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3.2.5. Un Conte non può aggraziare i delinquenti
3.2.5. Un Conte non può aggraziare i delinquenti
Nella cultura giuridica europea la facoltà di graziare una persona che ha subito una condanna passata in giudicato è tradizionalmente riser vata al Sovrano; ed ancor og gi questi retaggi si manifestano nell'ordinamento italiano, il quale consente al Presidente della Repubblica di “concedere grazia e commutare le pene”104 . La trattazione del punto risulta essere asciutta e sintetica rispetto ai precedenti, risolvendosi in poche pagine. Questo è indubbio riflesso del fatto che ci si trova in presenza di un'opera collettiva, in cui trovano sede diversi Autori, ognuno dei quali ha un proprio stile personale. Bisogna pure aggiungere che, nel complesso ed a prescindere dalla diversa paternità dei contributi che troviamo riuniti, la trattazione tende gradualmente a farsi sempre più breve in ogni conseguente punto per evitare di ripetere argomentazioni ampie e generali idonee a supportare ognuno di essi.
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I nostri Autori aprono la trattazione affermando che Non vi è Regaglia della riservata sovranità del Prencipe che dovrebbe custodirsi maggiormente, che quella cui deriva la potestà di far grazia ne' delitti che vengono puniti di pena corporale.
Viene dunque dato un particolare risalto a questa prerogativa rispetto alle precedenti, essendo esposta con toni che le danno grande importanza; e ciò è tutto sommato facile da comprendere, essendo il “diritto di punire” inscindibilmente legato alla tradizione feudale della figura di Re guerriero e conquistatore, ulteriormente legittimato da i già citati 105 argomenti di stampo teologico che pongono il sovrano quale rappresentante della giustizia divina in terra. Nello specifico in questo paragrafo “la facoltà di distrugger la legge e il rimetter le colpe e possa” è individuato in un passo di San Marco Quis est hic qui etiam peccata dimittit, unde dimittere pecata est supra legem et non subege.
Pensare – si afferma - che questa regalia possa essere esercitata da ogni barone potrebbe “aprire la strada ad inconvenienti senza numero”, in quanto si verrebbero a creare diversi modi di fare giustizia (ed ancor peg gio, di “disfarla”!), secondo le particolari convenienze, minando la pace e l'unità del Regno.
104Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 87.11 105Cfr. Supra, p. 51 e ss.
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A confermare la centralità del Principe si afferma che questi deve impegnarsi affinché
non rimanghino impuniti i delitti dovrà ugualmente invigilare che i vassalli delle baronie e feudi venduti o donati siano puniti delle loro colpe colle pene portate dalle leggi, senza che venghino per grazia rimesse o diminuite
Seppur questo passo non risulta particolarmente pertinente alla trattazione, vista la sua portata generale, è comunque degno di interesse, in quanto denota l'idea di fondo sostenuta dagli autori all'interno di tutto il parere, di una superiorità del Principe rispetto ad ogni suddito, sia esso assog gettato direttamente al suo dominio oppure vassallo, senza differenza alcuna, prospettiva che i nostri Giuristi non mancano di sottolineare ogni qual volta ne hanno la possibilità.
Un Barone dotato del mero e misto imperio od un magistrato inferiore – proseguono - non è però del tutto incompetente a concedere una grazia od a commutare una pena; potrà egli farlo, così come trovasi previsto nel Digesto 106 in un passo attribuito al giurista Paolo, solo per mezzo di uno speciale rescritto a lui spedito dal Principe. De ampliada vel minuenda pena damnatorum post sententiam dictam sine princpali authoritat nihil est statuendum
Invero non mancano eccezioni; un feudatario potrà “far grazie” solo in relazione a quegli illeciti puniti esclusivamente con “pene pecuniarie [...] toccanti [...] il proprio interesse”. Ciò sulla base della valutazione che i reati di minor rilievo violano o mettono in pericolo solo ed esclusivamente un bene giuridico di cui è titolare il sog getto passivo, potendo dunque egli disporre come ritiene più opportuno della propria sfera privata; a ciò si aggiunge l'ulteriore idea che essendo tale interesse leso indennizzato tramite una somma di denaro, la vittima può disporre anche di tale somma a suo piacimento, rimettendo il debitore - reo. La cosa cambia però per quei reati più gravi che turbano un interesse pubblico e per ciò sono puniti con pene corporali, essendo queste generalmente mirate alla neutralizzazione del reo od a una funzione general-preventiva in forza della pubblicità del “supplizio”, il tutto nel “commune interesse” A sostegno di questa tesi sono richiamati una serie di giuristi 107 il cui pensiero è
106Dig. 42.1.45.1, Paolo, Sent I. (siogliere) 107M.GIURBA, Consiglia seu decisiones criminales, Venezia 1626; A. ISERNIA (DA) Commentaria in usus et consuetudines feudorum ed altri. Cfr. Appendice B, Doc. III, p. 159.
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sintetizzato nella seguente massima di Bartolo da Sassoferrato amplianda emputo in qualiber alio adcuius bursam pena imposita pertinet et sum comites et barones qui habent regalia in aliquo loco sed penam infamie vel aliam non pecuniariam non possunt
Per cui, a parte questa piccola eccezione giustificandosi nella individuale disponibilità dei propri interessi, “le concessioni del mero misto impero non sono atte a trasferire ne' Baroni” tale facoltà; così si muovono autorevoli dottori108 . Solo que principi supremo et imperialia regaiaque jura habendi id concessum consetur
Ma anche qualora ci fosse un rescritto, questo di per se non sarebbe bastevole ove non utilizzi parole specifiche che in modo incontestabile attribuiscono, o meglio delegano, “perché porti[...] seco la potestà di far grazie”; 109 per il resto ove questi fossero investiti del mero e misto imperio possono “solamente [...] giudicare [...] sopra i loro vassalli nelle cause civili, e criminali”.
Invero – ricordano – non mancano dottori che hanno fatto loro la tesi di che i feudatari titolari di un mero e misto imperio possano essere espressamente delegati anche nell'esercizio di questa potestà regale, prendendo ad esempio e sostegno della loro ipotesi alcune concessione fatte nel Regno di Napoli; ma ammessa e non concessa che questa tesi sia valida anche nel Regno di Sicilia, non si può prescindere dalla communis opinio napoletana, che tende a dare una interpretazione restrittiva a questi privilegi, ammettendo che un feudatario può graziare un reo solo prima che sia inter venuta una sentenza, ma mai potrà “demolirne” una passata in giudicato, rimanendo dunque nella disponibilità del sovrano la possibilità di farlo.
Ed ancora una volta, analizzato l'istituto e reso dotto il lettore, si passa alla breve analisi del caso concreto.
“Il giorno 21 luglio dell'anno 1716 comparve questa provvisione dell'amminsitrador di Modica, con tanto abbuso del mero e misto del contado, ed usurpamento delle regaglie del Prencipe”
108I nostri autori citano: A. Tesauro, Novae decisiones Sacri Senatus Pedemontani; M.MUTA,
Capitulorum Regni Siciliae, Palermo 1625; O. CACHERANO D'OSASCO, Decisiones sacri Senatus
Pedemontani, Torino 1569 ed altri. Cfr. Appendix, Doc III, p 156. 109 Quid ergo si Principae rescriptu fuerit alla tum idest impetratum super hoc. Respon non ei credam nisi icat non obstante alia lege. Cfr. Appendice B, Doc. III, p. 160.
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