Riflesso - Magazine sulla Cultura del Design

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Magazine sulla Cultura del Design




SOMMARIO

Guide Milan and around

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4 Storia e retroscena del Premio Compasso d'Oro 8 Intervista a Ingo Maurer 12 Design e sostenibilità 18 Design Memorandum 2.0 22 Le Vie del Compasso d'Oro 26 Design Competition 30 Il Design che non c'è 34 Collaborative Service Design 38 Giochi per la storia 42 Fondazione Franco Albini 46 Fondazione Achille Castiglioni 50 Fondazione Vico Magistretti 54 Branding territoriale 58 Design delle relazioni 62 Fuorisalone, oltre il design 66 Stagione Radical 70 L'ambiente cucina 74 Il design tra economia e finanza 76 L'evoluzione dell'editoria nell'ambito del design 78 Storia della Tripolina 80 Nuove tendenze nel settore dell'illuminazione 82 Richard Sapper 84 Rivoluzioni in una pausa caffè 86 La Nutella e il suo mondo


DIRETTORE RESPONSABILE Mario Timio

CONTRIBUTI

VICEDIRETTORE Carlo Timio

Luciano Galimberti Ingo Maurer Carlo Forcolini Ambrogio Rossari Antonella Andriani Massimo Farinatti Antonio Macchi Cassia Susanna Vallebona Fabrizio Pierandrei Patrizia Ledda Rodrigo Rodriquez Marco Albini Giovanna Castiglioni Marco Castiglioni Margherita Pellino Paolo Belardi Cinzia Chitra Piloni Francesco Colamartino Giusy Facciponte Vittorio Ricchetti Filomena Violante Matteo Squaiella Greta Dalessandro Carmelo Rizzo

DIREZIONE ARTISTICA Alessio Proietti COORDINAMENTO Francesca Fregapane EDITORE Ass. Media Eventi REGISTRAZIONE Tribunale di Perugia n. 35 del 9/12/2011 GRAFICA E IMPAGINAZIONE R!style Project STAMPA Tipografia Pontefelcino Perugia CONTATTI direzione@riflesso.info editore@riflesso.info artdirector@riflesso.info info@riflesso.info SITO WEB www.riflesso.info Tutti i diritti di questa pubblicazione sono riservati Con il patrocinio di

Magazine sulla Cultura del Design

In collaborazione con

L'autore del progetto di copertina è Andrea Rovatti / RovattiDesign 3


STORIA E RETROSCENA DEL PREMIO COMPASSO D’ORO di Luciano Galimberti (Presidente ADI)

A sinistra, il Compasso d’Oro che viene consegnato a ogni edizione ai premiati, progettisti e produttori A destra, XXIV Compasso d’Oro ADI a Milano, davanti a Palazzo Isimbardi il 16 giugno 2016, in attesa della premiazione

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io caro amico, le scrivo in gran fretta. Parto fra mezz’ora per bombardare Grahovo [...] Il titolo per la Società è questo. L’ho trovato ieri sul vallone di Chiapovan: LA RINASCENTE. È semplice, chiaro e opportuno”. Con queste poche righe, nel 1917, Gabriele D’Annunzio comunicava al Senatore Borletti il nuovo nome per la società che aveva appena rilevato dai fratelli Boc-

coni. Un nome semplice e chiaro, certamente, ma perché “opportuno”? Perché quella che chiameremmo oggi mission era: diventare il riferimento culturale per la nuova borghesia, che viveva l'esperienza di una società modernista affrontando per la prima volta, senza falsi pudori, problemi di praticità, igiene e gusto rinnovato. Ma la vera novità è che un magazzino, un ‘negozio’, si fa carico di colmare un gap produttivo italiano, promuovendo cosi nuove tecniche,


I prodotti che partecipano a ogni edizione del Compasso d’Oro ADI sono pubblicati in un catalogo che illustra i motivi per cui sono stati selezionati e fa il punto sullo stato del design italiano dell’anno

nuove professionalità, una nuova estetica. In quegli anni La Rinascente inventa di fatto un modello inedito di relazione tra progetto, produzione e mercato. Finita la seconda guerra mondiale, un intero paese era da ricostruire dalle basi. In questo clima, nel 1951, si svolge la IX Triennale di Milano. Il tema di riferimento era: la forma dell’utile. La Rinascente partecipa a questa esposizione con un ambizioso prototipo di casa “moderna” arredato su disegno di Franco Albini. Un

successo clamoroso, che convince La Rinascente ad approfondire la questione di una nuova estetica applicata a tutti gli oggetti che compongono il nostro panorama quotidiano e ad immaginare e organizzare un vero e proprio premio, con l'obbiettivo di riconoscere e promuovere quei prodotti che si distinguevano per qualità culturali ed estetiche. Nasce il Premio Compasso d’Oro. La sua prima edizione vede la luce nel 1954. D'Oro ovviamente in quanto metallo prezioso, ma

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In alto, il cortile di Palazzo Isimbardi il giorno della premiazione del XXIV Compasso d’Oro ADI In basso, Makio Hasuike, giapponese di nascita, milanese per carriera, riceve il premio da Paola Marella, a riconoscimento del suo lavoro di collegamento tra le due culture

d'Oro perché riferito al compasso usato dagli scultori per definire le proporzioni sulla base delle regole dell'armonia aurea. Generazioni di progettisti, si sono aggrappati all’idea di armonia espressa nella sezione aurea. Un’armonia intrinseca, magari non facilmente descrivibile agli occhi profani, eppure così facilmente percepibile, così inspiegabilmente rassicurante e pacificante. Riferirsi a questi principi sembrò coerente con la cultura e l’impegno dei professionisti interpellati. Un impegno civile prima che di professio-

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nalità, un impegno che voleva mettere al centro del progetto moderno l’uomo e la sua felicità. Utopico? Forse, ma di straordinaria attualità. Se davvero i progettisti avessero saputo tenere al centro dei propri progetti l’uomo, oggi vivremmo in un mondo migliore. Ecco: il Premio Compasso d’Oro, ha sempre cercato di tenere l’uomo al centro. Non è poca cosa. In oltre sessant’anni di storia il Premio Compasso d’Oro ha rilasciato poco più di 320 Compassi. Un premio che ha assunto sempre più valenza istituzionale, candi-

dando il nostro miglior design nel mondo a un ruolo di riferimento culturale prima che estetico. Per proiettare il premio in una dimensione più istituzionale La Rinascente decide nel 1958 di passarlo ad ADI Associazione per il Disegno Industriale, una associazione non corporativa, anzi: un’organizzazione capace di costruire un dialogo virtuoso e articolato tra le differenti componenti del progetto industriale. Oggi il Compasso d’Oro ha cadenza biennale e si alterna a una edizione anch’essa biennale della versione tematica interna-


In alto, il Compasso d’Oro ADI va anche a personaggi del design internazionale: qui a riceverlo è Ron Arad, con Paola Marella, conduttrice della cerimonia di premiazione della XXIV edizione In basso, oltre ai premi ai prodotti il Compasso d’Oro ADI assegna anche premi alla carriera a designer, ricercatori e imprenditori: alla XXIV edizione è stato premiato Luciano Benetton

ADI Associazione per il Disegno Industriale Fondazione ADI Collezione Compasso d'Oro Via Bramante, 29, Milano T. 0233100 164/241 www.adi-design.org

zionale. Ogni anno catalizza l’attenzione degli addetti ai lavori, che lo paragonano al Nobel per il design, ma è anche capace di coinvolgere il grande pubblico. All’interno del premio viene inoltre assegnata la Targa Giovani, che nell’edizione tematica internazionale ha valenza di concreto sostegno economico allo sviluppo di una startup giovanile. Il premio nel tempo si è dato un percorso di selezione articolato e con criteri di scientificità. Attraverso una commissione permanente composta da oltre cento esperti nei diversi ambiti ana-

lizzati, il percorso di selezione biennale si sviluppa in tre differenti commissioni: territoriale (vero e proprio scouting tra le eccellenze italiane), tematica (capace di entrare nel merito specifico delle proposte) e infine una commissione scientifica di cinque persone, che selezionano circa quattrocento prodotti in due anni. Prodotti che vengono infine giudicati da una giuria internazionale e sempre più multidisciplinare per arrivare alla definizione di non più di venti Premi Compassi d’Oro per ogni edizione.

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Ingo Maurer e l’illuminazione che crea poesia

Ingo Maurer and the lighting that creates poetry a cura di Carlo Timio

A sinistra, Ingo Maurer, foto di Hagen Sczech A destra, lampada da tavolo Bulb, 1966

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esigner di lampade con una lunga carriera alle spalle, Ingo Maurer con la sua creatività e curiosità è stato capace di trasformare un oggetto funzionale in una esperienza spirituale perché la luce ha il grande potere di ispirare e creare suggestioni. Ingo Maurer, lei nasce come tipografo per poi diventare un designer specializzato nel mondo dell’illuminazione. Qual è il filo rosso che lega questo suo percorso professionale? “Sì, ho iniziato come tipografo. Ho sempre sentito un grande bisogno di creare qualcosa facendo uso di tutti i tipi di materiali, comprese anche le composizioni floreali. Ma il filo rosso che lega il mio lavoro da tipografo con la mia carriera professionale è stato semplicemente quello

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esigner of lamps with a long life career, Ingo Maurer with his creativity and curiosity has been able to transform a functional object into a spiritual experience because the light has the great power to inspire and create suggestions. Ingo Maurer, you have begun your job as a printer and then became a designer specialized in the lighting field. What is the common thread that binds your professional career? “Yes, I began as a typographer. I always had the need to create thinks with all kind of materials or even with flower arrangements. But the red thread that binds the job of typographer to my professional career is simply due to support a young family and paying the diapers.


A destra, lampada a sospensione Zettel'z 5, 1988 Sotto, Ingo Maurer, foto di Robert Fischer

di dover mantenere una giovane famiglia per pagare i pannolini. Quindi guadagnare soldi”. Dopo i suoi studi, ha trascorso un periodo negli Stati Uniti: quanto ha inciso sulla sua formazione e cosa le ha trasmesso questa esperienza? “La mia immigrazione verso gli Stati Uniti è stata una delle migliori cose che ho fatto nella mia vita. Perché? Nel 1960 arrivai in America dove non trovai recinzioni come in Europa. Ignorando il rigore della Germania. In quel momento c’era una grande apertura oltreoceano ed erano grandi nella comunicazione. Io ne ammiravo la creatività. Quasi subito ho trovato un lavoro in una piccola agenzia di pubblicità e dopo tre mesi sono diventato il direttore artistico. Senza alcuna esperienza in questo campo, mi sentivo perso

That is earning money”. After your studies, you have spent a period of time in the United States: how this experience has affected your training and what it has given to you? “My immigration to the US was one of the best things I have done in my life. Why? In the 1960s I arrived in the US where I didn’t find fences like in Europe. Shrugging of the constraint of Germany. America’s great openness at that time, great in communication, admiring creativity. Almost immediately I got a job in a small advertising agency and after three months I became the Art Director. With no experience in this field, I felt lost at first but… Yes, you can do it, if you really want”. Your research is focused on the lighting interpreted as poetic objects that create

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In alto, a sinistra, lampada a sospensione Flatterby, 2016 A destra, lampadina Lucellino Blau, 1992 In basso, a sinistra, lampada da tavolo What We Do Counts, 2015 A destra, lampada a sospensione Porca Miseria!, 1994

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Lampada da pavimento MaMo Nouchies - Kokoro, 1998

in un primo momento, ma... sì, si può fare, se si vuole veramente”. La sua ricerca si concentra sugli apparecchi di illuminazione, interpretati come oggetti poetici capaci di creare suggestioni. Qual è per lei il significato di luce? “Ho qualche problema con la parola ‘oggetti poetici’, ma io non conosco nessun'altra descrizione migliore. La poesia non può essere costruita. Semplicemente accade. Quello che è suggestivo molto difficilmente può essere costruito. Anche in questo caso: semplicemente accade. La luce ci nutre in molti modi. Dalla funzione fino alle esperienze spirituali. La luce venne attraverso una bottiglia di vino rosso a Venezia dopo un ottimo pasto. Lo spirito della luce, una buona luce, mi dà grande soddisfazione. La consapevolezza e la dolcezza sono fondamentali per creare la luce. E pensare agli esseri umani”. Nel progettare e produrre delle proprie lampade, ha sempre portato avanti un’attività di innovazione e sperimentazione di nuovi materiali e meccanismi ottici. Quale è la molla che lo spinge a cercare sempre qualcosa di nuovo? “Una forte percezione e la curiosità. Per fortuna entrambe mi sono state donate. Evitare la noia. È per questo che ho trattato la luce in tanti modi diversi. E inoltre avere una grande squadra. Grande rispetto”. Numerosi sono stati i riconoscimenti e i premi a livello internazionale, qual è quello che le ha trasmesso una maggiore emozione? “Il Compasso d’Oro in Italia e il premio Oribe del Giappone: sono questi i premi che ho apprezzato di più. Entrambi i paesi mi hanno dato un grande incoraggiamento e ispirazione”. Quali sono i progetti e le attività che ha in serbo per il futuro? “Abbiamo la fortuna di avere progetti meravigliosi. Le sfide sono sempre le benvenute. Non ho alcun piano per il futuro. Prendo la vita come viene. Vivere un po’ più in Maremma, cercando di migliorare il mio orribile italiano, godendomi il cibo, il vino e, ultimo ma non meno importante, gli esseri umani”.

suggestions. What is the meaning of light for you? “I have some problem with the word ‘poetic objects’ but I don’t know any other better description. Poetry cannot be constructed. It simply happens. Something suggestive can very hardly be constructed. Again: it just happens. Light feeds us in many ways. From function to spiritual experiences. Light came through a bottle of red vine in Venice after a great meal. The spirit of light, good light, gives me great satisfaction. Awareness and gentleness are fundamental to create light. And thinking of the human beings”. In designing and producing your own lamps, you have been always pursuing an activity of innovation and experimentation of new materials and optical mechanisms. What is the driving force that motivates you to try always something new? “Strong perception and curiosity. Both have fortunately given to me. Avoiding boredom. That’s why I have treated light in so many different ways. And in the back of a great team. Great respect”. You have been receiving a number of awards and prizes at an international level; which is the one that has made you feel a particular emotion? “The Compasso d’Oro from Italy. The Oribe prize from Japan. These are the prizes I enjoyed most. Both countries have given me great encouragement and inspiration”. What are the projects and activities you are implementing for the next future? “We are lucky to have wonderful projects. Challenges are always very welcome. I have no plan for the future. I take the life as it comes. Living a bit more in the Maremma, trying to improve my horrible Italian, enjoying the food, wine and last but not least the human beings”.

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DESIGN E SOSTENIBILITÀ di Carlo Forcolini

In alto, a sinistra, Orange Fiber: filati e tessuti innovativi derivati dagli agrumi

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lcuni autori definiscono Antropocene la nostra epoca, perché l’impronta umana ha un impatto simile, se non pari, a quello delle grandi forze della natura che incidono sugli sconvolgimenti che avvengono sulla nostra Madre Terra. Alcuni, come il presidente USA Donald Trump, sostengono che ripensare l’economia in funzione della sopravvivenza del sistema terra, e quindi della nostra specie, sia una questione di secondo grado e non prioritaria, così come lo pensano le persone più avvertite e in particolare

i designer. Perché se fino pochi anni fa, anche nel mondo del design si dibattevano questioni ideologiche, ormai da qualche tempo la comune questione che i designer si pongono è come progettare nei limiti della natura, per contribuire al miglioramento del nostro modo di vivere, e per garantire il futuro della nostra specie. È una grande sfida che si vincerà solo nella consapevolezza della politica e nel fare di ogni singolo individuo, superando la cultura della dissipazione e dello scarto, dell’arroganza e dell’ignoranza verso la natura. La nostra natura. Perciò la


Blue Economy 2.0 Gunter Pauli - Ed. Ambiente

questione da affrontare è il superamento dell’attuale modello economico “lineare” teso alla limitazione del numero di prodotti e alla loro progressiva massificazione, che genera ricchezza per pochi e miseria per molti. In un cambiamento di prospettiva che indica il passaggio dalla “lineare” (economia degli sprechi) alla “circolare” (economia basata sull’eliminazione degli scarti), i designer possono avere un ruolo significativo a condizione che estendano il loro campo d’azione dal singolo prodotto ai processi di produzione, e in particolare ai processi a cascata

che l’economia circolare comporta: dal micro al macro. Un esempio per tutti è riportato da Gunter Pauli nel suo Blu Economy 2.0: il caffè. Dopo l’acqua, il caffè è la sostanza più consumata e sprecata al mondo. Infatti, dal raccolto nelle piantagioni al consumo in tazzina, si generano due tipi di rifiuti, i primi si chiamano polpa (e sono la parte legnosa degli arbusti), i secondi li chiamiamo fondi. In questo percorso il 99,8% è scarto e soltanto lo 0,2 viene consumato. E ogni anno si producono sul pianeta 25 milioni di tonnellate di biomassa di scarto

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lasciata a marcire. Una vera miniera d’oro che se ben sfruttata potrebbe superare il valore economico prodotto da quello 0,2 consumato. Come? Sia la polpa, sia i fondi sono degli ottimi substrati di lignocellulosa per la coltivazione di funghi commestibili con alto valore proteico. Lo shiitake giapponese, o fungo dell’Imperatore, e i reischi dotati di eccellenti qualità medicinali, crescono senza problemi su questo substrato e potrebbero fornire un ottimo nutrimento a costi molto minori della carne e con lo stesso valore nutrizionale.

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A fine ciclo, i fondi rimasti sono un buon mangime per suini e per le vacche da latte. Questo processo circolare che elimina gli sprechi e che è già realtà in Giappone, contribuisce anche a eliminare i milioni di tonnellate di gas serra prodotti dalla polpa lasciata a marcire nei campi. Cosa c’entra il design con il caffè e l’economia circolare? C’entra, e molto, se i designer, i progettisti che collaborano al disegno del futuro del mondo, decidono di non essere soltanto la foglia di fico della ormai decadente società dei consumi,


e di essere parte proattiva di quel vasto movimento che unisce tutte le forze, le più responsabili, assumendo nel micro della propria professione la conoscenza dei macro temi che investono l’intera umanità. Certo, i designer come gli imprenditori devono allargare lo sguardo e la conoscenza sulla fisica, sulla biologia, sulla chimica, sull’antropologia non perché devono diventare altrettanti specialisti ma perché per dare senso al futuro bisogna affrontare la complessità interdisciplinare creata dal crollo della ver-

ticalità di tutti i saperi. E questa sì! È la condizione più interessante dell’epocale cambiamento in corso. Un buon esempio di questo nuovo modo di essere designer è il lavoro di due giovanissime siciliane, Adriana Santanocito e Enrica Arena, che insieme all’agro-economista Manfredi Grimaldi, hanno inventato come trasformare le bucce d’arancia in fibra tessile: la Orange Fiber. Un buon modo per smaltire le 300.000 tonnellate annue di scarti agrumicoli del nostro Paese.

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Il percorso dell’eccellenza Rinascente festeggia i suoi 100 anni con una grande mostra a Milano, a Palazzo Reale, da maggio 2017 e festeggia il Compasso d’Oro con una sala interamente dedicata al premio e ad ADI - Associazione per il Disegno Industriale che, dal 1959, organizza il Premio che è divenuto uno tra i riconoscimenti più ambiti per il design a livello internazionale. Un percorso dell’eccellenza che vede incrociarsi ancora i destini di ADI e della Rinascente, con l’intento di valorizzare il design come elemento fondante di quell’Italian Lifestyle riconosciuto in tutto il mondo.

lR100 . RINASCENTE . Stories of Innovation 24/05 - 24/9/2017 Milano - Palazzo Reale, Appartamento del Principe


foto ADI / ilmaestroemargherita.com


DESIGN MEMORANDUM 2.0 di Ambrogio Rossari

Dalla definizione delle “regole” alla condivisione di un “atteggiamento”. La crescita come risultato della responsabilità

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iù di venticinque anni fa il Comitato Direttivo di ADI, Presidente Angelo Cortesi in accordo con alcune associazioni di design nordiche e d’oltre cortina pubblicava un primo Design Memorandum in cui si cercava di definire la cultura, i criteri e i valori del design. In questo documento si anticipava il tema della sostenibilità che in seguito è diventato uno tra i valori più importanti del design odierno. Una delle commissioni tematiche dell’ADI Design Index che porta ogni due anni all’assegnazione del Compasso d’Oro tratta

proprio il design per la sostenibilità. L’iniziativa di allora fu sponsorizzata dall’industria Fratelli Guzzini. Si trattò di un documento importantissimo per la cultura del design. Anticipava, infatti, questioni oggi di grande attualità e sottolineava la necessità di un confronto allargato a responsabilità multidisciplinari. Ci siamo resi conto che problemi irrisolti si sommavano a nuove realtà e in questo panorama risultava necessaria una riflessione sul sistema di valori alla base della nostra professione. Sistema che deve orientare le nostre azioni pri-


ma di ogni altra considerazione. Questa riflessione che ha cercato di coinvolgere, oltre alle aziende e ai designer, tradizionali attori che si interfacciano con la produzione, anche figure apparentemente lontane da questo mondo e che sono: le istituzioni, la giurisprudenza, le arti figurative, le neuroscienze e non ultimo il mondo intimo dell’anima. Proprio dopo questa riflessione abbiamo progettato Design Memorandum 2.0. Nel 2013 un nuovo documento è stato pensato a seguito di una serie d’incontri svolti insieme a persone che si occupava-

no di mondi diversi dal nostro. Tra questi: Gabriella Bottini, Responsabile Centro di Neuropsicologia Ospedale Niguarda, Milano, Angelo Cortesi, Architetto e Past President ADI, Denis Curti, Vicepresidente Fondazione Forma per la Fotografia, Erminio De Scalzi, Vescovo ausiliare di Milano, Marco Fiorentino, Media Relation BTicino, Luigi Fontanesi, Avvocato Studio Santamaria, Luciano Galimberti, delegato ADI Lombardia. Il nostro tempo globalizzato ha richiesto un nuovo confronto interdisciplinare per esplorare i territori della produzione industriale che sono

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A2 eng 420x594 STAMPA

molto complessi. La frammentazione delle competenze della nostra epoca si è così esasperata da generare una opacità dei criteri in base ai quali si possono misurare le reali competenze. “Ruoli” o “regole” sono stati ridefiniti per offrire garanzie di trasparenza nel quotidiano esercizio istituzionale, professionale e d’impresa. Oggi Design Memorandum 2.0, sviluppato da ADI non si presenta più come un documento, ma come una mappa del variegato territorio delle capacità del de-

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sign. Non è un percorso precostituito, ma la proposta di un territorio delle competenze, delle aspirazioni e dei valori su cui costruire un itinerario di lavoro personale e responsabile. Abbiamo usato la metafora dell’arcipelago per rappresentare il nuovo sistema di valori: le “isole” sono altrettanti approdi concettuali del sapere da cui trarre e lasciare esperienza. Il mare rappresenta il lavoro di connessione e sintesi del designer che è l’elemento connettivo che agevola le trasmigrazioni del sapere.


DESIGN memorandum

Dalla definizione delle regole alla condivisione di un atteggiamento. La crescita come risultato della responsabilità.

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L’accordo sottoscritto tra ARCA e ADI per l’individuazione e condivisione di criteri di buon design, utili per la selezione di prodotti nelle gare d’appalto su piattaforma informatica della Regione Lombardia, ha imposto una riflessione sui valori e sulle modalità del fare design. Una riflessione che ha coinvolto aziende e designer, ma anche figure apparentemente lontane tra loro quali le Istituzioni, la giurisprudenza, le arti figurative, le neuro scienze e non ultimo il mondo intimo dell’anima. Un confronto interdisciplinare finalizzato all’esplorazione del complesso territorio della produzione industriale nell’epoca della globalizzazione. Un epoca nella quale si è esasperata la frammentazione di competenze e responsabilità con conseguenze per l’uomo e il suo ambiente di drammatica attualità. Ridefinire “ruoli” o “regole” è certo utile per offrire garanzie di trasparenza sul quotidiano esercizio Istituzionale, professionale e d’impresa, ma un sostanziale miglioramento lo si può ottenere solo attraverso la costruzione di un nuovo “atteggiamento”. Un lavoro quindi che al di la delle singole regole affronti il tema della scelta tra bene e male nell’ambito di un contesto globalizzato. Una riflessione proiettata alla concorrenza responsabile di un bene comune. 25 anni fa un primo Design Memorandum si fece denuncia di errori e responsabilità. Un documento allora sottoscritto dai designer dei paesi scandinavi e dall’URSS; un documento promosso da ADI e dall’industria Fratelli Guzzini, coordinato da Angelo Cortesi. Oggi DESIGN MEMORANDUM 2.0 si presenta come una mappa del variegato territorio delle competenze concorrenti al progetto di design. Non un dogmatico percorso precostituito, bensì la proposta di un territorio dei valori, delle competenze, delle aspirazioni su cui costruire un itinerario personale e responsabile. Come nella metafora dell’arcipelago, le isole rappresentano altrettanti approdi concettuali da cui trarre e lasciare esperienza, il mare che rappresenta il lavoro di connessione e sintesi del designer è l’elemento connettivo che agevola la trasmigrazione del sapere. Condividere un atteggiamento capace di comprendere responsabilità personale e collettiva è l’unica garanzia di successo per migliorare le condizioni di vita dell’uomo.

Con il contributo di

ADI Associazione per il Disegno Industriale - Via Bramante, 29 - 20154 Milano - Italy - T +39 0233100 241 / 164 - www.adi-design.org - info@adi-design.org

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Diffondere la cultura e il consumo del buon design L’esposizione diffusa de Le Vie del Compasso d’Oro di Antonella Andriani

Guide Milan and around

A sinistra, copertina della guida della prima edizione de Le Vie del Compasso d’Oro scaricabile gratuitamente dal sito ADI A destra, Tappa de Le Vie del Compasso d’Oro segnalata da vetrofanie

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l Premio Compasso d’Oro ADI procede verso la sua XXV edizione del 2018 e da qualche tempo la sua Collezione storica, riconosciuta bene e patrimonio culturale, restituisce un quadro prezioso dell’evoluzione delle cose che siamo stati e che siamo, attraverso gli oggetti che dal 1954 hanno meritato l’ambito riconoscimento aureo oppure una Menzione d’Onore. Tra l’evento di proclamazione dei vincitori, reso biennale nell’alternanza annuale con il premio mondiale e temati-

co dell’ADI Compasso d’Oro International Design Award, le selezioni annuali e propedeutiche rappresentate dall’ADI Design Index e le mostre internazionali, ADI Lombardia ha immaginato un’ulteriore possibilità per diffondere la cultura e il consumo del buon design. Sono nate così Le Vie del Compasso d’Oro: un’iniziativa che capovolge la logica espositiva della celebrazione concentrata in un unico luogo e che si fa manifestazione diffusa grazie alla partecipazione attiva e diret-


A sinistra, rosso ADI e giallo Compasso d’Oro sono i colori che identificano Le Vie del Compasso d’Oro con tappe in studi di progettazione, impianti di produzione, negozi, gallerie, università, musei e fondazioni, ma anche luoghi pubblici e di riunione informale, dove vivere e comprare il buon design A destra, tappa de Le Vie del Compasso d’Oro con laboratori anche per i più piccoli

ta dei protagonisti dei premi ADI nelle diverse declinazioni. Le Vie del Compasso d’Oro sono dunque, prima di tutto, un progetto partecipato che coinvolge un gran numero di designer, architetti, imprenditori, uffici stampa, curatori di musei, direttori di showroom, professori e dirigenti accademici. Sono il risultato di una call to action che Antonella Andriani, Vice Presidente ADI Lombardia, e Ambrogio Rossari, Presidente ADI Lombardia all’avvio della rassegna, hanno rivolto

agli addetti ai lavori di tutta Italia con un duplice obiettivo universale e aggregante: da un lato presentare la ricchezza e il valore del Design System costituito da uomini, imprese e istituzioni che condividono gli onori dei premi ADI e dall’altro accrescere la conoscenza e il consumo di soluzioni virtuose, attraverso incontri informali di scoperta e di approfondimento. Tra l’avanguardia rappresentata dall’ultima edizione del Premio e la stratificazione progressiva condensata nella

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La prima edizione de Le Vie del Compasso d’Oro Oltre alla sede ADI, alla Triennale di Milano e a La Rinascente – che nel 1954 ha dato avvio al premio Compasso d’Oro –, hanno aderito alla prima edizione de Le Vie del Compasso d’Oro, in ordine alfabetico di impresa: Acerbis International; Agape; Alessi; Alias; Archivio Giovanni Sacchi; Argenteria Dabbene; Arper; Artemide; Azzurra Sanitari in Ceramica; B&B Italia; Baleri Italia by Hub Design; Boffi; Bonetto Design Center; Caimi Brevetti; Casamania; Ceramica Flaminia; Cimbali Group – MUMAC - Museo della Macchina per Caffè; Cinelli; Cini&Nils; Dada; Danese; Davide Groppi; De Castelli; DepurArt Lab Gallery; Desalto; Design Group Italia; Fantini Rubinetti; Federico Delrosso Architects; Fedrigoni – Fabriano Boutique; Ferrari; Fiam Italia; Flou; Fondazione Achille Castiglioni; Fondazione Pirelli; Foscarini; Francesco Rota Studio; Fratelli Guzzini; Hangar Design Group; Horm; Ideal Standard; IED Istituto Europeo di Design; Ifi; iGuzzini Illuminazione; Kartell; Kartell Museo; La Murrina; Lago; Magis; Marazzi; Martinelli Luce; MDF Italia; MH Way; Molteni&C; Moroso; Museo del Design 1880-1980; Oikos; Opinion Ciatti; Paola Lenti; Pastificio Fratelli Setaro; Pedrali; Politecnico di Milano - Scuola del Design; Poltrona Frau; Rapsel; Rexite; Roberto Paoli Studio; RovattiDesign; Salvatori; San Lorenzo; Schiffini; Seconda Università degli Studi di Napoli - Dipartimento di Architettura e disegno industriale; Segis; SPD Scuola Politecnica di Design; Stilnovo; Techogym; Tecno; Think:Water; Unibz Libera Università di Bolzano - Facoltà di Design e Arti – MUBA - Museo dei Bambini Milano; Unifor; Valextra; Viceversa; Vortice Elettrosociali; Zucchetti - Kos. E anche il Comune di Milano nel 2016 ha concesso il patrocinio all’iniziativa. 24


Nella pagina accanto, lungo Le Vie del Compasso d’Oro, anche gli studi di design aprono le loro porte In questa pagina, tappa con tappeto rosso che invita alla scoperta dei progetti premiati con il Compasso d’Oro

Collezione dei pezzi storici, si è pensato di valorizzare l’eccellenza delle soluzioni premiate nel tempo che sono ancora in produzione e che tuttora fanno parte del nostro quotidiano. Il tutto a vantaggio di quel grande pubblico, attento alla qualità offerta dal buon design, che può trovare nel Compasso d’Oro il punto di sintesi e di consistenza. Attraverso Le Vie del Compasso d’Oro, la forza del sistema del design italiano è sintetizzata in una mappa e in una guida elettronica per suggerire itinerari e per avvicinare abitanti, turisti, imprese, creativi e istituzioni accademiche verso una dimensione pubblica e sociale del progetto, verso possibili viaggi di ricerca all’interno di studi di progettazione, impianti di produzione, negozi, gallerie, università, musei e fondazioni, ma anche luoghi pubblici e di riunione informale, dove vivere e comprare il buon design. Sul piano progettuale, l’idea de Le Vie del Compasso d’Oro è tanto semplice nell’enunciazione quanto compli-

cata nell’attuazione per via del numero e delle specificità dei soggetti coinvolti. ADI Lombardia ha assunto il ruolo di elemento catalizzante di un sistema del design articolato e complesso, coordinando il processo di adesione e predisponendo gli strumenti necessari per sviluppare le connessioni e per facilitare le visite; il tutto lasciando a ciascun partecipante la libertà di interpretare l’iniziativa secondo i tempi e le modalità desiderati, all’interno di una finestra temporale e di poche regole condivise: location di Milano o dintorni e progetti attinenti con il Premio ADI Compasso d’Oro o con il Premio ADI Compasso d’Oro International Award. Rosso ADI e giallo Compasso d’Oro i colori scelti per rendere immediato il riconoscimento dei luoghi dove scoprire la nascita e l’evoluzione dei progetti, là dove sono stati ideati, perfezionati o prodotti, là dove possono essere toccati, annusati, provati e acquistati. La prima edizione della rassegna è stata avviata e si è conclusa con

la XXI Triennale di Milano, dal 2 aprile al 12 settembre 2016, condividendone il perimetro territoriale espositivo, incentrato su Milano. Numerose sono state le adesioni, appassionate ed entusiaste, che hanno animato eventi dedicati e un programma di visite articolato su oltre novanta tappe, tutte interessanti e con specificità da approfondire attraverso la guida ancora scaricabile dal sito internet ADI (www.adi-design.org/tutte-le-viedel-compasso-d-oro.html). Il successo del debutto ci ha spinti ad avviare i lavori per l’edizione de Le Vie del Compasso d’Oro 2017 perché, per usare le parole di Luciano Galimberti, Presidente ADI, quella dell’ADI è “un’attività appassionata e strategica, calata nel quotidiano della vita affinché la vita possa essere migliore per l’uomo che la vive”. Stiamo lavorando per voi, per diffondere il buon design e per appagare nuove curiosità. Stay tuned e, per dirla alla Castiglioni, “se non siete curiosi, lasciate perdere!”.

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Promuovere il ruolo strategico del Design Collaborazioni virtuose con le istituzioni per lo sviluppo economico di giovani designer e PMI di Massimo Farinatti

A destra, FoodLoose è elemento d’arredo studiato per la comunità, per l’esposizione e la preparazione del cibo designer U35: Stefania Laganà e Massimo Lonardo tutor: Efrem Bonacina azienda: Mobilificio Fattorini

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l progetto Design Competition ha la missione di valorizzare il talento e le idee di 40 giovani designer, attraverso la realizzazione di 40 prototipi da parte di 40 imprese “design oriented”. La prima delle sei edizioni promosse da Regione Lombardia è datata 2009. La collaborazione fra Regione Lombardia e la delegazione territoriale Lombardia di ADI, inizia nel 2015, attraverso questo rapporto sinergico si è venuto a riaffermare il ruolo strategico del design nell’in-

tera filiera del progetto per lo sviluppo del territorio. Dall’edizione del 2015 viene instituita la figura del tutor, 40 professionisti di ADI Lombardia hanno risposto alla call for action che Massimo Farinatti, coordinatore del progetto e vice presidente di ADI Lombardia, ha rivolto ai progettisti della delegazione territoriale, la professionalità, unita all’esperienza dei tutor ha creato il tessuto connettivo che ha reso possibile la realizzazione di prototipi in grado di sostenere la sfida del mercato.


Tacà Soeu è oggetto capace di adattarsi alla persona, alla sue esigenze e al suo spazio. Non è il protagonista ma, come un discreto servitore, si mette a disposizione per rendere semplice il gesto quotidiano dell’essere a casa designer U35: Giuditta e Daniele Melesi tutor: Marc Sadler azienda: Brema di Bresesti Maurizio

ADI affianca così Regione Lombardia, Unioncamere Lombardia e Fiera Milano che, con HOMI, il salone degli stili di vita, favorisce la visibilità internazionale dell’evento, nella volontà di sostenere i designer U35 nelle prime fasi della loro carriera facilitando con i suoi designer professionisti l’incontro con il mondo produttivo, ma non solo, i tutor di ADI Lombardia, svolgendo il loro ruolo strategico, sostengono l’innovazione “design driven” all’interno delle imprese. La se-

lezione delle idee è calibrata sui principi che ogni anno l’osservatorio del design di ADI applica nel giudicare i prodotti che faranno parte dell’ADI Design Index dove la validità delle prestazioni, l’innovazione tecnica-funzionale-tipologica, l’appropriato uso delle tecnologie produttive e dei materiali, la compatibilità ambientale ed il design for all, sono i criteri che determinano la scelta da parte della commissione giudicatrice. Parlando di quello che è avvenuto nelle edizioni targate ADI

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Animaze è un sistema di arredo multiuso che permette di configurare gli ambienti a misura di bambino secondo diverse combinazioni, sia orizzontali che verticali. designer U35: Ekaterina Shchetina tutor: Antonella Andriani azienda: Curioni Giampiero

Mickey è un tavolo multifunzionale modulare, in grado di soddisfare le complesse esigenze di bambini disabili che necessitano di particolari attenzioni posturali durante le attività quotidiane. designer U35: Francesca Turati tutor: Marco Frigerio azienda: Fumagalli srl

Lombardia, in quella del 2015, che aveva come tema “Dal tavolo alla tavola”, emblematico è l’elemento di arredo “Food Loose”, progettato da Stefania Laganà e Massimo Lonardo, realizzato dal Mobilificio Fattorini grazie all’apporto del tutor Efrem Bonacina. Food Loose fin dalla prima esposizione ha destato l’interesse del mercato in ambito europeo, così come “Mickey” tavolo multifunzionale modulare in grado di soddisfare le complesse

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esigenze di bambini disabili che necessitano di particolari attenzioni posturali durante le attività quotidiane, pensato da Francesca Turati con il designer Marco Frigerio per l’azienda Fumagalli srl. L’edizione del 2016 ha avuto come tema di progetto “Creatività³”, oltre ai criteri di selezione già citati, i prototipi, una volta disassemblati, non potevano superare il volume di 1 metro cubo. Fra i 40 progetti realizzati ed esposti al salone HOMI, “Ani-


La mostra dei prototipi durante HOMI: il salone degli stili di vita

maze” è un sistema di arredo multiuso a misura di bambino, la designer Ekaterina Shchetina, coordinata dalla professionista Antonella Andriani, ha visto la propria idea industrializzata e prodotta dall’impresa Curioni Giampiero mentre Marc Sadler, tutor ADI, ha messo a disposizione la sua professionalità affinché l’azienda Brema di Bresesti Maurizio realizzasse un paravento-appendi abiti, disegnato da Giuditta e Daniele Melesi. Durante la

Fall Design Week di Milano abbiamo coinvolto l’azienda Oikos che ha messo a disposizione il suo spazio al 25esimo piano della Torre Velasca, lì i prodotti sono stati esposti nuovamente al pubblico, un’altra occasione B2B e B2C che designer ed imprese hanno colto proficuamente. Il tema dell’attuale Design Competition è la “Condivisione”, gli ambiti applicativi, volutamente ampi, per lasciare ai designer la massima libertà di espressione e

sono: Living, Outdoor, Kids ed Accessori per la persona. Le imprese lombarde con estremo entusiasmo hanno già aderito al bando e le idee progettuali cominciano ad arrivare, i professionisti di ADI Lombardia sono chiamati a mettere a disposizione la loro professionalità per accompagnare, dal concept alla produzione, le idee dei giovani talenti, sono sollecitati ancora una volta a contribuire con pragmaticità alla realizzazione del nuovo.

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LA CITTÀ NON SARÀ MAI FINITA Il design che non c’è di Antonio Macchi Cassia e Susanna Vallebona

A sinistra, particolare dell'allestimento designer A destra, cartolina call ai cittadini

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l design che non c’è è un progetto di attività partecipata di ADI Lombardia promosso in occasione della XXI Triennale di Milano che, partendo dall’enunciato “design after design” ha consentito alla città numerose riflessioni. La proposta parte da un’idea di Antonio Macchi Cassia, che con Susanna Vallebona ha curato l’iniziativa, sviluppata in collaborazione con Ambrogio Rossari prima, Andrea Rovatti poi, Presidenti di Adi Lombardia, con Antonella Andriani, vicepresidente, Lorenzo Goldaniga e Roberto Marcatti. L’attività si è articolata in due fasi distinte: la prima di denuncia dello stato di degrado in essere, la seconda

propositiva, alla ricerca di soluzioni. Nella primavera 2016 sono stati invitati i visitatori di Expo e i cittadini milanesi a fotografare situazioni, prodotti, servizi della città che intralciano la vita del cittadino, rendono brutta o sciatta la città, mettono in evidenza la mancanza di progetto in determinate situazioni. Le foto, raccolte in ADI, sono state esposte nel mese di giugno 2016 alla Triennale di Milano. Grazie alle preferenze del pubblico, che ha votato le denuncie più interessanti e più rappresentative della mancanza di attenzione verso il bene pubblico, sono stati identificati i problemi più sentiti da risolvere. Le criticità emerse sono state


In alto, particolare dell'allestimento Triennale In basso, Serena Di Bartolo Proposta studente Politecnico

raccolte in tre macro aree, che riguardano la segnaletica, le microarchitetture e il vivere la città, sezione a sua volta suddivisa in: problematiche, opportunità e facilitazioni per il cittadino. È partita quindi la seconda fase del progetto. ADI ha coinvolto quattro progettisti di fama riconosciuta Makio Hasuike, Ugo La Pietra, Alberto Meda, Patrizia Pozzi con la collaborazione di Duilio Forte e Angelo Jelmini, che si sono impegnati a trovare soluzioni alle situazioni più votate per migliorarle. In parallelo sono stati invitati a mettere in gioco la propria creatività anche gli studenti del Politecnico di Milano coordinati da Giovanna Piccinno, Ma-

rinella Ferrara, Cristina Foglia e Roberto De Paolis e dello IED coordinati da Alessandro Chiarato. Le proposte ricevute da professionisti e studenti sono state presentate in una seconda mostra, sempre in Triennale. Un buon successo di partecipazione, un pubblico interessato, incuriosito e quasi incredulo di fronte a questa possibilità di intervenire come semplici cittadini facendo proposte nuove o semplicemente facendo una segnalazione. L’idea di una iniziativa allargata è nata circa vent’anni fa quando Antonio Macchi Cassia collocò un televisore all’interno di una mostra di design organizzata da ADI, dove si susseguivano foto di oggetti,

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In alto, particolare dell'allestimento In basso, problemi schema

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In alto, allestimento Triennale In basso, a sinistra, pannelli progetti studenti In basso, a destra, immagine di Via Silva, foto di Sonia Isalberti

luoghi e problemi non risolti nella città di Milano, chiedendo ai soci di ADI di condividere la denuncia mandando foto di situazioni simili, ma la proposta cadde nel nulla. Allora come adesso per ADI la soluzione ai problemi è il design, inteso come metodo di lavoro che coniuga efficienza, sostenibilità, economia, qualità, estetica e valorizzazione intelligente dell’ambiente urbano. Forse Antonio Macchi Cassia anticipò troppo i tempi evidentemente non ancora pronti per una attività comune di sensibilizzazione del pubblico e delle istituzioni verso la ricerca di soluzioni

condivise. Diversamente, questa nuova proposta costruita con la collaborazione della Triennale di Milano, l’appoggio del Comune di Milano, che ha patrocinato l’iniziativa con grande coraggio e il sostegno di Material Connexion e Caimi Brevetti, ha avuto il meritato successo, offrendo la soddisfazione di vedere cittadini di tutte le età interessati e partecipi. L’auspicio è che le autorità competenti possano trarre spunti e suggerimenti, magari raccogliendo almeno una soluzione tra quelle proposte, per rendere più funzionale la nostra città.

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Collaborative Service Design Thinking: una iniziativa globale

Un esempio su come utilizzare il Design dei Servizi e il Design Thinking per ridisegnare la società del futuro di Fabrizio Pierandrei

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l Design sta attraversando un periodo di forte interesse da parte delle imprese, non più solo per la capacità di generare valore attraverso prodotti, ma per quella di concepire servizi innovativi e – ancora di più – di cambiare l’attitudine dell’organizzazione stessa nei confronti dell’innovazione e delle sfide che è chiamata ad affrontare in una società in continua e rapida trasformazione. Proprio quest’ultimo aspetto rende il mercato attuale privo dei tradizionali punti di riferimento e di conseguenza rende obsoleti gli approcci consolidati al

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mercato: sempre più spesso si parla di Design dei Servizi e di Design Thinking (spesso anche nella formula “Service Design Thinking”) come di un approccio in grado affrontare questo cambiamento, formando il management aziendale nel modo di generare innovazione e strategia “pensando come pensa un designer” e ragionando in termini di “sistema prodotto”. Una disciplina, il Design dei Servizi, e un metodo, il Design Thinking, che condividono un approccio centrato sulla persona, sulla definizione di una esperienza legata al sistema di relazioni che si


Alla jam non si discutono idee, ma si costruiscono prototipi per dimostrare come funzionano: è il principio in base al quale si guida la collaborazione fra le persone

vogliono stabilire fra le persone, i luoghi e le cose, chiedendo in primo luogo al designer di unire alle proprie capacità progettuali una abilità strategica e di comprensione dei comportamenti e delle abitudini dell’utente e di lavorare a un concetto di innovazione non più legato esclusivamente alla sfera tecnologica, ma all’evoluzione dei comportamenti sociali, alle modalità di utilizzo delle risorse e – non ultimo – alla ridefinizione dei ruoli fra impresa e utente finale. Da questi fattori nasce la propensione del Service Design Thinking a “coinvolgere” i vari attori di un

progetto – dal designer all’impresa, dal fornitore all’utente finale e così via – in un processo aperto, condiviso e partecipativo: un processo che ha le sue regole d’ingaggio precise e che sta suscitando l’interesse della comunità creativa internazionale. Su questi temi, Paco Design Collaborative, associazione no profit che si occupa di innovazione sociale, con il patrocinio di ADI Lombardia, organizza ogni anno alcuni eventi legati alla Global Service Jam, una maratona mondiale di progettazione, ideata da Markus Hormess e

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La GSJ è un evento che avviene contemporaneamente in tutto il mondo. PACO, col patrocinio di ADI, organizza gli eventi previsti a Milano, Madeira (Portogallo), Pamplona e San Sebastian (Spagna)

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Adam Lawrence di Work.Play.Experience nel 2011 e che è riuscita a raccogliere nei suoi sette anni di vita più di 8.000 “design enthusiasts” da oltre 120 città in 50 nazioni differenti. L’evento ricalca l’idea della “jam” musicale dove i partecipanti sono chiamati a suonare insieme improvvisando su un tema: la sfida è quella di concepire e prototipare servizi innovativi in solo 48 ore. Il sottotitolo della Jam è “solo 48 ore per cambiare il mondo” e può sembrare un po’ pretenzioso, ma alla fine mostra quanto produttiva, collaborativa e di-

vertente possa essere l’energia creativa sprigionata da un gruppo di lavoro con esperienze diverse in un solo weekend e lascia a tutti i partecipanti immaginare quanto potrebbe esserlo ogni giorno se solo organizzato differentemente. Le regole di una jam sono semplici e possono riassumersi in due soltanto: “Costruisci sull’idea dell’altro”, senza pregiudizi, e “doing not talking”, non limitandosi a discutere una idea, ma mostrando come funziona. Alla jam dunque non si parla di Design dei Servizi, ma si fa Design dei Servizi, ragionando di “user experience”,


In alto, brainstorming e attività collaborative vengono condotte in un ambiente sicuro e divertente, assicurando la massima partecipazione e entusiasmo In basso, la Jam è un momento di confronto fra i differenti punti di vista sul Design dei Servizi e il Design Thinking, sia all’interno di una singola jam che nella “jam community” a scala globale

di modelli di business, realizzando prototipi funzionanti. Anche per questo la jam si è rivelata da subito un momento di condivisione di strumenti e metodologie progettuali fra professionisti, diventando momento di confronto fra le diverse anime del Design dei Servizi nel mondo, da quelle più incentrate sulle esperienze digitali a quelle, per esempio, focalizzate alla resilienza e alla partecipazione cittadina. Uno spirito che su scala globale porta alla creazione di più di 350 prototipi di servizi ogni edizione, che vengono condivisi su una piattaforma aperta e

consultabile da tutti (http://planet.globalservicejam.org). Ma il successo della jam va oltre i progetti condivisi, alcuni dei quali riescono ad essere implementati e realizzati. Sta nella capacità di generare un cambiamento nella percezione delle prospettive di vita e professionale dei partecipanti, generando nuove collaborazioni permanenti o nuovi formati di condivisione. Sta soprattutto in una “jam community” presente in tutto il mondo: una comunità di individui che riconoscono al Design la capacità di cambiare, passo dopo passo, il mondo in cui viviamo.

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Giochi per la Storia: Design e bambini in dialogo Un progetto di qualità per i parchi storici di Rodrigo Rodriquez

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l 28 Novembre scorso, nell’Agorà della Triennale, è stato presentato ed illustrato il progetto Giochi per la Storia – Design e bambini in dialogo. Essendone il coordinatore, mi piace raccontarlo ai lettori di Riflesso: nel panorama fibrillante del fenomeno Design questo progetto mi sembra portatore di un messaggio insolito: stavo per dire nuovo ma non vorrei che qualcuno – come capita alle buone idee anche in altre aree del mondo –non

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vi avesse già pensato. Analizzare e favorire l’avvicinamento dei bambini e ragazzi al mondo del progetto non è infatti un proposito nuovo. Qui di nuovo ci sono almeno tre elementi: il punto di partenza, tentare di attrezzare i parchi e i giardini storici con giochi per bambini compatibili dal punto di vista estetico con l’ambiente in cui sono inseriti; stimolare i bambini della scuola materna a suggerire spunti ed idee che permettano ad esperti di co-


In alto, ZPZ, Casa In basso, Donata Paruccini, Casetta Virginia

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Substrato, Sopra la panca

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struire scenari che diventino piattaforme da cui designer professionisti, coordinati da uno specialista di questa merceologia, deducano concept per sviluppare prodotti; aziende del settore pronte a realizzare prototipi da ingegnerizzare tenendo conto delle delicate normative sui giochi all’esterno per l’infanzia. Ciascuno di questi elementi è presidiato da uno dei componenti il team: il punto di partenza dall’arch. Marina Rosa, Presidente del Centro Documentazione Residenze Reali Lombarde; la stimolazione dei bambini della scuola dell’infanzia – in questo caso, quella dell’Istituto scolastico Salvo d’Acquisto di Monza – dall’Atelierista Daria Manenti; la formulazione degli scenari ed il passaggio da quelli da trasferire ai designer, da Michele Zini, progettista di asili nido e scuole, autore del Children Park Expo 2015 ed estenso-

re del briefing di impianto; la supervisione degli aspetti pedagogici, da Susanna Mantovani dell’Università Milano Bicocca, dove insegna Pedagogia e Culture dell’Educazione; il coordinamento del progetto ed il contatto con le aziende produttrici da Rodrigo Rodriquez, imprenditore. Una peculiarità di questo progetto rispetto alle modalità con cui si sviluppa un normale progetto di design del prodotto o dei servizi, è stata l’attenzione di noi membri del team alle caratteristiche del fruitore dei giochi all’esterno che ne scaturiranno. Negli scambi di idee preliminari abbiamo raggiunto una ragionevole sintonia sulla cultura dell’infanzia che individua il bambino come un soggetto competente, che considera l’infanzia un tempo di immense potenzialità nel quale i bambini, attra-


Alberto Meda, Su e Giù

verso le relazioni, l’esplorazione, l’incontro con ambienti, materiali, esperienze e linguaggi possono cominciare a costruire la conoscenza e ad esprimere la propria personalità. Il bambino come esploratore che conosce il mondo attraverso tutti e cinque i sensi (con processi cognitivi caratterizzati da forte sinestesia), come soggetto che sperimenta relazioni con gli altri e con i luoghi e come individuo sensibile alla bellezza e alla grazia che si merita giochi da esterno sensoriali, relazionali, belli. Per me è e continuerà ad essere un’esperienza nutriente (quante cose ho imparato da Susanna Mantovani e Michele Zini) fino a che i prodotti, di cui oggi abbiamo da vedere e da toccare i prototipi, andranno sul mercato accompagnati da un’adeguata comunicazione. Per deformazione professionale ho assistito con

interesse alle discussioni sui materiali da scegliere per alcuni dei progetti, anche per tener conto che il bambino, come si diceva, usa per il suo stare al mondo tutti e cinque i sensi. Altro aspetto interessante come si prevedeva, è il modo diverso con cui i sette designer – Aldo Cibic, Paolo Lomazzi, Alberto Meda, Substrato di Marcello Brambilla e Valentina Moraca, Donata Parrucini, Tullio Zini e Zini ZPZ Partners – hanno “lavorato” sulla materia prima consistente nelle immagini prese e commentate dall’Atelierista e raccolte negli album delle Elaborazioni dei bambini sul tema dei Giochi all’Aperto. A giudicare dall’attenzione con cui il pubblico ha seguito la presentazione del 28 Novembre, mi vien da dire che Giochi per la Storia – Design e bambini in dialogo, è proprio un bel progetto.

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UNA SCUOLA DI VITA di Marco Albini

A sinistra, Parma, edificio per uffici INA, 1950-54 A destra, Marco e Francesco Albini

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a mio padre non ho mai ricevuto vere e proprie “lezioni” semmai indirizzi e sollecitazioni ad osservare il mondo, e notare i dettagli o i colori o le ombre sulle colonne dei templi greci. Per cui alle domande di cosa mi è rimasto dell’insegnamento di mio padre posso rispondere solo nel senso di una scuola di vita, i cui contenuti si stratificano dentro di te con lentezza senza che te ne accorga e ti rimangono dentro come radici. Una scuola fatta di silenzi perché

mio padre non parlava: io ricordo viaggi di ore silenziosi in auto, forse dovuti a timidezza e ritegno, a cui io ero abituato ma che metteva in imbarazzo gli altri ospiti del viaggio. Ogni tanto il silenzio era rotto da osservazioni brevi ma assolute che testimoniavano una acuta attenzione verso il mondo circostante. Io credo che gran parte dei silenzi fosse dovuto al “portarsi dietro” in testa il progetto a cui in quel momento stava lavorando e che ripassava mentalmente mentre faceva altro secondo il principio citato da Fran-


A sinistra, disegno libreria Veliero, 1940 A destra, libreria Veliero, Cassina, 2011

ca Helg “che usava tenere sulle ginocchia un progetto come si fa con un bambino”. Comunque ricordo che mio padre è sempre stato presente nelle decisioni importanti della mia vita intervenendo senza rumore né dichiarazioni d’intenti spesso facendo sì che la soluzione apparisse quasi spontaneamente senza rivelare che al contrario era stata creata apposta. Questo poco si concilia con l’immagine proposta dalla storiografia ufficiale di Albini come calvinista e moralista rigido e severo. Così come credo si debba sfata-

re il detto popolare di Albini razionalista che crede nella funzione che determina la forma “form follows function” e in un processo quasi automatico di derivazione dei risultati di un progetto. Al contrario tutto questo è rinnegato dagli esempi degli allestimenti temporanei degli anni ’30 e da altre opere di architettura del dopoguerra oltre che da molti oggetti di design in cui i principi fondativi dell’architettura razionale sono stati trasfigurati in una sorta di sintesi poetica quasi lirica che ha realizzato oggetti e

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In questa pagina, Studio Albini Associati, Milano, Boutique Rolex, 2011 Nella pagina accanto, In alto, Fondazione Franco Albini In basso, a sinistra, Parigi, Negozio Olivetti, 1959 Al centro, Roma, La Rinascente, 1957-61 A destra, Milano, Mostra dell'antica oreficeria italiana, VI Triennale, 1936

Fondazione Franco Albini Via Telesio, 13, Milano T. 02 498 2378 www.fondazionefrancoalbini.com

spazi atmosferici di estrema leggerezza e lievitazione in cui si legge il ritmo e la regola costruttiva di base, ma con un risultato estetico quasi “surrealista” e di una modernità umanistica e astratta. È vero che alla base dei progetti vi era sempre la ricerca di un ordine, di un metodo che rifiutasse l’arbitrio della fantasia, ma sempre la sintesi che ne risultava portare l’afflato poetico della leggerezza, della sfida alle leggi di gravità. “Zero gravity” era il titolo della mostra su Franco Albini allestita alla Triennale di Milano nel 2006 e curata da Renzo Piano con un allestimento che rappresentava e interpretava le caratteristiche sia delle opere principali che del carattere di mio padre. La ricerca dell’anima delle cose raggiun-

ta attraverso un processo di progressiva eliminazione del superfluo, di riduzione all’essenziale fino ad arrivare a quel “niente” citato da Persico che fa sì che tutto lieviti, niente tocchi terra, spesso appendendo gli oggetti al soffitto mediante reti di cavi tesi tra le pareti delle sale. Così è per gli allestimenti temporanei alla Triennale e alla Fiera degli anni ’30, oppure nel negozio Olivetti di Parigi degli anni ’60 o nella casa Marcenaro a Genova o villa Formiggini a Varese. Per cui io credo che vi fosse uno “iato” tra la coscienza critica che spingeva verso un controllo rigido del processo di progettazione e uno scatto lirico interpretativo che produceva un risultato nuovo e sorprendente.

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UN ACHILLE CASTIGLIONI A METÀ di Giovanna e Carlo Castiglioni

A sinistra, Achille Castiglioni, foto di Luciano Ferri Al centro, Fratelli Castiglioni, lampada Arco, 1962 A destra, Fondazione Achille Castiglioni

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on è stata scritta una storia di Achille Castiglioni e della sua vita e noi, della famiglia, siamo stati assorbiti dalle vicende dello studio-museo, prima e dalla realizzazione della Fondazione Achille Castiglioni, dopo. Giovanna ed io abbiamo, a volte, difficoltà a parlare di Achille se non altro perchè possiamo dire che è stato un grande designer, ma quando vogliamo raccontare il padre, i nostri ricordi si sfumano e divergono quasi che potremmo pensare di avere avuto due padri in un designer. Quindi, per scrivere queste righe abbiamo deciso di raccontare questa storia dividendoci così equamente nostro padre. Io sono Carlo, il più grande, e i miei ricordi

vanno a ritroso alla mia infanzia, ma anche all’inizio della vita professionale di Achille. Sono nato pochi anni dopo la fine della guerra e i miei ricordi raccontano di un periodo nel quale la nostra famiglia era coesa, quasi patriarcale. La domenica si andava tutti a cena dai nonni Castiglioni, e quando dico tutti intendo: Achille, mia madre, io ma anche le famiglie dei fratelli di Achille, in altri termini una banda numerosa e gioiosa. In quegli anni lo studio di Achille e del fratello Pier Giacomo era ancora a Milano, in corso di Porta Nuova al 57, nello stesso luogo dove vivevano i nonni. Io ero il più piccolo dei nipoti e quindi molto timoroso dell’attività che Achille ed il fratello svolgevano nello studio, tutta-


via quel periodo (già anni ‘50 del secolo scorso) mi è rimasto nel cuore e forse ha segnato la mia vita. Achille e Pier Giacomo, in quegli anni, lavoravano molto, forse troppo, ma lo facevano con uno spirito e una voglia interiore che travolgeva tutti sia nella nostra famiglia che fuori. Achille si recava al lavoro su quello che oggi potremmo chiamare una specie di moto, “Il guzzino” della Guzzi, una via di mezzo fra una moto vera e quella che poi sarebbe stato chiamato ciclomotore. Pier Giacomo utilizzava una delle prime lambrette (quella con il telaio a vista per intenderci) mentre l’auto ce l’aveva solo il nonno Giannino. Il mezzo di trasporto ovviamente non è fondamentale per la storia, ma mi per-

mette di sottolinearvi come non si vivesse da nababbi, ma sorretti da una forte speranza nel futuro. Achille e il fratello lavoravano tutto il giorno e normalmente ritornavano al lavoro anche dopo cena e il sabato, per questo solo la domenica Achille aveva del tempo per stare con me. Sebbene il tempo fosse limitato, il pensiero di Achille andava sempre allo studio, è stato in queste ore passate con lui che spesso si tornava in quel luogo dove i Castiglioni procedevano al rito della progettazzione creativa. Qui spesso si incontrava con il fratello e con gli amici di lavoro uno fra tutti il grafico Max Huber, con loro si creava un clima d’intesa di condivisione che difficilmente ho potuto riscontrare

poi nel corso della mia vita. In quegli anni Achille ha realizzato molti progetti di design, ma dal mio punto di vista i più importanti mi sembravano gli allestimenti che venivano realizzati per la Fiera Campionaria di Milano. Ad aprile di ogni anno io ero in attesa di questo evento, infatti, negli ultimi giorni prima dell’inaugurazione tutti lavoravano giorno e notte per completare i padiglioni. Achille ogni anno mi portava una delle ultime sere con lui in questo mondo “fatato” dove falegnami, elettricisti, pittori ma anche grafici e architetti lavoravano all’unisono per uno stesso obiettivo, finire in tempo. In questi momenti ho potuto vedere come tutte queste persone, di estrazione così differente, potessero operare assieme e

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A sinistra, Achille Castiglioni Al centro, Fondazione Achille Castiglioni, Stanza Architetto A destra, foto di H. Findletar

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sovente i Castiglioni spostavano casse e pareti di legno mentre grafici come Max Huber o Tovaglia dipingessero direttamente sulle pareti le scritte e i disegni che avevano ideato. Negli anni ‘60 lo stabile di corso di Porta Nuova fu abbattuto, troppo vecchio, e lo studio viene portato in Piazza Castello al 27 dove lo trovate ancora oggi. I Castiglioni cominciano a diventare conosciuti e stimati, ma la vita nello studio come archetipo del lavoro era rimasto. Purtroppo nel 1968 il fratello Pier Giacomo muore, per Achille questo fu un momento difficile infatti i due erano stati in simbiosi per quasi vent’anni. Qui inizia la nuova vita di Achille, prende la libera docenza ed inizia la sua vita di professore universitario, apre così un rapporto unico e irripetibile con gli studenti che hanno imparato ad amarlo e continuano a farlo ancora oggi. A questo punto della storia arriva il “secondo” padre, un Achille che a 54 anni diventa padre per la seconda volta, a detta sua, inizia una bella e inaspettata sfida. È

un uomo nel pieno della sua carriera, con i capelli grigi e con gli occhi blu, vispi e scintillanti, che esprimono tanta voglia di lavorare, lui sempre sereno e fischiettante. Non certo come avviene oggi, l’impegno di Achille in quegli anni trovava un giusto equilibrio tra studio, gioco, viaggi, conferenze, lezioni universitarie, i miei compiti e la vita di casa. Achille diventa dopo gli anni ’70 un designer affermato, un architetto stimato, ma per me continua ad essere un amico, un fratello, un compagno di giochi e perché no un padre…a volte un nonno (che nervi). Quando entravamo nei negozi era molto comune sentire la frase: “ciao, sei venuta con i nonni a fare la spesa?”. In effetti mia madre Irma ha avuto i capelli bianchi già a 18 anni e mio padre lo ricordo da sempre con i capelli grigi, ecco perché per me i miei genitori non sono mai invecchiati e questo mi ha sempre portato a rispettare tutti coloro che avevano una certa età, i “grandi” e non gli anziani. Sono stata sempre contornata da tanti “giovani grandi” e i pensieri mi rimandano ad indimenticabili po-


Fondazione Achille Castiglioni Piazza Castello, 27, Milano T. 02 805 3606 www.fondazioneachillecastiglioni.it

meriggi di gioco e lavoro con Max Huber e sua moglie Aoi, ore di musica jazz, colori su fogli bianchi, gatti danzanti sui tavoli e oggetti meravigliosi che potevo toccare con moderazione, ma che venivano condivisi con questa bimba un po’ scatenata che ne combinava “una peggio di Bertoldo”, curiosa “come una volpe”, con “occhi di lince” e costantemente ammaliata dal fumo delle sigarette. E loro quattro insieme mi facevano sentire grande, perché già a 4 anni potevo bere la birra e gli altri bambini no! Ho scoperto solo pochi anni fa che la birra che mi davano e che mi piaceva tantissimo, in realtà era allungata con la gazzosa ticinese, ma l’inganno era perfetto! Gli incontri con Bruno Munari di solito avvenivano all’aria aperta e per tenermi occupata mi mandavano, da sola nel bosco a cercare legnetti che poi ho scoperto diventavano sculture in movimento. Mi sono sentita spessissimo contornata da adulti bambini che, giocando, andavano avanti a progettare, “ragazzi” che non si sono mai presi troppo sul serio, che hanno usato nella loro comunicazio-

ne al mondo una piacevole ironia e a volte un tagliente sarcasmo. Penso ancora a mio zio Livio e alla zia Pinni, agli amici di sempre Giancarlo e Memi Pozzi, a Mario e Anni Di Benedetto, a Lea ed Enzo Mari e a molte altre coppie che mi hanno dato uno splendido esempio di come, tutti e in modo estremamente diverso, si possa vivere la vita amando il proprio lavoro e gustandosi passeggiate tra boschi e mostre di architettura, design e arte contemporanea. Ho scoperto chi era il designer Achille Castiglioni nel 2006 quando ho iniziato a lavorare nel suo studio, oggi Fondazione Achille Castiglioni, come guida museale, come voce narrante di un maestro dell’industrial design, del suo vissuto lavorativo, ma anche delle storie che sono nate dietro agli oggetti. Oggi credo possa essere utile condividere con le nuove generazioni il racconto di come il lavoro, se fatto con passione, possa attingere da giochi, viaggi, musica, curiosità e ironia, ingredienti cardine del modo di vivere “alla Castiglioni”.

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IL CONCEPT DESIGN DI MAGISTRETTI di Margherita Pellino

Lampada da tavolo Atollo, Oluce,1977

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udovico Magistretti è nato a Milano nel 1920, figlio di Pier Giulio Magistretti, anche lui architetto. Nel 1945 si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano e ha iniziato subito l’attività professionale nello studio del padre, scomparso prematuramente nello stesso anno. Qui, nel piccolo studio paterno, lavorerà, come architetto e designer, per tutta la vita con la collaborazione di un unico straordinario assistente, il geometra Franco Montella. Vico, come tutti lo chiamavano, era mio nonno. Un nonno sui generis, non di

quelli che accompagnano i nipotini in piscina o al parco, ma uno che amava chiacchierare, raccontare il proprio lavoro, far vedere a mio fratello e a me gli oggetti appena disegnati e spiegarci i motivi per cui aveva deciso di farli così piuttosto che cosà. Nel 2007, un anno dopo la sua morte, ho iniziato a riordinare il suo archivio, riconosciuto di particolare interesse storico dalla Sovrintendenza Archivistica della Lombardia. Lì, spulciando tutti i giorni carte, ho potuto completare e approfondire quei racconti, vedere con i miei occhi come quegli oggetti erano nati


In alto, Vico Magistretti al telefono In basso, Fondazione Vico Magistretti, foto di Matteo Carassale

e si erano sviluppati. “A me piace il concept design, quel design che è talmente semplice che puoi anche non disegnarlo. Molti dei miei progetti li ho trasmessi per telefono”, questo era il suo design. E la lampada Eclisse è il perfetto esempio di cosa significa fare concept design. “Mi ricordo quando mi hanno detto, da Artemide in piazza Conciliazione, “ma sa architetto tutti hanno i letti, perché non facciamo una lampada da letto?”. Io sono andato via, ho pigliato la metropolitana e ho disegnato non la lampada, che poi non ho mai disegnato, ma il concetto. Perché

è un concetto preso da Victor Hugo, da Jean Valjean, il ladro famoso de I Miserabili. È la lanterna cieca che ha avuto un certo successo perché la producono ancora adesso dopo 40/45 anni…” Così Vico spiega Eclisse a chi entra in studio museo, sede della Fondazione Magistretti, in un montaggio di interviste che è una sorta di autobiografia personale e professionale, in cui racconta gli anni della formazione, la Milano del dopoguerra, i suoi viaggi, i suoi progetti di architettura e design, la sua idea di città. Il concept design di Magistretti fa il paio con la

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Lampada da tavolo Eclisse, Artemide, 1965

semplicità, “la cosa più difficile del mondo”. Diceva che il più bel complimento che poteva ricevere era quando qualcuno, guardando un suo oggetto, esclamava “che stupidata, avrei potuto farla io!”. Disegnare cose semplici, che sembrano da niente, è stato il suo modo di lavorare per 60 anni, e così i progetti si possono spiegare a parole, non serve altro. Atollo, per fare un esempio, secondo Vico era essenzialmente una semisfera combinata con un cono e un cilindro: “Se scelgo un cono, è un cono. Mi sono liberato di

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tutti i problemi di stile”. Per noi nipoti, giovani ed estranei a quel mondo, non era sempre facile capire cosa intendesse e così ci faceva questo esempio: “Sapete quale è l’oggetto che mi piacerebbe aver inventato? L’ombrello, un oggetto straordinario, tecnologicamente complicato, che risolve il problema di non bagnarsi, quindi di farla in barba al Padre Eterno. Però la semplicità dell’ombrello, il niente dell’ombrello, la tensione dell’ombrello lo rendono l’oggetto che io vorrei aver disegnato più di tutti”.


Fondazione Vico Magistretti, foto di Matteo Carassale

Fondazione Studio Museo Vico Magistretti Via Vincenzo Bellini, 1, Milano T. 02 76002964 www.vicomagistretti.it

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Milano, Palazzo di Brera, Teatro delle immagini (ABAPG, UNIPG, 2013), foto di Fulvio Orsenigo

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BRANDING TERRITORIALE di Paolo Belardi

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l 17 novembre 2016, presso la sede milanese di Banca Prossima, la Regione Umbria è stata insignita del grandesignEtico International Award: un premio che è assegnato con cadenza biennale dall’Associazione Culturale Plana per promuovere il design italiano di eccellenza e che è qualificato da un board di assoluto prestigio. La notizia ha sollevato una vera e propria eco mediatica, perché per la prima volta, invece che a un’azienda privata o a uno studio professionale, il riconoscimento è stato assegnato a un’istituzione pubblica che si è contraddistinta per «l’impegno nell’attività di rilancio degli asset produttivi e la difesa del ‘saper fare artigiano’ che rendono questa regione la prima in Italia e in Europa ad avere intrapreso un percorso etico e sociale». Una motivazione più che fondata perché, così come registrato da

Giovanni Tarpani (RE-EVOLUTION. Branding Regione, Red Publishing, Bondeno 2011), mentre il resto d’Italia è impegnato in processi di valorizzazione regionale che tendono a convergere nella pratica del marketing territoriale, la Regione Umbria, confermando la propria vocazione pionieristica in materia di design della comunicazione, ha scelto la strada più difficile, ma anche più innovativa, del branding territoriale. Il che ha comportato l’elezione della valorizzazione culturale a qualità strategica, coronando un percorso che è iniziato in modo pressoché inconsapevole a Perugia nel dicembre 1971, quando l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale ha bandito un concorso pubblico per l’ideazione dello stemma istituzionale (contrassegnato dal profilo stilizzato dei tre Ceri di Gubbio), e che è approdato in modo assolutamente con-

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In alto a sinistra, Milano, Padiglione Italia, Convivium 2.0 (Abapg, Unipg, 2015), foto di Paul Robb A destra, Milano, Ca’ Granda, Scorched or Blackened (Abapg, Unipg, 2016), foto di Alessandra Chemollo In basso a sinistra, Venezia, Padiglione Italia, Maioliche Deruta 2012 (Michele De Lucchi, 2012), foto di Giovanni Tarpani A destra, Verona, Vinitaly 2009, stand Regione Umbria (Oliviero Toscani, Pietro Carlo Pellegrini, 2009), foto di Stefano Beggiato

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sapevole a Spoleto nel luglio 2016, quando la cultura del design ha fatto irruzione per la prima volta nel programma ufficiale del 59esimo Festival dei 2 Mondi (sotto l’egida di un vero e proprio “guru” del settore come Gilda Bojardi). Nel mezzo un viaggio lungo quarantacinque anni verso la contemporaneità, scandito dalle tappe salienti del restyling dell’immagine coordinata (suggellate dall’adozione, nel 2004, del Bollo Rosso) e accelerato dalla genialità di grandi artisti come Oliviero Toscani (progettista, insieme a Pietro Carlo Pellegrini, del padiglione regionale al Vinitaly 2009), Michele De Lucchi (artefice della collezione Maioliche Deruta 2012) e Steve McCurry (protagonista della campagna fotografica Sensational Umbria). Ma soprattutto alimentato dalla continuità della presenza in eventi esclusivi come il Fuorisalone 2013, l’Expo 2015 e la mostra Interni Open Borders. Occasioni in cui la Regione Umbria si è affidata all’alta formazione,

coniugando le competenze dei progettisti e degli studiosi dell’Università degli Studi di Perugia con le competenze degli artisti e dei designer dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci”, facendole convergere sinergicamente in un programma culturale che si è sviluppato nell’arco di un quadriennio nei luoghi-simbolo di Milano: nel 2013 nel cortile napoleonico del Palazzo di Brera con il padiglione espositivo Teatro delle immagini, nel 2015 nello spazio a rotazione del Padiglione Italia con l’allestimento espositivo Convivium 2.0 e nel 2016 nel cortile centrale della Ca’ Granda con la struttura espositiva Scorched or Blackened. Tre operazioni di design che hanno segnato la storia dell’Umbria, perché, guardando al futuro senza rinnegare il passato, hanno archiviato definitivamente l’immagine “verde e medievale” ereditata da duecento anni di romanticismo latente. Con buona pace dei fan dell’umbritudine.



Materiali impalpabili per un design delle relazioni di Cinzia Chitra Piloni

Sri Yantra, di T.M. Fudala

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agari sogniamo, ma non sempre abbiamo la forza necessaria per trasformare il nostro immaginario nella conseguente realtà. Forse - e dico forse - è semplice immaginare una sedia e poi realizzarla, una lampada e poi produrla, ma quando a un designer si richiedono più ampie visioni, si chiede di progettare società, landscape & urbanscape, di ideare contesti e luoghi capaci di ospitare una rinnovata umanità, allora il compito diventa tanto più complesso, quanto più interessante. Ardito, oserei dire. Mentre rifletto su questo punto mi sorgono alcune domande. Si possono progettare condizioni che rendano possibili una migliore qualità del vivere? Una sua pienezza? E quale diventa in questa

peculiare espressione del design la dotazione necessaria per svolgere con eccellenza il proprio lavoro? A quale campo della conoscenza un designer può far riferimento per progettare in tal senso? E soprattutto come può diventare possibile un design delle relazioni improntate sul valore (quanto mai necessario in questo tempo)? La prima considerazione che provo a fare, seguendo questo pensiero, è che certo un design armonico, un competente uso di colori e materiali e la creazione di spazi capaci di accogliere integralmente la nostra umanità possono essere un punto di partenza. E ne abbiamo luminosi esempi. Molti progettisti son capaci di rispondere alle esigenze non solo fisico-materiali, ma anche emotive, intellettuali e spiri-


tuali dei fruitori nel concepire oggetti, ambienti o spazi. La seconda considerazione insiste sul concetto di design delle relazioni e mette in campo un design del sottile, cui forse è più difficile far riferimento. Mi chiedo infatti quali siano i materiali da costruzione che dovremmo prendere in considerazione e selezionare. Se la realizzazione di una lampada presuppone la conoscenza di principi di illuminotecnica e nozione delle sorgenti di luce disponibili, che siano incandescenze, fluorescenze o vapori di mercurio, cosa dobbiamo indagare per progettare nuove relazioni e condivisioni sociali? Quali sono i materiali costitutivi delle relazioni? Forse possiamo partire da un utilizzo consapevole di materiali impalpabili quali fiducia, pazienza, ascol-

to, comprensione e amore. Quest’ultima “materia” soprattutto mi interessa, non sentimento, ma effettiva energia costituente dell’universo. Quell’energia dinamica che riesce a dar vita ai progetti a tenere unite cose anche apparentemente distanti, a dare senso a quella manciata di anni che passiamo su questo pianeta. A rendere possibile tutto. Soprattutto l’impossibile. Quell’amore che costituisce energia dinamica e armonica… corrente sotterranea che vivifica ogni cosa e che letteralmente muove il sole e le altre stelle. Ecco forse per un raffinato design delle relazioni, si tratterebbe di avere il coraggio di mettere l’amore al centro della progettazione. Come sorgente infinita di creatività.

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COME PUÒ IL LAVORO DEGLI UOMINI Come può il lavoro degli uomini rendere sacra la vita già sacra di nascita? Come può la nostra opera non distruggere ma migliorare? Solo la cura può. Solo l’amore può. Accarezza, tocca ogni oggetto con amore, con grazia qualsiasi sia il tuo fare. Solo così potrai far procedere l’opera. Il figlio dalla madre, questo è il procedere. Il figlio della madre sa scegliere e può creare. Cinzia Chitra Piloni – da Thali, Poesie mistiche – Ed. Fausto Lupetti Editore

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“ Vedrete che le farete. E così fu.” Bruno Munari

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OPEN

25 MARZO 2017

DESIGN HUB

VIA PIEVAIOLA, 166 PERUGIA - 075 9288908 - WWW.GRAFOXSTORE.IT


Superstudio Più Nel cuore della Tortona District punto di riferimento è lo spazio Superstudio Più (Via Tortona 27), un complesso che ospita gallerie d’arte, archivi, barristoranti, uffici-showroom. Con i suoi 17.000 mq di spazio espositivo propone, durante il Fuorisalone2017, la terza edizione di “SUPERDESIGN SHOW” format autoriale di Superstudio che ospita progetti, installazioni museali, mostre indipendenti o collettive. www.superdesignshow.com

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Triennale di Milano Merita una passeggiata il percorso che va da piazzale Cadorna, interamente progettato dall’architetto Gae Aulenti, alla Triennale Design Museum (Viale Alemagna 6). Quest’ultima è un istituzione che propone mostre di architettura, design, moda, arti visive, convegni e rassegne cinematografiche. Le esposizioni e le iniziative in programma si terranno, oltre che all’interno dello spazio del Palazzo dell’Arte, anche in altre sedi dislocate in tutta la città. www.triennale.org

FUORISALONE OLTRE IL DESIGN 12 CONSIGLI PER VISITARE LUOGHI TRA DESIGN E ARTE a cura della Redazione

Nonostante Marras A pochi passi dal distretto della Tortona Design Week, più precisamente in Via Cola di Rienzo 8, si può visitare Nonostante Marras, showroom dello stilista Antonio Marras e spazio espositivo dedicato all’arte contemporanea e al design. Sviluppato su due livelli, ospita un giardino ed ampie sale in cui è possibile ritrovarsi per prendere un tè, leggere libri ed assistere a proiezioni cinematografiche. www.nonostantemarras.it


Brera Design District Il quartiere di Brera, situato nel centro storico, oltre alle istituzioni riunite nel Palazzo di Brera (Via Brera 28) quali l’Accademia, la Pinacoteca, l’Orto botanico e l’Osservatorio astronomico, durante i giorni della Design Week apre le porte al Brera Design District, in cui arte e design si incontrano in un circuito ricco di eventi ospitati da gallerie, showroom e pop-up stores. www.breradesigndistrict.it

Ventura Centrale Il polo Ventura Lambrate quest’anno si sdoppierà al di sotto della Stazione Centrale. Infatti, oltre all’ormai classico appuntamento di Milano Est, da quest’anno Ventura Projects ha dato vita ad un nuovo piccolo distretto: i tunnel sottostanti la stazione (via Ferrante Aporti 15).Gli spazi ristrutturati e aperti al pubblico esporranno i lavori di Lee Broom, Maarten Baas by Lensvelt, Baars & Bloemhoff e Salviati in collaborazione con Ben Gorham e Luca Nichetto e tanti altri. www.venturaprojects.com

Hotel Magna Pars Suites L’Hotel Magna Pars Suite Milano, situato in zona Tortona (Via Forcella 6) è il primo hotel-à -parfum al mondo, ricavato dal restauro della fabbrica di profumi della famiglia Martone; l’idea è stata quella di realizzare una fragranza esclusiva che caratterizzasse l’immagine stessa dell’hotel. All’interno è stato ricavato un laboratorio olfattivo a disposizione sia degli ospiti che del pubblico, per un’interessante esperienza sensoriale. www.magnapars-suitesmilano.it

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Studio Michele De Lucchi Situato in centro (Via Varese 15) lo studio di Michele de Lucchi, è uno dei maggiori esempi di interazione tra le più svariate competenze nel campo della progettazione. Durante il fuori salone si apre al pubblico, permettendo la visione e la visita dei quattro piani: falegnameria al piano inferiore, postazioni dei progettisti in open space su altri due livelli e tanto altro sarà racchiuso tra le mura della location, e se si è fortunati si può incontrare Michele De Lucchi di persona. www.amdl.it

Design Library Uno spazio espositivo dove è possibile confrontarsi nell’armonia di un ambiente in cui si incontrano la creatività, la progettualità e la comunicazione. Design Library (situato in Via Savona 11) offre un’opportunità alle aziende del settore arredo casa a vocazione internazionale, di entrare in un circuito di design, attraverso la costruzione di un percorso basato su operazioni espositive e propositive. www.designlibrary.it

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Mudec - Museo delle Culture Nella zona industriale dell’ex Ansaldo si trova il Museo delle Culture (Via Tortona 56), pensato per vivere l’arte in tutte le sue accezioni e soprattutto come luogo di scambio e condivisione di saperi delle diverse culture del mondo. Grazie ad un vasto programma di mostre e grazie alla sezione permanente il visitatore è catapultato cronologicamente in altre ere e attratto da mondi apparentemente lontani. www.mudec.it


Fondazione studio museo Vico Magistretti Nel centro di Milano, di fronte al Conservatorio di Musica (Via Bellini 1), a fianco della chiesa della Passione, lo studio dove Vico Magistretti ha lavorato per più di sessant’anni è oggi un museo che attraverso i progetti dell’architetto e designer, i suoi oggetti e gli spazi dove si è espressa la sua creatività, racconta brani di cultura del progetto, storie di innovazione, di tradizione e di produzione. La Fondazione ospita nella propria sede mostre di design e architettura e propone visite guidate, conversazioni e incontri sugli stessi temi. www.vicomagistretti.it

Fondazione Achille Castiglioni Il mondo dentro il quale Achille ha lavorato per oltre 60 anni di attività. È possibile vedere questo nello Studio Museo Achille Castiglioni, di fianco al Castello Sforzesco (Piazza Castello 27). Condividere e far conoscere le attività del Maestro attraverso la consultazione di documenti, schizzi, progetti, idee, digitalizzati e archiviati, è uno degli scopi della fondazione. Al suo interno vengono organizzate visite guidate in cui possibile visionare prototipi, tecnigrafi e oggetti che hanno fatto la storia del design italiano. www. fondazioneachillecastiglioni.it

Fondazione Franco Albini La Fondazione Albini, che si trova non lontano dalla Triennale di Milano (Via Telesio 13), nasce con lo scopo di conservare e far conoscere al grande pubblico la memoria storica di Franco Albini. Al suo interno si possono ammirare le sue opere considerate oggi Patrimonio storico nazionale. I suoi progetti ammontano a circa 22 mila disegni, il suo archivio fotografico conta oltre 6 mila foto, e poi tanti scritti, modelli, lettere, relazioni tecniche, libri e riviste che si trovavano nella biblioteca di studio. La Fondazione promuove anche iniziative culturali sull’arte e architettura contemporanea. www.fondazionefrancoalbini.com 65


Stagione Radical. Contestazione e Creatività di Alessio Proietti

In alto, Archizoom Associati, poltrona Superonda, Poltronova, 1966

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“A

rchizoom Associati, Remo Buti, Casabella, Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra, 999, Gaetano Pesce, Gianni Pettena, Rassegna, Ettore Sottsass jr., Superstudio, Ufo e Zziggurat, riuniti il 12 gennaio 1973 presso la redazione di Casabella, fondano la GLOBAL TOOLS, un sistema di laboratori a Firenze per la propagazione dell’uso di materie e tecniche naturali e relativi comportamenti. La GLOBAL TOOLS si pone come obbiettivo di stimolare il libero sviluppo della creatività individuale.” Così esordisce il Documento n.1 - La Costituzione, dal primo bollettino GLOBAL TOOLS, a firma dei protagonisti del movimento radical. La genesi risale agli anni ‘60. La crisi del movimento moderno ge-

nera una de-strutturazione dei linguaggi architettonici, che in Europa si manifesta anche come una demistificazione del progetto, trasformato in un processo di comunicazione legato all’utopia. Nel frattempo in USA le opere di Andy Warhol riproducono su vasta scala beni di consumo. In Vietnam si combatte. In UK Mick Jagger fonda i Rolling Stones. In Italia il malcontento della classe operaia si fonde alla necessità di ribellione degli studenti e nel ‘66 nella facoltà di sociologia di Trento c’è la prima occupazione. È lo stesso anno dell’alluvione di Firenze: il fango sconvolge l’immagine della città. Soldati e angeli da ogni dove, intellettuali con le pale per salvare la perla della cultura. C’è contaminazione. La visione stravolta del consueto aspetto urbano, è una sorta di


In alto, Casabella n.377, maggio 1973: Global Tools Autore immagine di copertina: Adolfo Natalini su foto di Carlo Bachi

In basso, Le persone che si sono riunite nella redazione di Casabella il 12 gennaio 1973 per fondare la GLOBAL TOOLS ARCHIZOOM ASSOCIATI: 1. Andrea Branzi - 2. Gilberto Corretti 3. Paolo Deganello - 4. Massimo Morozzi 5. Dario Bartolini - Lucia Bartolini. 6. Remo Buti. CASABELLA: 7. Alessandro Mendini - 8. Carlo Guenzi 9. Enrico Bona - 10. Franco Raggi 11. Luciano Boschini. 12. Riccardo Dalisi. 13. Ugo La Pietra. 9999: 14. Giorgio Birelli - 15. Carlo Caldini 16. Fabrizio Fiumi - 17. Paolo Galli. 18. Gaetano Pesce. 19. Gianni Pettena. RASSEGNA: 20. Adalberto Dal Lago. 21. Ettore Sottsass. SUPERSTUDIO: 22. Piero Frassinelli - 23. Alessandro Magris 24. Roberto Magris - 25. Adolfo Natalini 26. Cristiano Toraldo di Francia. U.F.O.: 27. Carlo Bachi - 28. Lapo Binazzi (Patrizia Cammeo, Riccardo Forese) 29. Titti Maschietto. ZZIGGURAT: 30. Alberto Breschi (Giuliano Fiorenzuoli) 31. Roberto Pecchioli (Nanni Cargiaghe, Gigi Gavini).

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In alto a sinistra, Superstudio, Monumento Continuo, 1969 A destra e in basso, Superstudio, mobili serie Misura/Quaderna, Zanotta, 1969

metafora della città da ridisegnare, che liberandosi dal peso della tradizione, diviene permeabile all’introduzione di nuovi canoni e forme. In continuità con questo contesto o per mera coincidenza, nel dicembre 1966 alla galleria d’arte Jolly 2 di Pistoia si inaugura la mostra “Superarchitettura” il cui manifesto recita “La superarchitettura è l’architettura della superproduzione, del superconsumo, della superinduzione al consumo, del supermarket, del superman e della benzina super”. Espongono i gruppi Archizoom e Superstudio e mette le basi quel movimento che il critico Germano Celant qualche anno dopo appellerà come radicale. La facoltà di architettura di Firenze è terreno fertile per una rivoluzione di pensie-

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ro che, in contrapposizione ai concetti di razionalismo e funzionalismo, ha visto la formazione di personalità e gruppi protagonisti del movimento avanguardista, come i 999, Remo Buti, Gianni Pettena, Ufo e gli Zziggurat. Si effettua una critica radicale alla società, con approcci eterogenei e multidisciplinari, attraverso i mezzi dell’arte visiva, del design, dell’architettura, della filosofia, della politica. Una stagione irriverente che vede nella combinazione tra le discipline, un potente strumento di comunicazione al quale aderiscono esponenti come Sottsass, Pesce, La Pietra, Dalisi, il Gruppo Strum, i Cavart, oltre ad alcune riviste di settore. Memorabile il numero 367 di Casabella sul Radical Design, raffigurato dal


A sinistra, Casabella n.367, luglio 1972: Radical Design Autore immagine di copertina: Alessandro Mendini A destra, Zziggurat, Città Lineare, 1968

direttore Alessandro Mendini come un gigantesco gorilla dirompente, che invade la copertina. Alla base dei radicals c’è quindi un’idea di contestazione e di rottura con gli schemi convenzionali: si riflette su un modo diverso di vedere cose, case, città e comunità, senza porre limiti alle forme di espressione. Si realizzano oggetti ironici dal linguaggio eccentrico ed installazioni provocatorie, si producono immagini di prefigurazioni dissacranti, super visioni azzardate, raffigurazioni di scenari da incubo o di utopie. Prende avvio l’idea del “do it yourself”, l’autoproduzione che esalta la creatività e demitizza la produzione in serie tipica della pop art. Scantinati, aule e piazze divengono spazi di protesta ed esposizione, ai quali si

aggiungono i nuovi luoghi: è l’avvento “dei Piper”, locali prototipo della libertà del corpo umano che adatta lo spazio a sé, macchine polisensoriali che saranno anch’esse oggetto di progettazione radicale, come lo Space Electronic a Firenze. Svariate mostre nel corso degli anni intercettano e raccontano le vicende radicals, tra cui “Italy: The New Domestic Landscape” nel 1972 al MoMA di New York, in più occasioni alla Triennale di Milano e alla Biennale di Venezia, nel 2016 al MAXXI di Roma. È presente un’esposizione stabile sull’architettura radicale al Museo Novecento di Firenze e nella stessa città, a Palazzo Strozzi, è in programma a cavallo tra 2017 e 2018, la mostra “Utopie Radicali”. Nel manifesto si staglia

la Città Lineare degli Zziggurat, un corridoio urbano che collega fisicamente la periferia al centro storico, perseguendo continuità ed inclusione socio-culturale; le grandi scalinate accessibili al pubblico, permettono una visione sulla città storica conquistata. Tornando alla GLOBAL TOOLS: poco dopo la fondazione, la proto-scuola interrompe sperimentazioni ed iniziative. I vari gruppi iniziano a sciogliersi senza arrivare agli anni ‘80. Si chiude una stagione spregiudicata che ha lasciato immagini, teorie, progetti, qualche realizzazione e molte suggestioni: lascito di chi ha sfidato la crisi dei valori e le incertezze del crollo dei grandi sistemi, con la potenza critica della creatività.

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L’AMBIENTE CUCINA Storia ed evoluzione della società e il conseguente cambiamento delle forme abitative di Francesca Fregapane

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on c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. […] Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola”. (Kitchen, Banana Yoshimoto, 1988). L’evoluzione della società muta i bisogni dell’individuo e di conseguenza le forme dell’abitare. La cucina è l’ambiente che più di altri è stato fulcro e confluenza di molteplici aspetti delle strutture familiari e sociali di ogni epoca. È molto più di un complesso di tecniche per la preparazione degli alimenti; i cibi e il loro consumo non sono mai privi di caratteri rituali e cerimoniali in rapporto con i soggetti. L’idea della cucina la ritroviamo già nel Rinascimento con Leonardo Da Vinci, alla corte degli Sforza, ma è dalla prima metà dell’800 che si assiste alla nascita del concetto “moderno” di cucina grazie al lavoro di due donne americane: Cathe-

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rine Beecher (1800-1878) con l’assembled kitchen, ossia l’organizzazione e la conformazione di mobili e strumenti poi generalmente nota come “cucina americana”, e Cristine Frederick (1883-1970) che traspose in uno scritto i rigorosi principi del taylorismo applicato dalle fabbriche alla pratica quotidiana della fatica domestica. Da un lato si stava verificando la riduzione del personale di servizio e la nascita della figura della casalinga; dall’altro l’introduzione del gas e dell’elettricità a servizio delle abitazioni davano i natali agli elettrodomestici. Anche l’Europa si muove in questa direzione, e verso gli anni Venti, la cucina e le sue attrezzature diventano un vero e proprio laboratorio progettuale, strettamente legato alle tematiche dell’architettura e dell’edilizia con un’attenzione sorprendente rivolta alla donna e alla sua capacità di intervenire nella definizione degli spazi abitativi. La cucina razionale come mito domestico si stava sovrapponendo a quello della cucina come focolare: allo spazio simbolico e insieme


In alto, Cucina di Francoforte In basso, La Casa Elettrica. Gruppo 7

comunicativo della cucina tradizionale, si sostituisce uno spazio di lavoro, funzionale e isolato dal resto della casa. Già nel 1923 il Bauhaus nella sua prima esposizione presenta un modello di abitazione in cui la cucina per la prima volta è stata progettata secondo i criteri relativi alla razionalizzazione del lavoro domestico. Pochi anni dopo, l’austriaca Margarete Schutte Lihotzky affronta le nuove problematiche legate alla costruzione di alloggi popolari, le cosiddette Siedlung, secondo modelli che rispondono a questi standard. Elabora la famosa “cucina di Francoforte”, concepita con una disposizione di elementi che tiene conto di tutte le esigenze pratiche collegate al lavoro da svolgere: piani di appoggio contigui, zona di preparazione illuminata, distanze minime negli spostamenti, materiali facili da pulire. Di fatto la cucina di Francoforte fa riferimento a modelli sociali in cui la donna intraprende ruoli più dinamici, con una crescente occupazione professionale esterna e la conseguente necessità di ottimizzare i tempi per il disbrigo del lavoro

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Le Modulor, Le Corbusier

domestico. Negli anni ’30 è Luisa Lovarini che in Italia progetta la “Casa del dopolavorista” per la Triennale di Monza, insieme alla “Casa elettrica” del gruppo 7. Più tardi anche Le Corbusier, nella sua “Unité d’Habitation” progetta spazi abitativi in cui applica il proprio sistema, denominato Modulor, ovvero «una gamma di misure armoniose per soddisfare la dimensione umana, applicabile universalmente all’architettura e alle cose meccaniche», il cui progetto verrà affidato all’architetto Charlotte Perriand. Intanto si avvia una fase di semplificazione tecnica, di ricerca di nuovi materiali e una ancor maggiore cura per i dettagli, per giungere alla massima standardizzazione. Tra il dopoguerra e il boom economico la cucina diventa la stanza simbolo non solo per lo sviluppo industriale, ma soprattutto dello status raggiunto dal

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gruppo familiare. Disporre di tutti gli elettrodomestici e accessori offerti dal mercato rappresenta per le donne l’accesso a un modello di vita contemporaneo in cui il design gioca un ruolo chiave. Espressioni quali componibilità e modularità entrano nel linguaggio comune grazie alla standardizzazione tra produttori di elettrodomestici e progettisti di arredi per cucina. Si assiste alla nascita di un nuovo scenario domestico, tra gli anni ‘80 e ‘90, nel quale lo spazio circostante risulta disarticolato e in cui concedersi il tempo di guardarlo e adoperarlo equivale a possederlo. Lo scenario si evolve ulteriormente fino ai giorni nostri dove in modo più disinvolto e aperto il luogo cucina in comunione con il soggiorno diventa di nuovo piacere per tutti. In cui tutta la famiglia vi si raccoglie e con essa gli amici più cari.


Equilibrio #moriko

Il Re Dorato #sambuco

Double #blueside

Il Posto Giusto #annaritasetti

Light Shape #grafox

Fb: Veryposh www.veryposh.it


IL DESIGN IN ITALIA TRA ECONOMIA E FINANZA di Francesco Colamartino

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el 2015 il mercato del design è tornato ai fasti pre-crisi. E l’Italia, da sempre culla dello stile e del gusto, è tra i Paesi che guidano la riscossa. Secondo quanto evidenziato dal Design Market Monitor 2016 di Bain e Altagamma, il mercato globale del design ha raggiunto quota 100 miliardi nel 2015, con il segmento del core design salito a quota 32 miliardi (+4% su anno a tassi costanti, +9% a tassi correnti), superando così per la prima volta i livelli pre-crisi e toccando il record storico dopo i 31 miliardi del 2007. Nel 2016 il comparto del core design è cresciuto di un altro 3-4% (si attendono i numeri definitivi) toccando i 33 miliardi di euro. Di questa enorme torta, il 30% ha i colori della nostra bandiera. E, aspetto ancor più significativo, i brand del nostro Paese hanno la redditività più alta, con circa 200 aziende che hanno un fatturato medio annuo di 50 milioni. Una cifra importante, ma ancora non al livello di quelle dei player internazionali, come,

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ad esempio, i concorrenti americani, che raggiungono in media i 200 milioni. Fino ad oggi il private equity, cioè gli investitori privati, non ha guardato con particolare attenzione al mercato del design italiano. Anche se le cose stanno cambiando e sono sempre più numerosi i segnali di un’inversione di rotta. Ad aprile dell’anno appena passato è andata in porto un’operazione che ha destato l’interesse di molti. Si tratta dell’acquisizione di un’azienda familiare nota per l’alta qualità del suo design, la Meridiani di Misinto (provincia di Monza-Brianza) da parte del gruppo Italian Design Brands. I soci promotori di Idb sono la Pep (Private Equity Partners, guidata da Fabio Sattin e Giovanni Campolo), Paolo Colonna e i fratelli Giovanni e Michele Gervasoni, proprietari dell’omonima azienda udinese di arredi per la casa, fondata nel 1882. Tra i 13 investitori privati ci sono Gaetano, Paolo e Stefano Marzotto, Francesco Micheli e l’ad di Autogrill Gianmario Tondato da Ruos. «L’esigenza di aggregazioni è


Il comparto è in continua crescita e sul panorama mondiale i brand italiani giocano un ruolo di rilievo, facendo registrare il più alto tasso di redditività

paurosamente necessaria», ha spiegato Sattin, «l’arredamento italiano oggi è nella stessa situazione della moda di 15 anni fa. E, come la moda, rischia di finire nelle mani di gruppi stranieri». Se si esclude un gruppo come Natuzzi, oggi il mondo italiano del design è caratterizzato da una marea di società molto piccole. Nomi di fascia altissima, come Ceccotti, hanno un fatturato che si aggira sui 10 milioni di euro. Altra importante operazione è stata quella del fondo di private equity Progressio, che nel 2015 si è aggiudicato il controllo di Giorgetti, la storica società di Meda (Monza) produttrice di mobili di design di alta gamma. Il fondo ha battuto le altre offerte in campo, cioè quelle di Venice (Palladio Finanziaria), di un investitore cinese di Shanghai e di Idb. L’altro grande veicolo di private equity attivo sul fronte degli investimenti in design è Investindustrial del finanziere Andrea Bonomi. Nel 2014, attraverso la controllata Padme, ha acquisito Flos,

azienda specializzata nell’illuminazione di alto design. Un anno dopo è stata la volta dei divani B&B. Obiettivo di Investindustrial era ed è quello di creare una holding tricolore del lusso, sul modello di quanto già fatto nella moda dai gruppi francesi. Tanto che il fondo di Bonomi ha stanziato 1 miliardo solo per gli investimenti in design. Sempre nel 2014 il fondo Ergon Capital ha rilevato il marchio bolognese Visionnaire, leader nella realizzazione di soluzioni di arredo di lusso. Il primo ad entrare nel settore è stato, però, il gruppo Charme della famiglia Montezemolo con Poltrona Frau, poi ceduta agli americani di Haworth. Parlando, infine, del rapporto tra le startup del design e il venture capital, la piattaforma Italian Design Agency (che ha come fine quello di esportare il design made in Italy) ha ottenuto lo scorso anno 100 mila sterline dalla società i2i, una controllata del gruppo The Family Officer con sede a Londra.

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L’evoluzione dell’editoria nell'ambito del design di Giusy Facciponte

Oggi la costante connessione tra canali on-off line stimola sempre più l’attività di ricerca educando il pubblico a familiarizzare con la cultura del prodotto per creare una connessione emotiva tra gli oggetti e le persone

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iviste, periodici, pubblicazioni, libri, cataloghi, blog, l’editoria del design comprende molteplici forme e linguaggi, che si declinano in diversi profili di documentazione, sperimentazione e innovazione del prodotto e si traducono in un libero scambio di idee e condivisione della conoscenza. Inevitabilmente le dinamiche evolutive del XX secolo hanno caratterizzato lo sviluppo della comunicazione, e la grande espansione della cultura mediatica che gira intorno al sistema del design ha subito sostanziali trasformazioni. Fin dall’Ottocento i designer hanno scritto sul proprio lavoro e su quello di altri, hanno steso manifesti, pubblicato libri e manuali didattici, fondato e diretto riviste, alimentando il dibattito teorico-critico. E' in questa dimensione nel Novecento che l’evoluzione del design trova alimento nell’editoria specializzata. Il 1928 è stato un anno decisivo per la storia dell’editoria italiana legata all’architettura; in quell’anno nelle edicole e nelle biblioteche del tempo cominciarono ad uscire due riviste destinate a lasciare indubbiamente un segno sulla nostra cultura, Domus e Casabella, punti di riferimento italiano e internazionale per il design, l’architettura, l’arte e la creatività in generale. Sono i Sessanta, gli anni del boom dell’economia, ma soprattutto del consumo, dove il prodotto entra

a contatto con l’utente, dove le riviste raggiungono il massimo delle loro tirature e diventano un importante strumento di intrattenimento. Figlie del boom economico sono Interni Magazine del 1954 e Abitare del 1961, riviste che diedero e danno ancora oggi voce alle nuove tendenze nel mondo del design e dell’architettura, massimi punti di riferimento internazionali per la cultura creativa italiana e globale. Nell’ultimo mezzo secolo si è assistito a un'esponenziale crescita numerica nella comunità del design, che ha avuto delle ricadute nel campo della comunicazione e sugli sviluppi degli strumenti di divulgazione strettamente legati al pubblico ricevente. La stessa Domus è nata come consumer, mezzo di informazione, e non come rivista di progetto. O il taglio dello still life intrapreso da Casa Vogue dagli anni Sessanta, definita una rivista con il fascino discreto delle signore, che continua ancora oggi ad essere la linea presa da molti editori. Quel taglio editoriale che “educa” il mondo dell’arte nelle forme della cultura di massa. Perché l’editoria nel design non è solo finalizzata a far conoscere il prodotto, è anche divulgazione e promozione che necessitano di una risposta emotiva, che crea quella connessione tra gli oggetti e le persone. Siamo nell’era digitale e del design “diffuso”, gli anni della “popolarizzazione” degli universi accessibili, non


In alto, foto di Antonio Inzalaco In basso, a sinistra, foto di Silvio Gatto A destra, foto di Antonio Inzalaco

solo nella fruizione ma anche nella creazione, sono gli anni della comunicazione veloce. Accanto alle riviste di settore, che prima del XXI secolo facevano da padrone nella selezione dei progetti, sono nate riviste indipendenti, blog, magazine online che hanno saputo arricchire la sete di informazioni e tenerci aggiornati costantemente su tendenze, prodotti, e protagonisti del design. La familiarità con le nuove tecnologie ha aperto la strada a una nuova tipologia di lettore, ma anche

di divulgatore, la pubblicazione di progetti “indipendenti” o la crescita dell’attività editoriale Do It Yourself. Realtà virtuali che cercano di unire professionisti e giovani creativi pubblicando le ultime novità nel campo dell’architettura, del design, della tecnologia e dell’arte. Fondato nel 1999, Designboom è il primo design blog al mondo, pioniere dell’arte digitale, ma non solo; tratta i temi di maggiore attualità in questi campi, organizzando mostre e collaborando con le più importanti azien-

de del mondo. Deezen, Core77, It’s Nice That, Fiera, Eye sono solo alcuni riferimenti dell’editoria digitale del design, un sistema mediatico della rete che non promuove solo oggetti “blogherizzabili”, ma stimolano l’attività di continua ricerca nel mondo del design in costante connessione tra canali on-off line. Stampa e digitale, ci offrono entrambi strumenti indiscussi, una vera e propria esplosione di notizie che il lettore può filtrare secondo una sua sensibilità ed interesse.

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La storia della “Tripolina”: un’icona del design di Vittorio Ricchetti

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i sono oggetti di design che hanno il potere di rappresentare l’epoca in cui sono stati creati. Poi ci sono quelli che superano la prova del tempo e ci raccontano una storia più vasta. Più che un’epoca, queste icone rappresentano la storia stessa ed i suoi processi di sedimentazione nel tempo. La sedia Tripolina è uno di questi oggetti. Creata nel 1855 dall’inventore inglese Joseph B. Fenby sotto il nome di Fenby Folding Chair, la sedia ed il suo originale meccanismo vengono brevettati solo ventidue anni dopo, nel 1877. La sedia, pensata principalmente per l’outdoor, viene inizialmente prodotta dall’azienda del suo ideatore, l’omonima J. B. Fenby Co., con uno sgabello in coordinato. L’azienda cade però in bancarotta nel 1879 prima che la sedia venga commercializzata. La versione originale della Tripolina presenta una seduta in pelle o

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in tela, aggrappata per mezzo di grosse tasche all’intelaiatura in legno, costituita da quattro gambe rese mobili da perni metallici. I materiali resistenti e l’ingegnoso meccanismo che permette la chiusura della sedia la rendono particolarmente adatta agli ambienti esterni. È nel 1904, dopo quarantanove anni dalla sua creazione, che la sedia viene presentata al pubblico per la prima volta alla Fiera Internazionale di St. Louis. La sedia attira immediatamente l’interesse di varie aziende produttrici ed il brevetto viene venduto in Francia, Italia e negli Stati Uniti. In America viene prodotta dalla Gold Medal Inc. azienda specializzata in attrezzature militari, da campeggio e mobili da esterno. Uno dei principali distributori commerciali è la famosa catena di vestiario Abercrombie and Fitch, in quegli anni specializzata in abiti ed attrezzature per la caccia, la pesca ed il campeggio.


La Butterfly Chair, caratterizzata da una struttura tubolare in metallo invece che in legno

Dalla sua invenzione a metà ‘800 la sedia cambia veste numerose volte, passando da un uso outdoor a quello militare, per trasformarsi oggi in un oggetto di lusso

Nonostante ciò uno dei primi usi conosciuti della sedia è l’utilizzo da parte delle truppe inglesi nelle campagne di guerra dell’inizio del Ventesimo secolo. La sedia diventa in Europa simbolo militare tanto da assumere la denominazione di “sedia del Generale” ma viene usata anche per safari, esplorazioni o semplici gite all’aperto principalmente per la sua capacità di rimanere stabile su terreni sabbiosi. In Italia la sedia diventa parte della storia più scura e meno discussa del nostro Paese. Negli anni Trenta la Fenby Chair inizia ad essere prodotta a Tripoli dall’azienda Italiana Viganò e viene adottata dalle truppe militari fasciste nelle campagne di colonizzazione della Libia. È proprio negli anni dei crimini di guerra della dittatura nelle colonie che assume la denominazione di “Sedia Tripolina”. Da allora ha ispirato un gran numero di complementi d’arredo ed è stata prodotta da varie aziende

in diverse varianti. Uno dei più famosi design derivati dalla Tripolina è la sedia BKF, meglio conosciuta come sedia Butterfly, concepita a Buenos Aires nel 1938 dal Grupo Austral, collettivo di tre architetti argentini assistenti di Le Corbusier a Parigi. In Italia la tripolina viene omaggiata e consacrata definitivamente come icona del design da Franco Albini. Figura chiave del modernismo Italiano, Albini si rende noto soprattutto per i suoi interni commerciali e per i suoi allestimenti museali. È a Genova che Albini presenta alcuni dei suoi capolavori museografici lavorando sugli allestimenti di ben quattro musei: Palazzo Bianco, Palazzo Rosso (che diventeranno un unico museo con Palazzo Tursi nel 2004), il Museo di Sant’Agostino ed il rivoluzionario Museo del Tesoro. Per Palazzo Bianco, che riapre nel 1950 dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, Albini pianifica

un allestimento rigoroso e razionale, caratterizzato da linee semplici, materiali industriali e colori neutri. In contrasto con l’austerità geometrica degli elementi espositivi, Albini pone la Tripolina al centro delle stanze del museo, eliminando la classica panca. Con Albini la sedia ritorna all’ingegneria ed ai materiali originari ma diventa oggetto di lusso. La struttura in legno di frassino nero è sorretta da perni in ottone e coperta da una seduta in pelle conciata. La stanza museale si fa così salotto, ambiente domestico e confortevole dove la contemplazione dell’opera d’arte – concetto tanto caro agli esponenti della museografia modernista – diventa esperienza intima grazie al comfort della forma ed agli stimoli sensoriali dei materiali. Albini rivisita la Tripolina e la rende parte stessa della struttura museale trasformandola non solo in icona del design, ma in vera e propria opera d’arte.

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Le nuove tendenze nel settore dell’illuminazione di Filomena Violante

L’uso della luce non si è sottratto al suo destino semiotico di raccontare, dare significati e disegnare metafore. Ancora oggi richiamiamo alla memoria grandi maestri che hanno fatto della luce “la luce”

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a progettazione della luce artificiale è forse, tra i mille frammenti nel campo del design, la più affascinante e mutevole. La luce filtrata, proiettata o schermata, può dare volume, dilatare lo spazio, colorare, evidenziare, stupire. La luce costruisce, nasconde e arreda. Il compito dei progettisti che si occupano di lighting è quello di esprimere attraverso il design tutto ciò che la luce è in grado di trasmettere, coniugando qualità, tradizione, ma anche capacità di rinnovarsi e guardare al futuro. Le nuove tendenze non possono prescindere dall’esempio dei grandi progettisti e artigiani del passato, e allo stesso tempo non possono non considerare l’immensa evoluzione tecnologica raggiunta nella nostra epoca. Va evidenziato come negli

ultimi anni ci sia stata la propensione dei grandi marchi di rivisitare i vecchi modelli di lampade utilizzando le nuove tecnologie a led. Nasce per Flos “Re-illuminare” Gino Sarfatti, ovvero riportare alla luce la sua opera. Il grande designer che tra gli anni ‘30 e ’70 ha operato nel mondo della progettazione delle luce, che ha disegnato più di 400 lampade ed esplorato un mondo di funzioni strettamente legate ad essa come mai prima di allora. L’idea è stata quella di riportare in vita un nucleo di lampade da lui disegnate, inserendo al posto della ormai obsoleta lampadina, il più aggiornato sistema a led, in maniera silenziosa e non invasiva per lasciare intatta l’integrità formale e sofisticata delle lampade Sarfatti. È il caso della lampada da tavolo, modello n. 548 (Flos, 1951), che nella nuova edizione ri-


A sinistra, Whilhelm Wagenfeld A destra, Uli Budde, lampada da tavolo Kuula, Thonet, 2015

mane intatta nella struttura, con il faretto in alluminio orientabile, fissato su uno stelo tubolare in ottone lucidato o brunito. Il diffusore in metacrilato si preserva nelle varianti bianco, azzurro o arancio, e la barra in ottone che sta alla base bilancia il peso di tutta la struttura. Vengono sostituite quindi la lampadina incandescente e l’opale con un led che garantisce una maggiore durabilità assieme ad un notevole risparmio energetico. Ma la ripresa dei modelli anni ’40 e ‘50 non avviene solo in casa Flos. È evidente come le tendenza nel mondo del lighting sia quella di ritornare ad una luce di taglio sartoriale come veniva intesa dai progettisti del passato. Per Nemo nel 2014 riprende vita la famosa AM1N (Shirrah, 1969). Disegnata da Franco Albini e Franca Helg la AM1N, lampada

dall’aspetto leggero, che unisce la formalità della struttura cilindrica in acciaio satinato alla morbida dinamicità del paralume in vetro opaco. Forme e materiali del passato ritornano protagonisti. Le lampade giocano su linee semplici e raffinate, con la ricomparsa dell’ottone e dei diffusori in opale bianco che filtrano una luce nebulosa e affascinante, proprio come affascinanti e misteriose sono le nuvole. È il caso di citare la lampada Kuula (Thonet, 2015) disegnata da Uli Budde. Il designer scandinavo richiama i grandi progettisti “senza tempo” della scuola tedesca. Quella che ricordiamo come la “lampada Bauhaus” (1923), progettata da Wilhelm Wagenfeld rimane ancora oggi simbolo e riferimento per molti progettisti. Un perfetto esempio della filo-

sofia della “forma che segue la funzione”. La base è un disco in vetro trasparente e sostiene uno stelo in vetro tubolare con asta cromata all’interno, mentre il diffusore è in vetro bianco soffiato. Uli Budde si è chiesto cosa sarebbe potuto accadere se i designer di quell’epoca, avessero potuto esplorare la caratteristiche estetiche e funzionali di una lampada con le odierne possibilità tecnologiche. Le forme di Kuula ricordano la grazia delle linee nordiche e allo stesso tempo l’essenza immortale del design del Bauhaus. L’uso della luce non si è sottratto al suo destino semiotico, la luce racconta, dà significati, disegna metafore. Ancora oggi richiamiamo alla memoria grandi maestri che hanno fatto della luce “la luce”. Una luce che illumina noi, il mondo, e perché no, anche le nostre idee.

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Un tributo al designer Richard Sapper di Matteo Squaiella

L’ In questa pagina, in alto, a sinistra, Richard Sapper A destra, lampade Tizio, Artemide, 1972 In basso, Marco Zanuso e R. S., Radio Cubo, Brionvega, 1965 Nella pagina accanto, Bollitore 9091, Alessi, 1983

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area di influenza dei suoi progetti è immensa e molti dei prodotti da lui creati sono diventati, negli anni, delle vere e proprie icone. Alla base del successo del designer tedesco Richard Sapper c’è una grande personalità che gli ha permesso di lavorare con i più noti marchi del suo tempo: da Alessi ad Artemide, passando per Brionvega e IBM, solo per citarne alcuni. La lampada “Tizio”, progettata per Artemide nel 1972, è probabilmente il suo oggetto più iconico. Ma è la storia che sta dietro alla creazione della Tizio uno degli aspetti più interessanti. Quando Artemide gli propose di progettare una lampada da lavoro, Richard Sapper aveva ben chiari i requisiti che avrebbe dovuto soddisfare. Innanzitutto doveva essere in grado di illuminare solo l’area di lavoro desiderata: lo stesso Sapper preferiva lavorare in un ambiente fondamentalmente buio utilizzando solo

una lampada come fonte luminosa, creando un’atmosfera che lo aiutava nella concentrazione. Altro requisito l’utilizzo di una lampadina di piccole dimensioni che, con il montaggio di un riflettore minuto, potesse essere portata vicino al viso senza arrecare disturbo. In più, proprio perché la scrivania di Sapper era solitamente in disordine, la lampada doveva anche potersi estendere, prevedendo la base stessa posta ad una estremità del tavolo da lavoro. Ovviamente, qualora fosse stato necessario, doveva essere anche spostata facilmente. Così, da tutte queste considerazioni, Sapper ha creato il suo capolavoro. Di particolare interesse la definizione che il designer ha dato al suo progetto: “Tizio” è “un’opinione”, ovvero il suo punto di vista personale, la sua visione di come deve essere una lampada da lavoro. Sapper sapeva quanto la funzione fosse fondamentale per la creazione di


“Richard Sapper is a great designer, yet his work never shouts ‘look who is here’. It has the appearance of a perfect flower with every petal in exactly the right place... he always begins with an idea, usually some mechanical invention, with German precision and Italian flair” Paul Rand

un buon prodotto ma allo stesso tempo era consapevole del valore dell’estetica. Diceva infatti: «Se la progettazione non è efficace, se non rispetta la funzione, allora è un errore. Ma se un prodotto è solamente funzionale, senza avere una sorta di espressione formale che risvegli l’interesse quando lo si guarda, e che aiuti a creare una relazione umana tra la persona e l’oggetto, neanche in questo caso è un buon prodotto». Il bollitore 9091, creato per Alessi nel 1982, è un ottimo esempio di questo suo approccio. Lo sforzo principale della progettazione, in questo caso, è stato quello di creare un oggetto multisensoriale, in grado di stimolare non solo la vista ed il tatto ma anche l’udito. Per raggiungere questo obiettivo ha pensato di inserire una coppia di fischietti melodici nel bollitore, il cui scopo è quello di produrre una melodia quando l’acqua all’interno arriva ad ebollizione,

aggiungendo così una funzione poetica ed emozionale al prodotto. Ma Sapper era anche convinto che il design avesse una relazione più stretta con la scultura rispetto all’architettura, poiché la maggior parte dei prodotti viene vista dal suo esterno, mentre lo scopo ultimo dell’architettura è la creazione di spazi interni. Uno degli scultori che Sapper ha più amato è Henry Moore. Le sue opere lo affascinavano in particolar modo poiché, camminando attorno alle sculture, queste ultime assumevano connotazioni diverse a seconda del punto di osservazione: potevano essere morbide da un lato e spigolose dall’altro. Questa curiosità nei confronti del cambiamento e del movimento ha evidentemente influenzato la sua produzione in campo industriale. Come lo stesso Sapper ha ammesso, è sempre stato affascinato dall’idea di inserire movimento all’interno dei suoi lavori. Emblematico è il timer da cucina

(Escargot per Terraillon), dove il designer tedesco è stato in grado di rendere visibile lo scorrere del tempo: l’oggetto mentre è in uso, cambia la sua forma fino a ritornare al suo stato originale di riposo; così come la radio TS 502 disegnata assieme a Marco Zanuso per Brionvega è in grado di trasmettere visivamente il suo funzionamento grazie al movimento. “Il tempo è una delle poche cose che possono definire la qualità di un oggetto” affermava il Maestro. Appunto perchè è il tempo una variabile essenziale, l’eredità che ha lasciato è un considerevole numero di oggetti innovativi, eleganti e poetici che continuano a ispirare generazioni di designer in tutto il mondo. È l’amore che provava verso la sua professione che traspare dalle sue opere, attraverso l’estrema cura sia per il prodotto finito, sia per tutte le sue fasi di produzione. Tutto questo, a mio avviso, ha permesso a molti dei suoi progetti di divenire oggetti di culto.

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RIVOLUZIONI IN UNA PAUSA CAFFÈ Gli oggetti si raccontano. La parola passa a due ospiti d’eccezione che si confrontano l’un l’altro come se pensassero: Moka Bialetti e 9090 Alessi di Greta Dalessandro

In alto, Richard Sapper, Caffettiera Espresso 9090, Alessi, 1979 In basso e nella pagina accanto, Alfonso Bialetti e Luigi De Ponti, Caffettiera Moka, Bialetti, 1933

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prile per un designer, architetto o creativo non significa solo primavera. Come ogni anno prende luogo a Milano, uno dei più grandi ritrovi e musei diffusi a livello nazionale ed europeo: il Salone del Mobile. Per chi non l’ha mai visitato può rivelarsi un’esperienza davvero caotica. La metropoli offre, quasi per ogni quartiere, infiniti spaccati d’interpretazione allo stile e al Design, si trasforma in una grande esposizione di novità del campo, come una tentacolare manifestazione sulle rivoluzioni future. Si propongono materiali rielaborati, modi di fare innovativi e creativi. Parliamo di una settimana in cui l’agenda è piena fino alla sera, dove si fa di scelta estetica, virtù, preferendo ai tacchi a spillo le più rassicuranti sneakers (magari di uno stilista giapponese ricercato). In questo clima frenetico perché non concederci una pausa caffè? Ce la prendiamo con due ospiti d’eccezione che sono protagoniste del campo: Moka Bialetti e 9090 Alessi. Quindi si parlava di rivoluzioni e design, vero? Sapete che i vostri inventori erano entrambi nonni di Alberto Alessi? Che cu-

rioso caso, vero? Una sintesi simpatica di com’è cambiata l’idea di pensare al caffè in Italia. Moka prende la parola, si vede che le piace chiacchierare ”Io sono stata una rivoluzionaria ai miei tempi, sai? Sono nata dalla mente di Alfonso Bialetti che mise a punto insieme a Luigi De Ponti, uno strumento molto più intuitivo della cuccumella. Grazie poi alla gestione del figlio Renato, la sua invenzione si diffuse a macchia d’olio nel primissimo dopoguerra con un successo inossidabile tutt’oggi indiscutibile. Esisteva già un metodo per fare il caffè in casa, la Napoletana, che faceva bene il suo lavoro, ma era davvero all’antica: il caffè con lei era davvero una pausa lenta, da prendersi e conquistarsi. Bisognava girarla, aspettare l’infusione… insomma non un metodo così immediato. Io invece, guardami! Sono figlia dell’ingegneria, dell’evoluzione industriale. Dei tempi più svelti dei lavoratori. Sono autonoma, mi prepari e faccio tutto il mio lavoro, non ho bisogno di assistenza. Tutto sta nella mia valvola che controlla la pressione dell’acqua (non per vantarmi ma la faccio arrivare a temperature mol-


to più alte dei 100° della partenopea). Solo così mi permette di vaporizzare l’acqua e farla passare attraverso il caffè”. 9090, punta nell’orgoglio, s’intromette «Anch’io l’ho ereditata, guarda che non mi scordo le mie origini, mi sono solo reinventata… tu sei troppo statica, troppo ottagonale… i tempi cambiano. Sì l’essenza, i pezzi sono gli stessi ma ci si deve fare belle per essere acquistate». Moka: “Io sono una sicurezza. Le mie forme sono inconfondibili. Cos’hai contro gli ottagoni? Se si pensa al caffè tutti, s’immaginano me (e non te) sul fuoco che borbotto”. 9090 «Però rappresenti anche la scelta popolare, l’iconografia POP... non è un male per carità ma sai, io miro a un pubblico più attento, che mi cerchi, che mi brami. Io rappresento lo stile, l’estetica. Negli anni '70 la rivoluzione si respirava ovunque, anche nell’azienda dell’Alessi che fino a quel momento non si era mai occupata di innovare grazie al Design. Richard Sapper mi ha progettata nel 79. Fu una delle prime collaborazioni che permisero di cambiare completamente volto e far entrare a pieno titolo il nome Alessi nel panorama di riferimento del Design

internazionale. Sono stata la prima caffettiera Alessi, la prima a vincere il Compasso d’Oro, a entrare nella Permanent Design Collection del MOMA di New York, insomma ho fatto carriera. Oltre ad avere un prezzo pressoché analogo, comunico la qualità e soprattutto la possibilità di avere caratteristiche estetiche. Un oggetto domestico può anche essere bello, tanto da non sfigurare a tavola». La moka ha una faccia pensierosa, quasi offesa. Ci pensa un po’, prende coraggio e ribatte: “Quindi vuoi dire che non merito di essere vista? Mi dovrei forse nascondere nel tinello? È vero che hai più stile di me, più portamento, ma la mia è quasi la condanna di avere una forte identità… tante versioni di me ma l’essenza non cambia. La mia iconografia è la stessa, l’ottagonale come dici tu… sono forse più spontanea, quotidiana, più amichevole di te...” 9090 si rende conto di essere stata troppo dura: «Moka cara, sai hai ragione. È bello averci entrambe perché il caffè deve essere un piacere, non una guerra. È bello sceglierci in base all’umore. La rivoluzione si può fare anche con qualche cucchiaino di zucchero in più».

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LA NUTELLA E IL SUO MONDO di Carmelo Rizzo

In questa pagina, in alto, a destra, Michele Ferrero, l'inventore della Nutella

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a vita di Michele Ferrero è una storia fatta di tante idee e di golose prelibatezze, ma soprattutto di amore per la sua famiglia, per i collaboratori, per l’ azienda e per i suoi prodotti. Un lungo cammino partito da una piccola città del Piemonte per arrivare in tutto il mondo. Un viaggio affascinante nel tempo è l’avventura di un uomo la cui semplicità e genialità ha portato il nome Ferrero in ogni continente. Michele Ferrero (1925-2015) nasce a Dogliani, vicino Alba. Suo padre Pietro apre nel 1942, proprio ad Alba, un laboratorio di pasticceria nel quale inizia a sperimentare la creazione di nuovi prodotti dolciari. Michele fin dall’inizio dell’attività collabora con i familiari, e dopo la morte del padre verrà affiancato dalla zia, fino

a trasformare l’azienda in un impero, il quarto al mondo nella area dei prodotti dolciari. Quasi dieci anni dopo la “ditta” di Michele, grazie ad un sempre maggior utilizzo del canale pubblicitario televisivo, consolida la propria posizione quale leader di mercato. Forbes attribuisce a Michele Ferrero, che dal 1997 passa la conduzione dell’azienda ai figli Pietro e Giovanni, il titolo di uomo più ricco d’Italia. Nell’aprile del 2011 perde il figlio Pietro, e decide di tornare per colmare lo scompenso, resterà legato alla sua azienda fino al 2015 anno della sua morte. Una creazione Ferrero che ha fatto talmente storia da portare il proprio nome a essere persino integrato nella lingua italiana è la Nutella. Certamente un prodotto alimentare diventato fenomeno di


La storia di Ferrero, un imprenditore che ha investito sul saper fare italiano rendendo la sua azienda leader a livello mondiale

costume, la cui consacrazione culturale avviene nel tempo, ad opera del cinema, della letteratura, della musica. Vogliamo qui citare la confezione che, sin dal suo lancio nel 1964, diviene parte integrante dell’identità del prodotto: il bicchiere a base esagonale. Si tratta di una confezione che fu accostata al formato-barattolo, e che a esso venne perfettamente coordinata, sul piano della grafica: con la fetta di pane sull’etichetta, a testimoniare la familiarità del prodotto, e il logotipo dalla “n” nera, elementi che ancora oggi ne contrassegnano l’identità. Con il bicchiere si afferma una soluzione innovativa. E se il riuso era certamente già praticato, in forma spontanea o indotta, con il bicchiere della Nutella si introduce un modello di relazione tra marca e destina-

tario che si tradurrà in strategia di marketing. I bicchieri nel tempo si rinnovano, si susseguono decorazioni, segni, texture, rappresentazioni astratte ispirate alla natura. L’imballaggio-bicchiere risponde alla funzione di riuso interpretandolo e armonizzandolo sul piano del senso con il proprio contenuto. Il bicchiere, con il suo coperchio di plastica bianca, esprime un principio di essenzialità, sfruttando le qualità intrinseche del contenitore e, una volta consumata la crema, vive una vita propria in ambito domestico, assolvendo a una nuova funzione. Ogni confezione esaurita la funzione primaria, si trasforma in un bicchiere che trova istantaneamente posto nelle abitazioni di ciascuno e, attraverso i temi decorativi, crea un meccanismo di relazione con ogni sog-

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getto della famiglia che riconosce il proprio favorito. Mai slogan pubblicitario è stato più azzeccato: “Che mondo sarebbe senza Nutella?” incarnando indiscutibilmente il vissuto che ognuno di noi ha nei confronti della famosa crema gianduia. Gli amanti della Nutella vorrebbero spesso immergere il dito direttamente nel barattolo, ma il più delle volte bisogna fare i conti con i rimproveri di nonne e mamme.

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Qui viene in aiuto il design. Per rafforzarne il valore simbolico, nel 2004 il designer toscano Paolo Ulian progetta un particolare biscotto che permette di immergere le proprie dita nel barattolo senza sporcarsi, pur di prolungare il piacere di quel sogno proibito, sgranocchiando la punta del proprio dito per assaporare, come se fosse la prima volta, la crema più buona e celebre al mondo.


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