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3.5 Globalizzazione e sistema neocoloniale

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INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

3.5 Globalizzazione e sistema neocoloniale

Per quanto riguarda la globalizzazione, in primo luogo, si possono smentire quelle affermazioni che rilegano l'Africa come un continente ancora estraneo a questi grandi fenomeni economici del nuovo millennio. Infatti, se si prende in considerazione che il 45% dei beni commerciati in Africa è destinata ad essere esportata fuori dai confini continentali, mentre è del 12,8% in Europa, del 23,7% in America Latina, del 13,2% in America del Nord e del 15,2% dell’Asia24, si può definire l’Africa come il continente più globalizzato del pianeta. In secondo luogo, va sottolineato che l'imposizione esterna della democrazia, la quale ha permesso l'apertura del continente alla globalizzazione, non serve realmente a garantire la vita democratica all'interno di un paese, quanto piuttosto alla creazione di apparenze democratiche.

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Inoltrandoci nell'analisi del fenomeno della globalizzazione e superando i dati di facciata della crescita economica, emerge chiaramente il lato oscuro di questa nuova fase. È dunque necessario capire con quali scopi questi grandi attori internazionali finanziano la riconquista dell’Africa e le ricadute sulla realtà del continente subsahariano. Se la ricerca e l'accaparramento delle risorse è un caso ben noto al continente africano, oggi tale fenomeno sta vivendo una nuova fase in cui le multinazionali, i governi stranieri e altri attori privati comprano diritti sul controllo del territorio africano e delle sue ricchezze. Questi investimenti rimangono slegati dall'economie locali e la crescita economica sfuma nello sfruttamento. Dietro alle cifre di crescita economica e alle rosee prospettive di crescita futura continua spesso a celarsi c'è una realtà diversa, una realtà dove la crescita economica non porta progresso, le popolazioni restano drammaticamente povere, mentre le terre e le risorse vengono sfruttate senza curarsi del domani. Secondo l'Economist infatti questa crescita è dovuta principalmente alla svendita degli apparati pubblici, aziende pubbliche e servizi25 . È infatti ovvio che vendendo terre, commodities ed apparati pubblici, l'economia nell'immediato fa un balzo in avanti, ma la realtà è ben più complessa di quella che viene mostrata dai classici indicatori di sviluppo economico. L'obbiettivo di questi attori, infatti, non è tanto lo sviluppo industriale del paese, la produzione di beni, né tanto meno il rilancio economico, quanto piuttosto quello di accaparrarsi appezzamenti di terreno da poter sfruttare - sia per l'estrazione di risorse minerarie che di produzione agricola - concludendo coi governi locali contratti di leasing pluridecennali a prezzi irrisori26. Secondo stime dell’International Food Policy Research Institute di

24 Sciortino, A., 2008. L'Africa in guerra: i conflitti africani e la globalizzazione, Milano, Baldini Castoldi Dalai, p300. 25 The economist, 2011. Africa rising. Online: http://www.economist.com/node/21541015. 26 Ad esempio, il Sudan, nonostante i milioni di abitanti che soffrono la fame, ha ceduto 1,5 milioni di ettari ai paesi del Golfo Persico; la Cina ha concluso accordi per 2,8 milioni di ettari in Congo al fine di produrre carburanti da olio di palma.

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Washington dal 2006 sono stati ceduti dagli stati africani terreni per uso agricolo con prezzi irrisori pari all’intera superficie coltivabile della Francia. Questo fenomeno, noto come land grab, sta investendo pesantemente l'Africa e si stima che in questa regione, su un totale di 80, dai 51 ai 63 milioni di ettari sono stati ceduti in questo modo27. Questi accordi - land deals - non sono elementi separati dai normali processi di sviluppo economico che stanno prendendo piede in Africa, ma anzi ne sono parte integrante; è dunque lecito domandarsi con quale entità l'avvento degli investimenti esteri possa portare ad un vero sviluppo in questi paesi. In altre parole, ancora non è chiaro come la globalizzazione può diventare un punto di rottura per l'Africa col suo passato di sfruttamento e povertà, dandole la possibilità di un reale e concreto sviluppo socioeconomico.

Emerge chiaramente che il processo di globalizzazione che sta investendo l'Africa è ricco di punti critici. L'Africa continua ad essere considerata un semplice serbatoio di materie prime e mano d’opera a basso costo e non come un potenziale mercato. Gli attori della crescita africana per la natura dei loro investimenti non portano sviluppo nel paese ospitante; il loro interesse piuttosto si limita a vendere le proprie merci nel mercato internazionale e ricavarne il massimo profitto. I rapporti con cui l'occidente si approccia al continente africano, dunque, non sono cambiati, così come è rimasta inalterata la classe che trae profitto dalla svendita della ricchezza del continente. Come rivela Rodger Chongwe, ex ministro della Giustizia dello Zambia, la privatizzazione delle compagnie precedentemente nazionalizzate ha comportato un quasi sistematico riacquisto da parte dei proprietari originari. L'ex ministro cita il caso della compagnia mineraria ZCCM zambiana riacquistata nel 1999 dalla Anglo American Corporation dopo che essa fu nazionalizzata. La verità che emerge, secondo Chongwe, è un atto di ricolonizzazione del continente, causata anche dalla mancanza di capitali privato africano. Questo nuovo processo infatti garantisce lo sfruttamento delle risorse a chi ha il capitale e quindi agli stranieri. Emerge dunque che questo processo esclude ogni partecipazione e godimento da parte della popolazione e allo stesso tempo garantisce una vendita, senza barriere, di risorse naturali e manufatti a basso prezzo, portando all'eccessivo sfruttamento sia del lavoro umano che delle risorse28. Come espone Valsecchi (2005) nella prospettiva centroperiferia la decolonizzazione non agisce come un punto di rottura fra i rapporti asimmetrici delle due parti, ma piuttosto li cristallizza. Infatti, la fine degli imperi coloniali non esclude, de facto, la continuazione di un apparato di controllo mediante gli strumenti meno formalizzati dell'economia, degli aiuti, dell'influenza culturale o della presenza di forze o basi militari all'insegna del

27 The Economics, 2011. When other are grabbing their land: Evidence is piling up against acquisitions of farmland in poor countries. Online: http://www.economist.com/node/18648855. 28 Ferrari, A., 2002. La globalizzazione? È nel dna africano, in Hakuna Matata: nessun problema: la globalizzazione galoppa mentre l'Africa muore, Milano, Baldini & Castoldi, p.64.

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neocolonialismo o della politica di potenza. In altre parole, le decolonizzazione ha agito all'interno di spazi ereditati dall'imperialismo e la leadership africana, che portò avanti questo processo, era figlia del vecchio sistema e incapace di poter pensare altri modelli. Di conseguenza, la decolonizzazione non fu un punto di riscatto ed emancipazione del popolo africano come si auspicava. La politica postcoloniale restò compressa nello spazio ereditato dall'occidente e la globalizzazione, si sta affermando negli stessi spazi, imponendosi come una sorta di neocolonialismo, dove gli Stati hanno si un'indipendenza formale, ma le loro economie e i loro sistemi politici sono diretti all'esterno29 .

La critica verso questo sistema può essere articolata sotto svariati punti di vista, ma per le strutture di relazione politica fra attori privati, pubblici ed internazionali che prendono atto, si può definire questo sistema improntato su un modello neocolonialistico30 . Parlare di neocolonialismo nell'Africa del XXI secolo non risulta sbagliato in quanto nessun reale cambiamento a livello di sistema è stato compiuto dal momento dell'indipendenza ad oggi. Secondo Masto (2011) in questo modello non ci sono reali benefici per le popolazioni, i vantaggi e i proventi della crescita economica riguardano infatti solo élite politiche che in Africa continuano a spadroneggiare, anche grazie al sostegno delle grandi potenze. È vero che quando la crescita è imponente qualche briciola arriva anche alla gente comune, ma si tratta appunto di briciole. Si costruiscono stadi, palazzi, simboli del potere insomma ma le baraccopoli restano baraccopoli e le popolazioni soffrono come e quanto prima. Esempio emblematico sono i già citati land deals, che sottraggono le terre alla popolazione africana per la produzione di beni richiesti dai mercati occidentali, costringendo i locali a comprare il cibo di cui necessitano invece, innescando un sistema di forte dipendenza dall'esterno, sia in termini di allocazione e vendita dei beni prodotti sia in termini di acquisizione di beni di prima necessità.

29 Le forme in cui gli Stati industrializzati impongono il proprio volere sugli Stati africani ha molte forme. Si può partire dal caso più estremo di presenza fisica di truppe straniere ed interventi diretti a supporto di determinate fazione di favore - come la Francia che è intervenuta militarmente più di trenta volte nel suolo africano fra il 1960 e la fine del secolo - o in forme più indirette, agendo sulle leve economiche come il valore di cambio monetario, l'accesso ai finanziamenti ed aiuti internazionali eccetera. La fortuna di un politico africano e del suo governo è spessa decisa dall'appoggio e dai favori garantiti da certe potenze straniere. Anche in questo caso gli esempi sono numerosi, si può citare il Togo di Eyadéma sopravvissuto per 38 anni grazie al continuo appoggio di Parigi o anche la Costa d'Avorio, i cui cambi di governo negli ultimi 15 anni possono essere fatti risalire alla lotta fra Washington e Parigi al fine di conquistare per se e per le proprie compagnie lo status di partner privilegiato col paese ivoriano. Ancora ad oggi la Costa d'Avorio mantiene un volume di scambio di merci ben superiore rispetto a tutti gli altri paesi confinanti, pari a quasi tre volte il volume con la vicina Nigeria. Così, per esempio, il paese transalpino può accaparrarsi il cacao ivoriano per le sue aziende a prezzi bassi e permettere ad altre compagnie francesi, come France Telécom e la compagnia energetica Bouygues di insediarsi in un regime di quasi monopolio nel paese del golfo della Guinea. 30 Tranfo (1995, p.37) definisce il neocolonialismo come “quel processo attuato da un paese industrializzato - o da una sua rappresentanza, come le multinazionali – che tende a creare o a perpetuare un sistema di sfruttamento in un paese sottosviluppato, pur senza esercitare un dominio militare visibile”.

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In questo senso, grazie alle leve di potere in possesso ai paesi più sviluppati e alle loro compagnie, i rapporti di forza rimangono strettamente verticali e il più debole si trova costretto ad accettare grossi compromessi. Un sistema di libero mercato, in questo contesto di forti squilibri di forza, snellisce ogni forma di protezione che un singolo Stato può avere verso l'aggressione esterna, agendo ovviamente negativamente sul soggetto debole. Risulta chiaro che la globalizzazione essendo appunto l'affermazione a scala globale del modello di libero mercato - non può far altro che aggiungere peso su chi viene sfruttato e dar forza a chi è al vertice. Non è un caso dunque che un modello di mercato sempre più aperto, che smontasse i vecchi comparti imperialisti, fu sostenuto a gran forza dagli Stati Uniti, leader assoluto del “mondo libero”. Nell'ottica neocoloniale, lo smantellamento dello Stato coloniale e delle vecchie prerogative sul territorio delle potenze europee ha permesso agli Stati Uniti - e di recente ai nuovi attori come la Cina - di penetrare sul suolo africano scardinando il potere delle potenze imperiali europee senza però sovvertire il modello. È ormai assodato che in Africa il concetto di libero mercato e di globalizzazione abbia permesso ai vecchi modelli coloniali di protrarsi fino al giorno d'oggi. Infatti, gli Stati africani, nonostante la loro formale indipendenza, hanno subito nel corso della loro breve storia - e lo stanno subendo tutt'ora - un continuo travasamento di potere da apparati pubblici ad entità commerciali private, spesso oltre i confini nazionali. La punizione per chi cerca di arginare questi processi è l'emarginazione, gli aiuti vengono bloccati e gli investimenti vengono deviati verso altri paesi. Lo Stato africano, basato su questo sistema di dipendenza,vpuò contare su poco altro e ne rimane dunque incatenato. Come sottolinea l'ex ministro zambiano Rodger Chongwe “si è costretti a essere globalizzati, schiavi di Paesi industrializzati”31. Emerge dunque chiaramente la vera e forte necessità per l'Africa di trovare un nuovo modello di sviluppo economico;: un sistema che scardini l'ordine coloniale e neocoloniale. È dunque necessario per l'Africa subsahariana che questo rinnovamento parta dall'Africa e che veda l'Africa come centro. La comunità internazionale per quanto si sia impegnata nell'aiuto alle sue popolazioni è stata incapace di arginare i processi di cui lei stessa è stata promotrice. L'Africa, dunque, non può essere salvata, ma deve salvarsi da sola, occorre estromettere chi viene per sfruttare e l'élites che ha permesso questo saccheggio; occorre che i paesi africani ricorrano a manovre difensive sia politiche sia economie; occorre una politica forte e capace di contrattare contratti per garantire i diritti ai lavoratori, l'ambiente e re-investimenti di una parte del guadagno sullo sviluppo del paese e delle sue infrastrutture; occorre dunque che le due Afriche si aprano l'una con l'altra.

31 Ferrari, A., 2002. La globalizzazione? È nel dna africano, in Hakuna matata: nessun problema: la globalizzazione galoppa mentre l'Africa muore, Milano, Baldini & Castoldi p.65.

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