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Stabilmente semplici | LEONARDO CAFFO
Leonardo Caffo Leonardo Caffo è professore di Estetica della Moda, dei Media e del Design al Naba di Milano, insegna inoltre Ecologia dell’Arte alla Iulm sempre a Milano. In precedenza ha insegnato Filosofia Teoretica al Politecnico di Torino. Scrive per il Corriere della Sera; ha lavorato come curatore alla Triennale di Milano, è stato Filosofo in Residenza per il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea ed è membro del comitato di indirizzo del Museo Maxxi di Roma. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo ‘Il cane e il filosofo’ (Mondadori 2020) e ‘Quattro capanne. O della semplicità’ (nottetempo 2020). Per Einaudi ha pubblicato ‘La vita di ogni giorno’ (2016), ‘Fragile umanità’ (2017), ‘Vegan’ (2018) e ‘Velocità di fuga’ (2022).
UNA CONVERSAZIONE SUL TEMA DELLA TECNOLOGIA CON IL FILOSOFO, SCRITTORE E CURATORE EDITORIALE LEONARDO CAFFO
Leonardo Caffo Quattro capanne: o della semplicità Editore Nottetempo
STABILMENTE SEMPLICI
di Carlo Ezechieli
Filosofia e architettura, un connubio non scontato, spesso portatore di deragliamenti architettonico-intellettualoidi di pessima influenza sull’esito finale delle opere. Questo tranne nei casi in cui il dibattito stimoli la curiosità e l’intelletto coinvolgendo la dimensione fisica e materica propria dell’architettura. Leonardo Caffo è riuscito a mantenere questo difficile equilibrio in un libro, Quattro Capanne: o della semplicità, ormai celebre tra gli architetti, che dà voce ed evidenza a temi latenti e molto sentiti, ma prima d’ora mai espressi. Al centro del racconto un archetipo, la capanna, e quattro celebri autori: uno scrittore, un terrorista, un filosofo e un architetto, Le Corbusier. Chi meglio dell’autore di un libro sulla semplicità può essere un valido interlocutore per un dibattito su un tema dominante e così presente in architettura come la tecnologia?
Tecnologia glorificata ma spesso, oggi più che in passato specialmente nel campo dell’architettura, inutilmente complicata. Cosa ci ha portato fin qui? Cosa ci ha portato fin qui è una storia troppo lunga, e francamente non credo di essere in grado di rispondere. È un dato di fatto che la tecnologia è sempre qualcosa di più grande di chi la crea. La tecnologia è ciò che determina un condizione che in precedenza non esisteva, e insieme a questa dà origine a nuovi bisogni. Questo è successo per l’agricoltura, che chiaramente ha segnato una svolta, o per la corrente elettrica. Non si può tornare indietro. Come del resto è vero che la tecnologia introduce modificazioni in senso evolutivo. Sulla base di risorse tecnologiche e di un ambiente sempre più artificializzato, il nostro corpo nel tempo si è adattato a un certo tipo di alimentazione, ha assunto le caratteristiche proprie della nostra specie come i denti non affilati, l’assenza di pelliccia che tiene caldo, poca forza rispetto agli altri primati e così via.
Secondo te esiste un antidoto alle estreme complicazioni, e in fondo alle contraddizioni, alle quali alla fine porta una tecnologizzazione estrema? È vero che il mito della tecnologia è figlio dell’Illuminismo, come pure è vero che attraverso la tecnologia abbiamo accesso agli strumenti della ragione, come d’altro canto agli strumenti per vedere in modo critico questi stessi strumenti. C’è un’evoluzione, ma anche una critica di questa evoluzione, e oggi siamo probabilmente al vertice di questa contrapposizione. Abbiamo scoperto che la tecnologia, se non orientata da sistemi di valore di natura più umanistica e morale, dà origine a problemi. Questo proprio perché ciò che aveva contribuito a portarci in alto ci può portare verso il basso, soprattutto per via della distruzione dei sistemi ambientali: ogni forma di progresso che non mira ad una stabilità alla fine esplode. E infatti la maggior parte dei problemi più gravi che ci ritroviamo oggi, dal riscaldamento globale, alla popolazione che punta ai 10 miliardi,
La tecnologia e ciò che determina un condizione che in precedenza non esisteva, e insieme a questa dà origine a nuovi bisogni
Una delle illustrazioni di Carola Provenzano al libro “Quattro capanne o della semplicità” di Leonardo Caffo.
e così via sono tutti il risultato della stessa tecnologia che ci ha dato gli strumenti per crearli. Chiaramente utilizzare la stessa tecnologia per risolvere questi problemi è un avvitamento paradossale. Come si fa allora a trovare un equilibrio tra un tecnologismo estremo del tipo Jeff Bezos o Elon Musk e un antitecnologismo romantico, chiaramente impraticabile? Io, ad esempio, sono uno dei tanti che propongono le teorie della stabilità, come antidoto a questa contrapposizione.
Ci potresti dire qualcosa di più sulle teorie della stabilità? Le teorie della stabilità sono quelle teorie che non credono si possa tornare indietro, a una condizione neoromantica secondo la quale si possa tutti vivere in campagna, a lume di candela, leggendo dei bei libri, prendendo i frutti direttamente dalle piante e accontentandoci così. Questo perché come si diceva prima, la tecnologia modifica biologicamente gli esseri umani, e questi ultimi hanno sviluppato un cervello e un fisico che si è adattato a una condizione differente. Allo stesso tempo le teorie della stabilità non credono nello sviluppo tecnologico ben sapendo che, a livello ecologico, superare un certo limite potrebbe andare oltre un punto di non ritorno. Si punta ad un equilibrio in grado di spostare oltre il fatidico punto di rottura di 50, 100, 150 anni mettendo a disposizione un gittata di tempo più ampia per ridimensionare alcune cose oggi non più praticabili come la catena alimentare delle società industriali o un’economia basata sui combustibili fossili. Anche se tutto questo, purtroppo, si scontra con le tonnellate e tonnellate di gas russo gettate in mare l’altro ieri.
Il paradigma ecologico oggi dominante, ma evidentemente inefficace, si fonda su una tecnologia che dovrebbe risolvere i problemi causati da sé stessa. Un pensiero ecologico basato su un principio di semplicità, come potrebbe essere quello che traspare da un tuo libro, peraltro molto riferito all’architettura, non sembra insomma prendere piede. Quale pensi sia la causa? Il punto è che i pensieri rivoluzionari prima di affermarsi richiedono spesso centinaia e centinaia di anni. È stato così per l’antischiavismo, come per la democrazia. Pertanto il periodo contemporaneo potrebbe essere chiamato in futuro la culla dell’ecologia, sebbene la nostra società non sia affatto ecologica. Dire se un pensiero è fallito o non è fallito non toccherà a
Abbiamo scoperto che la tecnologia, se non orientata da sistemi di valore di natura umanistica e morale, dà origine a problemi. Utilizzarla per risolverli è un avvitamento paradossale
noi, ma a qualcuno che verrà tra quattrocento o cinquecento anni. Se i pensieri rivoluzionari non attecchiscono questo è anche dovuto al fatto che in fondo non è che ci sia tutta questa voglia di risolvere i problemi che questi potrebbero risolvere. Non dimentichiamo che grazie al capitalismo una parte di mondo, anche importante, è oggi immersa in una serie di comodità che in passato non ci si poteva neanche sognare. E le idee rivoluzionarie puntano sempre a togliere delle comodità a vantaggio di qualcos’altro. Il pensiero antischiavista ha origine con Seneca ma ha impiegato 1800 anni per essere anche solo preso in considerazione, grazie anche alle macchine, che hanno incominciato a fare quello che prima facevano gli schiavi. I pensieri rivoluzionari si insinuano un po’ alla volta finché non fanno breccia.
L’ultima domanda: la società si evolve in base a racconti collettivi. Quale potrebbe essere un nuovo racconto collettivo valido per il futuro? Bisogna innanzitutto resistere alla tentazione di pensare che tutto vada male, la società è molto più grande delle situazioni specifiche, anche di quelle politiche. E attualmente stiamo assistendo a una messa in discussione diffusa dei modelli e dei principi che erano alla base della società capitalista, fondata in ampia misura sul lavoro che serve per pagare i conti, spesso per soddisfare bisogni fittizi. Siamo all’alba di un sistema nuovo che va progettato perché cambiano i presupposti, e se cambiano i valori cambiano anche i riferimenti. Quanto sto dicendo si è visto chiaramente anche durante il Covid, quando, chissà perché, tutti volevano fuggire da Milano, normalmente considerato il Place to Be. Quello che emerge è che in realtà le grandi città sono dei posti tremendi, come del resto è chiaro che la gente può vivere molto dignitosamente anche con molto meno di quello che pensiamo. Ciò di cui abbiamo bisogno è solamente la consapevolezza di non essere scappati da soli. Se non c’è un intero sistema che dia la possibilità di vivere a un ritmo diverso, la fuga solitaria nella capanna è semplicemente impossibile ■