concetto astratto. È una costruzione della società moderna e in molte comunità non esiste. Tutto si basa sulla
costruzione di relazioni e sulla capacità di restituire, sul bisogno e sull’assistenza reciproca. Gli scambi si basano principalmente sul baratto e credo che la costruzione di relazioni basate sui servizi e sul concetto di restituzione sia una grandissima lezione, molto importante, che dovremmo recuperare dalle popolazioni indigene. Un altro grande errore della società moderna è stato quello di riporre così tanta fiducia nell’eccezionalità dell’individuo che è un concetto molto americano, dove prevale la mania del consumo e di essere eccezionali come indi-
Nella pagina di sinistra, abitanti del villaggio di Kubenkrajké, Brasile (2009). Qui sopra, Ta’kaiya Blaney, attivista della Tla A’min Nation, British Columbia, allarga le breccia per sfoggiare il suo bellissimo mantello di cedro, un indumento tramandato di generazione in generazione dalle donne della nazione.
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› CONFINI FLUIDI A destra, decorazioni in uso tra le popolazioni degli altopiani di Papua Nuova Guinea (2006).
Cristina Mittermeier
Accanto, Cristina Mittermeier con la comunità indigena Kaiapó, in Amazzonia.
viduo e non come comunità. E la terza lezione è un concetto che chiamo enoughness [traducibile come “avere tutto ciò che basta”, ndr]. Per secoli abbiamo fatto coincidere il valore individuale su quanto possediamo, su quanto siamo riusciti ad accumulare. Pensiamo costantemente a quanti soldi guadagniamo e ci confrontiamo con gli altri sulla base di questo. E questo genera inevitabilmente una società di infelici perché è sempre presente la sensazione di non averne mai abbastanza. Pensiamo che sia inevitabilmente così ma non è per niente vero. Le popolazioni indigene possiedono solo l’essenziale e ciononostante sono molto più felici di noi, hanno solo le cose che contano veramente e su queste prosperano. Essere parte di una famiglia, essere parte ed essere utili ad una comunità, avere un ruolo e relazioni dense di significato. Sono tutte cose che, al contrario del denaro e dei beni materiali, rendono felice un essere umano. Conta di più quanto uno può dare anziché prendere alla comunità. Enoughness significa in breve avere abbastanza da poterlo restituire e condividere. Penso che il tuo lavoro sia fondamentale nell’a-
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prire nuovi punti di vista nel rapporto tra società e ambiente. Qual è il rapporto tra l’espressione artistica delle tue foto e la loro narrativa?
Quando ho iniziato il mio lavoro come fotografa non esisteva ancora un concetto di conservazione. Andavo alle conferenze di fotografia naturalistica, parlavano di filtri, di macchine fotografiche, fondamentalmente di tecnica, ma quando chiedevo se potessimo utilizzare le immagini per proteggere i luoghi dove lavoravamo, la risposta era quasi sempre no. La comunità dei fotografi non era interessata alla tutela. Malgrado ciò, ho iniziato ad interessarmi a questo tema seguendo le orme di grandi fotografi come Peter Dombrovskis della Tasmania, autore di immagini stupende, come quelle del Franklin River, sempre in Tasmania, utilizzandole come strumento di difesa ambientale. O fotografi come Michael Nichols, uno dei miei colleghi del National Geographic, che ha camminato per 2.000 miglia (circa 3.200 chilometri) sulla costa tra il Camerun e il Gabon seguendo la pista degli elefanti africani. Attraversando luoghi dove nessun occidenta-
le, o probabilmente nessun essere umano era mai stato, utilizzando le immagini realizzate e il racconto di questa esperienza per sostenere la creazione di ben 13 parchi nazionali. D’altro canto, penso alla mia vicina: fotografava fiori nel suo giardino. Anche lei era definita una fotografa naturalista. E qui c’è un’enorme discrepanza tra la gente che comprende la relazione tra le cose e vuole utilizzare la fotografia col proposito di difendere la natura incontaminata ed altri che fanno fotografie con finalità tecniche o artistiche. È questo il motivo per cui ho proposto la definizione Conservation Photography: dando un nuovo nome era possibile identificare un nuovo proposito, una forma di forte attivismo. E la cosa interessante è che immediatamente centinaia, migliaia di fotografi si sono identificati con questo proposito definendosi Conservation Photographers e questo credo sia stato davvero un ottimo contributo. Fino a che punto pensi che l’arte, nel tuo caso attraverso immagini stupende, piuttosto che la tecnologia e le soluzioni, possano innescare un cambiamento?
Il punto per me è che quando ho iniziato ve-
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ramente a studiare la fotografia ho studiato anche la storia dell’arte, imparando che l’arte nella storia dell’umanità ha sempre giocato un ruolo fondamentale in termini di orientare il pensiero, i riferimenti e i comportamenti della società. Oggi, almeno dal mio punto di vista, credo che questo ruolo sia ricoperto in amplissima misura dalla fotografia. Credo che la fotografia possa dare un’immagine molto viva dei nostri valori e delle nostre aspirazioni, incluso il mondo in cui vorremmo vivere. Penso che la bellezza sia un grande strumento per coinvolgere le persone. E se riusciamo a comunicare alle persone quanto siamo fortunati ad abitare in un pianeta meraviglioso, questa stupenda bolla blu, è più orientata a prendersene cura. Ultima domanda. Immagina di trovarti nel futuro, 200 anni avanti: puoi mandare un messaggio all’epoca presente?
Direi che abbiamo ancora tempo per svegliarci, e quando andate a votare … pensate ai candidati. Quando gli elettori in una democrazia pensano a cose come l’economia, o “mi piace questo tizio”, sono mal indirizzati. Dovrebbero invece pensare che ogni azione
e ogni pensiero abbiano un riferimento all’obiettivo, fondamentale, di sopravvivenza della nostra specie. Ma innanzitutto spero che tra duecento anni saremo ancora tutti ancora qua, e che non si vada a finire come sull’isola di Pasqua, dove il consumo di risorse, senza alcun criterio, li ha portati alla fame e quasi all’estinzione. Abbiamo visto che queste non sono cose che capitano all’improvviso, ma sono la conseguenza di una serie di azioni scellerate che si protraggono nel tempo, per anni, per generazioni e le conseguenze sono brutali: fame, guerre, siccità o diluvi che si protraggono per lunghissimo tempo. E direi pertanto: per non trovarci di fronte a un’apocalisse tra duecento anni, svegliamoci oggi.
prendiamo dal mondo naturale, con malattie che passano dagli animali agli esseri umani. Dal momento in cui invadiamo sempre di più aree selvagge, entriamo in contatto con queste malattie. Ma questo dipende dalla nostra intrusione in luoghi che non dovremmo assolutamente, a nostra volta, contaminare. Il mio ex marito lo ha spiegato molto bene: i batteri e i virus sono bravissimi a mutare e attaccare fonti che permettano loro di prosperare, e questo vuol dire che più siamo, più diventiamo una sorta di grande massa umana pronta per essere consumata. È un pensiero orribile, lo so, ma funziona così. C.E.
Dicevo l’ultima domanda, ma mentre parlavi mi sono venuti in mente gli incendi, i fenomeni climatici estremi, per non parlare delle nuove malattie infettive, incluso il Covid-19, che dagli anni Settamta del secolo scorso stanno emergendo a un ritmo mai visto prima.
C’è un libro che si chiama The Hot Zone di Richard Preston sul tema delle malattie che
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Marianne Krogh Totally connected I temi ambientali e quello della connessione. Un dialogo con Marianne Krogh, curatrice del padiglione della Danimarca alla 17. Biennale Internazionale di Architettura di Venezia
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Anno 15 | Settembre 2021 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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17. biennale di architettura
come e dove vivremo insieme? padiglioni progetti installazioni
alberghi
ripensare gli spazi dell’ospitalità
vINceNzo lAtINA | mArIo cucINellA | tétrIS | AlfoNSo femIA | zhAcode | cItterIo vIel | rpbw gIorgIo pArISe | gAS | AStI ArchItettI | mArco pIvA | vudAfIerI-SAverINo | StudIo pè pArISotto+formeNtoN | jAcopo AccIAro | lANd | fettle | jeAN Nouvel | SoNIA cAlzoNI
vINceNzo lAtINA | mArIo cucINellA | tétrIS | AlfoNSo femIA | zhAcode | cItterIo vIel | rpbw gIorgIo pArISe | gAS | AStI ArchItettI | jeAN Nouvel | vudAfIerI-SAverINo | fettle pArISotto+formeNtoN | jAcopo AccIAro | lANd | StudIo pè | jdp | Som | SoNIA cAlzoNI
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IoArch numero 95 settembre 2021
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In risposta alla domanda How Will We Live Together? uno dei temi centrali e più ricorrenti nella 17. Biennale di Architettura, era quello ambientale. In questo contesto, il Padiglione della Danimarca di quest’anno è stato affidato allo studio Lundgaard&Tranberg, già autori di progetti straordinari come il Tietgen Dormitory e la Royal Danish Playhouse, ma l’aspetto ancora più interessante dell’opera è la rappresentazione, profondamente riferita a temi ambientali, di un principio di connessione, o connectedness, su un’idea della curatrice Marianne Krogh. Anche da questa Biennale sembra emergere un approccio più profondo verso i temi ambientali. Pensi stia cambiando qualcosa?
Penso che questo problema sia davvero centrale. Ed è stato anche il punto centrale del lavoro con il Padiglione della Danimarca. Siamo partiti dal presupposto che non volevamo proporre soluzioni che alla fine si rivelano essere poco più che rimedi temporanei. Il punto principale è il sistema concettuale di riferimento. Il tutto si è sviluppato intorno al tema della connessione (con-nec-ted-ness è il titolo dell’allestimento), su mio impulso, dopo che un paio d’anni fa mi trovai a partecipare a una marcia di protesta a favore di un’area verde molto vicina alla capitale, una delle ultime aree verdi non ancora urbanizzate, nei pressi dell’aeroporto. Un autore in particolare, Josefine Klougart, fece un discorso, secondo me molto interessante, affermando che per secoli ci siamo distaccati da ciò che ci circonda, dall’ambiente. La stessa parola ‘natura’ rivela una sorta di estraneità e naturalmente questo deriva dall’evoluzione del pensiero, della tecnologia, da molte cose, anche positive, ma che oggi determinano una posi-
zione che aspira a collocarci come dominatori sul resto delle specie animali e vegetali. Diceva che se avessimo percepito una connessione tra noi e ciò che circonda, a livelli multipli e profondi, non ci saremmo mai dovuti riunire in piazza per protestare, perché non sarebbe stato necessario. L’avremmo sentito come un torto verso noi stessi. E questo discorso, che mi ispirò totalmente, riguarda molto da vicino l’architettura. Mi rivolsi pertanto agli architetti Lundgaard&Tranberg per proporre loro una mostra su questo tema, e l’opportunità si presentò con il concorso per il Padiglione della Danimarca alla Biennale di Venezia. Come si è sviluppata l’esperienza del Padiglione?
In verità vedevo le foto del Padiglione prima dell’apertura, senza persone, e sembrava così vuoto, privo di vita. L’abbiamo pensato come qualcosa dove il pubblico fosse una parte vivente, propriamente connessa, dell’allestimento. Abbiamo fatto briefing con una moltitudine di esperti e di esponenti delle più svariate discipline, incluso un cuoco, ma l’idea arrivò solo alla fine. Non è un Padiglione sull’acqua, ma il ciclo dell’acqua è qualcosa di molto efficace per rappresentare il concetto di connessione e della consapevolezza che siamo collegati a una moltitudine di altri elementi all’interno di quel sottilissimo strato di terra, di acqua e di atmosfera che chiamiamo biosfera. Non siamo estranei, non siamo migliori, siamo semplicemente intrecciati a livello multiplo con una moltitudine di altre forme di vita. Facciamo completamente parte di questa rete, anche se insistiamo a chiamarla natura.
Provieni dall’arte, dove credo sia fondamentale l’aspetto della narrativa nel proporre nuovi concetti. Il secondo aspetto riguarda il livello di
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In queste e nelle pagine seguenti alcune immagini del Padiglione danese (ph. © Hampus Berndtson). In alto, concept del progetto di Lundgaard & Tranberg Arkitekter.
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› CONFINI FLUIDI
Marianne Krogh
connessione a livello emotivo al quale accennavi raccontandomi la marcia di protesta di Copenhagen. Come vedi il ruolo dell’arte e dell’architettura rispetto a questi termini?
Nasco come storica dell’arte, ma ho un dottorato in architettura. È un approccio interdisciplinare. E devo dire che ho sempre letto una moltitudine di testi relativi ai campi disciplinari più diversi rispetto ai quali l’architettura interviene come contenitore ma talvolta anche come prigione. Rispetto all’architettura, non faccio progetti, non sono un architetto professionista, ma credo che il suo ruolo sia principalmente quello di tradurre dei concetti, di rivelarli, non certo quello di illustrarli. Ho cercato di comporre, non un catalogo, bensì un racconto sul tema della connessione nel libro dal titolo ‘Connectedness’ che ho curato di recente, pubblicato in occasione della Biennale. Pensando infine al mondo dell’industria e del consumo, posso avere nuovi prodotti definiti come sostenibili, ma tutto questo non cambia di una virgola il comportamento delle persone e la loro attitudine nei confronti del mondo che li circonda, con il risultato che qualsiasi cambiamento diventa molto difficile. Quali sono secondo te, oltre naturalmente al Padiglione della Danimarca, le opere più significative in architettura rispetto al tema della connessione?
Sto lavorando ultimamente con alcuni giovani architetti danesi e credo sia una cosa molto stimolante. Sembra che il livello di ricettività dei giovani rispetto a questi temi sia notevolmente più ampio rispetto alle generazioni precedenti. Ma così, senza pensarci troppo, mi è piaciuto molto il Padiglione giapponese. Rappresentava un racconto esteso nel tempo e nella storia, e in qualche modo parlava di connessione. Come del resto il Padiglione degli Stati Uniti, con la sua narrativa che gravita intorno all’evoluzione della costruzione a telaio in legno. Parlavi di natura che viene percepita come qualcosa che sta fuori di noi. La stessa contrapposi-
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zione tra natura e artificio è alla base stessa della cultura occidentale. Come vedi oggi il rapporto tra questi due termini?
Se non ci concentriamo, slittiamo immediatamente in questo ragionamento binario, anche se questo è evidentemente una costruzione. Inger Christensen, straordinaria poetessa danese, aveva detto una cosa che trovo bellissima, che non siamo fuori dalla natura e che quando pensiamo ed esprimiamo concetti sulla natura, non siamo altro che la natura che sta ragionando su se stessa. Siamo un insieme di entità viventi che dipendono le une delle altre. Considera che nella realizzazione del Padiglione a un certo punto abbiamo trovato così tante difficoltà tecniche per far funzionare il sistema dell’acqua che qualcuno propose di allacciarci semplicemente all’acquedotto. Ma è chiaro che non era possibile fare una cosa del genere, non solo per i consumi idrici, ma anche perché la chiave dell’installazione era quella di rappresentare la connessione profonda e a livelli mul-
tipli con un sistema globale.
Abbiamo nominato la tecnologia, evidentemente conta, forse la chiave è semplicemente quella di non confondere gli strumenti con i principi?
Indubbiamente la tecnologia è fondamentale. Alla fine, se raschiamo la superficie di una casa moderna, bianca e minimalista, è piena di impianti. Nel Padiglione abbiamo voluto mettere deliberatamente in evidenza tutto il sistema idraulico, abbiamo ritenuto importante esporre, spiegare e conoscere. Naturalmente non si tratta di tornare al passato, ma semplicemente di non considerare la tecnologia come qualcosa che da sola risolva i problemi anziché crearli.
Pensando al passato ci sono moltissimi concetti, sia in filosofia che in molti altri campi, che richiamano a un principio di connessione universale: penso innanzitutto al concetto di pneuma dei filosofi stoici, una sorta di respiro totale, fino allo shintoismo, almeno in origine, o ad ogni cultura di impronta animista. Come vedi il passato rispetto al presente e come il futuro?
È una domanda difficile, ma posso rispondere affermando che ho una grande fiducia nell’immaginazione umana. Possiamo immaginare che la vita sia differente. È una capacità fantastica di immaginare e dobbiamo davvero comprendere il potenziale di tutto questo. Pensando al passato la nostra società è stata sempre così ossessionata dall’avere sempre di più, dal conquistare, dall’occupare, dal diventare sempre più grandi. Non se ne ha mai abbastanza, ma anche l’idea recente di realizzare delle colonie su Marte – peraltro in condizioni dove per sopravvivere è necessario chiudersi per sempre in tane sotterranee – rientra completamente in questo filone. In realtà c’è così tanto da scoprire e da fare nel mondo che ci circonda, e questa è una cosa che scopro costantemente, anche occupandomi del mio giardino. Viviamo in una moltitudine di livelli e di prospettive. E per questo sono davvero ottimista. C.E.
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› ARCHITETTURA AUMENTATA
ARCHITETTURA AUMENTATA Il progetto di architettura nella Seconda Età delle macchine
L’era che Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee definiscono come la Seconda Età delle Macchine coincide con sviluppi inediti per l’architettura. Si articola in tre parti: partendo dal contesto tecnologico odierno, il capitolo della Nuova Kunstbau esplora il sogno di una nuova arte del costruire, che decifra la natura, ne emula i processi, ne ricombina i codici generativi. La seconda parte, Architettura Digitale, si addentra nel tema di una nuova architettura ambientata nella dimensione comunemente chiamata metaverso. L’ultima parte, Spazi in Evoluzione, si sviluppa infine intorno al tema dell’evoluzione nel nostro modo di concepire e progettare spazi abitabili, riconducibile alle logiche di condivisione peer-to-peer di beni e servizi rese possibili da internet.
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Tippet Rise Art Center, Inverted Portal, 2015. Ensamble Studio (Antón García-Abril e Débora Mesa). Image courtesy of Tippet Rise/Iwan Baan. Photo by Iwan Baan.
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Nader Tehrani Attualità senza tempo Un dialogo con Nader Tehrani sull’evoluzione del costruire e su alcune invariabili costanti che caratterizzano la pratica dell’architettura
Nader Tehrani, co-fondatore nel 2011 di Nadaaa, è una delle figure più interessanti del panorama architettonico attuale. Il suo lavoro in campo accademico – peraltro contraddistinto da importanti ruoli di direzione e coordinamento – lo ha portato ad avere piena consapevolezza dell’evoluzione, dei temi e delle problematiche dell’insegnamento dell’architettura e ad essere autore, negli ultimi anni, di molti importanti strutture destinate alla didattica – dalla Melbourne School of Design all’Hinman Research Building di Atlanta alla nuova facoltà di Architettura Daniels di Toronto – concepiti secondo criteri innovativi, dando indirettamente quanto letteralmente forma a future generazioni di architetti. In questo dialogo Tehrani affronta il tema di come l’architettura, pur condizionata da tecnologie e processi in costante evoluzione, mantenga una propria resilienza metodologica e creativa, rintracciando, insieme a fonti di ispirazione estremamente attuali, anche le costanti e i principi immutabili che ne caratterizzano la pratica operativa e teorica. Qual è l’obiettivo del tuo lavoro?
Anno 11 - n 71 - Agosto 2017 - euro 6,00 ISSN 2531-9779
Industrializzazione edilizia e architettura
PROGETTI E PROCESSI Nader Tehrani | Gbpa | Gramazio&Kohler | Joan Artés
Learning from Milano Architetture per l’ospitalità
Elements Contract Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano - Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 DCB Milano
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Il lavoro di Nadaaa è ampio per scala e temi, ma focalizzato in termini di processi e sviluppo concettuale. La storia del nostro lavoro è stata sempre ben radicata nello studio dei materiali e di come la loro costituzione può diventare la base per un sistema di costruzione adattabile a configurazioni molteplici. Come tale – mentre molto del lavoro ben si colloca entro i canoni della composizione e della figurazione – l’obiettivo è sempre stato quello di ricercare tecnologie dei materiali le cui modalità di aggregazione siano indirizzate a questioni di dettaglio, non tanto quale risoluzione di questioni che ven-
gono alla fine del percorso progettuale quanto piuttosto per prefigurare, attraverso i dettagli, le fasi di progetto, la cui versatilità offra destrezza meccanica, spaziale e formale. Questo non significa che non siamo interessati agli aspetti figurativi, ma il nostro obiettivo è sempre stato quello di stabilire relazioni significative tra le parti e l’insieme attraverso processi di configurazione che, in modo ben disciplinato, diano struttura ad uno sviluppo formale più esteso. Molti dei nostri lavori si confrontano con la relazione tra struttura e involucro, cercando di risolvere la dicotomia tra i due termini, rendendoli una sola cosa e allineando le rispettive fasi progettuali e realizzative. Un’ulteriore area di interesse è lo studio approfondito di diverse modalità di costruzione, nell’intento di verificare quanto queste siano funzionali alla realizzazione di un progetto, mettendo da parte la paternità e le decisioni progettuali volte a definire uno ‘stile’ e incanalando l’invenzione progettuale attraverso i sistemi – dagli Smart Systems alle stesse metodologie di lavoro – che sottostanno alla costruzione degli edifici stessi. Parte di questa ricerca ha preso avvio nell’area della fabbricazione digitale fin dal 1996, quando per la prima volta abbiamo avuto l’opportunità di sviluppare la nostra installazione Fabrications per il Moma.
Come si caratterizza oggi il lavoro di un architetto?
Data la complessità crescente dei nostri incarichi ci siamo resi conto che uno degli punti critici del nostro lavoro è caratterizzato dal coordinamento della pletora di aspetti tecnici che caratterizzano un progetto e che raramente sono riferiti all’architettura: i sistemi meccanici, i sistemi antincendio, gli impianti idraulici, elettrici e una moltitudine di altre cose che in
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genere trovano il loro ambito di applicazione nei soffitti. Per questo motivo un’area, importante, alla quale dedichiamo particolare attenzione è diventata la non facile sintesi tra sistemi tendenzialmente inconciliabili. Dedichiamo molta attenzione alla deduzione di relazioni inaspettate tra sistemi strutturali, meccanici e di illuminazione, sia naturale che artificiale, quali veicoli per associazioni inedite. L’aspetto distintivo dei nostri progetti per la Melbourne School of Design, per Daniels e per Banq emerge
proprio da questo fondamentale approccio.
Vorrei conoscere il tuo punto di vista circa le ricadute sull’architettura dei sistemi di fabbricazione digitali
Senza dubbio hanno avuto un impatto formidabile sul modo in cui elaboriamo i progetti e li costruiamo. Oggi, dopo vent’anni di esperienza, la fabbricazione digitale è diventata ormai parte del tessuto delle nostre convenzioni. La possibilità di realizzare forme non standardizzate è ormai acquisita, come del resto si è
La grande sala dei laboratori della Melbourne School of Design realizzata su progetto degli studi di John Warde e Stephen Mee (Jwa) e di Nader Tehrani (Nadaaa); (ph. ©Peter Bennetts).
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Nader Tehrani arrestata la tendenza ad amplificare le capacità realizzative di questi sistemi fino a farli diventare un motivo di regressione. Nel nostro lavoro abbiamo adottato il mondo digitale in modo giudizioso: utilizzandolo efficacemente nei casi in cui è necessaria la customizzazione di massa e dove diventa più interessante confrontarsi in modo strategico con il contesto commerciale, economico e industriale locale. Naturalmente, uno degli aspetti più radicali della fabbricazione digitale è l’eliminazione delle tolleranze, o almeno la loro drastica riduzione. Questo significa un diverso approccio verso le misurazioni e le relazioni tra le diverse parti della costruzione. La consegna di un progetto è resa molto più semplice attraverso la costruzione off-site e la prefabbricazione a incastro secondo protocolli digitali: tutti elementi che rendono possibile la costruzione di manufatti complessi con molto più controllo. In parte, l’apporto principale del settore digitale è che ha reso raggiungibili cose prima impensabili. Tuttavia, proprio perché ha reso tutto questo possibile, ci ha suggerito di pensare in modo più profondo a ciò che merita riflessione critica, a ciò che merita complessità, a come possiamo portare la disciplina dell’architettura verso questioni che siano allo stesso tempo attuali e senza tempo. Quali trasformazioni dell’industria delle costruzioni pensi siano più promettenti in termini di evoluzione per l’architettura?
Penso che dobbiamo confrontarci in modo critico con i nostri strumenti in modo da padroneggiarli dal punto di vista tecnico, ma dobbiamo anche comprendere meglio a cosa ci servono. Penso sia importante sviluppare un naturale senso di sospetto verso le tecnologie, o addirittura renderle di utilizzo ovvio – non semplicemente di utilizzarle, ma di maltrattarle, interferirle e modificarle per adeguarle ai nostri scopi. Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
L’architettura emerge da molti luoghi della mente e certamente da molte sorgenti intermedie tra natura e cultura. È un fair play, e della gerarchia tra le varie fonti credo mi importi poco. In realtà la vera questione non è tanto il come ma il cosa. Mentre l’enfasi viene spesso posta negli aspetti curatoriali creando liste, sfere di gusto estetico e clichè, penso che le fasi più
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interessanti siano quelle nelle quali è possibile identificare i lineamaenti dove le trasformazioni hanno luogo – e qui sto utilizzando il termine ‘trasformazione’ secondo la sua capacità inventiva di prendere convenzioni, manufatti generici e cose del mondo, e poi talvolta, tramite capovolgimenti molto sottili, rivederli sotto forme completamente nuove. Certi schemi che si manifestano nel nostro lavoro possono peraltro essere collegati a fonti di ispirazione che non mi è possibile sopprimere. Hanno a che fare con il desiderio di ‘configurare’ e il bisogno di trovare i percorsi per realizzarlo. Ovviamente non tutte le figure sono sempre e necessariamente ben allineate con le modalità secondo le quali l’architettura funziona, viene costruita o con le sue prestazioni. Per questo motivo la nostra ulteriore forma di ispirazione emerge dal modo in cui si pensa, che è spesso allineato con una mentalità investigativa. Pertanto, gli ‘alibi’ per un progetto possono lasciare il passo a linee di ragionamento che sono persuasive, sia ingannevolmente che in modo del tutto innocente. Queste fonti di ispirazione formano una narrativa storica della quale noi stessi diventiamo parte. In questo senso, la narrativa diventa più importante delle realizzazioni stesse; o in alternativa, le realizzazioni sono incorporate in queste narrative ed è necessario scavare per portarle alla luce. Basti considerare i geniali Serpentine Walls dell’Università della Virginia, e come questi, allo scopo di minimizzare l’utilizzo del materiale, presentino un profilo sinuoso e inconsueto. L’accoppiata tra l’impulso figurativo e l’economia di utilizzo del materiale è una sorta di bonus. Naturalmente, dopo un’ulteriore approfondimento, abbiamo compreso la connessione storica tra il progetto dell’Università della Virginia e i muri crinkle crankle della vecchia Inghilterra o lo Slangenmuur olandese, e guardando in avanti, il suo legame con la chiesa di Atlántida di Eladio Dieste. Possiamo anche osservare il curioso sviluppo della tecnologia del mattone nelle mani di Sigurd Lewerentz, operato secondo principi differenti ma con pari insistenza. In Lewerentz osserviamo lo spessore notevole della malta, molto eccendente quella convenzionale. In realtà la malta è distribuita in modo tanto generoso da sfidare la proporzione figura-sfondo fino al punto che la si può definire una parete di malta con qualche mattone che la tiene insieme. Quest’ultima osservazione ci ha portato a sposare lo Slangenmuur con Lewerentz per la Casa La Roca: la casa dove abbiamo utilizzato intervalli disomogenei tra i mattoni (lo spazio normalmente occupato della malta) per permettere il passaggio di luce e aria attraverso un muro strutturale: in sostanza il nostro contributo al racconto è stato quello di integrare struttura, illuminazione e controllo del clima in una struttura continua. Chi sono i tuoi maestri?
Mi tengo a distanza dall’idea di un maestro, non certo al punto di affermare che non sia possibile imparare da grandi pensatori bensì per la volontà di produrre un dialogo, piuttosto che estendere un precetto, un mestiere o una metodologia. In questo senso, immaginare l’architettura come parte di un dialogo critico ha la funzione di portare avanti l’idea di una conversazione con la storia e con il dibattito che genera. Allo stesso tempo resto sempre incantato dalla scoperta delle voci che non si sono allineate direttamente in un canone, come da coloro il cui discorso non è stato mai considerato facilmente digeribile. I meno noti, i più importanti! Sono stato molto influenzato da coloro i cui nomi non sono sempre apparsi nei titoli principali. La fama di alcuni maestri è stata spesso amplificata da relazioni con i media di cui nomi meno noti non hanno mai goduto. Gli ‘altri’ nomi sono ovviamente quelli di altre parti del mondo ma che hanno avuto su di me un’influenza specifica e molteplice: Togo Murano in Giappone; Lina Bo-Bardi in Brasile; Jože Plečnik in Slovenia; Miguel Fisac in Spagna; Luigi Caccia Dominioni in Italia; Julio Vilamajó in Uruguay; Victor Lundy negli Stati Uniti; Robin Boyd in Australia; Clorindo Testa in Argentina. E naturalmente la lista va avanti, continuiamo a imparare tutti i giorni. Curiosamente infine, il modo in cui abbiamo imparato architettura – e la sua storia – qualche anno fa, era attraverso il grande racconto dei protagonisti. Con l’Internet non solo si ha accesso all’informazione in modo più orizzontale, ma anche l’impeto della narrativa sui maestri si è in qualche misura disteso. I nuovi studi si sviluppano su una serie di figure il cui lavoro è stato cruciale per molte regioni o nazioni, e tuttavia sempre ai margini della ribalta internazionale. Il tuo messaggio per il futuro? E per gli architetti?
Mantenere le cose semplici e conservare un livello di curiosità sufficiente per disimparare ciò che ormai padroneggiamo. Restare sempre studenti, essere capaci di scoprire qualcosa, di nuovo, sempre. Osservare attentamente il nostro modo di lavorare, anche solo per capire come questo può essere importante non solo nei confronti della disciplina stessa, ma anche per comprenderne il ruolo, ed eventualmente l’importanza, rispetto a un ben più ampio contesto sociale, economico e politico, che si estenda verso il mondo andando oltre la stessa architettura. C.E.
A fianco, particolare del sistema delle scale e uno dei laboratori informali realizzati a livello +2 sopra lo spazio espositivo, sui grandi “nasi” che collegano l’edificio al pezzo di facciata neoclassica esterna (ph. ©John Horner).
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Arthur Mamou-Mani La nuova frontiera Le opere di Arthur Mamou-Mani, pur caratterizzate da un contenuto di innovazione formidabile, rivelano una componente fondamentale di ricerca nella cultura del progetto e della sua evoluzione in maniera compatibile con le risorse ambientali ioArch
Anno 14 | Settembre 2020 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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Durante il Salone del Mobile del 2019 Arthur Mamou-Mani era presente a Milano, a Palazzo Isimbardi, con un’opera, Conifera, formata da 700 moduli in legno e bioplastica stampati in 3D. Un’opera forse non tanto imponente e celebrata quanto Galaxia, realizzata nel 2018 per il Burning Man Festival, ma che rivela molto della logica e dei principi del suo lavoro. Quale fondatore di uno studio che si compone di architetti, tecnologi ed esperti di fabbricazione digitale, Arthur è senza dubbio uno dei protagonisti e dei pionieri di ciò che ormai viene defi nito come Parametric Design, ovvero dell’utilizzo di algoritmi per sviluppare concetti architettonici sulla base di regole e parametri, in modo simile a forme e processi osservabili in natura. Il suo lavoro si svolge combinando costantemente computing, scienza dei materiali e tecnologie robotiche. I suoi progetti non si limitano tuttavia a semplici strutture biomorfiche, basate sulla riproposizione di forme naturali alle quali vengono attribuiti contenuti simbolici, un tema comune all’architettura classica come a molte altre correnti più recenti, ma seguono un’indagine molto profonda dei presupposti generativi della forma stessa e del profi lo di impatto e di compatibilità ambientale dei materiali. La figura di un architetto così concentrato sull’utilizzo e l’applicazione pratica della tecnologia non deve tuttavia trarre in inganno. L’obiettivo fondamentale di Mamou-Mani è quello di creare un’architettura significativa, capace di confermare, a livello emotivo, il senso di appartenenza al sistema ambientale esteso, in modo molto più vicino a ciò che il biologo Edward O. Wilson aveva defi nito con il termine di Biophilia che non a
una pura speculazione tecnologica applicata all’architettura. Arthur, con studio nel quartiere di Hackney, Londra, si trovava per lavoro nella sua città di origine, Parigi, quando l’abbiamo raggiunto per questa intervista: un breve ma intenso dialogo, denso di considerazioni su ciò che per l’architettura rappresenta ormai, propriamente, una nuova frontiera. Qual è il punto centrale del tuo lavoro?
Direi che lo scopo generale è quello di aiutare il pianeta, di farlo diventare migliore, di utilizzare la tecnologia nel miglior modo possibile per raggiungere questo scopo. Cosa ti ha portato all’architettura?
È stata una vocazione. Fin da quando era molto piccolo c’era una cosa che mi veniva piuttosto bene, era disegnare, come tutti, ma disegnavo edifici. Ho perfi no vinto concorsi … quand’ero all’asilo.
Cosa sono le tue principali forme di ispirazione?
Sicuramente la natura. È la fonte di ispirazione principale. Sia il mondo animale che quello vegetale. È incredibile che le forme che vediamo siano il frutto di milioni di anni di evoluzione.
A cosa presti più attenzione nella natura, alla forma o ai processi?
La cosa che mi interessa di più è capire in profondità i processi che portano a determinate forme, più che alle forme in sé. Anche se l’obiettivo non è solamente quello di emulare ciò che fa la natura ma anche di cercare una connessione. Da questo punto di vista seguo un percorso che è contemporaneamente ‘biomimetic’ [l’emulazione di modelli, sistemi ed elementi osservabili in natura con lo scopo di risolvere problemi complessi, NdR] e ‘biophi-
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Temple Galaxia. L’installazione di Arthur MamouMani per l’edizione 2018 del Burning Man Festival di Black Rock City è composta da 20 capriate in legno che convergono a spirale verso un punto nel cielo, un luogo centrale dove è posato un mandala gigante prodotto in stampa 3D (foto ©Jamen Percy, courtesy Arthur Mamou-Mani).
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Arthur Mamou-Mani
lic [da biophilia che, secondo il biologo E. O. Wilson, è l’innata e geneticamente determinata affinità degli esseri umani con il mondo naturale, NdR]. Sempre cercando di capire come si sviluppano le forme presenti in natura.
Negli ultimi tempi stiamo vedendo una combinazione tra una capacità di calcolo sempre maggiore, la capacità di replicare principi di generazione di forma presenti in natura e la possibilità, non semplicemente di trasformare, ma di modificare i principi costitutivi stessi di forme biologiche o naturali, come ad esempio, nel lavoro, al limite tra arte e design, di Neri Oxman. Fino a che punto ti riconosci in quest’area di progetto?
Studiavo all’Architectural Association di Londra nello stesso anno in cui Neri Oxman, molto attiva in quest’ambito di ricerca, e di qualche anno più senior rispetto a me, stava presentando la sua tesi di laurea. E lei, come
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Sotto, Catharsis, pensata per il Burning Man Festival 2020, il render immagina questo sistema di piazze collocato nel cortile di Somerset House (immagini courtesy Mamou-Mani).
molti colleghi, sta lavorando a questa sorta di congiunzione tra ambiti disciplinari differenti. Dal mio punto di vista la cosa che trovo più interessante è pensare a un progetto che anziché seguire il convenzionale e tradizionale principio ‘top-down’, possa svilupparsi secondo una logica ‘bottom-up’ trovando principi costitutivi di base. Nel senso che un’opera di architettura potrebbe letteralmente crescere a livello molecolare seguendo una sorta di protocollo di messaggistica cellulare, comune a qualsiasi forma di vita. E questo ovviamente significa partire da zero, considerando molti fattori e impedimenti di ordine pratico, incluse le implicazioni economiche. Tuttora sussiste un vero e proprio abisso tra la capacità di sviluppare al computer, in pochissimo tempo, disegni e strutture parametriche di grande complessità, e la possibilità di realizzar-
le. Come e quando pensi sarà possibile superare questo divario?
Credo che nei regolamenti persista un fattore di impedimento molto forte. A livello di strutture e statica il discorso diventa ancora più complicato. Questo, anche se abbiamo a disposizione materiali sempre più evoluti che potrebbero trovare applicazioni concrete. Senza dimenticare l’obiettivo prioritario di riduzione delle emissioni e dell’impatto ambientale. L’ultima domanda: immagina di mandare un messaggio dal futuro.
Questa non è facile! Ma la prima cosa che direi è di non arrendersi. Di tenere in considerazione il mondo in cui vivete, il vostro pianeta, perché il vostro impatto è tremendo, anche se forse non è facile rendersene conto. C.E.
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In alto: dalla sabbia alla sabbia, dalla culla alla culla: composta da 58 elementi prodotti in stampa 3D, Sandwaves si sviuppa come un nastro continuo, con elementi dove le persone possono incontrarsi e sedersi (ph. courtesy Mamou-Mani). A destra, Conifera, installazione realizzata da Mamou-Mani a Palazzo Isimbardi per Cos durante la design week milanese del 2019.
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Maxim Zhestkov Particelle elementari Sviluppa progetti di comunicazione in equilibrio tra reale e virtuale per i più importanti gruppi del mondo: il media artist russo Maxim Zhestkov ci parla del suo lavoro in equilibrio tra natura, materia e fisica
Come un tormentone dell’estate, le opere di Maxim Zhestkov entrano dentro. Non solo i video, ma anche la musica che li accompagna e che compone lui stesso: un originale incrocio tra Massive Attack, Radiohead, Olivier Messiaen e qualche altra indecifrabile influenza. Non solo media artist ma autore poliedrico, molto riferito all’architettura e alla scienza. I suoi video si svolgono sempre in interni, in ambientazioni quasi museali. Il suo lavoro è stato in mostra in tutto il mondo, dall’Hermitage al Shanghai Modern Art Museum al Massachusetts Institute of Technology. Non male per un ragazzo cresciuto in una piccola città sul Volga. Qual è lo scopo fondamentale del tuo lavoro?
Credo che il mio interesse principale sia comprendere come funziona la natura, come si comportano la materia e la fisica. Come hai iniziato?
ioArch
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Architettura e design per il commercio
il progetto
deL ReTAIL nuovI conTesTI TRA vIRTuALe e ReALe
obr | mAxIm zheStkov | GIovANNI fIAmINGo | pArk ASSocIAtI | 967 AA fAbbrIcANove | uNStuDIo | DuccIo GrASSI | pAtrIcIA urquIolA | Sce project mArco coStANzI | DeSIGN INterNAtIoNAl | l22 retAIl | vuDAfIerI-SAverINo
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Fin da bambino ero molto affascinato dal concetto e dagli studi sulle particelle. Ho studiato architettura ma ben presto mi sono reso conto che era una disciplina troppo tecnica per me e, per molti versi, limitante. Ho pertanto concluso i miei studi come progettista grafico. Quando ho iniziato, nel 2002, lavoravo con piccole unità elementari, nei limiti delle tecnologie di allora, e su qualche progetto commerciale. A un certo punto ho iniziato a lavorare su un soft ware, chiamato Houdini, sviluppato per gli effetti speciali in stile Hollywood. Non è uno strumento per grafici, né tantomeno per artisti, ma per programmatori, estremamente complesso, ma che mi ha consentito di realizzare simulazioni virtuali non con centinaia, ma con miliardi di piccoli elementi.
Ho iniziato a sviluppare progetti e installazioni su incarico di grandi marche che, ad un certo punto, hanno cominciato a chiedermi di tradurre gli stessi concetti in installazioni fisiche. Strano a dirsi ma, nello sconcerto generale, la mia risposta è sempre stata no. Una traduzione di un’opera pensata come videoinstallazione in qualcosa di materiale mi era semplicemente impossibile pensarla, non solo tecnicamente, ma anche concettualmente. Anche se più di recente ho incominciato a ricredermi. Come organizzi i tuoi progetti?
Preferisco non dedicarmi troppo a lungo a un singolo progetto. Cerco di contenerne la durata in non più di tre mesi. Questo mi permette di spaziare in una notevole quantità di territori. Ho aperto uno studio di nome Media. Works dove lavoro con un gruppo di artisti multimediali, architetti, programmatori. Poco tempo fa ho lanciato Zhestkov Studio col quale ho deciso di realizzare installazioni concrete lavorando con particelle vere. Ovviamente, dobbiamo sviluppare tecniche completamente nuove. È una vera sfida.
Parlavi prima della tua esplorazione nelle leggi della fisica e della materia, ma come è possibile farlo con strumenti virtuali, per definizione del tutto astratti dalla materia?
In realtà si tratta di ricostruire un modello affidabile, un’emulazione delle forze realmente esistenti. Posso attribuire alle sfere un peso, 25 grammi ad esempio, ma posso anche aggiungere una forza vettoriale che corrisponde a una forza di gravità addizionale, o aggiungere la forza del vento. Sono un vero fanatico di Leonardo Da Vinci, di come abbia cercato di comprendere il funzionamento dei flussi, le loro dinamiche.
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Sopra, Optics.
Probabilmente i miei progetti sono fatti collaborando con la natura, allo scopo di comprendere il comportamento di unità elementari come le particelle, appunto. Qual è il tuo rapporto con il contesto attuale?
Dato che le leggi della natura sono senza tempo, voglio sfidare il riferimento a un periodo temporale specifico. Credo anzi che un’opera d’arte si debba sviluppare secondo un principio di autonomia. Come del resto Leonardo Da Vinci, più concentrato sulla comprensione dei processi che osservava che non sulle idee del tempo. Anche se negli ultimi anni ho iniziato a riflettere su come potrebbe essere il concetto di un computer nel futuro. Di certo qualcosa di molto differente dalle scatole nere di oggi e profondamente integrato con la realtà che ci circonda. Con questo non intendo la smart home, che è un semplice dispositivo che ti circonda, ma un apparato complesso, uno sciame di elementi, ispirato alle nanoparticelle, un sistema capace di adattare la sua forma. Quanto tempo ci vorrà per colmare il divario attuale tra un’incredibile capacità di generare strutture al computer e costruirle veramente?
Come convertire un mondo totalmente elet-
tronico in uno reale è per me davvero un grande problema. La stampa 3D è sicuramente una buona idea ma, indipendentemente dalle dimensioni, con una stampante di questo genere è possibile realizzare l’equivalente di un singolo frame di un video. Prendendo coscienza di questi limiti ho trovato alcune soluzioni. Il vento, l’acqua e la temperatura ad esempio sono forze dinamiche che danno forma alle cose e corrispondono a principi rintracciabili nel mondo biologico. La questione fondamentale è trovare il modo che un edificio incorpori processi e dinamiche tali che lo rendano capace di adattarsi, di svilupparsi in quanto entità dinamica, al punto da ipotizzare una sua autoricostruzione, per esempio dopo un terremoto. Quali sono le tue fonti principali di ispirazione?
Cerco di non guardare né all’arte né all’architettura. Probabilmente il Modernismo del Bauhaus sta alla base del mio lavoro, ma è più che altro un punto di partenza per divagare nell’ambito di influenze senza tempo e che riguardano la scienza molto da vicino: le forme di vita, i frattali, le nuvole. E sicuramente la musica. Della quale c’è sempre una trasfigurazione mentale e la corrispondenza
ad immagini. Cerco di fare io stesso musica e questa, sicuramente, è una fonte importante di ispirazione. Vuoi dire che tu stesso sei il compositore della musica delle tue installazioni?
Si
È una musica particolare, originale, molto affascinante e molto adatta alle immagini. Davvero complimenti. E per concludere: qual è il tuo messaggio dal futuro?
Cerca di pensare come sarà il mondo tra uno, cinque, cinquanta, cento anni e infine pensa su un orizzonte di cinquemila anni. È un esercizio che espande la mente e che ridimensiona totalmente il ruolo e l’importanza della tecnologia attuale. Invece di pensare alla nuova tecnologia trendy, a oggetti e apparecchi che peraltro cambiano in continuazione, tra cinquemila anni avremo modi di comunicare, di pensare, completamente differenti, forse anche un genere umano trasformato. Basti pensare a quanto sono cambiate radicalmente le cose solo negli ultimi cento anni, molte era impossibile perfino immaginarle. Fate questo esercizio per 5 minuti, ogni mattina! C.E.
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Refik Anadol
Paesaggi digitali In campo artistico le opere di Refik Anadol non finiscono di stupire, di incuriosire e di aprire interrogativi inediti sul rapporto tra la dimensione digitale in cui siamo ormai completamente immersi e gli spazi fisici nei quali abitiamo
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Come si sta trasformando la nostra esperienza degli spazi? Come funziona il nostro modo di percepirli? Quali sono i riferimenti architettonici nell’ambito di una realtà sempre più mediata dalla dimensione digitale? Credo siano queste alcune delle domande che, molto direttamente, stanno alla base del lavoro di Refi k Anadol, artista nato a Istanbul poco più di trent’anni fa e oggi – dopo aver conseguito un Master in Belle Arti presso l’Università della California – residente a Los Angeles. Realizzando opere mai viste, di grande impatto visuale, Anadol utilizza i soft ware come un pennello e l’architettura come una tela collaborando, letteralmente, con sistemi di generazione di forme e immagini basati sull’intelligenza artificiale. Il risultato sono interi paesaggi, come nell’opera Machine Hallucination, sviluppati per sintesi e in modo autonomo dai computer: una vera e propria allucinazione, capace di aprire interrogativi inediti sul modo di intendere e percepire, attraverso la nostra mente, ciò che chiamiamo realtà. L’opera di Anadol è sempre site-specific, è strettamente riferita all’architettura, ne altera parzialmente le caratteristiche, lavora con gli spazi. Alcune tra le sue installazioni più significative si trovano in luoghi di transito, come gli aeroporti, altre coinvolgono architetture celeberrime. Tanto celebri che, nell’autunno del 2018, aveva trasformato la Walt Disney Concert Hall di Frank Gehry in una sorta di tela sulla quale era rappresentato, in forma rielaborata e sintetizzata, l’intero archivio digitale della Filarmonica di Los Angeles. In breve, Refi k Anadol è un artista che lavora nel campo dell’esplorazione degli orizzonti della coscienza individuale e collettiva, con forti collegamenti con l’architettura, e la cui
ph. © Serge Hoeltschi
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A sinistra, WDHC Dreams, Los Angeles: videoproiezione o meglio data sculpture, sui volumi della Walt Disney Concert Hall di Frank Gehry, dell’archivio digitale di 45 Tb della Los Angeles Philarmonic Orchestra reinterpretato attraverso reti neurali (in collaborazione con Google Arts and Culture e Parag K. Mital).
Melting Memories, 2018, Pilevneli Gallery, Istanbul. Reti neurali interpretano impulsi della memoria traducendoli, con un algoritmo frattale e una tecnologia FFT per il movimento, in video che si concretizzano in 4K su un display Oled da 65”.
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Refik Anadol
carriera negli ultimi anni, è letteralmente skyrocketed, partita a razzo. Una nuova stella? Si, decisamente, ed è stato importante avere l’opportunità di raccogliere il suo pensiero in questa intervista. Qual è lo scopo principale del tuo lavoro?
Sono un media artist, ho lavorato sul tema della rappresentazione di realtà digitali negli ultimi otto, nove anni e su quello dell’intelligenza artificiale negli ultimi tre anni. Creo esperienze visuali che avvengono principalmente all’interno di architetture e con installazioni dove l’intelligenza artificiale ha un ruolo primario. Una mia opera può basarsi su sensori, su archivi digitali, ma ha come obiettivo l’esperienza sensoriale tra persone, macchine e spazi: una sorta di triangolazione tra questi tre elementi. Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
Sono molto ispirato dal futuro. Non mi posso considerare un “futurologo” ma è un dato di fatto che sono più affascinato dal futuro che dal passato. È interessante capire da che parte sta andando l’umanità e questo attraverso la profonda comprensione del ruolo della
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Sotto, Infinity Room, 2015, Istanbul, installazione audio/ video in un ambiente di 4x4x4 metri.
tecnologia e di nuove modalità di percezione introdotte dalle macchine, nello specifico dai computer. L’intelligenza artificiale è uno strumento per capire come funziona la mente umana?
In realtà non sono tanto affascinato dall’intelligenza artificiale quanto dalla nostra mente, come questa possa acquisire nuovi livelli di conoscenza e di coscienza e come questa si evolve. C’è molta preoccupazione circa macchine sempre più potenti e capaci, ma credo che il modo in cui le macchine imparano ci fornisca stimoli innumerevoli e di incredibile interesse. Abbiamo oggi a disposizione qualcosa mai avuto prima. Esplorare le potenzialità odierne è di sicuro ben più interessante che vederne le limitazioni e farsi prendere dal pessimismo di scenari apocalittici. Come pensi si possa evolvere l’intelligenza artificiale?
Le macchine hanno una capacità eccezionale nello svolgere mansioni specifiche. Noi esseri umani abbiamo un cervello e possiamo sviluppare operazioni e ragionamenti complessi con solo 10 Watt di energia. Ed è così che oggi molti parlano di come il nostro cervello
si possa fondere con le macchine. Ma prima di fondersi, è necessario comprendere non solo il rapporto tra noi e le macchine, ma soprattutto cosa significa essere una macchina e cosa un essere umano. È una questione fondamentale e credo fin troppo ignorata. Probabilmente sono ragionamenti che hanno avuto origine con Marvin Minsky, e con i suoi studi su macchine intelligenti
Minsky sicuramente è uno dei miei eroi. È stato il primo ad aver pensato a questi temi.
Perché ti sei rivolto all’arte invece che ad aree che, almeno nel settore dell’intelligenza artificiale, sembrano avere un riscontro applicativo diretto, come la pura tecnologia?
Perché è molto più interessante e ha una com-
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ponente di narrazione straordinaria. Non ero per niente ispirato dalla tecnologia, né da una carriera come computer scientist o come ingegnere, ero più affascinato da cosa le macchine possono dire o fare. Il mio lavoro è cercare domande più che risposte, ed è una cosa che trovo incredibilmente stimolante. Qual è il tuo fine, la bellezza, la narrativa, le emozioni o che altro?
Principalmente la narrativa. Anche se le emozioni sono molto importanti. Senza dimenticare che per me l’architettura è sempre una specie di tela d’artista. È un contenitore fondamentale. Negli ultimi anni ho incominciato a ragionare sul ruolo dell’architettura come base cognitiva per l’immaginazione, per la
Ho cinque eroi: Frank Gehry, Zaha Hadid, Tadao Ando, Toyo Ito e Daniel Libeskind.
Sopra, Machine Hallucination, 2019-2020, Artechouse, New York. Video immersivo in risoluzione 16K prodotto tramite algoritmi che interpretando in modalità ‘machine learning’ più di 100 milioni di memorie fotografiche di New York presentano 1.025 future dimensioni possibili della città.
Di certo Ando è differente, ma adoro la sua purezza, il suo modo di pensare e vedere la luce in modo unico, al punto che la sua architettura diventa quasi immateriale. Penso sia un’incredibile fonte di ispirazione.
Con il quantum computing e, ovviamente, con l’intelligenza artificiale ne sapremo molto di più in termini di neuroscienze. È uno scenario forse remoto, ma credo potrebbe aprirci qualche orizzonte su ciò che chiamiamo “mente” e “anima”: temi di cui oggi ne sappiamo ben poco.
memoria e per il sogno. È un contesto in cui prendono forma varie condizioni di stato, ed un punto di partenza per un’esplorazione. Chi sono gli architetti che preferisci?
Un gruppo di maestri indiscussi, dove però Ando sembra essere una voce un po’ fuori dal coro, molto più ispirato alla grande architettura del secolo scorso.
Come vedi gli scenari futuri?
C.E.
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Patrik Schumacher Riflessioni sul tema dell’architettura virtuale Sottolineando l’importanza dell’Architettura Virtuale intesa come un ambiente architettonico interattivo, presente in ambito digitale, Schumacher rivela la capacità di cogliere in anticipo trasformazioni la cui portata è già presente
ioArch
Anno 15 | Maggio 2021 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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architettura virtuale universi digitali
the new normal
abitare in città come cambiano gli stili di vita
pAtrIk SchuMAcher | erIc de broche | MIr | blooMIMAgeS | guIdo cANAlI cItterIo vIel | pAolo cAputo | MArco bozzolA | SoNIA cAlzoNI | eNrIco gIAcopellI lucA poNSI | roccAtelIer | eNrIco frIgerIo | jAcopo AccIAro | beNedetto cAMerANA
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IoArch numero 93 Maggio 2021
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«Progetterei il mondo dopo il Covid-19 come uno spazio virtuale di navigazione e comunicazione quadridimensionale. Tutte le principali azioni e innovazioni architettoniche nei prossimi anni si svilupperanno qui». È questa la risposta di Patrik Schumacher a una domanda che gli posi l’anno scorso e che venne pubblicata su un numero speciale di IoArch. Da sempre a fianco di Zaha Hadid, Patrik ha saputo conservare, se non addirittura moltiplicare, l’attività e il prestigio di uno degli studi di architettura più celebri. Mettendo in evidenza l’importanza dell’Architettura Virtuale (o Virtual Architecture, VA) – intesa come un ambiente architettonico interattivo, presente in ambito digitale – Schumacher rivela la capacità di cogliere, con giusto anticipo, trasformazioni fondamentali la cui portata è già molto più presente di quanto si possa immaginare. Covid-19 ha innescato uno spostamento massiccio verso il mondo digitale e, come hai sottolineato in più occasioni, questo ha reso l’architettura virtuale un soggetto particolarmente interessante. Quali le tue riflessioni su questo tema?
Il fatto è che abbiamo già a disposizione spazi di comunicazione virtuale con capacità 3D evolute, e sul mercato sono già presenti diverse aziende. Una compagnia dell’Europa dell’Est che si chiama Confer-O-Matic (www. conferomatic.com), ad esempio, ospita eventi e conferenze alle quali è possibile partecipare sotto forma di avatar, interagendo con gli altri partecipanti. Il vantaggio è che un evento online in versione di cyberspazio virtuale, a differenza di un evento su Zoom, dà l’opportunità di collegamento e di interazioni informali che rendono l’esperienza più complessa, produttiva e fedele a una conferenza nel mondo reale.
È possibile entrare e uscire da un luogo di incontro in modo simile a un videogioco. L’idea iniziale di questo tipo di interfacce era solo di intrattenimento, ma oggi danno la possibilità di organizzare eventi aziendali. Ho l’ambizione di integrare questi spazi, puramente virtuali, con spazi urbani reali e credo che questo rappresenti una nuova importante area di mercato per gli architetti.
Qual è invece la tua esperienza personale nel campo dell’architettura virtuale?
Di recente abbiamo creato un digital twin del nostro ufficio di Pechino, all’interno del quale è possibile incontrarsi e partecipare virtualmente. Abbiamo sviluppato questo sistema di comunicazione virtuale con un tipo di interazione simile alle piattaforme di gioco online. Questo sarà un banco di prova per quello che stiamo cominciando a off rire ai clienti. Molti potranno beneficiare di un’anticipazione virtuale dei loro edifici in via di progettazione e la maggior parte di loro potrà godere di una forma di presenza virtuale congeniale alla loro presenza fisica e architettonica. Hai avuto l’opportunità di prendere parte ad altri progetti?
Un’esperienza affascinante alla quale sono collegato è un progetto chiamato Liberland (https://liberland.org/en/). L’idea è quella di istituire una nazione indipendente, molto piccola, forse solo tre o quattro volte più grande di Monaco, in un luogo magnifico nella terra di nessuno tra Serbia e Croazia. Stanno sviluppando un sistema blockchain basato su un sistema di governo, un sistema monetario autonomo, e una Liberland virtuale, raccogliendo l’interesse di molte aziende operative nell’area blockchain. Quando presentate i progetti in Realtà Virtuale
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Sopra, ZHA, masterplan di Tencent Innovation City a Pechino. In basso, ZHA, Murray Road 2 Tower, Hong Kong, render by Arqui9.
utilizzate interfacce particolari come visori 3D o altri dispositivi o forme più convenzionali?
Sì, a volte utilizziamo visori, ma più di frequente abbiamo modelli caricati su iPad, su smartphone, o modelli 3D che possono essere inviati o caricati da chiunque. Ci si può muovere al loro interno. Sviluppiamo il progetto di ogni ambiente a un livello di dettaglio molto approfondito allo scopo di ottenere un’esperienza dello spazio completa e a 360°. Circa i visori, in verità non penso che potranno avere una grande diffusione in futuro. Esiste un tale livello di interazione tra spazi fisici e virtuali e una tale necessità di alternanza tra una modalità e l’altra, che non penso sia possibile restare isolati da ciò che ci circonda. Lo spazio virtuale dovrebbe sovrapporsi e interagire con lo spazio fisico attraverso grandi schermi e
schermi touch, ad esempio.
Bisogna anche considerare che, mentre le interfacce nel campo dei videogiochi e dell’intrattenimento sono ormai piuttosto evolute, nel mondo del lavoro continuiamo ad affidarci sulle stesse interfacce di decenni fa.
Questo sicuramente è vero, anche se credo che i tempi siano ormai maturi per un trasferimento di tecnologie. Del resto è del tutto normale, per tecnologie che sono a un livello sperimentale, venire sviluppate in un ambiente dove non è necessario che siano efficaci o affidabili al 100 per cento dal punto di vista della produzione. Dopo che sono state messe alla prova, allora sarà possibile muoversi da un livello di svago a un utilizzo produttivo ad alte prestazioni. Durante il primo blocco Covid-19, la primavera scorsa, anche voi di ZHA avete dovuto chiudere lo
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Patrik Schumacher A destra, ZHA, Tower C in Shenzhen Bay Super Headquarters Base (render by Brick Visual). Sotto, uno stop frame del film Parasite (img. courtesy Academy Two).
studio. Questo ha innescato nuovi modi di collaborazione?
Oh sì, assolutamente. Avevamo quasi 400 persone al lavoro, in parte da casa e in parte in due uffici. Sebbene il lavoro più di routine sia tuttora svolto da casa, è importante mantenere alcuni spazi di incontro fisico e sociale. Per questo motivo abbiamo pensato di ridurre i nostri spazi operativi per costruire invece spazi più finalizzati all’incontro e alla socialità. Senza contare che, come realtà che opera nel campo della creatività, abbiamo uno schema di lavoro che si basa sulla condivisione di informazioni ed esperienze e questo, quando viene a mancare una vita sociale in comune, diventa complicato. Penso infine che, come dicono molte ricerche, nel settore del terziarioservizi avremo un calo di almeno il 20 per cento nell’utilizzo di spazi e uffici: che è davvero molto. Ci sarà un fortissimo fronte di lavoro in remoto e attualmente, mentre stiamo gradualmente abituandoci al lavoro da casa, ci
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troviamo di fronte alla sfida di conservare una cultura aziendale e allo stesso tempo innescare sviluppi interessanti in termini di rigenerazione urbana. Come trasferite questa modalità all’interno dei vostri sistemi virtuali di comunicazione e di interazione?
Ho studiato a lungo il tema della semiotica in architettura e non dobbiamo dimenticarci che riguarda molti altri campi. Nella moda, ad esempio: come ci si veste per una riunione o per il lavoro, corrisponde alla proiezione di un’idea di se stessi, il che è piuttosto importante, perché autodefinisce un carattere. Quello che penso sia particolarmente interessante è che in un ambiente virtuale c’è molto da imparare dall’architettura tradizionale e dall’intero profilo semiologico legato a questioni progettuali come: che tipo di spazio? Che tipo di evento? Che genere di contesto? Un ambiente virtuale è un progetto al 100 per cento fenomenologico e di segni, dove il
compito essenziale di un architetto è organizzazione, connessione e cognizione. Questo coinvolge il significato sociale e i protocolli, invece dei convenzionali vincoli di ordine fisico e tecnico con i quali è necessario confrontarsi quando si costruisce. Hai affrontato la questione in ambito accademico con un corso chiamato Virtual College.
Nel corso Virtual College della TU Berlin i temi erano precisamente quelli che ho citato poco fa. Il progetto semiologico è molto importante in uno spazio virtuale. Corrisponde all’intera Gestalt dell’atmosfera di un edificio e a uno spazio che può veicolare un significato. Qui, è possibile orientarsi, purché tutto sia ordinato sistematicamente. Ogni cosa é indicizzata o già semiologica, ma i segni o le parole non sono il solo modo per farlo. Ciò che conta è la modalità di rappresentazione, progettata in modo che ognuno comprenda quale tipo di comportamento è appropriato in un dato contesto. Ogni zona incorpora un
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sistema di protocolli comportamentali inerenti. Pertanto è importante concentrarsi non solo sulla navigazione, ma anche orientare l’attitudine dei partecipanti. Questo approccio fa parte della mia teoria dell’architettura, ma comprende anche il design, la moda e perfino il progetto grafico. Il punto fondamentale è che, come architetti, dovremo pensare a un cyberspazio significativo in termini di potenziamento o dell’effetto sull’utente finale. In breve, ciò che serve è una user experience facile, bella e produttiva e questo significa che dobbiamo creare ambienti eloquenti, leggibili e ricchi di informazioni. Quali sono, dal tuo punto di vista, i progetti più interessanti nel campo dell’architettura virtuale?
In verità quello che si vede in architettura, almeno per il momento, è molto deludente. Penso tuttavia a iniziative come Decentraland (https://decentraland.org) che è uno spazio dove imprenditori, singoli individui o aziende possono acquistare terreni. Possono costruire
i loro spazi per eventi, per pubblicità o gallerie d’arte e questo al punto che già esiste un mercato immobiliare virtuale, con il commercio di lotti di terreno e tutto quanto. Sono sul punto di diventare veri e propri siti per attività commerciali. Attualmente l’architettura di Decentraland non è molto interessante ma credo che se questo spazio commerciale acquisterà valore e inizierà a produrre reddito, gli architetti verranno interpellati per aggiungere prestigio. Ad esempio, ci sono dei club dove è possibile incontrare altri avatar. Prova a immaginare che uno di questi abbia economicamente successo e che incarichi un architetto per rendere questo spazio più attraente rispetto ai vicini, suoi concorrenti. Nel film pluripremiato Parasite l’architettura è di indubbio livello. Sono rimasto impressionato scoprendo che è quasi completamente virtuale, costruita a partire da un banale garage. Anche i nostri spazi virtuali dovrebbero essere disegnati in questo modo?
Sicuramente si. Non sono un fanatico dei videogiochi, ma molti ragazzini che sono cresciuti giocando oggi sono degli imprenditori. Sono del tutto abituati a incontrarsi in uno spazio virtuale, in ambienti come quello di Fortnite, ed è probabile che spingano il tutto molto oltre, trasformandolo in un’esperienza esteticamente ed emozionalmente appagante. Credo che anche lo shopping online possa diventare molto più interessante di quanto non sia attualmente. Sarà possibile non solo vedere i prodotti ma anche incontrare altra gente, come in un vero negozio. In Cina stiamo lavorando al campus tecnologico della Tencent, e penso faremo una simulazione digitale del progetto utilizzando automi che si muovono e vagano nell’area. Il lavoro è principalmente un’esperienza sociale, molto più della residenza, e questo rende l’ambiente di lavoro il settore di esplorazione principale nel campo dell’architettura virtuale. C.E.
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Eric de Broche des Combes Spazi fantasma Le considerazioni di Eric de Broche des Combes, fondatore del famoso studio di visualizzazione Luxigon e docente presso il dipartimento di architettura del paesaggio presso Harvard Gsd, sul tema dell’architettura virtuale
Per qualcuno che è cresciuto all’interno di un’opera-mito come la Cité Radieuse di Marsiglia di Le Corbusier, diventare un architetto sembra uno sbocco naturale. È il caso di Eric de Broche des Combes che, dopo la laurea in architettura nel 1997, ha trasferito il proprio estro di mago dei computer e di fan del punk rock nella produzione di immagini per l’architettura: prima con Auralab e, qualche anno dopo, con lo studio internazionale Luxigon, con il quale trasforma progetti in incredibili esperienze visuali per molti famosi studi di architettura come Oma, Mvrdv, Rex, Kpf, Som, per citarne solo alcuni. Oltre a Luxigon, il suo impegno come architetto professionista con Buro-BC, come autore di progetti di comunicazione con un gruppo di ricerca chiamato Nirvalab e come teorico-accademico nella sua attività di docente presso la Graduate School of Design di Harvard lo rende una figura poliedrica e un perfetto esploratore di un campo pionieristico come l’architettura virtuale. ...Bene, iniziamo. L’argomento, come sai, è l’architettura virtuale
Un momento, prima di iniziare avrei io una domanda: ci solo molti modi di intendere l’architettura virtuale, come inquadri questo termine?
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Intendo un ambiente architettonico dove le persone possono interagire. Non un rendering statico, ma qualcosa di simile a un contenuto interattivo in 3D (un Interactive 3D Content) che non esiste in un contesto fisico ma presente unicamente in un ambito digitale/virtuale.
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architettura virtuale
Bene, è tutto chiaro. Possiamo cominciare.
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Negli ultimi tempi vediamo una quantità crescente di visualizzazioni 3D di alta qualità e di rendering semi-realistici, come del resto sempre più contenuti interattivi 3D di prodotti, ma anco-
ra davvero poca architettura virtuale interattiva. Quali sono le tue riflessioni sul tema?
In verità il termine architettura virtuale non ha molto senso perché l’architettura è sempre qualcosa che ci circonda fisicamente. Sebbene al giorno d’oggi ci siano molte opportunità per simulare quel tipo di ambiente o di esperienza – e la maggior parte di queste simulazioni le vediamo nei videogame – tutto ciò che si può fare è semplicemente dare l’impressione di esserne circondati. Un aspetto comunque non trascurabile è che un ambiente virtuale rispetto ad uno fisico è governato da leggi ben differenti. Ad esempio: dal momento che non c’è nessuna necessità di controllo del clima, o di rispettare vincoli statici e strutturali, si apre un insieme di opportunità completamente nuovo. Un altro punto forse ancora più importante è la sfida rivolta alla comprensione: quale livello di significato si può ricavare dal progetto di questo tipo di spazi o di luoghi.
Hai appena citato un aspetto che ritengo fondamentale, che è la capacità di dare forma a significato e contenuto. Per esempio, invece di essere in questo momento in contatto via Zoom, semplicemente vedendoci in faccia attraverso uno schermo, avremmo potuto incontrarci in una meeting room virtuale con un’architettura magnifica disegnata da qualche archistar.
Nella mia ricerca ho visto che c’è una componente fondamentale che perdiamo in ambienti virtuali, e si tratta di un contesto e di una storia. Viviamo in un mondo fisico dove ogni cosa ha una storia e una spiegazione mitologica. Ad ogni montagna, ogni fiume, ogni albero corrisponde una leggenda. In un mondo virtuale, tutto questo, semplicemente, non l’abbiamo. Questo dipende anche dal fatto che tutto è così recente che non abbiamo ancora avuto il tempo
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REX, Shenzhen Opera House competition, 2020, render by Luxigon
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Eric de Broche des Combes
di costruirlo, di nominarlo e di fissare i nostri riferimenti. Significa che mentre si ha l’opportunità di andare in ogni direzione, si perdono i riferimenti comuni. Per esempio: dove ti incontri? Quando? Quali sono le regole? Inoltre, non dimentichiamo che il proposito originario e fondamentale dell’architettura non era quello di costruire spazi dove la gente si incontra; era invece quello di costruire un riparo o un monumento. Ciononostante, questo nuovo mondo virtuale appartiene a tutti gli effetti allo specifico dell’architettura e questo significa che è sicuramente una forma di espressione dell’essere umano e della sua cultura. Circa l’insieme di regole che caratterizzano uno spazio architettonico, all’interno del quale normalmente si cammina, in uno spazio architettonico virtuale potrei perfino volare. In breve, quali potrebbero essere le modalità alternative di esperienza di questi tipi di spazi?
Lascia che ti faccia un esempio. World of Warcraft (WoW) è un gioco di ruolo online di tipo massive multiplayer, “massive” al punto che ormai ci sono circa nove milioni di giocatori in tutto il mondo, più o meno la dimensione di un’intera nazione come l’Austria. I giocatori hanno in comune lo stesso paesaggio, la stessa architettura e così via. Personalmente ho giocato a World of Warcraft per dieci anni
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Sotto, Harvard Gsd, Heliomorphic Seoul, model for traversing the Han, img by Erich de Broche. A destra, REX, Komische Oper Berlin expansion, render by Luxigon
(anche se forse non avrei dovuto), e per me i luoghi del gioco esistono veramente. Li ricordo; ne scopro di nuovi, proprio come andare in visita a Roma o Milano. Decisamente esistono. La parte interessante è però che, parlando in termini psicologici, esiste anche un coinvolgimento emotivo nei confronti di questi luoghi che è molto simile a ciò che è possibile provare nella realtà. Dal punto di vista cognitivo e (in una certa misura) psicologico, sono reali. Naturalmente non si ha nessuna esperienza di dolore, morte e cose di questo tipo, ma la maggior parte di ciò che si prova abitualmente, come l’empatia, l’amore o l’apprezzamento estetico, esistono e si riflettono sull’ambiente, anche se è virtuale. In relazione a tutto questo sicuramente entra in gioco il tema del rapporto tra reale e virtuale, che è una questione di strumenti ma anche di processi mentali.
Mi piace utilizzare la parola greca φάντασμα – o fantasma – che significa apparizione, un’immagine, uno spirito, ed è qualcosa in cui vuoi credere. È presente anche nell’iconografia religiosa e per le persone realmente credenti sicuramente esiste, e naturalmente ha una controparte nel mondo reale. E questo è ciò che più o meno succede nella realtà virtuale. Parlando di vita in un mondo virtuale, qual è
stata la tua esperienza durante il primo blocco del Covid-19, quando tutto il mondo, improvvisamente, si è riversato online?
Ero abbastanza sorpreso, perché ho letto continuamente. È curioso. Mi piace il computer come estensione dell’immaginazione, ma non credo al computer come strumento. Penso che possiamo vivere felicemente senza essere online, come credo sia importante permettere alle nostre menti di essere libere dai computer. Stai facendo, ormai da anni, un lavoro incredibile con Luxigon. Quando pensi che un tipo di architettura interattiva 3D possa diventare centrale nella vostra attività?
Ci stiamo già lavorando. Tuttavia si tratta della capacità di sviluppare idee, non solamente di utilizzare strumenti. Attualmente ciò che vedo intorno a me è una grande quantità di strumenti che servono per creare architetture, ma non vedo in tutto questo alcun buon metodo per comunicare. La gente fatica a interpretarlo
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correttamente, non esiste alcuna educazione in termini di spazi 3D, lasciamo perdere quando si tratta di spazi virtuali, ma allo stesso tempo ci sono i più giovani con una formazione estesa nel campo delle immagini 3D. Credo che questo sia un campo dove i ragazzi hanno un vantaggio notevole, dato che giocano con i videogiochi fin dall’infanzia.
Parlando con Patrik Schumacher di Zaha Hadid Architects, è emerso un riferimento al film Parasite, del quale ero abbastanza sorpreso di scoprire che l’elegante architettura delle ambientazioni era in realtà completamente virtuale. Pensi che questo genere di cose saranno presto presenti nella nostra vita di tutti i giorni?
Bene, c’è attualmente la possibilità di visitare virtualmente molti monumenti esistenti, come Stonehenge o il Partenone di Atene. Con un visore l’esperienza è molto coinvolgente, le uniche cose che si perdono sono gli odori, la temperatura, e forse l’acustica. Allo stesso modo
sarebbe possibile visitare anche qualcosa che non esiste, come una cattedrale alta cinque chilometri o una rovina ricostruita. Il punto è che non stiamo facendo molta esplorazione in questo momento, mentre ci sarebbero opportunità incredibili per farla.
Quali pensi siano attualmente le esperienze più interessanti? Forse non solamente nel campo dell’architettura, ma anche nei videogame, dove nonostante tutto l’architettura potrebbe giocare un ruolo magnifico
Il punto è che siamo solo all’inizio ma, allo stesso tempo, vedo videogiochi come “L.A. noire” caratterizzati da una ricostruzione dettagliata dell’intera città di Los Angeles nel 1949. È una meraviglia archeologica. È possibile avere un tour virtuale della città com’era a quel tempo. Un’ultima domanda: come immagini il futuro, come comunicheremo in futuro, qual è la tua visione?
Dal mio punto di vista, il mondo del futuro sarà plasmato da due forze, una tecnologica, l’altra politica. Recentemente abbiamo assistito a un progresso molto promettente nel campo degli ologrammi. Per esempio, il Mit sta facendo un lavoro di ricerca e dei progressi incredibili in questo campo (https://news.mit. edu/2021/3d-holograms-vr-0310). C’è effettivamente un esempio molto bello nel secondo film di Blade Runner, quello ambientato nel 2049, nelle scene in cui una ragazza in una specie di bolla è una fabbricante di memorie. È una parte molto interessante del film perché tecnologicamente non siano troppo distanti dal poter fare una cosa simile. L’altro aspetto è che il mondo politico non ha ancora ben compreso l’internet; il mondo sarà composto non tanto da nazioni ma da persone raggruppate per sfere di opinione, e tutto questo avrà luogo esattamente in un mondo virtuale C.E.
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› SPAZI IN EVOLUZIONE
Robin Chase Progettare il cambiamento Infrastrutture, mobilità, lavoro. Città e architettura al tempo di Internet in una conversazione con l’inventrice del car sharing
Anno 10 - n 64 - Giugno 2016 - euro 6,00
come cAmbiA lA città l’architettura al tempo di internet e della sharing economy
Andrea Oliva
Post & soft Elements
Pavimenti e rivestimenti
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IoArch numero 64 gugno 2018
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Oggi a Milano ci sono circa 200.000 auto private in meno rispetto a 10 anni fa. Questo corrisponde a una quantità complessiva di spazi restituiti alla città pari ad almeno 200.000 volte l’ingombro di ogni auto. Penso che alcuni fondamentali cambiamenti a livello tecnologico ed economico, non solo il car-sharing, ma anche la sharing/net economy, possano avere un impatto sulla forma delle nostre città? E se si come?
Quando penso a come rendere felice la gente riducendo il numero di automobili mi vengono in mente due cose. La prima è il parcheggio. Hai sottostimato l’impatto della riduzione del numero di auto. Ogni automobile richiede almeno tre spazi di parcheggio: a casa, al lavoro e per fare la spesa. Pertanto non si tratta solo dello spazio occupato da 200mila vetture, ma l’equivalente di 600-800.000 posti auto che si liberano. Senza contare che nelle città spesso ci lamentiamo dell’alto costo delle abitazioni. Rendere obbligatorio un posto auto (o più di uno) per ogni abitazione ne aumenta il costo anche del 25 per cento. Il secondo è lo spostamento in auto. Mi colpisce il fatto che quando i residenti o i funzionari di una qualsivoglia municipalità richiedono più spazi di parcheggio, raramente ne comprendono le conseguenze. Ogni auto parcheggiata è un’auto guidata! E questo non fa altro che aumentare il traffico e la congestione. Bisognerebbe smettere di costruire parcheggi. E se è proprio indispensabile, occorre renderli accessibili da coloro che vivono al di fuori dell’edificio e che il loro utilizzo sia convertibile (in spazi di vendita, uffici o perfino abitazioni). Prevedo un futuro molto gramo per i parcheggi, questo proprio perché nel futuro useremo sempre di più auto in condivisione. Nelle città gli spazi fisici sono una risorsa scarsa e prezio-
sa. Fare in modo che i beni immobili possano essere condivisi, utilizzati in modo efficiente estraendone il maggior valore possibile, in termini economici ha assolutamente senso. Ma esiste un incredibile eccesso di capacità dovunque. Le città del futuro daranno via libera a questa sovrabbondanza, rendendola facilmente disponibile per utilizzi multipli.
Se Zipcar era un inizio, cosa dire sulle auto driverless? Pensi esista qualche ulteriore sviluppo, caratterizzato da un potenziale innovativo dirompente?
La velocità con cui le auto senza conducente si stanno affermando mi ha colto di sorpresa. Credo che realisticamente assisteremo a seri casi pilota nelle città prima del 2020 e una diffusa adozione di AV nelle città entro il 2025. Il loro impatto sarà ampio e profondo. Resta il dubbio se positivo o negativo. Con una giusta regolamentazione potremmo avere città con solo il 10 per cento delle auto attualmente in circolazione, e capaci di mettere a disposizione una mobilità da punto a punto al prezzo di un biglietto di autobus. Immaginatevi come potremmo riconfigurare le nostre città se non fossero intasate da auto in sosta e congestionate dal traffico. Immaginatevi spazio per gli alberi, ampi marciapiedi e piste ciclabili e spazi verdi o abitazioni senza parcheggi a prezzi ragionevoli. Tuttavia, per raggiungere questo nirvana, le città devono oggi definire piani di priorità e criteri su come acquisire questi diritti di intervento. Naturalmente gli AV saranno elettrici. Non avremo neppure tariffari per la sosta, né multe per eccesso di velocità, patenti e pedaggi – incoraggiando viaggi condivisi in auto comuni rimpiazzando metodi di tassazione obsoleti con altri basati su tipo di combusti-
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La ciclovia di Bogotà in Av. Chile. La domenica mattina Bogotà chiude 130 km di strade dove si riversano 1,5 milioni di pedoni e ciclisti. Le piazze sono sempre state concepite come luoghi destinati a molteplici funzioni: mercati, manifestazioni, luoghi di appuntamento (foto CC Lombana).
bile, peso del veicolo, congestione e distanza percorsa. Ma se non prendiamo controllo da subito dei cambiamenti potremmo finire con il peggiore degli scenari: città ancor più congestionate a causa di auto ‘zombie’ – senza conducente – che ingombrano le strade, dato che farle circolare costerà meno che tenerle parcheggiate. Avremo perso la base di finanziamento per le infrastrutture di trasporto, per non parlare dell’onda d’urto dei posti di lavoro perduti, dei minori consumi e dei mancati ricavi fiscali per via dei nuovi disoccupati. Uno scenario infernale ma verosimile: per la maggioranza della gente che vive in città un passaggio su un AV sarà più economico, facile e conveniente che possedere un’auto propria.
Una nuova economia basata sulla condivisione di beni e su una logica di tipo “reticolare”: come potrebbe avere un impatto diretto o indiretto sull’architettura?
L’intero ambiente costruito dovrebbe essere modellato in modo da facilitare e permettere il multipurposing ovvero l’alternanza di differenti modalità di utilizzo. Palestre e auditorium scolastici dovrebbero avere ingressi, alternativi ai corridoi interni, permettendo l’accesso dal quartiere. Le pareti dovrebbero essere mobili. Fino a che punto lo spazio dovrebbe essere privato quando potrebbe funzionare in modo anche migliore per un utilizzo condiviso? Non sempre i proprietari coincidono con gli occupanti. Possibili combinazioni future di spazi interni dovrebbero essere pensate quando inseriamo i corpi scale, le tubazioni e i servizi. Non si dovrebbero mai costruire uffici con enormi Slp, tali da rendere impossibile qualsiasi tentativo di conversione in residenza. Ogni spazio per uffici poi dovrebbe avere finestre apribili.
Partendo dal presupposto che durante gli ultimi 50 anni, almeno nel mondo industrializzato, abbiamo costruito a sufficienza per i prossimi 500, fino a che punto pensi che sia ancora necessario realizzare nuovi edifici? E, di fronte all’obiettivo di migliorare la qualità dei luoghi che abitiamo, dove dovrebbe essere indirizzata la maggior parte degli investimenti?
Le infrastrutture che costruiremo nei prossimi quattro anni determineranno il destino dell’umanità. In questa intervista non abbiamo ancora parlato dei cambiamenti climatici, ma questo è il solo fondamentale argomento. Nell’accordo di Parigi, firmato solo due mesi fa, 195 nazioni hanno concordato un obiettivo di zero emissioni di CO2 entro il 2050. Ovvero entro i prossimi 35 anni. Ogni singolo edificio, strada o pezzo di infrastruttura dovrebbe essere costruita tenendo presente questa realtà. A questo ritmo il nostro pianeta sarà capace di sostenere solo una frazione degli abitanti che è
oggi in grado di sostenere. Di certo non 9 miliardi di persone, né 7,5 e forse nemmeno un miliardo. Il modo migliore con cui posso spiegare la scala di riscaldamento climatico prefigurata da studiosi di tutto il mondo è quello di confrontarla col passato. Entro il 2100 (tra 85 anni) il pianeta sarà di 5-6ºC più caldo rispetto alle medie dell’epoca pre-industriale. L’ultima era glaciale era di 4ºC più fredda dell’attuale, il Nord America e l’Europa, e casa mia a Boston, erano sotto chilometri di ghiaccio. Era 20.000 anni fa e con solo 4 gradi di differenza. Prova solamente a immaginare cosa possa significare un aumento di 5-6ºC in 85 anni. Se vogliamo raggiungere l’obiettivo zero entro il 2050 (per sopravvivere) significa che ogni cosa che costruiamo a partire da questo preciso istante deve allinearsi su quell’obiettivo. C.E.
Per Chase, l’economia al tempo di internet si basa su un modello incentrato su una piattaforma web e pochi dipendenti. Attorno a questi, una larga parte di lavoratori e imprese che offrono servizi ai clienti della piattaforma. Peers Inc How People and Platforms are Inventing the Collaborative Economy and Reinventing Capitalism PublicAffairs - 304 pp - 29,52 euro ISBN-10 1610395549
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› SPAZI IN EVOLUZIONE
Ensamble Studio Anima locale Quando architettura e sperimentazione artistica si fondono. Lo spirito e le ragioni delle opere di Ensamble Studio in un’intervista a Débora Mesa e Antón García Abril
Anno 10 - n 66 - Ottobre 2016 - euro 6,00
Da Amsterdam a Milano
ABITARE TODAY
Edifici evanescenti
Studio Ensamble | Delugan Meissl | Lund Hagem | Wendell Burnette J+S Federico Pella Atrium Parma | Albini Associati Rolex Milano Marmomacc 2016 | Squar-e Mosaicoon | Elements Luce e Design
Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano - Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 DCB Milano
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IoArch numero 66 Ottobre 2016
IOARCH_100 Special Issue
Nel panorama generale dell’architettura Ensamble Studio, composto dalla coppia Antón García Abril e Débora Mesa, si distingue innanzitutto per la singolare combinazione tra una sperimentazione artistica – vicina allo spirito della performance o intervention art direttamente derivate da forme di arte concettuale e di avanguardia – e l’architettura. L’opera che ha dato un impulso fondamentale alla loro carriera, la Truffle House del 2010, è una sorta di ‘roccia’ abitabile e una felice sintesi tra processo di costruzione, identità e sostanziale continuità con il luogo. Una logica che ha tratti in comune con molte
altre loro opere recenti, come Structures of Landscape presentata all’ultima Biennale Architettura di Venezia. Da quest’intervista emerge la loro poetica e il loro speciale atteggiamento verso tre aspetti fondamentali con cui il lavoro degli architetti si confronta costantemente: i materiali, il processo e il contesto. Qual è l’obiettivo del vostro lavoro?
È l’innovazione nel campo della tecnologia e dello spazio architettonico che abbia effetti positivi sull’ambiente costruito, la vita delle persone, e non costi una fortuna.
Molti dei vostri progetti (in particolare uno degli
› ARCHITETTURA AUMENTATA
Realizzata nel 2010 sulla Costa da Morte, in Galizia, la Truffle House, sorta di cabanon per vacanze in cemento (sopra e in alto nella pagina di destra), ha dato un impulso fondamentale alla notorietà di Emsamble e alle carriere di Abríl e Mesa (foto ©Roland Halbe).
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› SPAZI IN EVOLUZIONE
Ensamble Studio Sotto, Domo di Ensamble Studio (Antón García-Abril and Débora Mesa) al Tippet Rise Art Center, 2016. (Courtesy of Tippet Rise Art Center, foto ©Iwan Baan).
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› ARCHITETTURA AUMENTATA
A destra, la facciata della Sgae a Santiago de Compostela è realizzata con pietre a spacco di grandi dimensioni provenienti dalle cave locali (foto ©Roland Halbe)
ultimi, Structures of Landscape) hanno la caratteristica ricorrente di configurarsi come specie di strutture naturali accidentalmente abitabili. L’edificio tende a perdere ogni carattere architettonico/artificiale per fondersi con l’intorno. Da cosa ha origine questo approccio?
Probabilmente deriva dai nostri primi lavori a Santiago di Compostela e dal tempo trascorso nelle cave circostanti alla ricerca di pietra da costruzione e dall’assistere alle trasformazioni del paesaggio causate dall’estrazione del materiale. Per costruire la monumentale parete in pietra dell’ufficio centrale di Sgae (la Siae spagnola) abbiamo riciclato materiale sparso di cava e riorganizzato materiale grezzo sotto forma di una nuova struttura e un nuovo spazio. Analogamente, per costruire la Truffle House, sulla Costa da Morte, abbiamo combinato materiali locali (fieno, terra, pietre, rami) consolidandoli col cemento allo scopo di realizzare un’architettura che appartenga materialmente al luogo. Quali sono le implicazioni culturali del vostro approccio di progettazione?
La nostra architettura si trova in un terreno intermedio dove arte e scienza trovano un punto di accordo. In ogni opera dedichiamo particolare attenzione alla leggibilità, alla qualità spaziale e alla capacità espressiva del materiale (la sua natura visuale e tattile), che sono aspetti che coinvolgono direttamente l’utente. Speriamo così che le persone che abitano le nostre opere le leggano sviluppando le proprie personali interpretazioni, ma senza mai essere indifferenti. Architettonicamente parlando, quali sono i vo-
stri riferimenti principali?
L’arte, la natura, la tecnologia, le città, la storia … e così via, all’infinito. Non c’è limite all’ispirazione, in questo sta la magia dell’architettura: è dappertutto!
Dove avete tratto l’ispirazione per quella sorta di evanescente caverna abitata di The Truffle? E cosa sta all’origine del suo singolare processo di costruzione?
Volevamo costruire un poema architettonico, uno spazio molto essenziale in un paesaggio rurale senza compromettere la sua fondamentale rusticità. Volevamo usare materiali reperibili localmente e costruirlo con le nostre mani. Era un esperimento, action architecture come ci piace chiamarla, che ha molto più a che fare con una performance ben studiata che con un assemblaggio preciso e accurato di parti di un edificio. Il progetto si concentra sul processo e rinuncia al controllo del risultato. Granito, pietra, sono materiali che durano nel tempo. Come vi piacerebbe fosse ricordato il vostro lavoro?
Vorremmo che il nostro lavoro diventasse la cornice per grandi momenti nella vita delle persone, aspiriamo a progettare architettura con un impatto positivo a livello poetico, tecnico e sociale. La selezione del materiale non è quello che conta di più, ha principalmente a che fare con il contesto e le opportunità insite al programma: abbiamo costruito con materiali pesanti e con altri molto leggeri, come la nostra ultima Cyclopean House (a Brookline, Massachusetts, del 2015, NdR). C.E.
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› SPAZI IN EVOLUZIONE
Aldo Cibic Massimizzare il minimo Autore di alto profilo e fuori dagli schemi, Aldo Cibic è uno dei più efficaci interpreti dei cambiamenti nel contesto economico, tecnologico e sociale in relazione al progetto. Lo incontro nel suo studio di Milano, appena rientrato da un viaggio a San Francisco, la capitale della new economy Anno 11 - n 69 - Aprile 2017 - euro 6,00 ISSN 2531-9779
Come cambiano i modi e la qualità dell’abitare
SPAZI IN EVOLUZIONE
Jeanne Gang | Paolo Caputo | Ensamble Studio | Aldo Cibic Henri Cleinge | Flores & Prats | h2o architectes
cinque visioni per la città
#scalimilano
Boeri | Houben | Yansong | Tagliabue | Zucchi
Elements Acustica | Porte e finestre
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IoArch numero 69 Aprile 2017
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Vorrei capire con te come, insieme ad un mondo in evoluzione, si stanno modificando i modi di abitare e l’architettura che li rappresenta.
Perché per questo argomento hai scelto proprio me?
Perché non ti limiti alla forma, per l’attenzione che hai verso i processi, le ‘azioni’ e le loro conseguenze sull’organizzazione degli spazi. Chi meglio di te potrebbe aiutarmi a capire questo argomento?
Ok, vai con la domanda!
È innegabile che il contesto in termini sociali e produttivi stia cambiando. Internet e piattaforme web permettono modalità inedite di utilizzo di spazi e risorse, l’economia e i profili di investimento si sono modificati. La polarizzazione sulle grandi città è sempre più marcata. Quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere un’architettura in relazione a questa evoluzione? Quale l’impatto dei nuovi modi di abitare sui nuovi schemi tipologici?
Per fortuna stanno già succedendo molte cose, sono ormai realtà consolidate, dal co-working ad Airbnb all’utilizzo di spazi a rotazione, ampliando e razionalizzandone l’uso. Si tratta però ancora di ragionare sulla forma di questi modelli evoluti: gli esempi attuali il più delle volte propongono un’immagine, uno stile che manca di autenticità: è finto, è una sorta di Disneyland. Stiamo definendo nuovi schemi tipologici, ma questi devono avere una propria identità e dignità, non essere inutili messe in scena ma riflettere il senso del luogo e la sua cultura. La nuova frontiera è gestire la coesistenza di diverse funzioni nello stesso luogo, realizzare nuove tipologie per questa flessibilità, senza mai dimenticare una forma, intesa come un’estetica funzionale, che rappresenti i modi in
cui questi luoghi possono essere vissuti. Per esempio il Superbazaar in Rethinking happiness era un progetto che mettendo insieme architettura – il disegno di uno spazio pubblico di qualità per una periferia degradata – e azioni – la coesistenza di categorie di popolazioni compatibili come studenti e migranti – consentiva di generare una comunità che si sostiene e si aiuta. Già con Microrealities avevamo lavorato sull’idea che sono le azioni che generano i luoghi e non viceversa. In quel caso abbiamo sperimentato come aggiungere qualità riducendo gli spazi privati. È possibile vivere bene in meno spazio a patto di avere luoghi comuni che permettano di far giocare i bambini, lavorare, fare feste. Avendo una condivisione di servizi si possono ottimizzare le risorse, rendere virtuose le operazioni che facilitano la vita.
Il principio di risorse di alto livello razionalmente ed efficacemente condivise, un discreto cambiamento.
Nei paesi più ricchi e sviluppati anche la classe media fatica ormai ad arrivare a fine mese. In conseguenza dei cambiamenti in atto, sulla base delle informazioni cui possiamo accedere in modo preciso e aggiornato, possiamo produrre delle risposte di qualità di vita, di altissimo livello estetico, dal punto di vista delle relazioni e della disponibilità di servizi. Rethinking Happiness si sta ora evolvendo in una piattaforma online in crowdsourcing, per sviluppare sia un’intelligenza collettiva che idee uniche per migliorare il nostro futuro attraverso un coinvolgimento attivo nel processo di design. Le voci di questo progetto di design sono: Planners and People, City life, Natura, Innovazione e Digitalizzazione. È una ricerca su come, grazie anche alle possibi-
› ARCHITETTURA AUMENTATA
Sopra, un’immagine dal progetto di tesi di Giovanni Rossi e Margherita Favaro, relatore Aldo Cibic, che ispirandosi a Rethinking Happyness ipotizza la trasformazione di un’azienda agricola in campus a comunità agro-tecnologica. A destra, il Superbazaar di Rethinking Happyness (courtesy Cibic Workshop).
lità offerte delle innovazioni tecnologiche, progettare le migliori condizioni di vita sostenibile con le risorse che abbiamo a disposizione. Soggiorni ibridi, spazi multipurpose: quale l’estetica/immagine di questi spazi?
A partire da ciò che abbiamo a disposizione, come la tecnologia, posso accedere a tutta una serie di servizi attorno a me. Come si rappresenta? Lo spazio secondo me deve avere una qualità gratificante a seconda delle funzioni che deve assolvere: è un fatto di proporzioni, materiali. Il progetto è di riuscire a fare di necessità virtù: rendere il più possibile ricca una vita che altrimenti sarebbe triste, prendere una zona degradata e organizzando una rigenerazione urbana dimostrare che si può avere una qualità della vita di tutto rispetto. C’è qualche esempio forse anche non fatto da
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› SPAZI IN EVOLUZIONE
Aldo Cibic architetti che credi sia importante o interessante rispetto a questi obiettivi?
In realtà vedo solo dei pezzi, non veri processi integrati. Gli esempi che trovo sono progetti di architettura, ma non progetti di vita. È più facile che nascano risposte dalla potenza anche economica dei social media che dai costruttori. Vedo una capacità di trasformazione incredibile da parte della net/web economy: penso ad esempio a un’iniziativa di Airbnb che, con Cameron Sinclair, ha aperto un programma di alloggi per i rifugiati ricevendo istantaneamente 60.000 adesioni e offerte di accoglienza: un cambio di paradigma pazzesco. Riusciresti a sintetizzare tutti questi ragionamenti in pochi principi chiave?
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Ho in mente un progetto che parte dalle possibilità della persona e la mette nelle condizioni di vivere la miglior vita possibile. Per farlo serve un’analisi della realtà e, grazie a idee di buon senso e alle tecnologie, capire come puoi produrre dignità, comunità, bellezza, anche nel caso in cui si parta da condizioni di estrema scarsità di risorse. Una considerazione conclusiva. Mi sembra che in questa riflessione ci sia un cortocircuito tra un modo di vivere che presenta analogie con quello del passato, nei paesi, dove per forza bisognava esprimere il massimo con il minimo, e allo stesso tempo la consapevolezza di un mondo profondamente cambiato.
Quello che noi dimentichiamo è che la storia
ha sempre da insegnarci. Quello che sta succedendo oggi c’era già. Bisogna partire da lì per aggiornare il modello e completarlo con ciò che abbiamo in più. Alla fine gli uomini sono sempre gli stessi e di certo non viviamo in un mondo destinato a crescere all’infinito, anzi la realtà è che ci sono sempre più ristrettezze. Non si può prendere solo la nuova storia dimenticando tutta la vecchia. Quando John Maeda del Mit dice che l’estetica non è importante dice una bestialità, perché noi viviamo di quello. È la forma delle relazioni, è la bellezza delle azioni, è come avvengono le cose, è il nostro modo di andare incontro all’altro. C.E.
› ARCHITETTURA AUMENTATA
Dettaglio del modello di Microrealities. Sotto, panoramica di Rethinking Happyness, un campus tra i campi, progetto di Aldo Cibic per una Venice Agro-Tech Valley presentato alla Biennale di Architettura di Venezia del 2010 (courtesy Cibic Workshop).
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› IL MONDO INTORNO A NOI
IL MONDO INTORNO A NOI Le tematiche ambientali e il progetto di architettura
Superando ogni precedente studio indirizzato alla città e territorio, le tematiche ambientali occupano oggi una parte preponderante nel dibattito in architettura. Questo capitolo le osserva secondo tre fondamentali punti di vista. Il primo, Tecnologia Alternativa, riguarda forme di insediamento fondate su una conoscenza profonda dell’ambiente e su una tecnologia alla base di opere di durata millenaria e di incredibile ingegno e bellezza. Il secondo, Città del XXI Secolo, esplora le sfide e le opportunità per le città nel difficile equilibrio tra sovrappopolazione e gestione delle risorse. Il terzo, Territorio Decentrato, analizza il potenziale, tanto incredibile quanto sottovalutato, di un territorio decentrato, complementare anziché marginale, rispetto alle grandi concentrazioni urbane.
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› IL MONDO INTORNO A NOI
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Michael Pawlyn Edifici come macchine organiche Il percorso progettuale di Michael Pawlyn tra esigenze ambientali e ricerca su forme, funzioni e materiali
Oltre a essere una figura emergente di grande spicco nel panorama dell’architettura orientata alla sostenibilità, Michael Pawlyn è un convincente oratore. Iniziato all’ecologia fin da giovanissimo è stato, presso Grimshaw Architects, l’anima di progetti come Eden Project, che rivelano l’emergere di nuovi significativi approcci nel rapporto tra architettura ed ecologia. Michael Pawlyn ha da poco fondato una nuova realtà di progettazione: “Exploration”, con sede a Londra, dove lo incontro in un tardo pomeriggio di ottobre e dove iniziamo una lunga conversazione percorrendo influenze, sviluppi e temi di architettura in rapporto alle complesse dinamiche che sottostanno al capitale ambientale in cui gli architetti operano e con cui si devono confrontare. Lei è uno dei protagonisti sul fronte della cosiddetta ecoarchitettura. Quando è iniziato il suo interesse per l’ecologia?
IOA 12-1a7 OK
5-12-2007
17:19
Pagina 1
novembre-dicembre 2007
Globalizzazione
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Luoghi, non luoghi, superluoghi
Studio del mese
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Nuovo Portello, le residenze di Cino Zucchi Architetti
Progetto del mese
10
Marazzi Associati progettare da nuovi punti di vista
Architetti artisti
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Alessandria Le Corbusier pittore
ANNO 2 numero 12 euro 2,50 Pubblicità Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano tel. 02 2847274 fax 02 45474060 pubblicita@fontcom.it
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Natura e tecnologia
L
e sequoie pompano migliaia di litri di acqua al giorno fino a 100 metri d’altezza, senza rumore e con la sola energia solare. Per fare la stessa cosa, una pompa idraulica necessiterebbe di un discreto quantitativo di energia, tendenzialmente proveniente da sostanze prelevate dal sottosuolo, con relative rumorose emissioni di sostanze inquinanti, ovvero non facilmente riassimilabili dalla biosfera. Il caso delle sequoie è solo uno tra gli innumerevoli da cui traspare che, per quanto evolute, le soluzioni tecnologiche sono tuttora qualcosa di terribilmente imperfetto e, soprattutto, alieno ai principi di interazione sistemica messi a punto dalla natura nel corso di milioni di anni. Solo ora ci si sta rendendo conto che ignorare queste logiche, all’interno di un sistema chiuso come il nostro sempre più piccolo pianeta, sta incominciando a dare qualche problema. In architettura, disciplina che partecipa in modo importante alla trasformazioni di luoghi e di equilibri preesistenti, se da un lato sono ormai ricorrenti, fino alla saturazione, i richiami al miglioramento dell’efficienza energetica o per un’architettura “sostenibile”, dall’altro considerazioni che vedano questi obiettivi in un quadro più completo ed esteso di rapporto con le risorse ambientali restano tuttora una materia oscura. Diversi casi esemplari dimostrano invece che esiste un’importante corrente di innovazione, caratterizzata da un enorme potenziale rispetto alle metodologie di progettazione, alla ricerca nel campo delle tecnologie e materiali, alla conservazione e tutela delle risorse ambientali. Sulla base di queste considerazioni, in questo numero di IoArchitetto, attraverso i contributi di due protagonisti dell’innovazione nel campo della sostenibilità ambientale come Dayna Baumeister e Michael Pawlyn, abbiamo deciso di esplorare il tema della convergenza tra natura e tecnologia e delle notevolissime opportunità per l’architettura che derivano da una comprensione profonda delle logiche della natura e di funzionamento e mantenimento della vita sul nostro pianeta. Carlo Ezechieli
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PENSARE UNA NUOVA ARCHITETTURA
edifici come
macchine organiche
MICHAEL PAWLYN
Ha fondato Exploration nel 2007 allo scopo di ricercare soluzioni innovative per l’architettura ecologicamente sostenibile e ispirata alla natura. Dal 1997 al 2007 ha lavorato presso Grimshaw Architects ricoprendo un ruolo decisivo nel disegno e sviluppo di Eden Project. Nel 2006 è stato rappresentante di Grimshaw, membro fondatore della UK Green Building Council. Ha tenuto numerose conferenze sull’architettura sostenibile sia nel Regno Unito che all’estero.
Il percorso progettuale di Michael Pawlyn tra esigenze ambientali e ricerca su forme, funzioni e materiali
L’INTERVISTA
La natura come
mentore
Nuvole all’interno di uno dei biotopi di Eden Project, in Cornovaglia
O
ltre a essere una figura emergente di grande spicco nel panorama dell’architettura orientata alla sostenibilità, Michael Pawlyn è un convincente oratore. Iniziato all’ecologia fin da giovanissimo è stato, presso Grimshaw Architects, l’anima di progetti come Eden Project, che rivelano l’emergere di nuovi significativi approcci nel rapporto tra architettura ed ecologia. Michael Pawlyn ha da poco fondato una nuova realtà di progettazione: “Exploration”, con sede
a Londra, dove lo incontro in un tardo pomeriggio di ottobre e dove iniziamo una lunga conversazione percorrendo influenze, sviluppi e temi di architettura in rapporto alle complesse dinamiche che sottostanno al capitale ambientale in cui gli architetti operano e con cui si devono confrontare. Lei è uno dei protagonisti sul fronte della cosiddetta ecoarchitettura. Quando è iniziato il suo interesse per l’ecologia? Ricordo di aver letto il libro del
QUANDO FORMA E FUNZIONE COINCIDONO
“
È stato così facile bruciare combustibili fossili per soddisfare tutte le nostre necessità che ci siamo distaccati dalla natura e abbiamo perso ogni capacità di adattamento creativo alle diverse circostanze.
”
Rocky Mountain Institute
N Club di Roma Blueprint for survival quando avevo quattordici anni. È una lettura che mi ha messo in guardia sulle problematiche ambientali già in età precoce. Pensavo di studiare biologia all’università ma, alla fine, ho scelto architettura per via dell’ampiezza dei ragionamenti che la caratterizza e per il suo potenziale creativo. Ho lavorato come architetto di edifici ad alta efficienza energetica per qualche tempo e quando sono
el 1997 Janine Benyus pubblica Biomimicry: Innovation Inspired by Nature, un testo rivelatosi fondamentale, oltre che in campo ecologico, anche per la ricerca di molti architetti. L’anno seguente, con Dayna Baumaister, fonda la Biomimicry Guild (www.biomimicryguild.com) agenzia per la ricerca e l’innovazione in campo tecnologico basata sull’osservazione della natura, e il Biomimicry Institute, organizzazione non-profit la cui attività si rivolge alla formacontinua a pag. 3 >>>
continua a pag. 2 >>>
Headquarters Building
Tutti credono che i problemi energetici siano una questione da esperti; in realtà il problema energetico sono le fessure della mia finestra.
Q
uesta frase fu pronunciata anni fa da Amory Lovins, probabilmente il massimo esperto al mondo di energia e edifici adatti al XXI secolo. Negli anni scorsi ho lavorato con lui a casa sua, il celeberrimo Rocky Mountain Institute (RMI), a 2.200 metri di quota, vicino ad Aspen, Colorado. È un edificio a un piano di 372 mq, costruito tra il 1982 e il 1984, in una valle con
L’edificio del Rocky Mountain Institute
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IoArch numero 12 Luglio-Agosto 2007
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Ricordo di aver letto il libro del Club di Roma Blueprint for survival quando avevo quattordici anni. È una lettura che mi ha messo in guardia sulle problematiche ambientali già in età precoce. Pensavo di studiare biologia all’università ma, alla fine, ho scelto architettura per via dell’ampiezza dei ragionamenti che la caratterizza e per il suo potenziale creativo. Ho lavorato come architetto di edifici ad alta efficienza energetica per qualche tempo e quando sono entrato da Grimshaw nel 1997 per lavorare all’Eden Project, ho cominciato a vedere connessioni sempre più ampie tra ambiente, biologia e architettura. Questa esperienza ha raggiunto un più alto livello di congruenza nel 2003 quando mi
sono iscritto a un corso intensivo allo Schumacher College condotto da Janine Benyus (l’autore di Biomimicry - designs inspired by nature) e Amory Lovins (Ceo del Rocky Mountain Institute). Nell’agosto del 2007 ho lasciato Grimshaw e ho aperto una realtà di progettazione indipendente allo scopo di concentrarmi esclusivamente sull’architettura sostenibile ispirata dalla natura. Progetti come Eden Project ed Eco-Rainforest rivelano un nuovo linguaggio formale: né ‘hitech’ né ‘organico’ ma con una connotazione formale piuttosto originale. Da cosa deriva?
Una delle distinzioni che è opportuno fare circa un’architettura biomimetica è che non è ‘stilistica’. La biomimicry implica soluzioni progettuali che mettono in gioco lo stesso tipo di ingegnosità che si può notare in natura, in molti organismi. In questo senso è per molti versi un approccio funzionalista, ma penso che permetta una ricchezza espressiva che è andata persa nelle forme riduttive dell’architettura funzionalista del XX secolo.
Questi progetti sono perfette repliche di metabolismi a circuito chiuso: un rifiuto diventa un nutriente. Le soluzioni ispirate dall’osservazione della natura derivano da altre già sviluppate e funzionanti o iniziate da zero ogni volta?
In alcuni casi si ricorre a sistemi tecnologici esistenti, in altri è necessario partire dai principi di base. Per esempio, è noto che il compost genera calore; così la sfida della EcoRainforest è stata quella di disegnare un edificio che permetteva di catturare il calore e utilizzarlo efficacemente. La prima versione della serra ad acqua marina era un’innovazione prodotta applican-
› IL MONDO INTORNO A NOI
do in modo nuovo principi fisici noti. Il suo inventore, Charlie Paton ha poi tenuto sotto stretto controllo l’edificio, e progressivamente sviluppato e migliorato le proprie idee. In un nostro progetto a Las Palmas si presentava l’opportunità di ampliare un progetto esistente e di creare un edificio pubblico dal carattere altamente scultoreo. In natura esiste un’incredibile varietà di adattamenti ad ambienti caratterizzati da una limitazione di risorse: credo che molte delle tecnologie di cui abbiamo bisogno nella rivoluzione verso la sostenibilità debbano essere copiate dalla natura. Come riuscite a mantenere sotto controllo il risultato finale e la durata nel tempo delle soluzioni proposte? Non c’è il rischio di costruire qualcosa troppo sperimentale?
Molte di queste idee necessitano di uno sviluppo progettuale approfondito. Abbiamo attraversato questo processo per un gran numero di elementi dei Bioma dell’Eden Project e la cosa più interessante è che l’economia e il controllo delle risorse disponibili si sono sempre rivelati la motivazione principale. Per esempio, abbiamo costruito un grande modello in scala dell’edificio e del paesaggio circostante per poterlo testare in un tunnel del vento. In tal modo abbiamo potuto utilizzare controventature efficacemente modellate che hanno perfezionato la struttura e ridotto di un terzo il peso (e i costi) dell’acciaio. Con il rivestimento in Etfe (un polimero) sapevamo che avremmo risparmiato acciaio aumentando le dimensioni di ogni esagono. Era pertanto vantaggioso sviluppare un test approfondito per essere certi della massima dimensione utilizzabile per le unità Etfe. Si inizia con la definizione delle proprietà del
materiale per passare, da questa base di conoscenza, all’applicazione reale.
Dai suoi progetti emerge l’arte di salvare contemporaneamente capitale economico e capitale naturale. Vede qualche cambiamento positivo in questa direzione?
Qualcuno di questi progetti ha dimostrato che giusti approcci verso la sostenibilità possono trasformare una situazione portando a maggiori benefici ambientali, economici e sociali. Questo è in contrasto con approcci che considerano questi termini come poli opposti. Vedo sviluppi, ma trovo insufficiente la velocità del cambiamento. Molto potrebbe essere fatto a livello governativo per stimolare approcci innovativi. Quali i fini della nuova realtà di progettazione Exploration Architecture?
Il nostro ideale è introdurre concetti di biomimesi in architettura e individuare soluzioni rivolte a un radicale incremento nell’efficienza di impiego di risorse, producendo molto di più con minore impatto. Credo che la biomimicry rappresenti un territorio molto ricco e per buona parte inesplorato con grandi opportunità sia per gli architetti sia per l’industria. Il nome dello studio intende trasmettere l’idea di un viaggio da intraprendere con degli amici, con un chiaro proposito ma senza una destinazione predeterminata. È stato talmente facile bruciare combustibili fossili per soddisfare le nostre necessità che ci siamo distaccati dalla natura e abbiamo perso ogni capacità di adattamento creativo alle diverse circostanze. Prima della rivoluzione industriale il genere umano aveva queste capacità. I persiani, ad esempio, sapevano come produrre il ghiac-
La eco-rainforest è una grande serra riscaldata sia attraverso apporti solari diretti (con la copertura vetrata) sia con ‘biodigester’ (le pareti cave sul perimetro) alimentati da rifiuti organici che, per fermentazione, sviluppano calore. Il microclima che è possibile mantenere all’interno è adatto alla crescita di specie tropicali, come le piante di ananas. Riproducendo la logica sequenza di processi osservabile in qualsiasi ecosistema maturo, i rifiuti diventano un nutriente, le operazioni di smaltimento si semplificano e frutti tropicali possono essere coltivati anche in regioni fredde come l’Inghilterra. Si evitano in tal modo, oltre ai costi di riscaldamento, i costi ambientali derivanti dall’importazione di generi alimentari da paesi lontani.
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Michael Pawlyn
Nuvole all’interno di uno dei biotopi di Eden Project in Cornovaglia. Gli esagoni in Etfe, sottoposti in fase di progettazione a prove in galleria del vento e molto più leggeri del vetro, hanno permesso una notevole riduzione dei costi di realizzazione della struttura. Le dimensioni delle serre sono tali da rendere possibile la formazione di microclimi indoor con tanto di nuvole, nebbia e rugiada. (per gentile concessione di Grimshaw Architects)
cio nel deserto già molti secoli fa. Vogliamo risvegliare questo spirito e celebrarlo in una coraggiosa architettura contemporanea. Cosa ammira di più in un’opera di architettura?
Forme audaci che permettono una ricchezza di interpretazione. Sono anche in gran parte un funzionalista e credo che la bellezza derivi da una risposta poetica a necessità o opportunità specifiche. La migliore architettura per me è anche quella che celebra con forza uno spirito ottimista e incorpora ideali chiari e senza compromessi. Si potrebbe dire che ci sono due modi per cambiare una situazione. Uno è partire con un dato di fatto (un compromesso) e cercare di migliorarlo. L’altro è di cominciare con un idealismo privo di razionali connessioni con la vita di tutti i giorni, e compromettersi il minimo possibile. Chi ha successo nel secondo caso, dal mio punto di vista, merita il massimo rispetto. C.E.
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› IL MONDO INTORNO A NOI
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Martin Rauch Spiritualità terrena La Cappella della Riconciliazione a Berlino è stato il primo importante edificio moderno realizzato in terra cruda. Martin Rauch racconta questa tecnica complessa e affascinante che l’arrivo dell’industrializzazione ha cancellato
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ottobre 2008
archiglobal
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archiprogetti
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Holy Rosary Catholic Church Complex
La Casa di Abramo tempio islamico e cristiano
progetto del mese
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Un enorme prisma di pietra rossa
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culturamateriale
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L’immaginazione al potere
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ANNO 3 numero 20 euro 2,50
www.ioarch.it Pubblicità Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano tel. 02 2847274 fax 02 45474060 pubblicita@fontcom.it Sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Porte dell’infinito
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e Corbusier disegnando il meraviglioso convento di Sainte-Marie de La Tourette, applicò in pieno i suoi 5 punti dell’architettura tranne che nella chiesa. Mentre i cinque punti lecorbuseriani si basano sull’indipendenza dell’assetto interno dalla struttura e sull’emancipazione, attraverso i pilotis, dal suolo, la chiesa, ben ancorata al terreno, con uno spazio racchiuso da muri portanti e con un ben controllato afflusso di luce all’interno, sembra contraddire presupposti teorici tanto ben enunciati. Perfino il sommo Corbu, audace trasgressore di ogni canone e richiamo stilistico, non ha potuto interrompere l’ancestrale ruolo di collegamento tra cielo e terra degli edifici sacri. Un edificio religioso, in qualsiasi cultura ed in qualsiasi epoca, è una specie di magnete, un punto di contatto e di separazione, una porta verso la dimensione spirituale, e un’architettura in cui gli aspetti simbolici e formali sono sempre prevalenti rispetto a quelli funzionali o tecnici. Questi elementi rendono il progetto di un edificio sacro, poesia e non prosa, sfida e ricerca interiore per ogni architetto. Nonostante la nostra cultura, di impronta modernista e razionalista, sia tuttora dominata da un sostanziale materialismo, il tema degli edifici sacri è tutt’altro che superato, ed è un terreno di sperimentazione di nuovi linguaggi, con opere dove spazio, materiali e contenuti simbolici hanno l’occasione di rivelarsi in tutta la loro forza. Carlo Ezechieli
NUOVE FRONTIERE: INNOVAZIONE NELLA TRADIZIONE / CARLO EZECHIELI
Spiritualità
terrena
La Cappella della Riconciliazione a Berlino è stato il primo importante edificio moderno realizzato in terra cruda. Martin Rauch racconta questa tecnica complessa e affascinante che l’arrivo dell’industrializzazione ha cancellato
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rtigiano, artista o inventore? Maestro dell’architettura in terra cruda, Martin Rauch è uno dei massimi rappresentanti del contemporaneo pensiero trasversale tra scienza, arte e tecnologia. La sua opera si basa sul recupero di tecniche tradizionali ma caratterizzate da un contenuto di innovazione travolgente. Lo intervisto nella casa che ha recentemente completato a Schlins nel Vorarlberg, Alpi austriache. Signor Rauch, le chiese, o gli edifici di culto, sono da sempre un luogo di connessione tra terra e cielo, tra la materia e lo spirito. Costruire una chiesa o un edificio religioso con la
XI BIENNALE / NICO VENTURA
In cerca di architettura Osservazioni, riflessioni e provocazioni tra passato, presente e futuro
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na pipeline gialla: viti e bulloni formano coppie di metallico nitore e di perfetta armonia funzionale, uscita - si direbbe dalla Scuola di Ulm. È Gas Pipe, il “padiglione” dell’Estonia, installato nei Giardini della XI Biennale di Architettura di Venezia (fino al 23 novembre): la
provocazione più concreta, nell’allusione a un nuovo gasdotto della Gazprom, a out there, architecture beyond building (letteralmente, lì fuori l’architettura oltre l’edificio), l’edizione 2008, curata da Aaron Betsky. Se “è sempre più difficile ritrovare l’architettura nell’edificio, dove dobbiamo cercare? Forse
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terra cruda ha implicazioni particolari al riguardo? Costruire una chiesa è senz’altro un’esperienza particolare e molto intensa. Credo che per dare forma a edifici di questa rilevanza sia importante utilizzare un materiale rigorosamente
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L’utilizzo di terra cruda è ricco di implicazioni artistiche ed estetiche perché svela la presenza di una grande energia
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locale. Quello che cerco di fare in ogni mio progetto è ridurre al massimo le dimensioni (mantenere uno “small circle” N.d.C.) del cerchio di approvvigionamento, di impiego e di dismissione dei materiali: un criterio che parte da presupposti ecologici. Applicare questo principio a un edificio come una chiesa o un cimitero è più facile rispetto a una casa, dato che è possibile operare un’importante riduzione in termini di componenti e impianti provenienti da situazioni esterne al sito di costruzione. È in tal modo possibile mettere in massimo risalto il materiale che, rivelandosi con tutta la sua massa e consistenza, assume un continua a pag. 3 >>>
MARTIN RAUCH
Nato a Schlins (Voralberg Austria) nel 1958, nel 1978 ha frequentato l’accademia di arti applicate di Vienna - Master in ceramica (tra i docenti Maria Bilger-Perz e Matheo Thun). Nel 1983 riceve un riconoscimento del Ministero federale della scienza con la ricerca fango-argilla-terra. Nel 1984 vince il primo premio nei concorsi Low cost housing for Africa (Pan-Africa Development Corp.) e Barriere anti-rumore promosso dal Dipartimento per la tecnologie costruttive in Austria. Ha realizzato numerosi progetti di edifici in terra cruda, una tecnica che incontra crescente successo.
L’INTERVISTA: DON GIUSEPPE RUSSO
La prova del tempo e il momento progettuale La bellezza è un requisito fondamentale di un nuovo edificio di culto, al quale si deve unire una progettazione che assicuri lunga vita e la richiesta di limitati interventi di manutenzione
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in dai primi secoli della storia del Cristianesimo, la costruzione di un edificio di culto è la risposta a un’esigenza funzionale alla manifestazione culturale della fede cristiana. Abbiamo affrontato realtà e problematiche legate alla realizzazione di nuove chiese con don Giuseppe Russo, responsabile del Servizio nazionale per l’edilizia di culto della segreteria generale della Conferenza Episcopale Italiana. continua a pag. 2 >>>
negli interni, forse nei paesaggi, o forse solo nei sogni, nelle visioni e nelle idee, nella memoria o forse ancora in strani esperimenti che non dovremmo neppure poter chiamare edifici, come le installazioni site-specific”. Studio da tempo i passaggi tra arte e architettura, ma l’interrogativo rimane: si affrontano o si rimuovono i problemi delle metropoli, dello sprawl, o addrittura, degli slums? E ancora, il virtuale è un’ipotesi o una fuga? L’architettura può permettersi di virare sul “concettuale”? All’Arsenale, l’hors-d’oeuvre è manifesto dell’intera mostra: continua a pag. 2 >>>
IoArch numero 20 Ottobre 2008
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Artigiano, artista o inventore? Maestro dell’architettura in terra cruda, Martin Rauch è uno dei massimi rappresentanti del contemporaneo pensiero trasversale tra scienza, arte e tecnologia. La sua opera si basa sul recupero di tecniche tradizionali ma caratterizzate da un contenuto di innovazione travolgente. Lo intervisto nella casa che ha recentemente completato a Schlins nel Vorarlberg, Alpi austriache. Signor Rauch, le chiese, o gli edifici di culto, sono da sempre un luogo di connessione tra terra e cielo, tra la materia e lo spirito. Costruire una chiesa o un edificio religioso con la terra cruda ha implicazioni particolari al riguardo?
Costruire una chiesa è senz’altro un’esperienza particolare e molto intensa. Credo che per dare forma a edifici di questa rilevanza sia importante utilizzare un materiale rigorosamente locale. Quello che cerco di fare in ogni mio progetto è ridurre al massimo le dimensioni (mantenere uno ‘small circle’ N.d.C.) del cerchio di approvvigionamento, di impiego e di dismissione dei materiali: un criterio che parte da presupposti ecologici. Applicare questo principio a un edificio come una chiesa o un cimitero è più facile rispetto a una casa, dato che è possibile operare un’importante riduzione in termini di componenti e impianti provenienti da situazioni esterne al sito di costruzione. È in tal modo possibile mettere in
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massimo risalto il materiale che, rivelandosi con tutta la sua massa e consistenza, assume un alto valore simbolico. Costruire in terra cruda significa utilizzare un materiale che si identifica con la terra stessa, come con la pietra, che è il risultato di mutazioni geologiche durate milioni di anni, di pressioni formidabili, di temperature altissime, che vengono rivelate, come nelle architetture di Mies Van Der Rohe o di Adolf Loos, quando sono tagliate. La terra cruda è un materiale molto più semplice ma racchiude sia un contatto con la terra, sia il tempo geologico di formazione del materiale, sia la grande quantità di lavoro necessaria alla costruzione. Credo che l’utilizzo di questo materiale sia ricchissimo di implicazioni artistiche ed estetiche perchè svela in modo chiaramente percettibile la presenza di una grande energia.
In passato si è confrontato con il disegno di monumenti, come i cimiteri, nel Vorarlberg. Come descrive l’esperienza di costruire un edificio con un forte contenuto formale?
Con il cimitero a Batschuns ho avuto la piena consapevolezza del potenziale simbolicoevocativo di un materiale come la terra cruda. Il complesso comprende una camera con pareti in terra pressata (il pisè) che dà l’idea di entrare in una cavità nel terreno. Credo che la combinazione tra materiale e uno spazio di questo tipo abbia implicazioni simboliche fortissime e percepirle, come del resto percepire il concetto di ‘small circle’, non avviene a livello razionale ma, di solito e con grande forza, a livello emotivo. La terra cruda è un prodotto dell’erosione, e l’erosione è l’elemento fondamentale che ha disegnato la superficie del pianeta e i luoghi in cui viviamo che,
Sopra e a sinistra, l’interno e l’esterno in terra cruda della Cappella della Riconciliazione di Berlino (progetto Reitermann&Sassenroth).
in un certo senso, sono un’enorme scultura. Anche i cittadini di Batschuns, inizialmente scettici circa l’impiego di questo materiale non convenzionale, si sono infine identificati profondamente con l’opera.
Come è nato il suo interesse per le costruzioni in terra cruda?
Ho iniziato a studiare la creta come scultore e ad approfondirne progressivamente le qualità tecnologiche e strutturali, in particolare tutti i processi e le lavorazioni che non richiedevano cottura. Interessandomi all’impiego del materiale in vari campi ho notato che ogni
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Martin Rauch
regione, in tutto il mondo, ha o ha avuto una tradizione di questo tipo di costruzione, poi cancellata con l’arrivo dell’industrializzazione. Credo che la mia ricerca sia ben sintetizzata dalle tre parole in tedesco Lehm (fango), Ton (argilla) e Erde (terra) che, secondo la mia interpretazione, stanno rispettivamente per tecnica, estetica, e terra, ovvero ecologia.
La Cappella della Riconciliazione a Berlino è stato il primo importante edificio moderno in terra cruda. Crede che l’utilizzo di queste tecnologie possa diventare più accessibile e diffuso?
In Europa, con le metodologie e il costo del lavoro attuali, costruire in terra cruda non è per il momento competitivo rispetto a metodi di costruzione convenzionali, e si addice a edifici qualificabili come ‘di lusso’. Manca tuttora fiducia in questi metodi di costruzione, e i regolamenti non aiutano. La casa come quella in cui mi trovo in questo momento (la Wohnhaus Rauch, tetto piano, muri esterni in terra cruda a vista, da poco terminata), ad
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Il nuovo centro visite dell’Istituto Ornitologico Svizzero, organizzato con percorsi guidati alla mostra e al sito naturale sul lago Sempachersee, ha una forma compatta con strutture poligonali posizionate per interagire con la campagna e il lago. Dal grande foyer è possibile accedere alle diverse sezioni della mostra, mentre la stanza all’estremità del foyer offre una transizione graduale e fugace tra interno ed esterno. Gli edifici posti sull’esterno sono costituiti da pareti massicce in terra cruda. Alcuni elementi in legno contribuiscono a offrire al centro visite svizzero il senso di sostenibilità dell’intera architettura (ph. ©Alexander Jaquemet).
esempio, non avrebbe mai potuto essere realizzata in Italia per via dei regolamenti antisismici, che però non sono in vigore in Austria. In Germania è possibile costruire ma solo con verifiche statiche molto accurate, tanto che la Cappella della Riconciliazione ha dovuto sottostare a un processo di verifica e collaudo che è costato più di 20mila euro; affrontare tale costo è senz’altro praticabile per un edificio pubblico, ma non per la maggior parte dei privati cittadini. La situazione sta comunque cambiando: dopo la costruzione della cappella di Berlino c’è stato un importante sviluppo di edifici in terra cruda, fatto che rivela l’emergere di un grande interesse. Penso sia necessario lo sviluppo di una sorta di ‘indotto’, come nel Vorarlberg con la cosiddetta ‘architettura di legno’. Fino a 20 anni fa l’utilizzo del legno nelle costruzioni era considerato poco appropriato ma ora, attraverso il recupero di conoscenze artigiane diffuse in
passato, si è affermata un’industria di assoluto rilievo. Bisogna comunque considerare che se i nonni degli attuali industriali del legno del Vorarlberg conservavano una memoria di queste tecnologie, quella della costruzione in terra cruda si è persa ormai da molte generazioni e il suo recupero richiederà più tempo. La formula è investire nella revisione del processo di costruzione cercando di ridurre l’incidenza della manodopera. A tal proposito ho da poco fondato, con un’importante ditta austriaca di costruzioni, un gruppo chiamato Erden. esistono imprese in grado di eseguire lavorazioni di questo tipo, io stesso mi ritrovo a essere contemporaneamente urbanista, architetto, costruttore e, di conseguenza, amministratore della mia ditta di costruzioni. Una figura davvero poco convenzionale … e davvero pre-industriale! C.E.
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Gilles Perraudin Avanguardia vernacolare Da anni Gilles Perraudin è un architetto la cui influenza e autorevolezza è riconosciuta a livello internazionale e una figura di riferimento per la ricerca nel campo dell’architettura ecologicamente orientata
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Milano postindustriale
L’edicola del futuro
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Nasce a Vicenza un nuovo pezzo di città
Pedrali gli specialisti del contract
Sei progetti per un giardino
www.ioarch.it
La classica domanda imbarazzante: come definirebbe il suo lavoro in 30 secondi?
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Anno 4 - n°27 - settembre 2009 - euro 2,50 - Pubblicità: Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano - tel. 02 2847274 fax 02 45474060 - pubblicita@fontcom.it - Sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Progettare
CARLO EZECHIELI INTERVISTA GILLES PERRAUDIN
ecosistemi
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onostante si dia ormai per scontato che l’intervento dell’uomo sulla natura abbia conseguenze nefaste, è interessante notare che molti tra i più incantevoli paesaggi sono il risultato di una profonda sinergia tra trasformazioni “artificiali” e contesto “naturale”. Una collaborazione perfezionata nel corso di centinaia o migliaia di anni e capace di definire sistemi stabili e dotati di un proprio equilibrio interno. L’uomo in questi casi interviene in base alla comprensione profonda di complessi principi di funzionamento ambientale tanto che, se viene tolta la “componente umana”, si scatenano processi catastrofici di riassestamento. Come nel caso di molte aree alpine, oggi ridotte a zone ad alto rischio idrogeologico. Le conseguenze possono essere anche peggiori se la la stessa componente umana introduce strutture e reti che seguono logiche tanto aliene ed autoreferenziali da rivelarsi ecologicamente e visualmente distruttive. Questa logica di sovrapposizionesostituzione, di matrice moderna e industriale, agisce dimenticando l’ovvio presupposto che un intervento di trasformazione non interviene solo sul contesto fisico, sociale e tecnologico-produttivo, ma anche sui delicati principi di funzionamento ambientale. Non solo consapevolezza, ma anche la capacità tecnica, propria della tradizione, di intervenire non sopra, ma nell’ambito di un ecosistema, si è andata progressivamente perdendo e resta tuttora un ambito di conoscenze che merita di essere recuperato sotto nuova luce. Carlo Ezechieli
La sua opera recente, condotta a partire da un’indagine profonda sull’essenza dell’architettura e dei processi di costruzione, rivela tuttavia, più che un’attenzione prevalentemente rivolta a questioni di tipo ambientale, una tendenza alla riduzione inedita e di incredibile spessore espressivo. Pochissimi, forse nessuno meglio di lui ha saputo intuire l’incredibile potenzialità di tecnologie di ispirazione arcaica associate a mezzi di produzione attuali. Le architetture di Perraudin in blocchi di pietra massiccia sono una sorta di riedizione odierna dell’architettura megalitica, con la differenza che lo sforzo eroico di decine di uomini viene sostituito dal lavoro di alta precisione, non meno eroico, di una gru e di un paio di operai. Un gigantesco ‘lego’, con elementi di due tonnellate ciascuno e un formidabile sincretismo tra arcaicità, età delle macchine e moderno design. La cantina-atelier di Vauvert, immersa in un disteso paesaggio di vigneti e nella luce limpida della Provenza, è stata la prima opera in pietra massiccia di Perraudin. Da questa si sono evoluti molti altri lavori, come la recente cantina del monastero di Solan. Visitarla è stata un’esperienza istruttiva e per molti versi illuminante, come lo è stata questa conversazione nell’atelier di Vauvert con Gilles Perraudin ed Elisabeth Polzella.
Essenziale: un secondo!
Nonostante alcune opere di impostazione apparentemente hi-tech, la sua architettura rivela un approccio ben radicato nella tradizione. Da cosa si sviluppa?
Avanguardia vernacolare Da anni Gilles Perraudin è un architetto la cui influenza e autorevolezza è riconosciuta a livello internazionale, e una figura di riferimento per la ricerca nel campo dell’architettura ecologicamente orientata
ARCHIGLOBAL /
Memorie
dimenticate Giugno 2009, l’apertura della High Line di New York
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anhattan, massa di edifici risucchiati verso l’alto. Grande e complessa metropoli in continua trasformazione. Fitta di labirinti e di sorprese, di frammenti abbandonati, di memorie dimenticate di un passato, neanche tanto remoto, che talvolta rivive sotto la spinta di iniziative coraggiose. È il caso della High Line, un nastro ferroviario sopraelevato, a circa 7-8 metri dalla quota stradale e che si sviluppa lungo il lato ovest della città lungo il fiume >>>
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a sua opera recente, condotta a partire da un’indagine profonda sull’essenza dell’architettura e dei processi di costruzione, rivela tuttavia, più che un'attenzione prevalentemente rivolta a questioni di tipo ambientale, una tendenza alla riduzione inedita e di incredibile spessore espressivo. Pochissimi, forse nessuno meglio di lui ha saputo intuire l’incredibile potenzialità di tecnologie di ispirazione arcaica associate a mezzi di produzione attuali. Le architetture di Perraudin in blocchi di pietra massiccia sono una sorta di riedizione odierna dell’architettura megalitica, con la differenza che lo sforzo eroico di decine di uomini viene sostituito dal
lavoro di alta precisione, non meno eroico, di una gru e di un paio di operai. Un gigantesco “lego”, con elementi di 2 tonnellate ciascuno e un formidabile sincretismo tra arcaicità, età delle macchine e moderno design. La cantina-atelier di Vauvert, immersa in un disteso paesaggio di vigneti e nella luce limpida della Provenza, è stata la prima opera in pietra massiccia di Perraudin. Da questa si sono evoluti molti altri lavori, come la recente cantina del monastero di Solan. Visitarla è stata un’esperienza istruttiva e per molti versi illuminante, come lo è stata questa conversazione nell’atelier di Vauvert con >>> Gilles Perraudin ed Elisabeth Polzella. GLASARCHITEKTUR
Lo shopping verticale di Francoforte
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febbraio 2009: apre a Francoforte una nuova parte della città, My Zeil. Architetti Doriana e Massimiliano Fuksas. Il nuovo shopping center è un elemento di un parte più grande formata da tre presenze architettoniche. Seguiranno fino al completamento la ricostruzione del palazzo Thurn und Taxis ultimato nel 1739 da Fürst Anselm Franz von Thurn und Taxis, maestro di Posta reale della nobile e importante famiglia cattolica tedesca, di origine italiana (i Tasso, nativi di Bergamo) distrutto dai bombardamenti della seconda guerra, e l’erezione del quartiere verticale Palais Quartier ad opera dello studio tedesco KSP Engel >>>
IoArch numero 27 Settembre 2009
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Credo che nel mio lavoro ci sia un riferimento costante al mito di Icaro e Dedalo: Dedalo è
l’architetto, conosce le leggi della materia, ed è quello più ancorato a terra. Icaro è più etereo, più fantasioso, ma alla fine si rivela un fallimento. È un riferimento che ricorre in molti miei progetti, come nelle case in pisè che ho costruito tanti anni fa e dove riprendevo una tecnologia molto diffusa nelle antiche case presenti in quella zona. Al basamento in terra cruda era sovrapposto un po’ di Icaro, con elementi semitrasparenti in vetro e acciaio. Un architetto può essere un artista, ma il suo lavoro è per prima cosa quello di soddisfare esigenze molto pratiche e bisogni sociali molto concreti. Da questo punto di vista credo che il principio di base sia sempre un ritorno all’essenziale, alle componenti di base. La massa dell’edificio, il suo peso sono aspetti fondamentali, e più e massiccia e pesante la sua sostanza, più alto è il suo spirito. Del resto anche le rappresentazioni del Buddha ritraggono sempre una figura massiccia proprio perché simbolicamente a questa corrisponde uno spirito più alto. Il suo lavoro recente sembra essersi orientato in modo più deciso verso l’utilizzo di tecnologie non convenzionali, e in qualche modo arcaiche, come la pietra massiccia.
L’utilizzo della pietra massiccia ha avuto origine proprio nell’edificio in cui ci troviamo, terminato nel 1995. Dovevo costruire a basso costo e rapidamente un edificio con caratteristiche adatte alla conservazione del vino. È una struttura ripartita in 5 campate, tutte di 5,25 di larghezza. La costruzione si basa sulla sovrapposizione di monoliti di 2x1 metri, per 50 centimetri di spessore, che avviene secondo schemi necessariamente logici, dato che il peso di circa 2 tonnellate di ogni blocco non permette né i fronzoli né le gratuità dell’architettura che va di moda ultimamente. È
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In alto schizzi preliminari della cantina; sotto, una fase della costruzione in blocchi di pietra massiccia. Foto Agence Perraudin
talmente essenziale che l’ho costruito da solo, senza un’impresa, semplicemente noleggiando la gru e l’operatore e dirigendo le operazioni direttamente sul posto. I blocchi sono a secco e gli impianti passano a pavimento o a soffitto. Sono solo tre materiali tutti assemblati a secco: la pietra, il legno della struttura di copertura e del pavimento, vetro per le finestre e policarbonato alveolare per la luce tra una trave e l’altra. Dovendolo ristrutturare o demolire i singoli materiali si possono separare molto facilmente per il successivo riutilizzo e riciclaggio. Abbiamo poi ripetuto lo stesso principio costruttivo in altre due cantine, una a Nizas, nei pressi di Montpellier e l’altra, più recente, nel monastero di Solan e in una scuola a Marguerittes, vicino a Nîmes. Attualmente stiamo
realizzando un Museo del vino a Patrimonio, in Corsica.
Il suo lavoro è riconosciuto a livello internazionale nel campo della ‘green architecture’. Da dove ha preso avvio il suo interesse per l’ecologia e l’ambiente?
Quasi tutto il mio lavoro si sviluppa a partire da un interesse profondo per l’architettura vernacolare. Tutti i migliori esempi di architettura vernacolare sono una sintesi perfetta di aspetti come l’orientamento, il corretto utilizzo di materiali e tecnologie, il giusto rapporto con l’ambiente e il paesaggio che si è evoluta e perfezionata nel corso di centinaia, forse migliaia di anni. Il mio interesse per tutto questo ha avuto inizio, quando ero ancora studente, durante un periodo di lavoro e apprendistato con
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Gilles Perraudin
In questa pagina, la cantina-atelier di Vauvert. Foto ©Serge Demailly.
André Leveraux nella città di M’zab in Algeria, dove tra l’altro mi sono avvicinato al lavoro, secondo me notevole, di Hassan Fathy. Sarà infine che la mia formazione era originariamente come ingegnere e solo successivamente come architetto, ma ogni mia architettura parte sempre da un’analisi profonda delle tecnologie e delle soluzioni tecnico-costruttive, con un’attenzione particolare alle culture locali. Un approccio di tipo funzionalista sembra essere la forza dominante nel campo dell’architettura ‘ecologicamente orientata’. Non stiamo perdendo qualcosa per strada?
Credo che un approccio di tipo funzionalista si riveli con particolare evidenza in soluzioni ad alto contenuto tecnologico il cui obiettivo è quello della soluzione di questioni ecologiche. In realtà mi sembra che in questo modo si cerchi di risolvere problemi partendo dagli stessi presupposti da cui hanno avuto origi-
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ne. E questo ovviamente non funziona. A ben guardare anche la mania delle case ad alta efficienza energetica non è altro che l’ultima trovata commerciale per vendere nuovi prodotti e in fondo per complicare un po’ le cose. Questo anche alla luce del fatto che, facendo un’analisi attenta, si scopre che l’utilizzo in edilizia di isolanti come la lana di vetro o il polistirene in spessori notevoli, equivale a 30 o 40 anni di riscaldamento invernale. Considerando poi che in 30-40 anni un cappotto è da rifare, il bilancio ambientale non è mai rispettato. La questione di fondo è: ne vale la pena? Non è meglio semplificare? Il problema è che i regolamenti assecondano questa tendenza e rendono impossibile la realizzazione di alcune soluzioni come quelle dell’edificio in cui ci troviamo (realizzato prima dell’entrata in vigore dei regolamenti sull’efficienza energetica delle costruzioni N.d.C.) in quanto troppo ‘disper-
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denti’. L’ossessione degli ultimi tempi per gli isolamenti mi ha esasperato al punto di dire: “c’è un ponte termico: perfetto!”. Cos’è alla fine questo edificio se non un ponte termico totale? Lo stesso problema crede possa valere anche per tecnologie ‘intelligenti’ come il solare fotovoltatico?
Forse sì, come dicevo credo sia sempre importante fare un bilancio complessivo e sforzarsi di semplificare. Parafrasando Le Corbusier che diceva che una casa è una “macchina per abitare”, tutti gli edifici vernacolari sono delle fantastiche macchine bioclimatiche, capaci non solo di provvedere ottimamente al comfort abitativo, ma anche di entrare in completa armonia con il luogo e con il paesaggio. Ho visto edifici in Algeria pensati e articolati in modo tale che gli abitanti si trovano nei vari momenti del giorno ad occupare prevalentemente il locale con le condizioni migliori di temperatura e di
illuminazione. Tutto il contrario di questi recenti e infernali edifici che, appena si stacca la spina, muoiono ... con tutti gli abitanti. Quali sono le principali influenze nel suo lavoro? Quali del passato e quali del presente?
Come dicevo sono stato molto influenzato da Andrè Leveraux e da tutta l’architettura vernacolare. E tra i contemporanei, anche se non sono fonte d’ispirazione, ammiro molto il lavoro di Ralph Erskine, autore di lavori e studi interessantissimi durante il suo lavoro in Svezia, di Jorn Utzon, autore tra le altre cose di una bellissima casa in blocchi di pietra massiccia a Maiorca, e di Peter Zumthor, che trovo una figura davvero interessante. Come vede il futuro dell’architettura?
Considerando che non tutto il male viene per nuocere, forse l’attuale crisi finanziaria porterà al risanamento di una situazione che considero malata. In generale però non sono ottimista.
La tendenza alla complicazione è ormai totale tant’è che mentre una costruzione in pietra massiccia non trova il sostegno né delle ditte né del governo, una rivestita in pietra con un nuovo tipo di vite e con un aggancio brevettato sì. Questo corrisponde a sinergie profonde tra cultura dominante e trovate produttivo/ commerciali, come del resto il dover necessariamente abitare in locali tutti rigorosamente alla stessa temperatura, o concepire ambienti del tutto stagni e impermeabili. Penso che l’importante sia capire bene, in modo critico, le soluzioni tradizionali consolidate nel tempo e in un determinato luogo.
Il bello è che guardando alla tradizione lei sta facendo innovazione. Non è una specie di avanguardia?
Avanguardia vernacolare, mi suona bene!
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C.E.
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Diébédo Francis Kéré Architettura nella sua essenza «Mi nteressava costruire, certo non il diploma: in Burkina Faso nessuno mi avrebbe dato lavoro come architetto, dato che nessuno ha la minima idea di cosa sia un architetto. Ma ora se chiedi agli scolari di Gando cosa vogliono fare da grandi rispondono: voglio fare Francis»
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12 La torre dell’Hotel Bh4 di Marzorati
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A Milano l’Arengario casa del Novecento
20 Un hotel che prende forma dalla collina
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22 Award BSI a Francis Kéré
Campana Brothers in Triennale
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Anno 5 - n°36 - dicembre 2010 - euro 3,20 - Pubblicità: Font srl via Siusi 20/a 20132 Milano - tel. 02 2847274 - fax 02 45474060 pubblicita@fontcom.it - Sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Rete neuronale
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e il tormentone di inizio XXI secolo è “sostenibilità”, il termine che, dalla fine della guerra fredda e per tutti gli anni 1990, ha intasato le pagine dei giornali e ingolfato le bocche di intellettuali e non, è stato “globalizzazione”. Una parola attualmente poco in voga, forse proprio perché - nonostante il tragico momento di disillusione e brusco ridimensionamento seguito all’attacco del 11 settembre 2001 - la globalizzazione è ormai come l’aria: invisibile proprio perché permea ogni aspetto del nostro modo di vivere e di pensare. Il mondo si è trasformato in una metaforica rete neuronale planetaria. Idee ed informazioni viaggiano in tempo reale incuranti di distanze e a costo pressoché nullo, ostacolate solamente dal non volerle comprendere e utilizzare. Se “l’intelligenza collettiva”, a suo tempo teorizzata da Levy o da DeKerckhove, è in fondo sempre esistita, mai si è raggiunta una capacità così impressionante di interconnessione e comunicazione. Conoscenze come quelle fornite da un “banale” GPS e che prima richiedevano mesi, se non anni, di addestramento sono ora sono alla portata di tutti. Attraverso reti di contatti (social networks) attraversiamo facilmente fusi orari, destabilizzando i convenzionali concetti di organizzazione spazio-temporale, e creiamo identità virtuali, interferendo i tradizionali criteri di appartenenza ed interazione sociale. Realtà infine emergenti o precedentemente considerate locali, come dimostrano alcuni progetti pubblicati in questo numero, possono diventare il concentrato di esperienze maturate su scala globale, possono radunare lo stato dell’arte delle tecnologie costruzione, possono svilupparsi sulla base di iniziative e capitali generati da attività “globali”, diventando a loro volta globalmente influenti.
carlo ezechieli intervista Fernando romero / lar
La fabbrica del museo Uno dei protagonisti della recente architettura americana racconta la sua esperienza di lavoro proiettata nel panorama globale. Lo incontriamo nel suo ufficio, nel cantiere del museo a Citta del Messico
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Carlo Ezechieli
Biennale architettura / nico ventura
coperture d’avanguardia / daniela Baldo
incontrarsi in una piazza
Leggera come un velo
La 12a Mostra Internazionale di Venezia è incentrata sull’idea di riconsiderare la potenzialità dell’architettura nella società contemporanea
Grazie alle tecnologie innovative la ricerca estetica ha fatto passi da gigante nelle realizzazioni architettoniche degli elementi di copertura
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el viaggio di Paris-Texas, un padre rincontra il figlio mangiando un panino presso un grande svincolo autostradale. I due sembrano trovarsi a loro agio in un ambiente di solito considerato ostile e del tutto singolare nella veste di promotore di incontri. Invece, Wenders propone una prospettiva centrale con i due personaggi a lato, l’immagine si direbbe simbolica: le due
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IoArch numero 36 Dicembre 2010
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Arrivato alla sua seconda edizione il Premio BSI Swiss Architectural Award, e in particolare quello conferito quest’anno a Diébédo Francis Kéré, si sta rivelando un’iniziativa per molti versi rivoluzionaria. Dopo un paio di secoli di supremazia culturale dei paesi industrializzati – senz’altro meritata ma spesso calata dall’alto attraverso più o meno evidenti forme di colonizzazione – dimostra fi nalmente la possibilità di evoluzione del pensiero in architettura secondo forme complesse e molteplicemente orientate. Il contesto è globale e globalizzato e i protagonisti sono nuovi e notevoli autori – come Solano Benitez (vincitore della prima edizione), Wang Shu (che ha invitato Keré nella città di Zhou Shan alla trasformazione di un porto di pescatori in atelier per artisti), e lo stesso Francis Kéré – provenienti da aree fi no a pochi anni fa escluse dal dibattito architettonico. L’architettura di Kéré è essenziale, risponde a esigenze reali, consapevole del contesto in cui sta operando, rivela il rispetto di condizioni imprescindibili e una vigorosa onestà che l’architettura dei paesi industrializzati, che si sviluppa nell’abbondanza di mezzi e nell’ormai ricorrente e affannosa ricerca di una spettacolarità assurda, sembra avere perso da tempo. Da questo punto di vista il premio BSI 2010 segna un’importante volontà di ritorno alla realtà e, come messo in evidenza da Mario Botta (Presidente della giuria) nella sua ottima introduzione, un ritorno a un’originalità autentica da raggiungere attraverso la riscoperta di valori senza tempo. In occasione della conferenza stampa dello scorso 17 novembre a Mendrisio abbiamo avuto modo di rivolgere a Diébédo Francis Kéré alcune domande.
› IL MONDO INTORNO A NOI
In questa pagina, ampliamento della scuola elementare di Gando, nel Burkina Faso (2008). Foto ©Enrico Cano.
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Diébédo Francis Kéré Per cosa si distingue il lavoro di un architetto in Africa?
L’Africa è un contesto in cui le esigenze abitative si vanno modificando notevolmente. Nel mio villaggio (Gando, Burkina Faso, circa 6.000 abitanti), ad esempio, gli insediamenti tradizionali sono un insieme ben organizzato di capanne a pianta circolare, caratterizzato da una grande flessibilità in termini organizzativi e costruito con materiali immediatamente reperibili in loco. Ma edifici di questo tipo richiedono manutenzione periodica e vanno pressoché interamente rifatti ogni due anni. Va bene finché si tratta di piccole capanne ma se devo costruire una scuola per centinaia di bambini diventa troppo impe-
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gnativo, richiede troppo lavoro, troppi soldi e troppi materiali.
La cosa più interessante nel suo lavoro è la combinazione tra architettura e tecnologie moderne e tecniche del tutto tradizionali.
Di volta in volta studiamo l’utilizzo più adatto per ogni materiale, combinandoli tra loro. Ho scoperto, ad esempio, che mescolando l’8 per cento di cemento all’argilla dei mattoni posso aumentarne sia la resistenza allo sfaldamento, sia quella alla compressione. Come mescolando argilla con un 30 per cento di cemento e con sabbia e acqua ottengo un materiale di ottima resistenza. Così i miei mattoni non sono cotti, perché i combustibili sono costosi e difficili da reperire, ma compattati con
una macchina che abbiamo fatto apposta. La lamiera corrugata del tetto o i tondini di armatura che usiamo per le coperture sono economici e popolari ovunque anche in Africa. Le barre che abbiamo usato sono da 16 mm e, dato che nel villaggio non c’è elettricità, le saldiamo con un saldatore alimentato da un generatore a benzina.
Il suo percorso è abbastanza inusuale per una società prevalentemente di carattere rurale. Da cosa ha avuto inizio il suo interesse per l’architettura?
Come ci sono arrivato? Bella domanda! Quando avevo sette anni a Gando non c’erano scuole e io sono stato mandato a Tenkodogo, a circa 20 km di distanza, per frequentare le
› IL MONDO INTORNO A NOI
A destra e in basso, le residenze per docenti realizzate a Gando nel 2003: il sistema di raccolta delle acque conduce verso contenitori in terracotta che, microforati sul fondo, forniscono una irrigazione goccia-agoccia sufficiente a garantire la crescita di un piccolo orto durante la lunga stagione secca. Foto ©Enrico Cano.
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Diébédo Francis Kéré
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Sotto, l’edificio è concepito in modo da garantire un’efficace ventilazione naturale degli ambienti, generata dalla combinazione di un involucro massivo di mattoni in terra cruda provvisto di ampie finestre e volte con spiragli di aerazione, e una seconda copertura metallica molto ampia, che produce ombra e ripara l’edificio durante la stagione delle piogge. Foto ©Enrico Cano.
› IL MONDO INTORNO A NOI elementari. Prima e dopo la scuola dovevo lavorare. Mi alzavo molto presto per prendere l’acqua e ogni fine settimana continuavo a lavorare, trasportando materiali da costruzione, mattoni, sabbia e così via. 6 o 8 chilometri a piedi con i materiali a dorso di mulo. Poi c’era da riparare la casa dove vivevo, e anche questo era un lavoro molto duro. Per 6 anni ho lavorato trasportando pietra, mattoni, tagliandomi e pestandomi le dita per riparare in continuazione un tetto di legno. E ogni anno dopo la stagione delle piogge bisognava ricominciare daccapo. Ho passato troppi anni della mia gioventù per
non odiare tutto questo e cercare un sistema per migliorarlo. In seguito ho avuto una borsa di studio biennale per studiare da falegname in Germania. Questo mi ha permesso di uscire dal Burkina Faso e avere accesso a un livello superiore di istruzione. Finiti i due anni sarei dovuto tornare in patria, ma in Burkina Faso di legname da lavorare praticamente non ce n’è. Per di più, dopo essere stato in Germania le aspettative della mia famiglia chiaramente crescevano. E infine, volevo costruire una scuola nel mio villaggio natale. Così ho deciso di prendere una laurea in architettura.
Questa è in breve la storia di come sono diventato un architetto: mi interessava costruire, di certo non mi interessava il diploma. In Burkina Faso nessuno mi avrebbe dato lavoro come architetto, dato che nessuno ha la minima idea di cosa sia un architetto. Il bello è che ora, se chiedi ai bambini di Gando cosa vogliono fare da grandi, rispondono “voglio fare Francis”. Nessuno sa cosa sia un architetto ma tutti adorano partecipare alla costruzione, al progetto, e ovviamente frequentare le scuole che hanno contribuito a costruire. C.E.
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Anna Heringer La ricchezza della terra Anna Heringer propone un’architettura ispirata ai luoghi, al clima, ai materiali a basso impatto e a basso contenuto tecnologico. Il suo approccio si ispira alla saggezza costruttiva e all’intrinseca bellezza di molte architetture senza architetti
Anno 11 - n 70 - Giugno 2017 - euro 6,00 ISSN 2531-9779
l’artE DEl coStruirE ecoNomIA cIrcoLAre e ArcHITeTTUrA anna Heringer | martin rauch | b.e architecture Kraaijvanger architects | Biomorphis
Luoghi del lavoro
Smart working
5+1aa | DEGW | amDl | Beretta associati fDG | 967 architetti associati
Elements
Soluzioni pEr l’ufficio | pavimEnti E rivEStimEnti
Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano - Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 DCB Milano
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IoArch numero 70 Giugno 2017
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Come descriveresti il tuo lavoro?
Vedo l’architettura come uno strumento per migliorare la qualità della vita delle persone. Credo che qualsiasi discorso sulla sostenibilità implichi direttamente la bellezza, che automaticamente esprime l’armonia tra risorse, clima, luogo, identità architettonica e culturale e giustizia sociale. Non credo che il ruolo di plasmare l’ambiente debba essere di esclusivo appannaggio di grandi multinazionali. La natura è caratterizzata da un’abbondanza formidabile e possiede una qualità estetica intrinseca.
Da cosa è nato il tuo interesse per tecniche come la costruzione in terra cruda?
Più che altro dipende dall’interesse nelle tecniche di costruzione tradizionali. Il mio lavoro non si rivolge unicamente alla terra cruda, ma anche a pietra, legno, tutti i materiali dell’architettura tradizionale e pre-industriale che vengono attualizzati o adattati a circostanze
specifiche. L’utilizzo di questi materiali contribuisce a consolidare un’identità e una forte appartenenza al luogo e il tutto avviene in maniera assolutamente naturale.
Credi che tecnologie di ispirazione tradizionale a basso impatto ambientale ed energetico possano essere impiegate con successo anche nei paesi postindustrializzati?
Questo è davvero un punto chiave. Dopo l’architettura Moderna, il cemento è stato proposto come l’unico materiale, invulnerabile, così solido da non prevedere alcun intervento di manutenzione o di adattamento, nonché quel-
La scuola/laboratorio di Anandaloy in Bangladesh. A destra il corridoio di distribuzione in legno e bambù cui si accede da una rampa in lieve pendenza (©Studio Anna Heringer, ph. ©Kurt Hoerbst).
› IL MONDO INTORNO A NOI
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Anna Heringer
lo meno impegnativo in termini di lavoro, e pertanto di costi. La verità è che se facessimo un calcolo sull’intero ciclo di vita, dall’estrazione allo smaltimento, il cemento dovrebbe costare molto di più. Per di più ci si immagina che duri all’infinito, mentre oggi opere anche importanti costruite cinquant’anni fa stanno letteralmente collassando, con tutti i problemi conseguenti, non ultimo quello della dispersione di questi materiali nell’ambiente. Un altro aspetto è la crescente automazione. Se le macchine rubano il lavoro allora chi potrà mai pagare le pensioni e ogni altra forma di soste-
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Sotto, gli ostelli di Baoxi di Anna Heringer. Gli alberghi sono edifici bioclimatici il cui equilibrio interno è garantito da grandi masse murarie e da sorgenti naturali (foto ©Julien Lanoo).
gno finanziario per la comunità, se non le macchine stesse? Il lavoro delle persone è energia, e una certa non secondaria quantità di lavoro artigianale e manuale di alto livello dovrebbe essere presente sempre e in ogni caso, e il suo costo mantenuto accessibile, perché genera opportunità sociali e culturali.
Anche se l’ormai celebre Francis Kéré diceva di aver iniziato a studiare l’architettura proprio perché esausto ed esasperato dalla quantità inumana e costante di lavoro che implicava il mantenimento delle tradizionali capanne del suo villaggio nel Burkina Faso?
Terra cruda e bambù sono da sempre i materiali da costruzione più utilizzati nella regione. Il progetto degli ostelli di Baoxi di Anna Heringer riconnette l’architettura all’abbondanza biofisica della natura (foto ©Jenny Ji; disegni ©Studio Anna Heringer).
È importante capire la tradizione e aggiungere sempre un adeguato livello di innovazione. Da questo punto di vista abbiamo senz’altro bisogno di tecnologie di prefabbricazione e in parte di accelerare il processo di costruzione. Quello che facciamo è migliorare continuamente le tecnologie tradizionali. Con la terra cruda abbiamo due approcci possibili: il primo è migliorare le caratteristiche fisico-meccaniche e chimiche del materiale, ad esempio con l’aggiunta di circa il 10 per cento di cemento. Quantità minima ma che ne aumenta la resistenza e semplifica notevolmente i processi di
› IL MONDO INTORNO A NOI
Guest house SECTION
Guest house GROUND FLOOR
Guest house TOP VIEW
Youth hostel “women” SECTION
Youth hostel “women” FIRST FLOOR
Youth hostel “women” TOP TERRACE
Youth hostel “men” SECTION
Youth hostel “men” GROUND FLOOR
Youth hostel “men” TOP TERRACE
costruzione. L’altra è comprendere la vulnerabilità del materiale mettendo a punto ogni soluzione e accorgimento per prevenirne ad esempio l’erosione. Un procedimento più complesso e laborioso ma che si basa su una comprensione molto profonda del materiale, della tecnica e del clima al punto da diventare un percorso incredibile di scoperta e identificazione con il luogo. Entrambi i modi di ragionare portano a edifici più resilienti. Come tutte le opere costruite dall’uomo, un giorno spariranno, ma senza lasciare alcun danno, tramandando e distri-
buendo sapere, identità e ricchezza.
Quali sono le tue fonti principali di ispirazione?
Tutta l’architettura vernacolare, il luogo, come pure le forme consolidate di artigianato locale, come ad esempio quelle di costruzione di cesti intrecciati e molte altre. Chi sono i tuoi mentori?
Il mio maestro è Martin Rauch, dove ho iniziato a lavorare. Siamo i due lati della medaglia: mentre lui lavora qui in Europa, io lavoro nel Sud del mondo e nei Paesi in via di sviluppo. E ammiro molto, tra gli altri, Marina Tabassum del Bangladesh e Anupama Kundoo dell’India.
Sopra, sezioni e piante dei tre ostelli (©Studio Anna Heringer).
Qual è il tuo messaggio per il futuro … e per gli architetti?
C’è un’incredibile abbondanza proprio sotto ai tuoi piedi e può fornirti tutte le risorse di cui hai bisogno. Semplicemente, usalo e avrai una vita e un ambiente più sano, ricco e produttivo. C.E.
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Julia Watson
Un’antica attualità «È difficile sostenere che tecnologie che richiedono grandi quantità di energia e di risorse siano a basso impatto ambientale». Con Julia Watson, architetto e saggista, alla scoperta del valore e dell’attualità di un’architettura ancora presente in molte culture indigene ioArch
Anno 14 | Novembre 2020 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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tecnologia alternativa attualità dell’architettura soft-tech
il PrOGettO Del retail luce colore Materia
grAftoN | omA | bIg | JulIA WAtSoN | ANNA herINger | dAvId umemoto ArNAudo + cAmerANA | dIdoNé comAcchIo | JAcopo AccIAro | cArlo doNAtI gAlANte meNIchINI | mASSImo IoSA ghINI | mIchele perlINI | mArIo teSSArollo
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IoArch numero 90 Novembre 2020
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Hai pubblicato un libro bellissimo, ormai un best seller. Riguarda architetture e paesaggi che hanno resistito alla prova del tempo per centinaia, talvolta migliaia di anni. Da cosa nasce il tuo interesse per questi temi?
Deriva soprattutto dalla mia attività d’insegnamento. Ho insegnato a Harvard e alla Columbia e ho tenuto laboratori di progettazione visitando diversi Paesi e diverse comunità. Molte di queste sono comunità indigene. Questo nell’intento di comprendere e contrastare i problemi del degrado ambientale e del cambiamento climatico.
È interessante osservare come qualsiasi importante momento di transizione abbia preso come riferimento un passato, spesso remoto. Le avanguardie del XX secolo si ispiravano ad antichissime sculture africane. Il Rinascimento al passato classico. Come credi che lo studio di culture molto antiche, come quelle indigene descritte nel tuo libro, possa ispirare il nostro futuro?
Quello che mi sembra di vedere è che c’è ormai un’attenzione diff usa verso soluzioni basate sulla natura e sulla conservazione di aree umide, di foreste primigenie, di territori incontaminati. A dir la verità è un approccio verso la conservazione dello status quo molto occidentale e sostanzialmente estraneo alle culture indigene. A tutto questo si affianca una vera e propria polarizzazione sull’alta tecnologia, che tendenzialmente richiede molti investimenti, un’industria e, ovviamente, una certa quantità di energia. Di certo non è un sistema che lavora con una soft tech, con i sistemi naturali, né è capace di adattarsi all’alternanza ciclica delle stagioni, ed è un approccio che senza denaro e senza industria diventa sostanzialmente inapplicabile, mentre tecnologie a basso costo,
› IL MONDO INTORNO A NOI
locali, possono adattarsi ad ogni scala di intervento. Questo, alla fine, è ciò a cui noi architetti e urbanisti stiamo guardando, ovvero la capacità di comprendere ecosistemi complessi e di applicarli alle diverse scale, adattandoli alle condizioni più diversificate. Credi che siamo dominati da un’imperturbabile fiducia nella tecnologia?
È incredibile che perfino in ambienti accademici molti sostengano che sia inutile preoccuparsi del cambiamento climatico perché prima o poi salterà fuori qualche soluzione tecnologica che sistemerà tutto. In breve prevale una sorta di lotta tra un approccio molto occidentale dove contano l’industria, il denaro e la ca-
pacità di sviluppare sistemi ad alto contenuto tecnologico, e un altro, che si sviluppa in condizioni completamente diverse e caratterizzate da scarsità di risorse, che però aguzza l’ingegno e rende possibili risposte estremamente efficaci e incredibilmente resilienti in termini di adattamento all’ambiente, spesso in condizioni estreme. Non credo sia né interessante né produttivo aprire una disputa se un approccio sia migliore o peggiore dell’altro, ma piuttosto – e questo riguarda molto da vicino il mio lavoro con Lo-TEK – comprendere quale sia la soluzione migliore in base alle esigenze e alle condizioni specifiche. Ritengo comunque sia davvero difficile sostenere che tecnologie, che
per essere messe in pratica richiedono grandi quantità di energia e di risorse, siano a basso impatto ambientale e praticabili nel lungo termine. Il più delle volte sono rimedi parziali e temporanei. Se vogliamo un cambiamento sistemico dobbiamo pensare in modo sistemico.
Si parla molto di un Green New Deal, ovvero di un investimento massiccio in grado di dare impulso a una forma di economia capace di favorire l’ambiente. Ma naturalmente il tutto si innesta su un modello di sviluppo che è lo stesso dal quale derivano i problemi per l’ambiente.
Quello che generalmente viene proposto è che sistemi ad alta efficienza e ad alta tecnologia si diffondano a un punto tale da diventare sem-
Un’immagine dal progetto di tesi di Giovanni Rossi e Margherita Favaro, relatore Aldo Cibic, che ispirandosi a Rethinking Happyness ipotizza la trasformazione di un’azienda agricola in campus a comunità agro-tecnologica.
Un giovane pescatore cammina sotto un ponte di radici viventi nel villaggio di Mawlynnong, India. Nell’umidità di Meghalaya il popolo Khasi ha usato le radici di alberi della gomma per far crescere questo genere di collegamenti tra le sponde per secoli (ph. ©Amos Chapple).
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› TECNOLOGIA ALTERNATIVA
Julia Watson
pre più economici, e applicabili a scale differenti. Ovviamente sarebbe possibile riferire lo stesso principio anche a sistemi a basso contenuto tecnologico, che tradizionalmente sono presenti in tutto il mondo, soprattutto in agricoltura. Le aree umide agricole a est di Calcutta, ad esempio, oltre a produrre cibo, permettono di risparmiare almeno 21 milioni di euro all’anno sui soli costi di gestione per il trattamento delle acque reflue. Il livello di vita della gente che abita in quelle aree, apparentemente a basso reddito dato che si tratta di un settore informale basato sul commercio del pesce e di prodotti ortofrutticoli, pur mettendo a disposizione servizi di grande valore, non è in alcun modo riconosciuto a livello economico. Le forme rivolte a contrastare il degrado ambientale, come appunto il cosiddetto Green New Deal, non possono ignorare queste forme a basso costo e a basso contenuto tecnologico ma che mettono a disposizione servizi che esistono da secoli e che sono di importanza cruciale.
E su un altro versante abbiamo l’attivismo, come vedi il suo ruolo?
Attivisti che hanno una forte influenza, anche Greta Thunberg, propongono prevalentemente sistemi di compensazione ambientale, come le foreste o aree umide, in breve parlano di servizi ecosistemici passivi, da preservare, anziché di servizi ecosistemici attivi. In realtà esistono centinaia di situazioni in cui aree umide, foreste, perfino deserti, sono abitati da persone che le coltivano secondo pratiche non estrattive/ speculative, che finiscono per prosciugare rapidamente ogni risorsa, e mantengono invece un equilibrio costante con l’ambiente. Permettono alle comunità non solo di sostenersi, ma anche di evolversi. In breve, non abbiamo ancora pienamente realizzato che abbiamo moltissime soluzioni “nature-based” ma di tipo attivo, che possono essere applicate in moltissimi contesti.
Basiamo tutta la nostra attività sulle tecnologie senza renderci conto che probabilmente è innazitutto necessario un cambiamento di riferimenti. Credi sia ancora possibile incorporare nella nostra cultura la consapevolezza a livello ambientale che molte culture indigene ancora conservano?
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A destra, le sacre risaie terrazzate di Mahagiri, sull’isola di Bali, in Indonesia, sono irrigate e coltivate secondo un metodo agricolo millenario conosciuto come subak, unico al mondo (foto ©David Lazar).
Il mio lavoro si concentra soprattutto sulla ricerca di adattamenti basati su un rapporto molto stretto con i sistemi naturali, sulle diverse forme di rispetto nei confronti dei sistemi naturali, dai quali ovviamente dipende la nostra sopravvivenza. Ma non credo che, malgrado l’interesse crescente, questo livello di consapevolezza sia ancora molto sviluppato né in architettura, né all’interno dei movimenti ambientalisti. O meglio, non tanto un riconoscimento quanto una forma di riverenza, capace di arrivare al punto di affermare che la leadership dovrebbe essere nelle mani delle comunità indigene, riconoscendo tutto il valore della loro cultura in termini di rapporto con l’ambiente. Credo al contrario sia ancora presente una certa forma di marginalizzazione. Questo malgrado nelle culture indigene vi siano ormai scienziati e antropologi e credo che proprio da lì dovrebbero provenire molte delle conoscenze di cui abbiamo bisogno. Stavi parlando prima di esempi dove paesaggi interi sono stati trasformati e sono abitati ma senza distruggere l’ambiente, ma cosa dire delle città, super affollate da persone che hanno ormai perso qualsiasi contatto con l’ambiente?
Dipende molto dalle città di cui si parla. È vero che le città stanno diventando sempre più grandi ma a velocità differenti e secondo diverse condizioni. C’erano secoli fa città intere costruite su isole galleggianti, su laghi che fornivano ogni genere di nutrimento e di servizio ecosistemico. Poi con l’espansione delle città, dato che servivano sempre più terreni edificabili, è andata a finire che ci si è costruito sopra. Questo è successo a Boston come a Città del Messico, e oggi nelle stesse aree umide a est di Calcutta, costantemente minacciate dall’urbanizzazione. Molti sistemi assolutamente validi, sopravvissuti per secoli, sono stati cancellati, per così dire, dal progresso. Resta il problema di città che si sviluppano a rapidità forsennata, costruendo su luoghi che prima erano occupati da foreste e, ovviamente, ponendo le basi per problemi ambientali, se non addirittura per la diffusione di epidemie.
Se penso a una città come Shenzhen in Cina, si sta sviluppando molto rapidamente costruen-
do su aree umide o su aree che un tempo erano adibite alla coltivazione, all’allevamento o alla pesca. Una città in rapida espansione che sviluppa molti progetti e organizza innumerevoli concorsi di architettura. Credo che in casi di questo tipo abbiamo una grandissima opportunità per riscoprire le forme del paesaggio tradizionale, estremamente sicure anche rispetto a eventi meteorologici, e per riproporle evitando inondazioni, conservando la biodiversità, la complessità, senza trasformare i luoghi in un disastro. Un’ultima domanda: il futuro un po’ capita un po’ lo si costruisce. Come vedi questi prossimi anni?
› IL MONDO INTORNO A NOI
Direi che disponiamo ormai di tutte le conoscenze. A parole sappiamo come fare, ma abbiamo un’assoluta necessità di amplificare tutto questo, anche ascoltando coloro che stanno facendo di tutto per guidarci verso il cambiamento. Sfogliando infine i libri di architettura di cinquant’anni fa, sembrano quasi un archivio di quello che ci ritroviamo oggi. Mi auguro che tra cinquant’anni, guardando i libri di architettura di oggi, si abbia più o meno la stessa sensazione di vedere realizzate molte delle migliori idee di questi anni. C.E.
A sinistra, il libro-manifesto di Julia Watson Lo-TEK (la sigla sta per Traditional Ecologic Knowledge) con una prefazione dell’antropologo Wade Davis. Pubblicato da Taschen, esplora soluzioni sperimentate per millenni dall’uomo per vivere in simbiosi con la natura, soluzioni che oggi possono contribuire a contrastare gli effetti del cambiamento climatico.
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› CITTÀ DEL XXI SECOLO
Moshe Safdie Nuovi scenari per città intelligenti Uno dei protagonisti dell’architettura contemporanea racconta il suo punto di vista sul traffico e il futuro delle città
IOA 11-1a7
16-10-2007
1:47
Quali pensa siano i fattori principali che guidano il cambiamento?
Pagina 1
ottobre 2007
Due ruote in città
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Vélib’ a Parigi un progetto ambizioso
Studio del mese
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C+S Associati innovazione e tradizione
Progetto del mese
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Milano Santa Giulia città ideale ma reale
Orizzonti
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La città dopo l’automobile frammenti di una visione ANNO 2 numero 11 euro 2,50
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IN QUESTO NUMERO
La città senza automobili
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ualche anno fa, nel museo dei trasporti pubblici di Londra un cartello diceva: “La velocità media del traffico a Londra nel ‘500 era di 16 km/h; nel 1999 è di 16 km/h”. Evidentemente in 500 anni, almeno per quanto riguarda la città, non c’è stato un grande progresso, si è semplicemente messa in gioco una quantità spaventosa di energia, di tempo, di spazio, di gas di scarico, di rumori molesti e di ferraglia per arrivare allo stesso risultato. Ne è valsa la pena? Nel rapporto città/automobile si concentrano le più palesi contraddizioni contemporanee: veicoli di 1000 chili per trasportare un solo occupante di si è no 80, macchine fatte per spostarsi più che altro ferme ai semafori e con i motori accesi, veicoli che impiegano 15 minuti per compiere un tragitto e 30 per trovare un posto libero. Senza contare lo spazio. Spazi aperti come viali o piazze, rappresentativi della ricchezza di un ambiente urbano tramandati dal passato, declassati al ruolo di parcheggi. Partendo da queste considerazioni abbiamo deciso di esplorare il tema delle “città intelligenti” raccogliendo contributi come quello di Moshe Safdie, autore di progetti che hanno fatto la storia dell’architettura, e nel 1997, di un ottimo saggio sul tema, o quello della MIT Media Lab Concept Car, espressione formalmente significativa del concetto di conversione dell’auto da “bene” a “servizio”. L’obiettivo è quello di proporre e suggerire una risposta a una domanda fondamentale: “è possibile una città più bella ed efficiente senza automobili?”. Carlo Ezechieli
PIANIFICAZIONE E AUTOMOBILI SECONDO MOSHE SAFDIE
Nuovi scenari per
città intelligenti Uno dei protagonisti dell’architettura contemporanea racconta il suo punto di vista sul traffico e il futuro delle città
ARCH. MOSHE SAFDIE
Nato ad Haifa nel 1938, si trasferisce in Canada e si laurea in architettura alla McGill nel 1961. Dopo un periodo trascorso nello studio di Kahn a Filadelfia ritorna a Montreal per occuparsi del masterplan dell’Expo’67, dove realizza il progetto Habitat. Nel 1970 apre uno studio a Gerusalemme e si occupa del piano urbano della città. Nel ‘78 diventa professore a Yale e in seguito alla McGill, alla Ben Gurion e ad Harvard, e trasferisce lo studio a Boston. Tra i suoi lavori più recenti: il Telfair Museum of Art a Savannah (Georgia), lo Yad Vashem Museum (il museo dell’Olocausto) a Gerusalemme, gli aeroporti internazionali di Tel Aviv e di Toronto.
L’INTERVISTA
Slow bike
ricetta vincente Progetto per Marina Bay Sands a Singapore (ArchPartners)
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oshe Safdie è uno degli architetti più coinvolti nelle tematiche legate allo sviluppo della città del futuro. Lo incontriamo a dieci anni dalla pubblicazione di The City After the Automobile e gli chiediamo se ha notato qualche cambiamento di rilievo. “Qualcosa sta gradualmente emergendo. Per esempio, a Boston si è andato consolidando un servizio, simile al concetto Ucar, chiamato Zipcar: l’utente individua con un GPS consultabile via web la posizione della
Zipcar più vicina e la prenota. Cammina fino all’auto, in genere a non più di un isolato di distanza, e la sblocca con una carta tipo bancomat. Alla fine dell’utilizzo, la lascia per l’utente successivo: in strada, in un parcheggio o in posteggi riservati. Non si è proprietari di un’automobile, ma si compra un servizio, si prende una macchina per lasciarla nel luogo più comodo una volta usata. È un’attività in crescita. Un punto importante verso il cambiamento è la traslazione del concetto di automo-
TRASPORTO CICLISTICO COME SISTEMA
Münster, sviluppo
“
Si ha un cambiamento solo quando ci si trova bloccati e non c’è altra alternativa che rivoluzionare sia il mindset sia il modo in cui si facevano le cose in precedenza.
”
a misura di bicicletta
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l mezzo più utilizzato per muoversi a Münster, una città di 255mila abitanti nella regione tedesca della Renania Settentrionale-Vestfalia, è la bicicletta. Un’abitudine tanto radicata da vedere diminuire il numero delle due ruote in città solo del 10-15% quando il tempo è brutto (neve compresa). E che richiede costanti interventi e un’attenta progettazione urbanistica e viaria perché si mantenga agli attuali livelli. Area di traffico intenso è quella della
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stazione centrale, verso la quale ogni giorno convergono e dalla quale prendono il via alla volta dei luoghi di lavoro migliaia di cittadini e di pendolari in bicicletta. Con evidenti problemi di parcheggio che hanno trovato soluzione nella Radstation. Realizzata dall’azienda comunale Westfälische Bauindustrie, è un garage sotterraneo (la struttura interna è stata progettata dallo studio Thormälen e Peukert) continua a pag. 2 >>>
bile da bene a servizio per la mobilità. Le principali compagnie di autonoleggio stanno incominciando a intuire le potenzialità di un nuovo concetto di automobile quale strumento per la mobilità e non come oggetto da possedere”. Quali pensa siano i fattori principali che guidano il cambiamento? Innumerevoli casi dimostrano che uno dei principali motivi di continua a pag. 3 >>>
Moshe Safdie è uno degli architetti più coinvolti nelle tematiche legate allo sviluppo della città del futuro. Lo incontriamo a dieci anni dalla pubblicazione di The City After the Automobile e gli chiediamo se ha notato qualche cambiamento di rilievo. «Qualcosa sta gradualmente emergendo. Per esempio, a Boston si è andato consolidando un servizio, simile al concetto Ucar, chiamato Zipcar: l’utente individua con un Gps consultabile via web la posizione della Zipcar più vicina e la prenota. Cammina fino all’auto, in genere a non più di un isolato di distanza, e la sblocca con una carta tipo bancomat. Alla fine dell’utilizzo, la lascia per l’utente successivo: in strada, in un parcheggio o in posteggi riservati. Non si è proprietari di un’automobile, ma si compra un servizio, si prende una macchina per lasciarla nel luogo più comodo una volta usata. È un’attività in crescita. Un punto importante verso il cambiamento è la traslazione del concetto di automobile da bene a servizio per la mobilità. Le principali compagnie di autonoleggio stanno incominciando a intuire le potenzialità di un nuovo concetto di automobile quale strumento per la mobilità e non come oggetto da possedere».
Per il 30% dei ferraresi la bicicletta è il mezzo di trasporto quotidiano. Abitudine inossidabile favorita da una gestione attenta e rigorosa
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entotrentamila abitanti, una percentuale di utilizzo del 30,9% (DataBank 2000) della bicicletta da parte dei cittadini che ne posseggono in media 2,8 ciascuno. In questi rapidi tratti è radiografata la continua a pag. 2 >>>
Una città in cui l’ecologica due-ruote ha un ruolo tanto importante da meritare un parcheggio tutto suo nel cuore della città
IoArch numero 11 Ottobre 2007
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Innumerevoli casi dimostrano che uno dei principali motivi di cambiamento è una regolamentazione seria e ben formulata. Il parcheggio illegale, ad esempio, è un incentivo perfetto per aumentare sempre più il traffico, la congestione sta spingendo in modo esponenziale la domanda di parcheggi. Singapore, una realtà che ho avuto occasione di conoscere in modo approfondito durante lo sviluppo di al-
cuni progetti, ha messo in atto già diversi anni fa un sistema automatico per tassare le auto in ingresso in città. La tariffa media, di circa 10 dollari, aumenta nelle ore di punta. Questo provvedimento ha avuto un buon impatto sul trasporto urbano, riducendo clamorosamente il traffico. Londra si è in seguito mossa nella stessa direzione. Si ha un cambiamento solo quando ci si trova bloccati e non c’è altra alternativa che rivoluzionare sia il mindset sia il modo in cui si facevano le cose in precedenza. Quali considera oggi gli esempi migliori di buona pianificazione a livello internazionale?
La questione è piuttosto tra chi la pianificazione la fa e chi non la fa. Un passo che è impossibile compiere senza politica. Nello scenario internazionale Singapore sta intraprendendo forti interventi di pianificazione, la Cina lo sta facendo di meno. L’Europa dell’Est, l’Olanda, la Scandinavia, anche la Gran Bretagna hanno una buona esperienza e una tradizione piuttosto forte. All’inizio del ventesimo secolo, ad esempio, gli inglesi erano eccellenti nel disegno urbano a scala ridotta, come si può vedere nelle colonie o in alcune parti di Londra. Più di recente la Spagna sta investendo grandi energie, mentre il resto dell’area mediterranea sembra essere meno orientato verso la gestione e la pianificazione. Oggi i trasporti costituiscono l’aspetto più importante per la pianificazione urbana, con un peso anche maggiore dell’uso dei suoli. Infine, in urbanistica credo sarà molto importante imparare a confrontarsi con il disegno a grande scala. Questi presupposti sono stati il punto di partenza per il masterplan da noi sviluppato per la nuova città di Modi’in in Israele, ora di 70.000 abitanti ma pensata per ospitarne 200.000. Diffusione o densità, un ‘giardino per tutti’ o ac-
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Sopra, New York, vista del Columbus Center (Steve Rosenthal). A destra, Mamilla, vista del villaggio di David (Michal Ronnen Safdie).
cumulare e impilare: quale nuova tendenza dominante per gli insediamenti?
Mettere a confronto tra loro le differenti tendenze è la tensione tra il desiderabile e quello che ti puoi permettere ed ha accompagnato la storia della mia vita fin da quando ho disegnato Habitat nel 1967. Lo sprawl va in una direzione e la densità in un’altra. Credo che concentrazioni urbane come Hong Kong, dove mi trovavo qualche settimana fa, siano eccessive. D’altro canto chi sa se saremo in grado di so-
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Moshe Safdie
In queste pagine, disegni e render del Marina Bay Sands a Singapore (ArchPartners).
stenere, dal punto di vista ambientale e sociale, il sistema dello sprawl. Probabilmente la chiave sta in una densità intermedia e nel mantenere un buon equilibrio tra densità e dispersione insediativa. Qualche raccomandazione per l’Italia?
È un Paese con un paesaggio bellissimo e regioni con una fortissima identità e tradizione ma, nello stesso tempo, è uno di quei casi un cui i trasporti e il traffico rappresentano un grande problema. L’automobile è senz’altro dominante e questo è un problema da risolvere. Allo stesso tempo, poco sembra possibile a
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livello di governo nazionale che, come i precedenti, è un sistema di coalizione e incorpora tutte le debolezze tipiche di queste forme di governo. Forse qualcosa in più può essere fatto a livello regionale o municipale. Allo stesso tempo, penso sia importante dedicare un certo impegno al miglioramento dei sistemi intermodali, come è stato fatto in Svizzera, dove i nodi principali – aeroporti e città – sono interconnessi in modo molto efficace. Gli aeroporti sono diventati hub funzionali da cui partire in treno per raggiungere diverse destinazioni senza doversi recare alla stazione della città più
vicina. Questo significa, ad esempio, potere andare direttamente a Genova dall’aeroporto di Milano Malpensa senza dover passare per la stazione centrale di Milano..
Cosa pensa potrà influenzare la forma delle città o rappresentare un buon tema di progettazione nei prossimi anni?
Qualcosa che certamente avrà un impatto sostanziale sulla forma delle città è il disegno e la gestione degli spazi pubblici aperti. Le città più belle hanno sistemi di spazi aperti perfetti. A New York, come in molte altre città, la formazione di aree verdi ha dato un’impronta molto
forte. Le città possono acquisire e conservare terreni alla loro periferia che, con il passare del tempo, diventa centro della città. Polmoni verdi sono capaci di mantenere l’equilibrio tra le parti della città dense e affollate, quelle diffuse e quelle a media densità. C.E.
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Marta Schwartz L’esterno dell’architettura Attrarre, mantenere intelligenza e creatività: un ruolo che la città svolge anche attraverso la qualità degli spazi pubblici
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Identità globale
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Architetto del paesaggio e artista. Il suo interesse principale si rivolge a progetti urbani e all’esplorazione di nuove espressioni di progettazione nel paesaggio. Titolare di Martha Schwartz Partners ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali. È professore di Architettura del Paesaggio presso la Harvard University Graduate School of Design. Progetti recenti comprendono il Mesa Arts Center a Mesa, Arizona; la residenza privata dello Sceicco Sheikh Saud Al-Thani a Doha, Qatar, in collaborazione con Arata Isozaki, Philip Johnson, Santiago Calatrava e Jean Nouvel, e molti altri progetti in tutto il mondo.
L’esterno dell’architettura Attrarre, mantenere intelligenza e creatività: un ruolo che la città svolge anche attraverso la qualità degli spazi pubblici
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o iniziato a lavorare con Martha Schwartz ormai diversi anni fa rimanendo, allo stesso tempo, affascinato e travolto. Affascinato dalla brillante e lucidissima sovrapposizione tra architettura e arte, e travolto dalla moltitudine di colori, materiali, influenze latino-californiane che caratterizzano il suo lavoro. Martha ha dato inizio a un approccio inedito, per molti versi radicale, all’architettura del paesaggio, contribuendo in modo significativo alla ridefinizione delle coordinate che iden-
ARCHIGLOBAL
della democrazia Verso l’urbanistica a partire dalla città costruita egli anni ‘80 e ‘90 il dibattitto sulla crescita urbana in Spagna girava intorno al concetto di periferia. Erano tempi segnati dalla rinascita economica di un paese che era appena entrato in un regime democratico. La possibilità di crescita fisica di molte città diede origine a espansioni sproporzionate, soprattutto sul litorale mediterraneo, dimenti-
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MARTHA SCHWARTZ
tificano l’architettura del paesaggio e spostando l’attenzione dal puro “verde” verso il tema, molto attuale, di come progettare “lo spazio che si trova al di fuori dell’impronta degli edifici”. Il suo percorso progettuale l’ha portata da miniature come il Bagel Garden in un front yard di
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Per attrarre talento si sta attualmente manifestando un bisogno disperato di progettare e migliorare le città, ma non è possibile farlo semplicemente costruendo edifici.
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Eredità urbane
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Capolavori di tessitura in filo d’acciaio
CRESCONO LE ASPETTATIVE SULLA QUALITÀ DELLA CITTÀ E DEI SUOI SPAZI APERTI PUBBLICI
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a locandina di “Caos calmo” ritrae il protagonista seduto su un modello di panchina, diffuso in giardini e giardinetti di tutta la nazione, in doghe metalliche “antivandalismo”e dal disegno più “minimo” che minimalista. Credo che questa sia un’immagine emblematica e capace di sollevare una questione fondamentale: perché, pur producendo il miglior industrial design del mondo, l’Italia dispone di un repertorio tanto modesto nel campo dell’arredo urbano? Mentre a livello internazionale molte città propongono interventi coraggiosi e architetture al passo con i tempi, da noi il tema della riqualificazione degli spazi aperti urbani sembra ancora marginale o ancorato ad oltranza a modelli del passato. Una forma di schizofrenia vede da un lato il centro storico, sancta sanctorum, con un carattere spesso costruito artificiosamente, e dall’altra aree meno centrali ma non per questo meno intensamente frequentate lasciate a sé stesse. Il tutto mentre le città, e in particolare le metropoli, si trovano proiettate in un sistema molto ampio e intricato di rapporti e di relazioni dove vince la capacità di produrre, diffondere e rappresentare idee e cultura. Gli spazi urbani non edificati, quelli aperti alla frequentazione del pubblico, e non gli edifici, sono il luogo dove per eccellenza si svolge questa rappresentazione. Piccoli dettagli, talvolta invisibili: dalla presenza capillare del verde, alla diffusione e cura del buon design, fino ad aspetti sostanziali come la fondamentale necessità di equilibrio tra spazi edificati e spazi aperti, assumono un ruolo cruciale nella definizione di una qualità urbana complessiva. Questo anche senza passare per il rafforzamento obbligato di un’identità aggrappata alla storia. Carlo Ezechieli
design
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Il KKL di Lucerna dieci anni dopo
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Le città sono in competizione e in costante bisogno di attrarre capitale economico e intellettuale, vogliono usare l’architettura per ‘ben apparire’. Quali sono gli ingredienti fondamentali per il miglioramento?
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cando casi esemplari, come i nuovi insediamenti progettati da José Luís Fernández del Amo. La “mineralizzazione”, nel termine di Manuel de Landa, del bordo della città fu una condanna per lo spazio pubblico che divenne il grande assente dalla pianificazione. Solo ora ci ricordiamo della necessità di praticare un’urbanistica preventiva invece di
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Back Bay a Boston, a grandi interventi in Europa e nel mondo, dalla Javitz Plaza a Manhattan alla Exchange Square a Manchester, diventati ormai luoghi di riferimento per architetti e pubblico. La incontro nel suo studio di Londra, e dall’intervista escono temi attualissimi riferiti alle città, al loro potenziale e al ruolo del paesaggio e dell’estetica per il loro miglioramento. Le città sono in competizione e in costante bisogno di attrarre capitale economico e intellettuale, vogliono usare l’architettura per “ben apparire”. Quali sono gli ingredienti fondamentali per il miglioramento? Credo che le città si mettano a collaborare e ad investire risorse solo quando è tracciato un percorso e quando qualcuno si continua a pag. 2 >>>
L’INTERVISTA: ANGELA AIROLDI
Grandi città crescono Comprendere i cambiamenti dell’economia è il primo passo per progettare i nuovi sistemi territoriali urbani
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rbanistica, economia, sociologia, scienza delle infrastrutture sono le competenze che hanno dato vita a MidLand, uno studio sul futuro del sistema urbano milanese promosso da Assimpredil Ance. In occasione della presentazione di MidLand abbiamo incontrato l’economista Angela Airoldi, che al documento ha lavorato insieme a Gaetano Lisciandra, architetto e urbanista, al sociologo Mario Abbis e a Giorgio Goggi, esperto di infrastrutture, e le abbiamo chiesto perché sia così forte oggi su scala globale la competizione tra città. “Nell’economia della conoscenza – esordisce Angela Airoldi -, dove vincono l’innovazione e l’efficienza dei processi, è la città, o meglio il sistema territoriale di cui continua a pag. 3 >>>
un’urbanistica curativa.(1) L’uso restrittivo di tre strategie di crescita: l’ampliamento, la città giardino e il distretto industriale, semplificò eccessivamente le possibilità di uno sviluppo che avrebbe dovuto essere molto più complesso. Nel contempo le infrastrutture, quelle visibili (le vie di comunicazione e trasporto) e quelle invisibili (le reti di approvvigionamento idrico, di gas, elettricità, telecomunicazioni ecc.) non si sviluppavano di pari passo con la città. Quasi improvvisamente il dibattito sulla periferia si ridusse quando questo spazio pieno di possibilità si riempì di costrucontinua a pag. 3 >>>
Ho iniziato a lavorare con Martha Schwartz ormai diversi anni fa rimanendo, allo stesso tempo, affascinato e travolto. Affascinato dalla brillante e lucidissima sovrapposizione tra architettura e arte, e travolto dalla moltitudine di colori, materiali, influenze latino-californiane che caratterizzano il suo lavoro. Martha ha dato inizio a un approccio inedito, per molti versi radicale, all’architettura del paesaggio, contribuendo in modo significativo alla ridefinizione delle coordinate che identificano l’architettura del paesaggio e spostando l’attenzione dal puro ‘verde’ verso il tema, molto attuale, di come progettare “lo spazio che si trova al di fuori dell’impronta degli edifici”. Il suo percorso progettuale l’ha portata da miniature come il Bagel Garden in un front yard di Back Bay a Boston, a grandi interventi in Europa e nel mondo, dalla Javitz Plaza a Manhattan alla Exchange Square a Manchester, diventati ormai luoghi di riferimento per architetti e pubblico. La incontro nel suo studio di Londra, e dall’intervista escono temi attualissimi riferiti alle città, al loro potenziale e al ruolo del paesaggio e dell’estetica per il loro miglioramento.
IoArch numero 17 Mag/Giu 2008
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Credo che le città si mettano a collaborare e ad investire risorse solo quando è tracciato un percorso e quando qualcuno si muove prendendo l’iniziativa. A Londra, per esempio, si è manifestata negli ultimi anni una fortissima aspettativa circa la qualità della città e dei suoi spazi aperti pubblici. Tra pianificatori e pro-
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gettisti termini come mix funzionale, varietà di utilizzo, frequentazione nell’arco delle 24 ore sono viste come il Santo Graal per il miglioramento della qualità urbana. Personalmente, penso che alcune delle questioni chiave siano: quali sono le necessità per il miglioramento? Come funziona lo spazio e per chi? La gente necessita senz’altro di qualche forma di identificazione psicologica con i luoghi ed è in queste situazioni che si manifesta la necessità di un design particolarmente creativo e di luoghi rappresentativi dove si definisce e conferma un’identità. Tuttavia, non tutti gli spazi aperti devono essere degli scintillanti ‘spazi firmati’: la qualità può essere benissimo raggiunta attraverso azioni molto semplici e quasi invisibili. Come piantare alberi in strada, che è un intervento semplicissimo ma allo stesso
tempo un’azione strategica di enorme portata, con un impatto positivo sotto molti aspetti: dal miglioramento ambientale ed estetico fino al controllo della sosta dei veicoli.
Mentre il concetto attuale di ‘località’ coincide in molti casi con una realtà costruita per l’occasione, la ‘globalità’ si configura sempre di più come una collezione di località multiple. Ammesso che esista, come è possibile inquadrare il concetto di ‘identità urbana’?
Credo che in un mondo sempre più globalizzato sia anche aumentato il desiderio di distinguersi. Questo vale per gli individui come per le aziende, e ora anche per le città. C’è una classe media che sta venendo alla ribalta in India e in Cina ed una domanda crescente, non solo di risorse, ma anche di talento, di istruzione di alto livello e delle condizioni necessarie ad
In questa pagina, Place de la République, Parigi, 2013. Architettura TVK / Trévelo & Viger-Kohler; paesaggio Martha Schwartz e Areal (immagine courtesy Martha Schwartz Partners).
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› CITTÀ DEL XXI SECOLO
Marta Schwartz
In queste pagine il Mesa Arts Center (Mesa, Arizona), per il quale è stato progettato uno shadow walk dove rilassarsi, godere il fresco dell’acqua e la bellezza della vegetazione (foto Martha Schwartz Partners).
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attrarre e mantenere intelligenza e creatività. C’è più gente che ha libertà di scelta, e scelta significa in molti casi optare per il meglio e, alla fine, per ciò che è più attraente. Anche in Europa, che vedo sempre più identificabile come gli ‘Stati Uniti d’Europa’, aumenta il numero di persone che possono scegliere luoghi interessanti dove vivere. Da questo punto di vista, per attrarre talento si sta attualmente manifestando un bisogno disperato di progettare e migliorare le città, ma non è possibile farlo semplicemente costruendo edifici. Quali esempi val la pena citare come migliori e più brillanti, sia attuali che del passato, in termini di buon disegno di spazi aperti e di città?
Barcellona è senza dubbio un esempio fantastico dove, attraverso il design, è stato possibile dare origine a un intero nuovo sistema di eco-
nomia urbana. Tra gli interventi di molto tempo fa e molto celebri, penso che il Central Park di New York di Olmsted, con la sua capacità di dare un ordine strutturale alla città, sia un altro esempio notevolissimo. Come del resto Parigi, dove il ruolo dell’architettura e degli edifici è stato mantenuto in secondo piano a favore della realizzazione di una città di viali, parchi e promenade che rivelano un orientamento spaziale molto chiaro e ben definito. Nella mia percezione è una città molto femminile: bella, elegante, con molta attenzione al verde e ai giardini, con molta armonia ed equilibrio. Al suo opposto troviamo Dubai: una città fatta esclusivamente di edifici. Da un lato luoghi simbolici, sempre bellissimi, dall’altro una quantità impressionante di spazi – dai marciapiedi, ai parcheggi, alle giratorie – dove
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il design è totalmente fuori dal programma. Pensa sia necessario intervenire su questi spazi?
Naturalmente! Penso che dovunque ci sia la necessità di progettare ciò che normalmente viene inteso come un problema esclusivamente tecnico, pur trattandosi di uno spazio importante almeno in termini quantitativi, come spesso capita per i parcheggi, ci dovrebbe sempre essere un architetto del paesaggio con funzione di consulente. Nella maggior parte dei casi, con azioni molto semplici e senza apprezzabili incrementi di costo molte situazioni possono essere migliorate drasticamente. Questo partendo dal presupposto che il design non ha bisogno di essere provocatorio. Azioni semplici e strategiche, oltre a fare generalmente una grande differenza, rappresentano una massa critica. La chiave di tutto è farle fun-
zionare come sistema. Perfino dare o non dare multe per sosta vietata è una decisione progettuale. Costruire una città come Houston, dove i parcheggi occupano tutti i livelli stradali è una decisione progettuale (anche se malsana) ed è molto forte! Ha iniziato a lavorare negli Stati Uniti e durante gli ultimi anni ha realizzato numerosi progetti in Europa. Quali sono le differenze principali?
Dal mio punto di vista l’Europa sta balzando verso il futuro grazie alle sue regolamentazioni in campo ambientale che, alla fine, stimolano l’inventiva e soluzioni intelligenti. Inoltre, in Europa ho trovato una comprensione più ampiamente diffusa del valore del buon design. L’economia è sempre una questione fondamentale in entrambe le realtà, mercenarie in ugual misura, ma probabilmente in Europa questa at-
titudine si inquadra in un’equazione più estesa. E ora la classica domanda sui riferimenti.
È così difficile rispondere adesso, dopo anni tutto sembra amalgamarsi. Ormai mi è impossibile identificare qualcosa invece di qualcos’altro. L’unica cosa che posso dire è che sono attualmente molto influenzata dall’arte e il mio lavoro consiste probabilmente in ampia misura nella sovrapposizione dei confini tra arte e design. Devo comunque aggiungere che tra il mondo delle belle arti e quello del design ultimamente trovo quest’ultimo estremamente creativo ed interessante. Per ultimo, qualche consiglio per le città e per gli architetti italiani?
Si, andate e trovate dei buoni architetti del paesaggio! C.E.
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Alan Weisman
Conto alla rovescia La condizione attuale, la visione per il futuro e le sfide per l’architettura in una conversazione con Alan Weisman
Mentre il bestseller Il Mondo dopo di noi era per Alan Weisman la ricerca – attraverso l’ipotesi ‘per assurdo’ di assenza totale e improvvisa della specie umana – di come e fino a che punto i fattori antropici incidono sul funzionamento dell’ecosistema, il saggio successivo Countdown del 2013 è stato l’esperimento contrario: ovvero il tentativo, di fatto molto concreto, di comprendere la situazione di una Terra sovrappopolata e delle relative conseguenze ambientali e sociali. Entrambi i temi propongono una chiara triangolazione tra noi esseri umani, l’ambiente che ci circonda e l’insieme delle modificazioni che abbiamo introdotto in vista delle nostre necessità: in poche parole l’architettura. Ripercorrere questa esplorazione attraverso una conversazione con l’autore è stata un’opportunità speciale per comprendere il futuro delle città e le sfide per l’architettura in un mondo demograficamente sempre più sotto pressione. Una delle quattro fondamentali domande di Countdown era: quanto ecosistema è necessario per sostenere la nostra specie, e per quanto tempo? Qual è in sintesi la risposta?
Anno 11 - n 68 - Febbraio 2017 - euro 6,00 ISSN 2531-9779
Sovrappopolazione e stress ambientale
PROGETTI PER un mOndO affOllaTO
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Terremoti e ricostruzione
firmitas
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Dopo la pubblicazione di Countdown ho viaggiato in tutto il mondo per un paio d’anni, non solo per parlare del libro ma anche per metterne a fuoco le questioni, e il fatto curioso è che delle quattro domande questa è quella a cui nessuno sembra avere una chiara risposta. Questo perché − a differenza di un esperimento scientifico, confutato da prove − l’unico modo per rispondere sarebbe togliere una specie dopo l’altra, finché non otterremo la risposta. E questo, ovviamente, non è possibile. Tuttavia qualche elemento emerge. Alcuni casi di estinzione, apparentemente insignificanti,
danno origine a conseguenze importanti nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, il ruolo degli impollinatori (come api e calabroni) nella produzione di una vasta parte della nostra alimentazione è ampiamente noto. Il calabrone è stato dichiarato di recente negli Stati Uniti una specie minacciata e di conseguenza lo sono le nostre risorse alimentari. Più siamo più consumiamo energia e dalla produzione di quest’ultima dipendono cambiamenti, anche importanti, nella composizione chimica dell’atmosfera e sul clima. Un altro esempio: gli uccelli non sono solo graziosi animali che volano nell’aria, ma sono specie che mangiano gli insetti. Quando, per via di cambiamenti climatici, gli uccelli non migrano più tra i continenti, gli insetti proliferano dando origine a malattie prima sconosciute come Zika o Chikungunya o la malattia di Lyme, che qui nel New England dove vivo
A destra, la torre David di Caracas, un grattacielo di 45 piani rimasto incompiuto a causa della crisi economica del 1994 e trasformato in una sorta di slum verticale. Alfredo Brillembourg e Hubert Klumpner (Urban-Think Tank) hanno studiato per oltre un anno l’organizzazione fisica e sociale dell’edificio, dimora improvvisata per più di 750 famiglie. Il progetto, documentato da un reportage fotografico di Iwan Baan, nel 2012 è stato premiato con un Leone d’Oro alla 13esima Biennale Architettura di Venezia Common Ground. Foto ©Iwan Baan, courtesy Lars Müller publishers.
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› CITTÀ DEL XXI SECOLO
Alan Weisman
si è diffusa a macchia d’olio, tanto che io stesso ne sono stato colpito e ho faticato quasi un anno per liberarmene. Nel Mondo senza di noi non era certo mia intenzione immaginare un modo finalmente libero dagli esseri umani. Credo al contrario che la nostra specie sia meravigliosa, sia in grado di aggiungere bellezza, di portare la materia a un livello sublime attraverso l’arte, di esplorare, di costruire. Ma è anche vero che questo ha valore entro un giusto equilibrio, che è sempre più difficile ottenere.
UN REPORTAGE SUL NOSTRO FUTURO Con una popolazione in crescita esponenziale e un inquinamento che altera l’intero ecosistema, il sogno di un futuro lungo e prospero rischia di trasformarsi nell’incubo di un domani incerto, funestato da carestie e tragedie climatiche. Un viaggio in venti Paesi, dalla Palestina divisa alla Cina dei figli unici, passando per alcuni Stati islamici, interrogando esperti di vari settori per comprendere meglio quel che ci aspetta. Conto alla rovescia Alan Weisman Editore Einaudi 584 pp - euro 21,00 ISBN 978-88-062-1815-7
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La proposta di Le Corbusier del 1930, in piena età industriale, per una città da 3 milioni di abitanti, era composta da un insieme di self-contained cities che lasciavano fondamentalmente intatto il paesaggio. Cosa dire oggi sul futuro delle città e dell’architettura?
Capita che tutte le maggiori città capitali, con qualche eccezione – come Parigi ad esempio – si trovino in stretta vicinanza alle coste. Le fondazioni degli edifici, dei grattacieli in particolare, non sono pensate per sopportare un regime costante di inondazione e se – come riconosciuto da tutti (tranne forse da Donald Trump) – il livello del mare tenderà a salire, sarà necessario o spingersi nell’entroterra o costruire edifici sopraelevati. E naturalmente, se cambia il clima possono aumentare le piogge, e di conseguenza le inondazioni. Questo significa un grande lavoro da parte di ingegneri e architetti per capire come tenere sotto controllo fiumi e corsi d’acqua assecondandone la natura, dato che quest’ultima vince sempre. Circa il progetto delle città, pur con le sue criticità una maggiore densità abitativa ha senza
dubbio il vantaggio di ridurre l’impronta sul terreno, lasciando ampie porzioni libere non urbanizzate ed evitando la cancellazione di terreno coltivabile. Senza contare una maggiore efficienza dei trasporti pubblici: efficienti e onnipresenti nell’iper-densa New York e pressoché inesistenti, con gravi conseguenze a livello ambientale, a Los Angeles. Le proiezioni dicono che arriveremo presto a 10 miliardi. Ma se questo è un limite possibile, come dovrebbe trasformarsi l’ambiente e gli edifici in cui abitiamo?
A dire la verità non credo che arriveremo a 10 miliardi. È veramente troppo, soprattutto rispetto al modo attuale di fare le cose. Metà delle terre emerse è dedicato unicamente a sfamarci. È una condizione di enorme squilibrio che la natura tende automaticamente e inesorabilmente a correggere e che spesso ha come conseguenza tragiche riduzioni della disponibilità di cibo. La Siria, ad esempio, negli ultimi sei anni è stata colpita da una forte siccità. I contadini si sono trovati a dover abbandonare le campagne dove avevano sempre vissuto, per trovarsi nelle città, disoccupati e senza fonti di sostentamento. Hanno perso la loro cultura, le loro radici. Una situazione esplosiva, che ha prodotto le conseguenze che tutti conosciamo. Guerre terribili vengono spesso innescate dalla combinazione esplosiva tra sovraffollamento e crisi ambientali. E questo non è privo di conseguenze neppure per l’Europa, date le massicce ondate migratorie in corso che tra le altre cose provocano l’affermazione di movimenti protofascisti. Sono condizioni inevitabilmente destabilizzanti.
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A sinistra, Los Angeles. In questa pagina, Manhattan (sopra) e Chicago.
Ma di fronte a questi fatti innegabili quale visione per il futuro?
Anche se non dobbiamo e non possiamo, i fatti confermano che stiamo puntando a una popolazione di dieci miliardi. Supponiamo che non capiti nulla di tragico – epidemie, carestie, guerre, disastri in genere – a rallentare questa corsa. La questione diventa allora: come vivremo? Di certo abbiamo necessità di spazi verdi, intatti, e questo non certo per una sorta di compiacimento psicologico. I trasporti devono modificarsi completamente, come del resto le modalità di produzione del cibo, puntando sulle alghe. Architetti, ingegneri, scienziati, ogni genere di competenze dovranno lavorare insieme per risolvere questioni progettuali del tutto nuove. Non sottovalutiamo il fatto che un mondo di dieci miliardi di persone – in una condizione come quella attuale in cui è così facile condividere informazioni e idee – è anche una formidabile intelligenza collettiva. E soprattutto con un approccio olistico. Che il risultato complessivo non coincida con la
somma delle parti è un concetto fondamentale, ma perché?
Rispondo con un esempio. Un paio di anni fa ero in India in un incontro con un’associazione di ‘green architects’. Mi portano a visitare un edificio certificato Leed: 120 piani, di cui 80 di appartamenti, con viste spettacolari verso il mare. L’aumento delle temperature non è un problema, dal momento che l’edificio e l’aria condizionata funzionano in base a criteri di massima efficienza, riciclando e raccogliendo l’acqua. Però, dato che i garage si trovano inevitabilmente ai piani bassi o interrati di Mumbay, che è una città costiera, nessuno dei ricchi abitanti di questo lussuoso ‘green building’ sarebbe contento di trovare un giorno la sua Ferrari sommersa solo perché insieme alla temperatura si è alzato anche il livello del mare. Questo è il grosso problema di non pensare a un edificio quale parte di un sistema, dato che un edificio esiste sempre in relazione e dentro un ambiente. C.E.
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› TERRITORIO DECENTRATO
Stefano Fera
Urbanità diffusa Le considerazioni di Stefano Fera riscoprono il fascino e l’attualità delle città storiche d’Italia
Meglio evitare ormai il termine virale, anche se qualche eccezione va fatta, come per il contributo di Stefano Fera, sviluppato in ambito teatrale e rilanciato online (bit.ly/2WLqyZV) affermandosi come un positivo contagio culturale. Nel suo racconto Fera solleva importanti interrogativi sul modo in cui oggi pensiamo e sviluppiamo le città e mette in luce l’unicità del modello di ‘urbanità diff usa’, alternativo alle grandi concentrazioni metropolitane, che caratterizza profondamente il sistema insediativo italiano. Temi che abbiamo deciso di approfondire con lui in questa intervista. I capoluoghi italiani sono stati per secoli centri di cultura e arte. Negli ultimi tempi sembravano aver perso terreno rispetto alle metropoli, questo almeno finché una circostanza come il Covid-19 ha rimescolato le carte. Come vede il futuro prossimo di queste piccole capitali d’Italia?
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Anno 14 | Luglio 2020 euro 9,00 ISSN 2531-9779 Font srl - Via siusi 20/a 20132 Milano Poste Italiane spA sped. in abb. postale 45% D.L. 353/2003 (conv. in l. 27.02.2004 n. 46) Art. 1 Comma 1 - DCB Milano
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territorio e appartenenza riallineare i luoghi e riconsiderare le realtà locali
diversi modi di abitare brIcoLo fALSAreLLA | ALfoNSo femIA | LombArdINI22 | mdu | gezA | peter pIchLer | km429 rrA | StefANo ferA | crIStINA mIttermeIer | gIANLucA brINI | woLfgANg merANer ArchIcurA | ALfredo vANottI | coStANtINo pAteStoS | fokStrot | LoreNzo bergAmINI
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IoArch numero 88 Luglio 2020
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Lo vedo bene, perché il futuro delle città italiane è legato alle loro caratteristiche storiche, del tutto uniche. Abbiamo città non solo belle, ma anche efficienti, con una qualità della vita eccezionale, che non ha pari in molte altre parti del mondo. Penso ad esempio alle città della Pianura Padana, poste a pochi chilometri l’una dall’altra, lungo la Via Emilia. Ricordo, inoltre, che le più antiche e importanti università italiane sono in città di medie dimensioni, quali Pavia, Bologna, Padova e Pisa, non in grandi città come Milano e Roma. Abbiamo una fortuna incredibile – che in verità non credo sia stata mai compresa fino in fondo – data da quella che chiamo urbanità diff usa, cioè da una qualità della vita urbana distribuita in modo abbastanza omogeneo su tutto il territorio nazionale. Tale urbanità diff usa è stata prodotta, nell’arco di due millenni, dalla rete
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delle strade consolari romane, ossia il sistema infrastrutturale terrestre più antico del mondo che da sempre facilita il collegamento tra i vari centri urbani. Questo il motivo per cui in Italia non si è mai sentita la necessità di megalopoli come Parigi, Londra o Madrid. È anche vero che Francia, Spagna e Inghilterra, a differenza dell’Italia, hanno avuto per secoli organizzazioni statali fortemente centralizzate. Ma è pure vero che l’accentramento amministrativo, culturale e politico, se da un lato esalta le città capitali, dall’altro impoverisce e rende marginali gli altri centri. Se prendiamo metropoli come Parigi, e ancor più Madrid, vediamo che al loro intorno c’è il vuoto. Da noi, al contrario, anche attorno a una grande città come Milano si ha un reticolo di piccole e antiche capitali
tuttora dotate di fortissima identità sociale e culturale. Ricordiamoci che in Italia abbiamo la parola ‘campanilismo’ che è intraducibile in altre lingue, se non ricorrendo a perifrasi. I Francesi hanno inventato, invece, lo ‘sciovinismo’, che è il suo opposto. In Italia, infatti, c’è un deficit di nazionalismo, mentre sentiamo tutti un attaccamento viscerale ai nostri luoghi di origine. Per noi Italiani il rapporto con la città è, nel bene e nel male, identitario. Ciò si deve al fatto che le antichissime città italiane, nonostante le invasioni, le guerre, i terremoti e le tante sciagure, mantengono tutt’oggi un’immagine nitida, distinta, caratterizzata e caratterizzante, prodotta da quell’eccezionale fenomeno tipicamente italiano che è stata la ‘civiltà di corte’; fenomeno che le ha rese tutte piccole
patrie. Sebbene fossero costantemente in guerra tra loro, è stata proprio la competizione tra città a farle diventare sempre più belle e uniche, generando una continua migrazione di intellettuali e artisti da una corte all’altra, come nel caso illustre del Bramante che sessantenne, caduto Ludovico il Moro, trasloca e inizia una seconda vita a Roma, alla corte papale. Nonostante tutto, le metropoli sono diventate sempre più polarizzanti sia a scala globale che nazionale. Milano ad esempio è ormai una sorta di buco nero rispetto ai centri, anche importanti, che le stanno intorno.
Questa trasformazione penso dipenda soprattutto dal passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario. Il che spiega anche la parabola discendente di Genova all’interno
Cesena, piazza del Popolo, ph. CC 4.0, autore Lorenzo Gaudenzi.
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› TERRITORIO DECENTRATO
Stefano Fera A destra, Bologna, portico di via Saragozza (ph. CC 4.0, autore Loris Quartieri). Nella pagina accanto, Fabriano, tracce di decorazioni a fresco del XII/XIII secolo sul voltone a sesto acuto che si apre sotto il corpo centrale del duecentesco Palazzo del Podestà e immette sul corso della Repubblica (ph. CC licenza 2.0, autore Heinz Bunse).
del cosiddetto ‘triangolo industriale’. Milano non è mai riuscita a diventare capitale unica dell’industria italiana, mentre oggi al contrario è l’indiscussa capitale finanziaria del Paese. La stessa rilevanza dei progetti architettonici milanesi, da poco realizzati o in fase di realizzazione, dipende dal fatto che qui si concentrano le capitalizzazioni immobiliari dei principali fondi d’investimento internazionali. Ormai questi processi seguono dinamiche singolari, quasi o del tutto inedite, almeno in Italia, fino a pochi anni fa. Oggi non si costruisce più per vendere o affittare, ma per creare asset immobiliari da mettere a libro. I nuovi edifici che vediamo sorgere a Milano hanno una funzione analoga a quella dei lingotti d’oro nei caveau. Importa poco che entrino nel circuito del normale mercato immobiliare basato su domanda e offerta, quel che conta è che tali edifici siano realizzati in aree il cui rating sia certificato secondo standard dettati dalla finanza internazionale. Faccio un esempio che ho seguito dall’inizio del cantiere, essendo un luogo in cui passo abbastanza spesso. A Parigi, lungo la Senna, di fronte all’Île Seguin, su una delle ex aree Renault, tra il 2004 e il 2007 Hines ha realizzato il Meudon Campus, un tipico baraccone da uffici all’americana: 18.000 mq distribuiti in cinque edifici su quattro ettari di landscaped park. Da quando è stato ultimato a oggi non è mai stato affittato e nessuno sembra preoccuparsene. Se una cosa del genere l’avesse fatta un classico investitore immobiliare del passato sarebbe fallito o avrebbe cambiato mestiere, invece Hines e soci continuano imperterriti a fare operazioni analoghe, a Parigi come altrove. Tutto ciò contraddice i criteri
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in base ai quali, per secoli, si sono costruite le città. Si può perciò parlare di finanziarizzazione selvaggia che, insieme alla turistificazione selvaggia (Airbnb e simili), sta cannibalizzando le principali città europee. Da ciò le bolle immobiliari che si susseguono con sempre più devastante intensità, ma anche i tanti quartieri antichi deserti e i nuovi nati morti che vediamo a Milano, come in tutte le altre città europee prese di mira dai fondi d’investimento internazionali. Certo che, se costruire senza nessuna necessità abitativa è una prassi che sfiora l’assurdo, anche costruire per vendere, in senso speculativo, ha avuto e ha impatti tremendi sulla qualità abitativa e ambientale. Si tratta di rifondare i presupposti di partenza. Come si dovrebbe sviluppare oggi una città?
La risposta, a mio avviso, è semplice: le città devono essere ripensate senza automobili, punto. È inutile scervellarsi a inventare pannicelli caldi di varia e fantasiosa ispirazione ambientalista/ecologista. Dobbiamo semplicemente smettere di pensare che le automobili siano indispensabili, questo è il grande tema urbanistico di maggiore urgenza e attualità. Tema che a gente di età maggiore o pari alla mia risulta utopico e inconcepibile, mentre per i ventenni è del tutto logico ed evidente. Ed è qui che le nostre antiche città, che fino a ieri consideravamo obsolete e sventravamo per renderle accessibili al traffico, ridiventano moderne e pienamente funzionali. Perché qui sta l’enorme differenza tra la metropoli nordamericana e nordeuropea e l’urbanità diffusa delle nostre città medio-piccole. Mentre in una città americana, senza automobile sei morto, in
qualsiasi centro storico italiano se non la possiedi stai benissimo, anzi, meglio. Se poi, come sembrerebbe, il telelavoro riducesse davvero la necessità di continui spostamenti, allora la dipendenza dal mezzo di trasporto privato diventerebbe quasi nulla, o per lo meno gestibile con sistemi di condivisione come il car-sharing o il bike-sharing. Qual è la chiave per far rinascere queste nostre piccole capitali?
Credo che la chiave stia nel non avere chiavi. Voglio dire, gli architetti devono smetterla di sentirsi i demiurghi del futuro e del sociale. Va già bene quando riescono a fare il loro mestiere senza causare troppi danni, figuriamoci risolvere i problemi di società complesse come le nostre. Questa forma di presunzione e d’egolatria culturale nasce nel momento in cui si afferma la figura dell’urbanista come soggetto professionale distinto e alternativo all’architetto. A partire dal ‘68 l’architetto è visto, infatti, come un vecchio aggeggio borghese, buono solo a far case per le signore bene. L’urbanista, al contrario, appare come il nuovo interprete della lotta di classe e l’artefice della società futura: a lui spetta il ruolo di veggente, quindi programmatore, pianificatore e regolatore di qualsiasi forma di sviluppo socioeconomico. Da questo equivoco sono emersi disastri immani. L’Italia è un paese ricco di differenze, da regione a regione: come in ambiente naturale esiste una grande biodiversità, così in ambiente urbano si ha altrettanta ricchezza e differenziazione edilizia, architettonica e urbanistica. Bisogna quindi evitare ricette precostituite, valevoli ovunque e comunque. In ogni caso, bisogna impedire agli urbanisti di predire
› IL MONDO INTORNO A NOI
il futuro. Esiste una letteratura che, se non avesse causato i danni che ha causato, sarebbe anche involontariamente umoristica. Si tratta delle previsioni, sbagliatissime, dei vari Piani Regolatori prodotti in Italia negli ultimi 60 anni. Un esempio per tutti: se Malpensa oggi è l’aeroporto di Novara, invece che di Milano, si deve al fatto che gli urbanisti dell’epoca fossero convinti che nel Duemila i due centri si sarebbero saldati dando vita a un’unica cittàregione. Per fortuna ciò non è avvenuto, ma il risultato è che Malpensa oggi è uno degli aeroporti europei più scomodi da raggiungere, con qualsiasi mezzo. Ritengo insomma necessario essere pragmatici, assecondare il nostro passato e soprattutto evitare di farci colonizzare culturalmente proprio nei campi in cui siamo più ricchi: architettura e città. Porto ancora un esempio che conosco bene: i quartieri di edilizia economica popolare realizzati a Genova negli anni ’80, in seguito alla
legge Nicolazzi sugli sfratti. La maggior parte dei complessi progettati dagli architetti di partito sull’esempio di new towns e villes nouvelles è oggi fatiscente e da demolire, mentre i due quartieri disegnati da Ignazio Gardella e Gianfranco Caniggia seguendo la logica delle città italiane sono in buono stato e offrono le migliori condizioni abitative. Gardella e Caniggia non hanno fatto nulla di eccezionale, hanno semplicemente disposto gli edifici come si è sempre fatto in Liguria: allineando le case a strade tracciate seguendo le curve di livello e l’orografia del terreno, quindi infischiandosene dell’asse elio-termico e di tutte le altre fesserie moderniste. Purtroppo, tali fesserie si sono spesso tradotte in leggi e norme urbanistiche che oggi ci impediscono di operare nel modo più logico. Per molto tempo non ci siamo resi conto dei tesori che avevamo. Inoltre la città storica era del tutto flessibile: in ogni edificio, finito un utilizzo se ne insediava un altro e non
c’era nessuna legge che lo impedisse. Talvolta si procedeva con alterazioni, anche pesanti, che tuttavia consentivano agli edifici di sopravvivere: conventi espropriati diventavano prigioni, laboratori, scuole, ospedali, musei. In questo modo diversi monumenti, sebbene malconci, si sono salvati e sono arrivati fino a noi. Visti nell’insieme, noi Italiani siamo un po’ come certe vecchie famiglie decadute che, affittati malamente i piani nobili del palazzo avito, si riducono a vivere nei locali della servitù lasciando meravigliosi mobili antichi a marcire in cantina, quindi arredandosi le loro quattro stanze con carabattole dell’Ikea. Questo è quanto abbiamo fatto finora, quasi dappertutto, con le nostre città e col nostro immenso patrimonio storico-artistico. Sarebbe ora di smettere e invertire la rotta. C.E.
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Antonio De Rossi Montagne incantate I territori di montagna e il ruolo dell’architettura per il loro recupero in un dialogo con Antonio De Rossi, uno dei protagonisti della rinascita di Ostana, piccolo centro piemontese passato in pochi anni dall’abbandono a polo di attrazione
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RECUPERO E CONSERVAZIONE dare valore all’eSISTeNTe
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IoArch numero 92 Marzo 2021
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L’aspro paesaggio della montagna la rende il territorio interno per eccellenza, dove luoghi un tempo popolati e produttivi sono stati abbandonati o convertiti in un’immagine idealizzata legata al turismo. Alcuni centri sembrano ora riemergere e ripopolarsi con esperienze di rara innovazione, dove l’architettura è protagonista. Ostana, ai piedi del Monviso, è uno di questi e Antonio De Rossi, figura di primo piano nel suo recupero, ci parla delle possibilità e delle sfide per la rinascita della montagna. Si è aperto un dibattito sulle nuove opportunità per aree fino a ora marginalizzate. Fino a che punto questo discorso è reale?
Senza dubbio è una questione complessa e delicata. Lavoro in questo campo da almeno vent’anni e, abitando in aree alpine, ovviamente mi fa piacere che questi temi siano diventati centrali. Trovo tuttavia concreta la minaccia di grandissimi equivoci, come l’ottica di marketing territoriale e la patrimonializzazione delle risorse locali, funzionali solamente al turismo. Le ritengo parte di una prospettiva ormai vecchia, perché il mondo sta cambiando, e non solo per via del Covid-19. Cercando di non essere troppo manichei, ciò che dirime l’approccio verso la montagna, è che da una parte c’è una visione legata al ‘consumo’ di questi territori, vale a dire: li frequento da turista, o in modo intermittente, perché è da sfondo al mio smart-working, perché ci vado in vacanza, nel fine settimana, perché consumo prodotti tipici o paesaggi. Dall’altra c’è la capacità di produrre non solo valori simbolici, ma anche valori d’uso, riuscendo a immaginare territori che non siano legati semplicemente al consumo.
Valori solidi al punto da poter riequilibrare il rapporto con le città?
Mentre ultimamente le città, forse con la sola esclusione di Milano, si sono andate deteriorando, esiste una moltitudine di situazioni piccole, anche fragili, ma che sanno produrre innovazione. La battaglia credo sia tra chi sta producendo nuove pratiche e nuovi valori, trasformandoli in valori di scambio, e chi resta ancorato a una visione puramente estrattiva di queste aree che infine dà origine all’esaurimento di territori e di risorse. E questo lo dico non certo per motivi ideologici, ma perché oggettivamente la logica del consumo è ormai vecchia e logora.
La chiave per uscire dalla marginalità è acquisire la capacità di esportare cultura. Quali casi si possono citare?
Senz’altro in Piemonte il caso della Valle Maira, che ha conosciuto una certa fama anche a livello internazionale, ha proposto un modello di turismo, e non solo, estremamente interessante e realmente sostenibile. Piccoli numeri, molto leggero, ampiamente basato su attività come escursionismo e sci alpinismo. Essenzialmente solo stranieri, certamente molto diverso dal turismo nel Chianti o nelle Langhe. Ci sono poi altri casi di turismo culturale, come quello legato alla fondazione Nuto Revelli, in una borgata di nome Paraloup, ristrutturata proprio per organizzare manifestazioni culturali di una certa risonanza. E ancora i casi delle cooperative di comunità, come tutte quelle che si sono sviluppate sull’Appennino o la stessa cooperativa di comunità di Ostana, che pur distaccandosi dal discorso dell’architettura e del paesaggio, hanno un grande valore. Prendono in gestione beni collettivi di questi paesi e li fanno funzionare, dando origine a
› IL MONDO INTORNO A NOI Alcune viste dell’esterno della Casa alpina del welfare Mizoun de La Villo (ph. ©Laura Cantarella).
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Antonio De Rossi
piccole economie. Ci sono poi casi di innovazione a livello culturale, come quello notissimo di Favara, in Sicilia. Oltre a Dolomiti Contemporanee, sempre in campo artistico e culturale, dove all’ideatore e curatore Gianluca d’Incà Levis è venuto in mente di recuperare grandi strutture in stato di semi abbandono. Cosa è cambiato o sta cambiando di più in questi territori interni?
La cosa interessante è che nei casi più intelligenti gli amministratori lasciano spazio a piattaforme, per usare un termine alla moda, sulle quali si innestano attività. A Ostana, ad esempio l’amministrazione è stata bravissima ad attirare e trattenere le persone migliori e allontanare i peggiori. Sono esperienze positive, in molti casi i paesi accolgono persone che fuggeono dalle città, ma qui portano innovazione. Come nel caso di due ragazzi, panettieri nell’hinterland torinese, che stavano cercando un luogo. Il sindaco li ha accolti, abbiamo modificato il progetto e loro hanno creato una panetteria/pasticceria di incredibile successo, con servizi su Vanity Fair e video con la Ferrero. Pur su piccola scala, è un’attività di tutto rispetto. Attirare i migliori e allontanare i peggiori?
Non è un giudizio di valore sulle persone in sé, ma sulla loro corrispondenza a situazioni di vita in montagna, che di certo non sono facili. È incredibile la quantità di persone che scrivono, non solo italiani, chiedendo di venire a Ostana. L’amministrazione deve fare una cernita. Molti sono sprovveduti, hanno una visione idealizzata dell’abitare in luoghi isolati, dal clima ostile, di dover portare i figli a scuola in fondovalle. Bisogna scegliere le persone più adatte, che possano portare avanti i loro progetti in un’ottica collettiva. E quanto conta l’architettura?
Conta moltissimo. È singolare che un caso come Ostana venga esposto in Biennale, pubblicato in tutto il mondo. Un paese di 50 abitanti, sfidando una realtà estremamente tradizionalista, ha ottenuto finanziamenti attraverso bandi competitivi. Come Politecnico abbiamo portato in questo paese fondi per almeno 5 milioni di euro, circa 100mila euro per abitante, in una realtà dove i trasferimenti
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dallo Stato sono intorno a 25mila euro l’anno.
Si dà molta importanza alle infrastrutture. Certo le strade che un tempo hanno reso raggiungibili i paesi di montagna sono diventate una via di fuga verso il fondovalle e le città. Siamo sicuri che anche con l’introduzione di internet, non si inneschino processi analoghi?
Le connessioni e l’accessibilità sono un aspetto importante, ma non sono il tema centrale come lo è invece costruire situazioni di abitabilità. Le persone che si sono trasferite a Ostana, torinesi, milanesi e persino un pakistano, sono persone che accettano uno stile di vita non urbano e forse anche un’idea di comunità. Non dobbiamo dimenticare che uno dei motivi per cui una volta tanti scappavano da questi centri, era fuggire da una chiusura e da un tradizionalismo tremendi. Noi vediamo oggi questa fuga come una tragedia, ma per molti a suo tempo è stata una vera e propria emancipazione. Quali sono allora i temi fondamentali?
Credo che i temi per le aree interne siano i tre a suo tempo delineati da Fabrizio Barca [già ministro della Coesione territoriale del governo Monti]: l’accesso a formazione/scuola, la presenza di presidi socio-sanitari, la mobilitàaccessibilità. Sembra una banalità ma per chi vive in montagna portare i figli a scuola può essere un problema, come del resto costringerli a passare la vita in pullman quando fanno le superiori. Questo è uno dei motivi principali per cui la gente si sposta a fondovalle o in pianura ed è una questione fondamentale. Naturalmente non possiamo pretendere di costruire un ospedale a Ostana, ma possiamo migliorare le connessioni. E al di là di tutto il dibattito degli ultimi tempi, sono temi che – a parte casi sporadici come la Tuminera di Gabetti e Isola (Bagnolo Piemonte 1978-1980), un luogo di produzione e vendita di formaggi locali – per gli architetti sono sempre stati del tutto marginali. In Italia non abbiamo una tradizione architettonica legata all’economia e al funzionamento di questi territori. È tutta da inventare. È curioso invece che in atre nazioni, ad esempio in Svizzera, situazioni isolate, con pochissimi abitanti, siano in grado di produrre ed esportare cultura. Come si spiega?
Credo che alla base ci sia un motivo culturale. Nella storia italiana, luoghi per così dire marginali, come del resto ben documentato da Giovanni Romano, sono stati influenti nel campo dell’arte e della cultura. La Svizzera è una sorta di città di città, di grande giardino pittoresco, ma è chiaro che luoghi che vanno dalla Soglio di Armando Ruinelli [pubblicato su IoArch n.77] alla Vrin di Gion Caminada (negli anni ‘80 i residenti di Vrin acquistarono tutti i terreni edificabili per impedire la speculazione edilizia e il conseguente aumento dei valori immobiliari, ottenendo in seguito il Wakker Prize per l’integrazione – a cura di Caminada – di edifici agricoli moderni con la struttura storica del villaggio N.d.C.) vengono percepiti come spazi rarefatti, pochi abitanti ma ugualmente importanti. Noi veniamo da una nazione che fino a cent’anni fa era del tutto agricola e si è industrializzata molto velocemente. Esiste qualche segnale di cambiamento?
Sono ottimista. Quando Nuto Revelli nel 1977 scrisse ‘Il mondo dei vinti’ sembrava che il destino delle montagne fosse per sempre finito. In fondo sono passati neppure 50 anni eppure sembra che al contrario la montagna stia rinascendo, insieme al dibattito sul policentrismo italiano, che è la storia dell’Italia. Credo in un rapporto di complementarietà tra città e territorio e credo anche che negli ultimi mesi ce ne siamo veramente resi conto. Un’ultima domanda, non facile, tranne che per chi studia questi temi da decenni. Quale potrebbe essere una ricetta per un riequilibrio del rapporto tra città e territori che negli ultimi anni, da partecipi, sono diventati sempre più marginali?
Credo che una cosa che manca moltissimo in Italia sia un trasferimento tecnologico adeguato, che tenga in considerazione i cambiamenti climatici in atto, le economie e le risorse della montagna. Il settore del legno è tra i più emblematici. Abbiamo una parte considerevole del territorio Italiano coperto da boschi che non vengono in alcun modo coltivati. Ma in edilizia – dove l’unico settore attivo nel campo delle nuove costruzioni è quello del legno – importiamo tutto il materiale d’opera dall’estero. Abbiamo foreste che non sono mai state
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curate, basate sul ceduo, senza fustaie. Al contrario, in Vorarlberg tutto il discorso legato alla filiera del legno si basa su investimenti in tecnologie di rilevamento e Cad/Cam piuttosto evolute. Si è creata una cultura forestale, occupazione, un profilo di gestione idrogeologica del paesaggio e una nuova forma di architettura costruita in legno che, superando la ripetizione stilistica della tradizione, è contemporanea. Se facessimo sulle nostre montagne anche solo il 20 percento di quello che hanno fatto in Vorarlberg risolveremmo moltissimi problemi, ma non lo facciamo per motivi di ordine prevalentemente culturale. La montagna viene vista in chiave del tutto conservativa, congelata dove a nessuno verrebbe mai in mente di fare investimenti per sviluppare economia e innovazione. C.E.
Ostana: l’esterno e uno spazio interno del Centro Culturale Lou Pourtoun (ph. ©Laura Cantarella).
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Armando Ruinelli Isola apparente Nelle opere di Armando Ruinelli l’originalità e l’attualità di un’architettura ben radicata nel contesto alpino ma capace di sintetizzare in modo inedito le influenze esterne
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Strano paese la Svizzera. Mentre il resto del mondo sembra polarizzarsi economicamente e culturalmente sulle città, sempre più grandi, sempre più affollate, lasciando deserte campagne e province, la Confederazione – neanche 9 milioni di abitanti, meno della metà di quelli di Londra e un Pil pro-capite più che doppio rispetto a quello dell’Italia – conserva il proprio paesaggio come un giardino condominiale e insieme a questo l’identità, se non addirittura l’influenza culturale ed economica, di piccoli centri e vallate. È questo il contesto in cui si sviluppa il lavoro di Armando Ruinelli. Il suo studio a Soglio, quota 1.000 metri, in Val Bregaglia, è in una posizione favolosa, con una grande finestra rivolta al panorama del gruppo Badile-Cengalo, oltre 3.000 metri. Un contesto naturale così importante, e l’effettivo isolamento, sembrerebbero soverchiare qualsiasi influenza o spinta verso l’esterno. Ma, appeso alle pareti dello studio, che lo scorso primo settembre festeggiava 30 anni di attività, un ritratto della casa di Barragàn a firma della grande fotografa Evelyn Hofer – residente per buona parte della sua vita a Soglio – rivela l’esatto contrario. Raymond Meier, fotografo per testate come il New York Times e Vogue, ha la sua casa e atelier – peraltro progetto dello stesso Ruinelli – a Soglio. Non solo Ruinelli, con suoi progetti pubblicati ormai in tutto il mondo, ma artisti – dai Giacometti a Segantini, da Bruno Ritter a Miriam Cahn, solo per citarne alcuni – risiedono o sono legati alla Val Bregaglia. Il lavoro di Ruinelli si sviluppa pertanto in un contesto speciale, caratterizzato da un’identità locale fortissima, ma non per questo incapace di cogliere sapientemente le influenze esterne. E il risultato è un mix incredibile tra tradizione – dove la ricerca sulle
qualità strutturali ed espressive dei materiali rappresenta un aspetto fondamentale – e una contemporaneità rielaborata in modo del tutto originale. Questa intervista, insieme alle tre opere di presentate di seguito, si confrontano con l’esistente e con la tradizione, con il luogo e con il tema della paziente ricerca dell’essenziale. Hanno caratteri differenti ma rivelano una capacità straordinaria di costruire nel presente, pensando al futuro ma a partire da radici che, a differenza di quanto capita nelle grandi città odierne, sono capillari e meravigliosamente robuste. In cosa consiste il tuo lavoro?
Per prima cosa sono un autodidatta. Per chi vuole fare l’architetto, una delle cose curiose della Svizzera è la possibilità di entrare, come si suol dire, ‘dalla porta di servizio’. È un approccio molto complicato, impegnativo, e che in generale sconsiglio. Manca di sistematicità e la scuola, sarà quel che sarà, ma comunque dà un percorso. Ma off re possibilità ed esiti interessanti, tanto che molti grandi nomi hanno seguito una itinerario di formazione non convenzionale. Personalmente ho avuto un approccio al mestiere molto artigianale, del tipo ‘prova ed errore’. Sono poi diventato architetto, ma il mio modo di fare questo mestiere è stato sempre provare a tradurre quello che viene ‘dalla pancia’, organizzandomi nel tempo per sapere se quello che mi dice l’istinto è corretto. A destra, casa RM, riqualificazione di una stalla a Soglio in Svizzera, centro che diede i natali ad Alberto Giacometti. Un’architettura contemporanea rivolta all’essenziale. Elemento unificante il cemento Pisé (foto ©Ruinelli Associati).
› IL MONDO INTORNO A NOI Alcune viste dell’esterno della Casa alpina del welfare Mizoun de La Villo (ph. ©Laura Cantarella).
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Armando Ruinelli
Molti tuoi lavori sono interventi di recupero che si innestano sull’esistente. Qual è il tuo rapporto con un luogo così singolare come la Val Bregaglia?
Devo dire che inizialmente, lavorando sempre in appoggio a qualche struttura preesistente, trovavo disorientante lavorare con nuovi edifici “sul prato”. Ma è stato un passaggio importante che mi ha portato a capire il luogo ancora di più. Parlando dell’esistente, c’è oggi un tema importante che riguarda i vecchi edifici rurali. Le stalle, ad esempio, sono ormai inutilizzabili per l’agricoltura, e si apre un dilemma: o crollano o diventano case per vacanza, e per un architetto il dubbio se recuperare o demolire. Lo stesso riguarda gli insediamenti: se voglio che sopravvivano devono essere rinnovati, deve esserci un’evoluzione. È chiaro che le esigenze cambiano. È un tema caldo e che sarà al centro del mio laboratorio di progettazione presso la Scuola universitaria Professionale di Coira. Cosa ti ha portato a fare l’architetto?
Mio padre era muratore, ma non credo che abbia influito molto. Avevo invece una grande passione per il disegno e così, decidendo che avrei dovuto imparare un mestiere, a 16 anni ho iniziato a lavorare in uno studio di archi-
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In questa pagina, casa RM, riqualificazione di una stalla a Soglio. Nelle foto, atrio e scala al piano terreno e vista della camera con bagno (foto ©Ruinelli Associati).
tettura a Zurigo, alternando questa attività alla scuola, come tirocinio per un diploma di disegnatore edile. Dopo questo periodo ho lavorato due o tre anni a Zurigo e infine, invece di scegliere un’altra scuola, ho deciso di tornare a Soglio. All’inizio degli anni Ottanta ho avuto l’occasione di conoscere Michel Alder, un eccezionale professore di architettura, allora impegnato in una ricerca sull’architettura della Val Bregaglia. Ho iniziato a collaborare con lui, all’inizio semplicemente presentandolo ai miei compaesani per accedere alle loro case, e in seguito sviluppando con lui molti lavori, che sono stati alla base di una lunga amicizia. Credo di aver imparato molto da lui. Gli mandavo per fax i miei progetti, per avere il suo parere. Le critiche erano a volte incoraggianti, a volte spietate, ma, vivendo in una realtà relativamente isolata, per me indispensabili. La Val Bregaglia così isolata e poco popolata ha una cultura molto ricca e una concentrazione incredibile di artisti influenti. Quali sono i motivi?
Difficile dirlo. Di certo c’è una lontana tradizione, che parte dal 1600-1700 di famiglie che hanno fatto grandi fortune lontano da qui, ma sempre tornando e mantenendo i contatti con
la Valle. I Redolfi, ad esempio, avevano contatti commerciali di altissimo livello con Venezia. I Castelmur erano di qui, e qualcuno di loro ha fatto fortuna. Erano pasticceri a Marsiglia, hanno accumulato grandi ricchezze. Rientrando in Val Bregaglia hanno realizzato opere grandiose, come il Palazzo Castelmur a Stampa. Come del resto Alberto Giacometti a Parigi e certamente tutta la famiglia Giacometti, anche il nostro collega, Bruno Giacometti. Fino a Cuno Amiet, pittore della Svizzera tedesca, molto amico di Giovanni Giacometti. Quanto contano le radici?
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Contano certamente, ma a condizione che ci sia un periodo di permanenza e crescita fuori da questi luoghi, che io amo molto, ma se non esci c’è il pericolo di continuare a girare sul posto. Uscendo si porta qualcosa di nuovo, di utile a livello culturale e sociale. Anche quando qualche mio giovane convalligiano mi chiede un periodo di apprendistato lo esorto sempre ad andare fuori, col rischio che non ritorni più, ma se un giorno tornerà il suo contributo sarà enorme. Le radici sono importanti, ma devono essere accompagnate alla voglia di sapere, di conoscere e di capire.
Ti definiresti un “Regionalista critico”?
Nel senso di occuparmi della tradizione non tanto cercando di ricrearla ma di capirla e ricercando una sintesi con la contemporaneità, direi senz’altro di sì. Un consiglio per i giovani?
Da un lato, questo mestiere sembra diventare progressivamente tutt’altro che divertente. La parte tecnologica tra prendendo il sopravvento. Anche iniziative come Casaclima stanno proponendo soluzioni – con edifici imbottiti di polistirolo che non si sa come smaltire – che finiremo per pagare. Come studio ci è capitato di
realizzare una casa nell’ex Germania dell’Est. Le norme Din non lasciano spazi, avevamo specialisti per ogni dettaglio, al punto che è andata a finire che il camino l’ha disegnato il consulente dei caminetti. Una situazione paradossale, tanto che sono ormai convinto che ogni atto di resistenza contro la normalizzazione dell’architettura merita il nostro plauso. Ma malgrado tutto, se c’è la voglia di sapere e di conoscere, l’architetto è senza dubbio uno dei mestieri più completi C.E.
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Per contribuire al raggiungimento degli obiettivi europei di neutralità climatica e quelli nazionali di transizione ecologica, abbiamo scelto di integrare una finalità di neutralità climatica all’interno dei nostri statuti, impegnandoci nell’evoluzione progressiva del nostro modello di business e operativo verso un’economia a zero emissioni di gas climalteranti. Perché anche il mondo del business deve giocare la sua parte.
Aboca, Acetificio de Nigris, ADR Center, Antica Erboristeria, Arkage, Beste, CEF Publishing, Chiesi Group, Damiano, Danone Italia, Davines, E’Ambiente, E80, Emsibeth, Enetec, Engine, L’Erbolario Società Benefit srl, Eurotherm, Evogy, Fedabo, Feudi San Gregorio, Fileni, Florim, Garc Ambiente, Garc, Gelit, Grassi, Green Future Project, Gruppo Hera, Gustibus Alimentari, illycaffè, Intexo, Irritec, Jonix, Kerakoll, Lazzerini,
Lenet Group, Lundbeck Italia, Mine Studio, Mutti, NATIVA, Nespresso Italiana, Noovle, NWG Energia, NWG Italia, Onde Alte, Palm, Panino Giusto, Pattern, Perlage Winery, Fratelli Piacenza, POLIMI Graduate School of Management, Redo, Renovit, Reti, Sales, Save The Duck, Siav, Slowear, SNAM, The ID Factory, ViCook, UOMOeAMBIENTE, Way2Global.
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IOARCH_100 Special Issue