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Elogio della complessità | MAURA GANCITANO
Prometeo scatenato
IL RUOLO DELL’ARCHITETTURA IN UN MONDO TRASFORMATO DA UNA TECNOLOGIA SEMPRE PIÙ EVOLUTA E SEMPRE PIÙ DOMINANTE
Secondo il filosofo Umberto Galimberti «la nostra capacità di fare è diventata enormemente superiore alla capacità di prevedere gli effetti del nostro agire. Ci muoviamo alla cieca. I Greci avevano incatenato Prometeo che aveva dato agli uomini il dono della tecnica. Noi lo abbiamo liberato senza avere una cognizione precisa del limite». Ed è così che il concetto che in sanscrito si chiamava Are, ovvero la capacità di conferire un ordine, poi convertito nella Techné greca e nell’Ars latina, termini che stavano a indicare l’impegno e l’ingegno umano nell’imitare, integrare ed eventualmente alterare la natura per adattarla alle proprie esigenze, ha preso il totale sopravvento. Nell’accezione moderna, di impronta illuminista, industriale e fondamentalmente anglosassone, la parola d’ordine è diventata Tecnologia, ovvero la chiave del progresso e del benessere. La nostra società ripone una fiducia assoluta nella tecnologia, che, con l’andare del tempo, è diventata un’entità formidabile e pressoché autonoma, portatrice di risultati che sfuggono al nostro controllo. Come in molte altre discipline anche noi architetti tendiamo a lavorare secondo automatismi. Diamo per scontate migliaia di cose, cerchiamo soluzioni e le applichiamo, spesso dimenticando che l’aspetto fondamentale di qualsiasi progetto è quello di porsi, prima ancora della risposta, la domanda giusta. La tecnologia è fonte primaria di soluzioni, ad essa ci affidiamo senza troppe remore. Salvo poi scoprire che l’architettura, rispetto a una tendenza imperante e imperversante, è una delle poche discipline che ancora conserva la capacità di sfidare gli schemi, di proporre idee diverse, forse capaci di riprendere controllo su questo metaforico Prometeo, riportandolo al nostro servizio.
C.E. Maura Gancitano Maura Gancitano è filosofa, scrittrice e fondatrice di Tlon, scuola di filosofia, casa editrice e libreria teatro. Si occupa di parità di genere, diversità e inclusione, spazi pubblici digitali e comunicazione culturale, e collabora con numerose università e istituzioni. Ha pubblicato diversi libri, tra cui ‘La Società della Performance’ (Edizioni Tlon 2018), ‘Liberati della brava bambina. Otto storie per fiorire’ (HarperCollins 2019), ‘Prendila con Filosofia. Manuale di fioritura personale’ (HarperCollins 2021), ‘L’alba dei nuovi dèi’ (Mondadori 2021) e ‘Specchio delle mie Brame’ (Einaudi 2022) e conduce i podcast Scuola di Filosofie e Audible Club su Audible. Collabora con Linus, Donna Moderna, Vanity Fair e Radio1
ELOGIO DELLA COMPLESSITÀ
di Carlo Ezechieli
UNA CONVERSAZIONE CON LA FILOSOFA MAURA GANCITANO SUL RAPPORTO DELL’ARCHITETTURA E DELLA SOCIETÀ CON UNA TECNOLOGIA IN CRESCITA ESPONENZIALE E PERVASIVA
I nostri tempi sembrano caratterizzati da una fiducia assoluta nella tecnologia. Nella cultura e nella filosofia occidentale, anche nella modernità, è sempre stato così? È un ambito di cui la filosofia si è occupata moltissimo, soprattutto dalla fine della seconda guerra mondiale, ma anche dalle epoche precedenti. Questo perché la tecnologia è diventata uno strumento di potere. Ha la possibilità di cambiare in meglio la vita delle persone, ma anche di distruggerla. Esistono migliaia di riflessioni sulla tecnologia che hanno influenzato il modo in cui noi la percepiamo, con atteggiamenti che oscillano tra un’apparente demonizzazione e un impiego pratico privo di qualsiasi discernimento. In tutto questo è comunque importante capire cosa intendiamo per modernità e da questo punto di vista, credo che un momento di grandissimo cambiamento siano state le rivoluzioni industriali, dalle quali, tra l’altro, hanno avuto origine grandi cambiamenti a livello sociale. Senza mai dimenticare che per molto tempo sia il dibattito che l’accesso alla tecnologia è stato privilegio esclusivo delle classi più elevate ed agiate, che in questa riponevano una fiducia assoluta. La differenza è che oggi l’accesso e la fiducia sono molto più diffuse. Oggi i cambiamenti sono di massa, o almeno di certo lo sono molto più di prima, tanto che chi propone riflessioni sull’etica della tecnologia sembra farsi portavoce di una prospettiva retrograda. Il tema del metaverso per esempio, al quale abbiamo dedicato parte di un nostro libro, tocca molte inquietudini, ma allo stesso tempo é proprio qui che molte aziende si sono lanciate alla conquista di
Les maiosa quisqua ssundaectore et, arum rem ium es in corem. Ibus minimos loremips (ph. ©Rino Bianchi).
Refik Anadol Studio, Archive Dreaming, 2017, Istanbul (©Refik Anadol).
nuovi spazi. Del resto non è la prima volta che si manifestano resistenze e diffidenze di fronte a novità presto accettate senza alcuna riserva.
Il lato doppio della tecnologia: dove Frankenstein, il Prometeo moderno di Mary Shelley, non è mai troppo scontato. Ciò che ci si illude sia sotto il nostro dominio diventa qualcosa di incontrollabile, che ti si ritorce contro? Il problema secondo me è l’associazione totale tra tecnologia e società di mercato: chi la vede diversamente sembra semplicemente un disfattista. La fiducia deriva da chi non vuole farsi molte domande a livello etico, vuole solo arrivare prima. Come nel caso del metaverso, dove ora c’è un grande fermento e qualsiasi riflessione rappresenta un fattore di rallentamento. Si tratta del resto di una corsa all’innovazione presente da molto tempo, sebbene negli ultimi tempi abbia subito un’accelerazione formidabile. Non dimentichiamo che molto spesso le innovazioni tecnologiche non migliorano il benessere collettivo, servono semplicemente per raggiungere qualche altro scopo.
Arne Naess, filosofo, teorico del movimento dell’ecologia profonda, aveva introdotto una distinzione tra ecologia profonda, per l’appunto, basata su un’identificazione ben radicata con l’ambiente, ed ecologia superficiale, ovvero la fiducia incondizionata in rimedi tecnologici. Secondo Naess le due posizioni non sono necessariamente antitetiche, ma complementari. In termini di risultati, però, l’ecologia profonda non sembra aver raccolto molti consensi e l’ecologia superficiale, molto più popolare, non sembra risolvere i problemi ambientali. Cosa può stare all’origine di questo fallimento? Non possiamo praticare l’ecologia profonda, né tantomeno parlare di sostenibilità, se continuiamo a metterci al centro. Non possiamo neanche parlare di sostenibilità quando quello che ci interessa di più è mantenere le nostre comodità e guardare le cose esclusivamente dal nostro punto di vista. Questo è chiaramente legato alla società di mercato, a interessi, ma anche alla nostra mentalità, a un modello culturale che la società e i governi adottano e che sono tuttora, anche per via di un importante contributo teorico della filosofia, profondamente antropocentrici. Non si possono cambiare le cose se non cambiamo prima punto di vista. È una mentalità che per quanto riguarda sia la narrazione che il proprio impianto teorico, si è strutturata e consolidata nel tempo e non cambierà finché non cambieranno le variabili. Questo deriva dal fatto che, anche se il discorso ecologico ha preso piede, non ha in realtà trasformato lo sguardo su noi stessi e sull’impatto che abbiamo sulla Terra. Le buone pratiche e i rimedi tecnologici che intervengono senza mettere in dubbio il modo in cui vediamo le cose, non c’è niente da fare, sono destinati al fallimento. E cambiare il punto di vista è molto faticoso, se non addirittura doloroso. Sentirci parte dell’ambiente è davvero difficile, forse impossibile. Del resto, come dice Leonardo Caffo, l’antropocentrismo è la nostra atmosfera cognitiva, il nostro cervello è stato modellato da millenni di filosofia e se quest’ultima ci ha insegnato a pensare in ter-
A destra dall’alto, Refik Anadol. Latent Being, 2019/20, Berlino. Interconnected, 2018, Aeroporto di Charlotte, Usa (©Refik Anadol).
mini antropocentrici, com’è possibile da un momento all’altro cambiare questa prospettiva? L’ambiente è visto come poco più che una decorazione che dev’essere al nostro servizio, sempre e comunque. Non c’è alcuna identificazione, prevale l’idea che tutto quello che ci circonda deve sottostare a noi e alle nostre esigenze. E questo influenza ovviamente anche l’architettura. Ogni concetto che sfugga ad una dimensione antropocentrica viene etichettato come freak, inabitabile, inutile.
È possibile identificare nella storia del pensiero un’origine chiara di questa traslazione così marcata verso l’antropocentrismo? Questo è un tema di cui parliamo anche nel nostro ultimo libro L’alba dei nuovi Dei ed è un modo di pensare che ha origine proprio con la nascita della filosofia – anche se non forse in quei saggi antichi, contemporanei di Socrate, che cercavano l’origine delle cose – ma subito dopo. Riguarda il modo in cui l’essere umano si colloca rispetto all’ambiente. Ci sono delle
teorie storiche che parlano di un punto di rottura, di un collasso, forse dovuto a cause ambientali o naturali, e dell’affermarsi di un ordine sociale, politico, militare differente dopo il quale gli esseri umani hanno incominciato a pensare se stessi come separati dalla natura. In conclusione, i filosofi hanno cominciato a farsi delle domande cercando di rispondere con la ragione. In epoca più moderna, intorno al 1600, c’è stato un altro radicale punto di rottura. Cambia il modo in cui l’essere umano intende se stesso come individuo. Nasce la nozione di ‘persona’. A livello giuridico vengono alla ribalta le firme, che prima non esistevano se non per i grandi sovrani. Questo cambia con la modernità, nascono strumenti che ci identificano fin da bambini, legati al nostro nome e cognome, e che in precedenza non esistevano. È un’identificazione estrema con noi stessi, una sorta di egocentrismo che ci impedisce di identificarci sia con l’ambiente, sia con qualcosa di più ampio.
Il termine architettura incorpora due termini: “archè”, il principio ideativo, e “techné” la tecnica che serve per realizzarlo. Ultimamente il rapporto tra questi due termini sembra molto sbilanciato a favore del secondo. Esiste un antidoto? Di questo ho parlato spesso con gli architetti, soprattutto nel contesto di dottorati di ricerca. Effettivamente il problema che emergeva più di frequente era quello di dare spazio alla creatività. C’è sempre il problema di dover realizzare qualcosa, velocemente, e questo porta a seguire percorsi già conosciuti. La paura di sbagliare o di essere molto lenti è sempre in agguato. Abbiamo cercato di diffondere la deriva situazionista di Guy Debord, soprattutto per chi progetta spazi urbani. L’architettura interviene rimodulando i rapporti tra persone, l’imprevisto non è contemplato. Tutto deve funzionare bene, senza intralci, ma si rischia di perdere di vista tutto il resto, specialmente il tema delle relazioni. E questo si manifesta in molti progetti recenti, dove le occasioni di relazione semplicemente non esistono. C’è una grande offerta di servizi ma difficilmente si incontrano altre persone senza che ci sia uno scopo preciso. L’antidoto credo sia quello di pensare ad una filosofia di base, trovare una profondità e farsi qualche domanda in più. Si tratta di immaginare e di fronteggiare l’ignoto e in un mondo in cui è così difficile trovare un senso, forse il compito principale di un architetto è proprio questo.
Esiste per voi un modello culturale ideale per quanto riguarda il rapporto tra cultura e tecnologia? Il futuro lo vedo ovviamente a partire dal presente. Stiamo adottando continuamente una grande quantità di strumenti inizialmente considerati inutili, ma che poi diventano pervasivi e presto del tutto normali. Ma spesso perdiamo il senso della complessità. Molte novità vengono viste come ridicole, tanto che Aristofane per divertire il pubblico metteva in scena una persona che leggeva. Oggi si otterrebbe esattamente lo stesso effetto con un visore VR. Quale potrebbe essere un modello ideale? Probabilmente non rifiutare le novità né accettarle passivamente, semplicemente considerarle in modo critico.
Gran finale: senza pensarci troppo, una parola chiave che sintetizzi tutto questo? Complessità. Sembra scontato ma questo corrisponde a intelligenza e alla capacità di tenere insieme un puzzle sempre più eterogeneo ■
Le buone pratiche e i rimedi tecnologici che intervengono senza mettere in dubbio il modo in cui vediamo le cose, non c’è niente da fare, sono destinati al fallimento
Andrea Colamedici e Maura Gancitano. L’Alba dei nuovi Dei: da Platone ai Big Data. Mondadori, Strade Blu, 2021 Pagine 168