DEPORTAZIONE E INTERNAMENTO MILITARE IN GERMANIA
LA PROVINCIA DI MODENA
a cura di Giovanna Procacci e Lorenzo Bertucelli
EDIZIONI
UNICOPLI
Prima edizione: gennaio 2001 Copyright © by Edizioni Unicopli via della Signora, 2/A - 20122 Milano - Tel. 02/760.21.689 E-mail: unicopli@galactica.it http: www.edizioniunicopli.it È vietata la riproduzione anche parziale, a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata dall’editore. ISBN 88-400-0689-2
INDICE
p.
7
Premessa, di Giovanna Procacci e Lorenzo Bertucelli Parte prima INTERVISTE
15 43 281 295
Gli internati militari italiani. Le testimonianze degli IMI della provincia di Modena, di Giovanna Procacci Internati militari italiani. Cinquantotto interviste, a cura di Giovanna Procacci La deportazione in provincia di Modena, di Lorenzo Bertucelli Deportati e rastrellati. Quindici interviste, a cura di Lorenzo Bertucelli Parte seconda DEPORTAZIONE E INTERNAMENTO MILITARE IN GERMANIA. LE PROVINCE DI MODENA E REGGIO EMILIA
377 381 400
414
Deportazione e internamento. Note introduttive, di Giorgio Rochat Gli italiani in Germania 1938-1945. Un universo complesso e ricco di sfumature, di Brunello Mantelli Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani nell’area di potere tedesca fra il 1943 e il 1945, di Gabriele Hammermann La deportazione nei Lager nazisti. Riflessioni sulla testimonianza, di Bruno Vasari
p. 424
448
461 472 488 506 525 531
546
553 554 554
Né morti… né vivi… Dopo Cefalonia e Corfù. La diaspora dei sopravvissuti della “Acqui” tra partigiani, lager, Btl e gulag (1943-1947), di Claudio Sommaruga Figure spettrali come i numeri negativi. Il ritorno dei deportati ebrei in alcune testimonianze (1945-1948), di Alberto Cavaglion Appunti sul ritorno degli internati militari italiani, di Nicola Labanca La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia, di Claudio Silingardi e Massimo Storchi Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese, di Klaus Voigt La deportazione dalla montagna reggiana, di Giovanna Caroli Una strategia per i luoghi della memoria. L’esempio del campo di Fossoli, di Brunetto Salvarani Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi: percezione, ricordo e significato attraverso la sistemazione degli scritti raccolti nella bibliografia, di Simone Duranti Il campo di concentramento di Fossoli e la stampa: storia, recupero e valorizzazione nelle pagine de “Il Resto del Carlino”, “l’Unità” e “La Gazzetta di Modena”, di Letizia Ferri Caselli Indice dei nomi degli internati militari intervistati Indice dei nomi dei deportati e dei rastrellati intervistati Indice dei nomi degli ebrei intervistati
PREMESSA di Giovanna Procacci e Lorenzo Bertucelli
Questo volume è frutto di un lavoro che ha coinvolto diverse associazioni modenesi, e che si è avvalso della collaborazione di studiosi, di giovani ricercatori e di laureandi. La realizzazione del progetto di una ricerca locale sull’internamento militare e sulla deportazione in Germania, nato tre anni orsono per iniziativa congiunta dell’Università di Modena e Reggio Emilia (insegnamento di Storia contemporanea) e dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Modena, ha potuto essere portata a compimento mediante l’ausilio fornito dalle associazioni degli ex deportati e degli ex internati, che — in assenza di un elenco ufficiale dei protagonisti — hanno fornito numerosi nominativi per effettuare le interviste. L’attuazione delle giornate di studio su Deportazione e internamento militare. Le province di Modena e Reggio Emilia1 è stata resa possibile in virtù della collaborazione con la Fondazione ex Campo Fossoli, e grazie alla partecipazione di alcuni studiosi legati all’Istoreco di Reggio Emilia2.
1 Le giornate di studio si sono tenute a Modena e a Carpi, il 14 e il 15 ottobre 1999. Per l’organizzazione scientifica dei lavori è stato prezioso l’aiuto fornito dal professor Enzo Collotti. 2 Come è noto, non è stata attuata nell'immediato dopoguerra, da parte dei ministeri competenti, una ricerca negli archivi esteri riguardante i militari fatti prigionieri, per cui le cifre risultano approssimative anche a livello nazionale, non suddivise a seconda che i militari fossero caduti in mano tedesca o in mano degli alleati (uniche cifre note sono quelle dei prigionieri in Russia). Un valido supporto per l'individuazione di molti internati e deportati è stato fornito dall’ANEI e dall'ADEI-WIZO di Modena, dalla Comunità ebraica di Modena, e, nell'ultima fase del lavoro, dal Museo del Combattente di Modena. Fondamentale è stato l'aiuto offerto, per le interviste degli IMI, dal maestro Bruno Generali, dell'ANEI di Modena, senza la cui instancabile opera di stimolo e di sensibile partecipazione questo lavoro non avrebbe potuto essere compiuto. Un ringraziamento per il lavoro di segreteria va a Mara Malavasi e a Monica Morselli.
8
G. PROCACCI, L. BERTUCELLI
Riguardo al cospicuo corpo delle testimonianze di internati militari, di deportati e di civili rastrellati comprese nel volume, i temi da trattare nelle interviste, i modi con i quali svolgere i colloqui, i problemi intercorsi sono stati al centro di numerosi incontri e discussioni. Il risultato finale è quindi frutto del lavoro comune dei responsabili della ricerca (Giovanna Procacci e Lorenzo Bertucelli, con l’apporto di Claudio Silingardi), di tre giovani ricercatori e di cinque laureandi. Prezioso è stato anche il contributo degli studenti dei corsi di storia dei vari anni, che hanno rintracciato parenti e conoscenti, internati e deportati, disponibili a fornire testimonianza3. Il coinvolgimento di istituzioni, ricercatori e studenti ha costituito uno dei risultati che l’università e l’Istituto storico si erano prefissi. Se l’obiettivo primario della ricerca era quello di realizzare un Archivio modenese della memoria dell’internamento militare, della deportazione e del lavoro civile coatto — per dar inizio a un’opera di recupero di una documentazione orale e scritta fino ad oggi non esistente in ambito locale —, scopo non secondario era anche quello di riuscire a sensibilizzare l’opinione pubblica, e i giovani in particolare, su un tema tanto sconvolgente, ma per tanti versi rimosso, come l’esperienza nei lager e nei campi di lavoro nazisti. Si può infatti asserire con sicurezza che mentre nei decenni successivi alla fine della guerra la memoria collettiva ha ripercorso le terribili tappe del genocidio organizzato nei lager e il fenomeno della deportazione e dello sterminio razziale e politico, un quasi totale oblio ha coperto, almeno fino alla metà degli anni ‘80, le vicende dei civili rastrellati e degli internati militari, costretti a un lavoro di tipo schiavistico nei lager o nelle fabbriche della Germania e dei territori occupati: centinaia di migliaia di uomini — quasi sempre giovanissimi, spesso dei ragazzi neppure ventenni — rinchiusi nei campi, morti a decine di migliaia, dimenticati dalle istituzioni dello stato, dalla storiografia e dall’opinione pubblica; anzi, talora scherniti per essere stati lontani dalla lotta attiva al fronte, o da quella, all’interno, con le formazioni partigiane; come se la resistenza attuata nei campi — legata per gli internati militari al rifiuto di aderire al fascismo e di combattere con Salò e con la Germania 3 Hanno attuato le interviste, e hanno svolto opera di indagine la dott. Monica Casini, Giuliano Caselli, Gian Andrea Bruni. Le tesi di laurea sull'internamento militare, corredate da interviste, sono state svolte da Alberto Aloisio, Stefano Betti, Bruno Ferrari, Alessandra Righi. Filippo Muratori Casali ha raccolto i diari di deportati e internati provenienti dal Modenese, conservati presso l'Archivio di Pieve S. Stefano.
Premessa
9
— pagata con terribili sofferenze fisiche e morali, non costituisse analogo fattore di merito patriottico ed antifascista. Gli orrori della deportazione e dello sterminio razziale e politico, lo sfruttamento del lavoro coatto dei civili e dei militari fino all’esaurimento e talora alla morte, la degradazione morale alla quale i nazisti e i fascisti costrinsero deportati e internati: sono gli aspetti, drammatici e tragici, della storia della prigionia che emergono dalle interviste, e dei quali si è voluto che restasse una concreta documentazione. Purtroppo questa raccolta di testimonianze rappresenta solo un’esigua espressione del fenomeno dell’internamento militare, della deportazione e del rastrellamento dei civili nella provincia4: essa deve essere interpretata come un contributo al ricordo, e soprattutto come un doveroso omaggio a un’esperienza il cui valore storico e morale è oggi così poco riconosciuto dal nostro presente. Il tempo della memoria, come quello dell’assunzione delle responsabilità storiche dei fatti, non trascorre mai. E ciò appare tanto più vero in una fase, come quella che da alcuni anni stiamo vivendo, di volontaria rimozione degli eventi del passato, in nome di un tanto generico quanto ambiguo appello alla cosiddetta “pacificazione nazionale”. Contro operazioni politico-culturali di tale fatta — non casualmente accompagnate da mistificanti ricostruzioni storiografiche che indicano nell’8 settembre la “morte della patria” — si pone questo nostro lavoro di ricostruzione della memoria storica che, come potrà essere facilmente dedotto dalla lettura delle interviste, smentisce tali interpretazioni e impone una riflessione sui modi nei quali, a distanza di cinquanta e più anni, sia possibile, e forse necessario, attuare un confronto che, pur non seguitando a produrre insanabili divisioni, non dimentichi le responsabilità del passato. Il volume si articola in due parti distinte: la prima comprende le interviste degli internati e dei deportati o rastrellati, la seconda 4 La selezione attuata dal tempo e dallo stesso sterminio all'interno dei campi, la resistenza di alcuni protagonisti a ripercorrere quelle terribili esperienze sono state alcune delle cause che hanno impedito di allargare le interviste a un maggior numero di persone. Ha inciso sugli esiti anche l’entità dei finanziamenti, alla quale solo in parte ha potuto supplire l'opera di quasi volontariato dei ricercatori, e il lavoro dei laureandi. Il lavoro ha infatti potuto usufruire dei seguenti finanziamenti per la realizzazione della ricerca, del convegno e della pubblicazione: dall'Università di Modena e Reggio Emilia, 18 milioni (di cui 5 come contributo agli atti); sei milioni dall'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Modena; cinque milioni dalla Lega cooperative di Modena; cinque milioni dal Comune di Modena; un milione dalla Provincia di Modena; tre milioni dalla Banca popolare dell'Emilia Romagna; nove milioni (per la realizzazione del convegno) dal Comune di Carpi.
G. PROCACCI, L. BERTUCELLI
10
riproduce le comunicazioni effettuate nelle giornate di studio. Si sono voluti così unire i due aspetti complementari e inscindibili di un lavoro di ricostruzione storica basato sulla memoria: quello soggettivo, costituito dalle interviste, e quello oggettivo, della riflessione storiografica. Abbiamo scelto di collocare in apertura al volume proprio le interviste degli internati militari e dei deportati perché è stato su questo versante che si è profuso l’impegno maggiore di quanti hanno lavorato, nel corso degli ultimi tre anni, alla ricostruzione di vicende così poco conosciute nell’ambito locale modenese e alla formazione di un inedito patrimonio di memoria. L’aver inserito nello stesso volume le storie dei deportati, dei civili costretti al lavoro coatto e degli internati militari risponde a una precisa scelta dei curatori. Pur nella diversità delle condizioni, le vicende di coloro che furono prigionieri dei lager appartengono tutte a una stessa realtà: che è quella legata al concetto di dominio della Germania nazista, al razzismo, alla visione della guerra come fine e come mezzo di sfruttamento. Come è stato scritto: “Il sistema dei Lager nasce nella Germania nazista come conseguenza logica e prevedibile di un’ideologia intollerante, che porta alle estreme conseguenze la rozza pratica fascista della violenza contro gli oppositori [...]. La storia dei Lager deve essere considerata non come un’esplosione di violenza bestiale, ma come la traduzione pragmatica di una concezione del mondo”5. Apparirà immediatamente evidente la sproporzione tra l’entità delle interviste degli IMI e quella dei deportati e dei rastrellati: conseguenza inevitabile del fatto che per i primi esiste il supporto delle associazioni rappresentative, mentre non esiste nessuna organizzazione che rappresenti i civili rastrellati, i cui nominativi sono stati pertanto di difficile reperimento. Per quanto riguarda i deportati, pesa, d’altra parte, la tragica vicenda del genocidio (quello razziale fu fortunatamente ridotto, grazie alla tempestiva fuga e al salvataggio in Svizzera di molti degli ebrei del Modenese). Si noterà per altri versi una sproporzione negli interventi al convegno, essendo assai più numerosi in questo caso quelli sulla deportazione6. Ciò consegue al fatto che da tempo presso la fondazione ex campo di Fossoli è stata impostata una ricerca su que-
5
V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, Roma, 1979, p. 10. È mancata purtroppo per la pubblicazione degli atti la relazione di Luigi Cajani, che forniva un inquadramento generale delle vicende degli IMI. 6
Premessa
11
sto tema, alla quale lavora un gruppo di ricercatori, dei cui contributi si sono potute giovare le giornate di studio7. Le interviste presenti nel volume costituiscono l’insieme di tutte quelle realizzate, con l’eccezione di alcune i cui autori hanno espressamente negato il consenso alla pubblicazione8. Al fine di conservare il carattere originario delle testimonianze, si è preferito mantenere le interviste nella loro interezza, e non raggrupparle secondo le varie tematiche (8 settembre, rastrellamenti, lavoro e sofferenze nei campi, ecc.). Per ragioni di spazio, non è stato possibile inserire le testimonianze nella loro integrità; i curatori (Lorenzo Bertucelli per la sezione riguardante i deportati e i civili rastrellati, Giovanna Procacci per quella riguardante gli IMI) hanno cercato di evitare che i tagli effettuati riguardassero argomenti essenziali e modificassero il senso del racconto. Riguardo agli atti delle giornate di studio, le comunicazioni hanno avuto per oggetto sia aspetti interpretativi e di ricostruzione generale, sia vicende che hanno interessato più da vicino il territorio modenese e reggiano. Dopo una messa a punto dei temi (Rochat), l’attenzione è stata rivolta alle diverse tipologie della deportazione e al ruolo ricoperto dal sistema concentrazionario fascista nella deportazione stessa (Mantelli). Le condizioni alle quali furono costretti gli internati militari italiani nei campi di prigionia, e l’influenza che ebbe su di esse il presunto “tradimento” dell’8 settembre, sono state analizzate da Hammermann, mentre il problema della memoria e della rimozione del ricordo è stato affrontato, per i deportati, da Cavaglion, e per gli internati militari da Labanca, che ha analizzato anche le difficili tappe percorse da costoro al ritorno in patria. L’attenzione si è soffermata poi sulle attività svolte nel dopoguerra da alcune associazione per i deportati (Vasari, egli stesso ex deportato), e sulla drammatica espe7 La ricerca attuata presso la Fondazione ex campo di Fossoli è diretta dagli storici del Comitato scientifico: Enzo Collotti, Luciano Casali, Fausto Ciuffi, Liliana Picciotto Fargion e Frediano Sessi. Fossoli funzionò dal 1942 dapprima come luogo di concentramento e di smistamento di prigionieri di guerra, poi come campo di transito verso i principali lager nazisti; dal febbraio-marzo del 1944 divenne centro di raccolta di deportandi politici e di ebrei. 8 Nel caso in cui il consenso — a tutti debitamente richiesto — non sia giunto al momento della pubblicazione del volume, sono state indicate solo le iniziali del nome e del cognome. Riguardo ai luoghi nominati dagli intervistati, non sempre è stato possibile rintracciare l'esatta denominazione, trattandosi spesso di centri molto piccoli, talora limitati a una fabbrica o a un cascinale, di cui avevamo solo la dizione orale. Si è allora riportato il nome come ricordato dall’intervistato, seguito da un [sic].
12
G. PROCACCI, L. BERTUCELLI
rienza di militari appartenenti alla divisione Acqui, passati per i campi tedeschi e poi per quelli russi (Sommaruga, ex internato militare). Gli interventi riservati a studi della realtà locale affrontano i temi della deportazione e del salvataggio degli ebrei modenesi (Voigt), dei rastrellamenti nella montagna reggiana (Caroli), dei caratteri della occupazione nazista e della resistenza nel modenese e nel reggiano (Silingardi - Storchi). Infine, una serie di relazioni hanno messo a punto il lavoro svolto per la ricostruzione delle vicende legate al campo di concentramento di Fossoli (Salvarani, assessore alla cultura del comune di Carpi, Duranti, Ferri Caselli). I limiti della ricerca sono sicuramente molti, e di alcuni di essi i curatori sono pienamente consapevoli. Il numero esiguo delle interviste di deportati e di rastrellati, e la difficoltà di attuare una estesa campionatura anche per gli IMI, hanno ristretto la tipologia delle esperienze. Per altro verso tuttavia, riguardo agli IMI, è stato possibile raccogliere numerose testimonianze di soldati, abbastanza rare nelle raccolte già altrove pubblicate. Un altro limite è costituito dalle differenze di trascrizione delle interviste — più letterali alcune, più stringate altre —, derivanti dai diversi modi di attuazione delle sbobinature usati dai ricercatori e dai laureandi. Il fatto che le interviste siano state realizzate da non professionisti, ragazzi della stessa età dei protagonisti al momento della cattura e della prigionia, ha tuttavia in alcuni casi facilitato il colloquio, creando un’atmosfera di minore imbarazzo e di maggiore confidenza. Il lavoro di individuazione dei protagonisti e di raccolta di fonti ha permesso di recuperare una serie di memorie, conservate insieme alle interviste integrali (in nastro e in trascrizione) presso la Biblioteca della Facoltà di Economia e presso la Biblioteca dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Modena. Esse potranno costituire un fondo di consultazione per gli studi futuri. La speranza dei curatori della ricerca è che il lavoro di raccolta possa ottenere i mezzi necessari per poter essere ancora esteso, per comprendere, oltre ad altri internati militari e rastrellati (i deportati sono stati quasi tutti già avvicinati), anche i prigionieri delle potenze alleate, trattenuti nei campi inglesi, francesi, americani e russi. Settembre 2000
Parte prima INTERVISTE
GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI LE TESTIMONIANZE DEGLI IMI DELLA PROVINCIA DI MODENA di Giovanna Procacci
Quanti furono i militari della provincia di Modena internati in Germania e nei territori occupati dai nazisti? Probabilmente circa quasi 17.000: ma la cifra è incerta.1 Nessuna fonte ufficiale ha fornito dati sicuri, né a livello nazionale, né, tantomeno, a quello locale.2 1 La cifra è riportata da C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Milano 1998, p. 681. 2 Per i dati nazionali cfr. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945. Traditi disprezzati dimenticati, Roma 1992, pp. 230-38, 307-11, 331, 370-409, 577-79, 582, 692-94; v. anche Id., Gli internati militari italiani ed i tedeschi (1943-1945), in N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), Firenze 1992, pp. 41 ss., 58; Id., Gli internati militari italiani nelle fonti della Wehrmacht e del Ministero degli affari esteri, in Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Milano 1989, pp. 137-141 (discussione sui dati, con indicazione delle fonti); C. Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi della gestioni degli IMI nei lager e fuori dei lager, in Fra sterminio, cit., p. 260; Id., Quanti eravamo?, in C. Sommaruga (a cura di), Dopo il Lager. La memoria della prigionia e dell'internamento nei reduci e negli "altri", Napoli 1995, pp. 119-20 (alle pp. 103-04 l'A. accenna alla molteplicità delle figure dei catturati e alla difficoltà di definirli numericamente); G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull'internamento, in N. Della Santa (a cura di), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l'8 settembre, Firenze 1986, pp. 24 e 55 ss. Secondo Schreiber, in Italia settentrionale e centrale furono catturati 416.000 militari, a Roma e nel Sud 102.000, nella Francia meridionale 59.000, nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo 430.000. Furono internati in Germania circa 650.000, e di essi morirono nei lager nazisti circa 45.000. Le percentuali della mortalità furono del 7,4%, per l'Italia, del 3,5% per la Gran Bretagna e di ben il 57,5% per la Russia (che contò quasi 6 milioni di militari prigionieri: C. Streit, La sorte dei prigionieri di guerra sovietici 1941-1945, in Fra sterminio, cit., pp. 9395); il totale dei prigionieri di guerra e dei lavoratori coatti in Germania viene valutato in circa 14 milioni (D. Eichholtz, La deportazione di manodopera in Germania 19391945, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa 1939-1945, Bologna 1987, p. 56). La "galassia concentrazionaria" esistente in Germania è ben descritta in C. Sommaruga, L'"internamento": memoria e rimozione, in Dopo il Lager, cit., pp. 63-68. Questo autore, ex internato nel campo di punizione di Colonia, ha recentemente rielaborato le cifre riguardanti il numero degli internati, dei caduti, degli "optanti", degli smilitarizzati: si rinvia in particolare, oltre ai saggi già citati, a C. Sommaruga, Dati quantitativi sull'internamento in Germania, "Rassegna della a.n.r.p.", 1997, ottobre-
16
G. PROCACCI
Una singolare disattenzione ha infatti contraddistinto l’atteggiamento delle autorità competenti nei confronti delle vicende dei prigionieri italiani rinchiusi nei campi tedeschi, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale. Se nel 1915-1918 il disinteresse dei vertici militari era accompagnato dal sospetto che la maggior parte dei prigionieri fosse rea di diserzione o di resa — sospetto che non era ancora probabilmente cessato nel 1940, come sembrerebbe risultare da indagini svolte nei confronti di ufficiali fatti prigionieri quasi venticinque anni prima3 —, dopo la fine della seconda guerra mondiale la complessa situazione delle “diverse prigionie”, l’incertezza sul comportamento dei militari catturati — se collaboranti con i nazisti, se “optanti” per Salò, se aderenti alle richieste successive —, e, non ultima, la stessa complessa situazione politica del dopoguerra ebbero come effetto la marginalizzazione, presto trasformatasi in oblio, del problema dei prigionieri.4 Di pari passo con la perdita della memoria pubblica delle vicende, si verificò anche quella della memoria storica. Come è stato più volte sottolineato, mentre le lotte partigiane erano al centro dell’attenzione politica, e mentre l’orrore prodotto dalla conoscenza del genocidio perpetrato dai nazisti induceva a riflettere e a ripercorrere le terribili tappe della deportazione, l’esperienza degli internati militari — una delle pagine più belle della Resistenza italiana5 — restava sconosciuta ai più.
novembre, p. 25; Id., Tempi e ragioni del no, ibid., luglio 1998, p. 18 ("Cifre dell'internamento"). 3 Nel 1941-42 vennero richiesti ai vari distretti militari, da parte dell'Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito, i fascicoli personali di tutti gli ufficiali di complemento o della milizia territoriale fatti prigionieri "prima, durante e dopo Caporetto", contenenti il rapporto della Commissione interrogatrice dei prigionieri rimpatriati circa le modalità e le circostanze della loro cattura da parte del nemico: cfr. Archivio dell'Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito, Carteggio sussidiario Prima guerra mondiale, repertorio F3, r. 360, cc. 1, 4; 361, c. 3; 362, c. 2. 4 Cfr. G. Rochat, I prigionieri di guerra: un problema rimosso, in Una storia di tutti, cit.; Id., Le diverse prigionie dei militari italiani nella seconda guerra mondiale, in L. Tomassini (a cura di), Le diverse prigionie dei militari italiani nella seconda guerra mondiale, Firenze 1995, pp. 11-20; Id., Memorialistica, cit., p. 25; Id., La società dei lager. Elementi generali della prigionia di guerra e peculiarità delle vicende italiane nella seconda guerra mondiale, in Fra sterminio, cit., p. 132. Sul misconoscimento della drammaticità dell'esperienza insistono gli scritti autobiografici, per un aggiornato elenco dei quali si rinvia a C. Sommaruga, Per non dimenticare. Bibliografia ragionata dell'internamento e deportazione dei militari italiani nel Terzo Reich (1943-1945), Milano 1997. 5 Come la definisce G. Rochat, Prigionia di guerra e internamento nell'esperienza dei soldati italiani, in Spostamenti di popolazione, cit., p. 314.
Gli internati militari italiani
17
Solo negli ultimi due decenni la storiografia ha colmato una sua colpevole lacuna, fornendo una serie di volumi di saggi e finalmente un’opera complessiva, cui va il merito di aver ricostruito — mediante un accurato lavoro di scavo negli archivi —, non solo le vicende degli internati, ma anche l’atteggiamento delle autorità germaniche.6 Recentemente la stessa stampa di grande informazione si è interessata ai casi dei militari italiani lasciati senza ordini e comandi dopo l’8 settembre, in particolare soffermandosi sull’eroico comportamento dei vari reparti dell’esercito che rifiutarono di arrendersi ai tedeschi, e riconoscendo in tali episodi il vero inizio della Resistenza al nazifascismo. Ma non vi è dubbio che anche il reiterato rifiuto di passare nelle fila della Wehrmacht o della nuova Repubblica di Salò, espresso dalla stragrande maggioranza dei militari italiani catturati dai tedeschi, costituì un atto di esplicito rifiuto del regime e del patto di alleanza nazifascista.7 Crediamo quindi che all’interrogativo posto da un interlocutore a Giuntella quasi venticinque anni fa — “ha un senso un ulteriore studio sulla prigionia?”— debbasi oggi forse più che allora dare una risposta positiva. La valorizzazione di quella memoria assume oggi infatti un significato preciso, che comprende, e in una certa misura supera, quello del tardivo e doveroso recupero di 6 Il merito va ad un autore tedesco: il già cit. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945. Tra i volumi di saggi, oltre a quelli già cit. nella nota 2, si ricordano in particolare: A. Bendotti e altri (a cura di), Prigionieri in Germania. La memoria degli internati militari, Bergamo 1990; U. Dragoni, La scelta degli I.M.I. Militari italiani prigionieri in Germania (1943-1945), Firenze 1996. Per una bibliografia completa si rinvia, oltre a Schreiber, a G. Rochat-U. Dragoni, Bibliografia sull'internamento dei militari italiani in Germania (1943-1945), in U. Dragoni, La scelta degli I.M.I., cit., pp. 415-54. Per un'analisi acuta dell'esperienza degli IMI si rinvia a G. Rochat, Prigionia di guerra, cit., pp. 314-55; Id., Memorialistica, cit., pp. 23-69; Id., La società dei lager, cit., pp. 128-138. 7 È stato soprattutto di Pirani il merito di aver ricordato le vicende della lotta eroica dei militari italiani contro i tedeschi sia nelle isole greche di Cefalonia, Lero e Corfù, sia negli altri luoghi di occupazione e della stessa penisola. Ed è stato sempre Pirani a richiamare alla memoria pubblica anche l'esperienza degli IMI, sottolineandone il carattere di tenuta morale e di fedeltà alla patria: a quella patria della quale invece la storiografia revisionista ha sostenuto che si fosse verificata, dopo l'8 settembre, la "morte". Ed è strano che quella storiografia abbia trascurato le vicende vissute dai militari dell'esercito italiano: forse, suggerisce Pirani, perché esse avevano scarsa rilevanza nella polemica sulle "colpe" del comunismo. Cfr. M. Pirani, Cefalonia. Una strage dimenticata da tutti, "La Repubblica", 15.9.1999; Id., Quando cominciò la Resistenza?, ibid., 27.9.1999; Id., La Resistenza. Storia da riscrivere, ibid., 11.10.1999; Id., Non tutti a casa quell'8 settembre, ibid., 25.10.1999. V. Cerami ha costruito un breve racconto sulle vicende della radio clandestina "Caterina", che alcuni prigionieri riuscirono a far funzionare segretamente nel campo di Sandbostel: V. Cerami, Radio Londra, ibid., 10.10.1999.
18
G. PROCACCI
drammatiche vicende storiche. Siamo infatti convinti che debba essere fortemente combattuta la tendenza a livellare le esperienze del passato — sostenuta da una parte della storiografia e accolta da ambienti politici diversi, ed esplicitata in frasi quali “i morti sono tutti uguali” —, alla quale ha fatto da specchio un crescente disinteresse dell’opinione pubblica e delle istituzioni verso le battaglie ideali, le resistenze e le rivolte morali.8 Di fronte, ad esempio, all’affermazione ormai ricorrente che il consenso al fascismo fosse quasi unanime, le vicende degli IMI costituiscono un caso emblematico di rifiuto del regime e della sua politica da parte di più di mezzo milione di militari, appartenenti a una generazione educata sotto il regime.9 Il reiterato rifiu8 Riferiamo due episodi significativi: a Firenze, due lapidi che ricordavano il sacrificio di alcuni partigiani, sono state tolte, probabilmente in occasione di lavori, e non più risistemate al loro posto; una di esse si trovava in Largo E. Fermi, sul muro delimitante la Facoltà di Fisica; l'altra, di fronte a una delle uscite dalla stazione, sull'angolo di Viale F. Strozzi, in quella che recentemente - ironia della storia - è stato battezzata Piazza Caduti nei Lager. 9 Sul rifiuto plebiscitario di una generazione che non aveva mai fino ad allora votato, v. le notazioni di V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, Roma 1976, pp. 112 s., e Id., La resistenza dei militari italiani internati in Germania, in La resistenza dietro il filo spinato, "ANPI oggi", marzo 1996, p. 23. I rifiuti di aderire da parte dei soldati furono, secondo Rochat, circa il 90%; tra i 30.000 ufficiali, gli aderenti - in tutto il periodo della prigionia - furono circa il 30% (G. Rochat, Prigionia di guerra, cit., p. 323; Id., Le diverse prigionie, cit., p. 21); v. anche G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 434-56, 471 ss., 486, 500-03. Secondo i calcoli di Sommaruga, le "opzioni" totali (ufficiali, sottoufficiali e soldati) per il Reich e per la RSI - escluse però quelle effettuate alla cattura - furono circa 42.000, ovvero il 6,5%: C. Sommaruga, Tempi e ragioni del no, cit., p. 18 ("Cifre dell'internamento"). I militari italiani furono oggetto di tre richieste, alle quali risposero in maggioranza negativamente: al momento della cattura e nei primi mesi, fu avanzata la proposta di collaborazione armata con il Reich; poi (soprattutto nell'inverno '43-44) fu la volta della richiesta di optare per la Repubblica di Salò; nel '44 quella della collaborazione civile, attraverso il lavoro volontario in Germania. Mentre agli ufficiali la richiesta di adesione fu reiteratamente rivolta fino al 1945, ai soldati - il cui lavoro coatto era essenziale per la produzione tedesca - nella maggioranza dei casi essa non fu più ripetuta. Cfr. C. Sommaruga, Inquadramento, in P. Desana, La via del lager, Alessandria 1994, p. 19; G. Rochat, Prigionia di guerra e internamento, cit., pp. 320-29. Le proposte di adesione avanzate nel '44 ebbero maggiore successo rispetto a quelle effettuate al momento della cattura e all'arrivo nei campi, soprattutto per effetto delle privazioni, ma anche per una strategia di arruolamento basata su contatti diretti e sulla promessa di un ritorno a casa. Un'analisi svolta su 431 testimonianze ha suddiviso i motivi del "no" (all'inizio e successivamente) nelle seguenti categorie: "porre fine alla guerra, non combattere più" 34%, "motivazioni ideologiche" 30%, "giuramento" 28%, "non combattere contro altri italiani" 20%, "ostilità verso tedeschi" 19%, "dignità" 11%, "solidarietà di gruppo" 5%, "diffidenza verso promesse tedesche" 4%, e infine "stare alla sorte" 2% (la somma è maggiore di 100, perché alcuni intervistati avevano dato risposte molteplici): cfr. G. Caforio-M. Nuciari, No! I soldati italiani internati in Germania. Analisi di un rifiuto, Milano 1994; i dati sono stati successivamente rielaborati da Sommaruga, che li ha suddivisi in: "motivi militari" (non combattere contro gli italiani, stanchezza della guerra, abbreviare
Gli internati militari italiani
19
to degli ufficiali alla collaborazione — alla quale il neonato stato repubblicano fascista affidava un evidente ritorno di immagine e di propaganda sia all’estero che nel paese — rappresentò un luminoso esempio di fedeltà ai valori morali, nemmeno imposta da ineluttabili circostanze, poiché gli ufficiali avrebbero potuto decidere di aderire, e modificare di conseguenza la loro drammatica condizione, in qualsiasi momento.10 Ma le vicende della prigionia dei militari italiani suggeriscono anche altre riflessioni, che aprono un contraddittorio con quelle tesi storiografiche che tendono ad appiattire le esperienze della prigionia, e in particolare a collegare l’atroce meccanismo di annientamento messo in atto dai nazisti a quanto già avvenuto in Russia, con la creazione dei gulag.11 Senza voler certamente difendere l’operato sovietico, e minimizzarne gli spaventosi effetti eliminatori, ci sembra tuttavia opportuno ricordare che i primi esempi di campi di prigionia, con effetti devastanti per la sopravvivenza dei detenuti, si ebbero con la prima guerra mondiale. I campi di Mauthausen, Theresienstadt, Rastadt, Katzenau e tanti altri erano nel 1914-1918 organizzati per lo smistamento e l’invio al lavoro coatto dei soldati — gli ufficiali ne erano esclusi — presso miniere, fortificazioni, fabbriche ecc., esattamente come nella seconda guerra mondiale. Al modello della guerra 1914-1918 si rifece infatti l’organizzazione dei campi successivi, tanto che talora le strutture (baracche, servizi) furono le stesse.12 Riguardo alle conla guerra) 30%; "etici" (fedeltà, dignità, solidarietà di gruppo, responsabilità di ruolo) 26%; "ideologici" (antinazifascismo, cattolicesimo, liberalismo, marxismo) 24%; "diversi" (antigermanesimo, diffidenza delle promesse, fatalismo, varie) 20% (C. Sommaruga, Tempi e ragioni del "NO", cit.). Sulle motivazioni del rifiuto v. anche G. Rochat, La società dei lager, cit., pp. 141-43. 10 "Era una lotta che doveva essere affrontata ogni giorno, perché ogni giorno era possibile andare a deporre la propria adesione, senza essere visti, in un baracchino dove c'era la buca per le lettere": V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 112. Analoghe testimonianze infra: "È terribile una prigionia, ed è questo che nessuno ha mai messo in risalto, in cui esiste un botteghino aperto tutto il giorno dove tu potevi in qualunque momento andare ad apporre una firma per andare a lavorare. [...] Era una tentazione incredibile. Una prigionia volontaria, solo degli italiani matti potevano... Infatti il maggiore Cooley, scozzese, ci rese immediatamente l'onore delle armi, non credeva che fosse possibile" (O. Ascari); "[a Wietzendorf] i tedeschi avevano messo una cassettina come quella delle lettere dove chi voleva poteva mettere un biglietto con il proprio nome e richiedere così di andare a lavorare"(Giuliani). 11 Citiamo, fra tutti, il volume che tratta in modo più esteso il tema della prigionia, quello di A. J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Torino 1997, passim, e in particolare le pp. 97, 101-03, 119. 12 Questo aspetto viene confermato anche da alcune testimonianze infra.
20
G. PROCACCI
dizioni di vita nei campi, l’assenza di cibo — conseguente nel 1915-1918 all’embargo contro gli Imperi centrali effettuato dalle potenze dell’Intesa —, il freddo, le conseguenti malattie provocarono centinaia di migliaia di morti tra i prigionieri detenuti nei campi tedeschi ed austriaci. Fu il rapporto tra sforzo lavorativo e insufficienti calorie a produrre allora lo sfinimento e la morte dei prigionieri, come ugualmente avvenne, sempre in Germania, nei campi per militari internati nella seconda guerra mondiale (con la non trascurabile differenza però, rispetto al 1915-18, che, almeno fino al 1945, fino cioè alla ritirata, la Germania disponeva di ampie risorse alimentari, grazie anche alla depredazione sistematica dei territori occupati); e come avvenne nei campi sovietici (dove invece, a causa della guerra civile prima, e della carestia poi, i viveri erano scarsi per tutti). Posto che il modello dei campi risale alla prima guerra mondiale, e che diverse erano le possibilità alimentari dei due periodi storici e dei due paesi — e diverse quindi le motivazioni dell’insufficiente nutrimento —, vi è un’evidente analogia tra le condizioni di vita sofferte nei campi di lavoro tedeschi e nei campi russi: in ambedue i casi le morti non furono volute volontariamente, anche se non evitate. Ma solo la Germania nazista programmò l’annientamento razziale e politico: fatto senza eguale in nessuna altra esperienza di prigionia, e senza alcun precedente.13 Se, pur disponendo di prodotti alimentari sufficienti, la Germania nazista ridusse le razioni alimentari dei militari italiani sotto i livelli di sopravvivenza — fu considerato che gli italiani ricevevano il 50% delle razioni dei lavoratori tedeschi, e spesso le calorie disponibili non superavano le 700-900 quotidiane, con un la-
13 Tale fondamentale ovvia differenza viene affermata anche da Kaminski (op. cit., pp. 100, 177, 183), che tuttavia sembra ignorare tutta l'articolata organizzazione dei campi — molti con gli stessi nomi della seconda guerra mondiale — attuata in Germania tra il 1914 e il 1918. Né l'A. fa cenno al fatto che la struttura del comunismo di guerra fu ampiamente ricalcata sull'organizzazione lavorativa della Germania durante il primo conflitto. Sul revisionismo storiografico che, sulla scia di Nolte, afferma la non eccezionalità dei lager, e paragona i massacri nazisti a quelli bolscevichi, v. E. Collotti, Primo Levi e il revisionismo storiografico, in A. Cavaglion (a cura di), Consiglio regionale del Piemonte-Aned. Primo Levi. Il presente del passato. Giornate internazionali di studio, Torino 1993, pp. 112 ss. Come è noto, i campi si distinguevano in Stammlager (Stalag), campi di concentramento generici, in Offizierlager (Oflag), campi per soli ufficiali. Il lavoro coatto veniva svolto attraverso gli Arbeitskommand. I campi di punizione erano gli Straflager, mentre i Conzentrations-lager (KZ) erano i campi di sterminio.
Gli internati militari italiani
21
voro che raggiungeva le 12 e anche le 17 ore14 — il motivo fu politico: per i tedeschi gli italiani avevano tradito, già una prima volta nel 1916, quando avevano dichiarato guerra all’antico alleato, membro della Triplice, e una seconda nel ‘43: erano dunque un popolo che meritava il più drastico trattamento.15 Mentre durante la prima guerra mondiale era mancata la volontà punitiva da parte delle autorità tedesche e austriache, che avevano al contrario cercato di mantenere il decoro degli ufficiali, e avevano premuto affinché l’Italia intervenisse in aiuto dei soldati prigionieri fornendo loro viveri, così come facevano gli altri paesi belligeranti,16 nel ‘43-’45 la situazione si pose dunque in termini opposti: la Germania stabilì il proprio diritto a infierire sui “traditori” — e in particolare sugli ufficiali —, al fine di incrinarne la volontà di resistenza alle richieste di passare nelle file militari tedesche o fasciste.17 Come scrive la Hammermann (nel saggio 14 Sulle razioni degli IMI cfr. in part. C. Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi, cit. Vedi anche, tra le testimonianze che seguono infra, ad esempio le descrizioni di Meschiari, che lavorava in miniera (una fettina di pane di 100-120 grammi alle 11, una zuppa di verdura cotta alle 6, e poi si doveva lavorare tutta la notte fino alla mattina dopo alle 11); a Meppen in Olanda la razione consisteva in una zuppa di rape, un cubetto di margarina e 130 grammi di pane (Roseo). 15 "La prima guerra mondiale continuava ad ipotecare gravemente i rapporti tra le due nazioni": G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., p. 10. Come sottolinea questo autore, la vendetta tedesca fu espletata attraverso atti "che possono essere annoverati tra le più infami atrocità del secondo conflitto mondiale" (p. 13). Nei rapporti ufficiali si diceva che il popolo italiano "avendo tradito la causa tedesca, ossia 'la causa del genere umano', si era estromesso da solo dalla comunità umana. Meritava pertanto di 'essere accomunato agli ebrei'" (p. 459; v. anche pp. 531-32). Sul disprezzo dei tedeschi verso gli italiani (che le fonti definiscono talora, al pari degli ebrei, "feccia dell'umanità") e sul desiderio di vendetta, ritorna G. Schreiber, Gli internati militari italiani ed i tedeschi (19431945), cit., pp. 44-50; lo Schreiber si sofferma sui crimini compiuti dopo l'8 settembre anche in Crimini tedeschi in Italia, "Quaderni piacentini", 1997, n. 2, pp. 70-71. 16 Il reiterato diniego delle autorità militari e politiche italiane di inviare viveri aveva alla sua origine l'intento di punire quanti si erano fatti catturare (in questo caso, l'obiettivo di punire proveniva dunque dal paese di origine e non da quello nemico). Come abbiamo già accenato, le autorità militari italiane partivano dal presupposto che la mole dei prigionieri italiani in Austria e Germania, circa 600.000, di cui 300.000 solo dopo Caporetto, fosse determinata da atti di volontaria resa e diserzione: cfr. Giov. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella prima guerra mondiale. Con una raccolta di lettere inedite, Roma 1993 (II ed., Torino 2000). La mortalità dei prigionieri nella prima guerra mondiale fu di circa il 16,6% (100.000); nella seconda, di circa il 7,4% (45.000). 17 Sembra che alcuni ufficiali, presumibilmente di complemento, avessero strappato le stellette, consapevoli della maggiore ostilità che i nazisti nutrivano nei loro confronti: cfr. le testimonianze di Fregni e Meschiari, infra. Molti degli intervistati narrano di aver assistito a volontarie umiliazioni degli ufficiali superiori: "Si vedeva l'uomo umiliato. Si vedevano colonnelli che grattavano la marmitta della minestra, oppure presi a calci da un tedesco durante un trasferimento. Ci vedevamo tutti luridi nelle nostre divise da straccioni. Non era bello" (Giuliani); altri
22
G. PROCACCI
compreso in questo volume), “soprattutto nei primi mesi di prigionia, sulle considerazioni di ordine pragmatico si imposero le intenzioni di rivalsa, basate sul giudizio morale cui erano soggetti gli internati militari italiani. [...] Fu la condanna esemplare per il ‘tradimento’ a costituire un motivo forte di discriminazione nei loro confronti” (p. 402). Si tenga presente che, come nella prima guerra mondiale, anche nella seconda i militari non ricevettero nessun aiuto dal proprio stato: non dal Regno del Sud, non dalla Repubblica sociale di Mussolini, che ne rivendicava il compito, ma che non aveva possibilità (e volontà) di effettivo intervento.18 Al contrario, alle disperate condizioni in cui furono ridotti gli IMI contribuì in modo determinante la politica fascista: il provvedimento, concordato da Hitler con Mussolini, nei confronti di coloro che non vollero aderire — la trasformazione dei prigionieri in “internati militari” (marchio ben visibile sulle divise dei soldati) — portò come conseguenza che i prigionieri italiani non furono tutelati da accordi internazionali, e non poterono pertanto ricevere gli aiuti internazionali della Croce rossa.19 L’unica risorsa erano — come nella guerra precedente — i pacchi delle famiglie; che però non potevano pervenire dalle regioni del sud Italia, occupato dagli alleati (lo stesso era avvenuto, dopo Caporetto, per il Veneto occupato dagli austriaci); e spesso venivano persi o saccheggiati.20 Così, analogamente al 1915-1918, la condizione dei militari italiani fu la peg-
ricordano che anche agli ufficiali superiori vennero tolti gli attendenti, e che alcuni generali dovevano lavare da soli gavette e indumenti, mentre altri erano costretti dalla fame a cercare nei rifiuti: Bertini, Morsiani. Le rappresaglie, come è noto, furono particolarmente feroci nei confronti degli ufficiali superiori sospettati di resistenza. 18 Cfr. G. Schreiber, Gli internati militari italiani ed i tedeschi (1943-1945), cit., p. 40; L. Cajani, Gli internati militari italiani nell'economia di guerra nazista, in Fra sterminio, cit., pp. 160-61. 19 La decisione di trasformare i prigionieri nell'ibrida figura di "internati militari" forse non rispondeva inizialmente a un progetto punitivo (G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 225-26). Ma, come scrive la Hammermann, "l'imposizione del nuovo nome si rivelò necessaria per superare la contraddizione di riconoscere il governo fascista di imminente formazione come unico stato italiano legittimo e, al contempo, di impiegare la manodopera dei soldati considerati come militari ostili all'alleanza" (saggio infra, p. 401). 20 Era permesso l'invio di due pacchi al mese, ma la percentuale di ricevimento dei pacchi fu bassissima: C. Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi, cit., p. 251. Anche dalle testimonianze (infra) si ricava che ne giusero pochissimi a destinazione.
Gli internati militari italiani
23
giore tra quelle sofferte dai prigionieri degli altri paesi alleati, seconda solo a quella dei russi.21 L’atteggiamento punitivo nazista si espresse infine, come è noto, nella regola, applicata dal febbraio 1944, del nutrimento collegato al rendimento: regola che doveva servire a eliminare la “tradizionale pigrizia” degli italiani, e a colpirne la solidarietà interna, dal momento che il minore rendimento di uno portava alla diminuzione della razione alimentare di tutta la squadra.22 L’obiettivo di punire ed umiliare gli italiani era stato centrale fino dai primi momenti successivi all’8 settembre: come è noto, i militari, disarmati, erano stati volontariamente ingannati circa il loro futuro, essendo stato loro fatto credere che sarebbero tornati in Italia; alcuni erano stati trattenuti in campi recintati, senza preoccupazione per le condizioni alimentari; tutti i soldati (e la maggior parte degli ufficiali) erano stati trasportati in Germania o in Polonia stipati in carri bestiame, senza cibo, né acqua, né servizi igienici, per più giorni. L’impatto con il paese nemico non era stato meno traumatico: per strada erano stati accolti dagli insulti della popolazione locale, addestrata a tal uopo dalla propaganda e da ordini superiori (con gli epiteti, spesso in italiano, di “vermi”, “merda”, “badogliani traditori”, “maccaroni”)23.
21 I tedeschi "dei russi e degli italiani possono fare quello che vogliono, senza nessun controllo e senza nessun limite al loro potere. Gli italiani sono alloggiati nei campi dove prima sono passati i russi, e che sono stati dichiarati inabitabili dal CICR"; inoltre, per rappresaglia, dopo ogni rifiuto di adesione la razione di cibo veniva diminuita, mentre gli aderenti ne ricevevano una doppia: V.E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., pp. 108, 111. 22 È facile individuare in queste misure la volontà di punire e di rompere ogni forma di sodalizio, analoga a quella attuata nei campi di sterminio. È noto che, su pressioni di alcune industrie e in seguito a inchieste governative, tale criterio fu in parte sospeso, al fine di rialzare i livelli di produttività: G. Schreiber, Gli internati militari italiani ed i tedeschi (1943-1945), cit., pp. 53-55; Id., I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 652-68. 23 Le popolazioni avevano ricevuto precisi ordini circa i rapporti da tenere con gli italiani, in quanto considerati dei traditori (tra questi, la proibizione di avere rapporti sessuali, come con gli ebrei): G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, pp. 457 ss.; v. anche la testimonianza di E. Rossi). Per strada la persone "ci tiravano le palle di neve, sassate, sputi in faccia" (Galli). Vari intervistati sostengono che, tra i soldati di guardia, i peggiori erano gli altoatesini: a Bolzano, mentre i soldati nei vagoni blindati chiedevano acqua, la buttavano per terra (Nava). Altre testimonianze riferiscono invece di atteggiamenti di solidarietà da parte dei tedeschi (di tedeschi "c'erano quelli buoni e quelli cattivi": Vandelli; "Quando uno cadeva, c'era il soldato buono che ti dava una mano e ti rialzava e c'era quell'altro che ti picchiava": Dallari). Quasi nessuna solidarietà, secondo la maggior parte degli intervistati, provenne invece dagli operai tedeschi: "loro alle dieci mangiavano e noi niente" (Ferrari); "ci mangiavano in faccia" (Galli); "gli altri
24
G. PROCACCI
Giunti nei campi, spesso quelli peggiori, dove fino a poco prima erano stati internati i prigionieri russi, gli italiani avevano dovuto subire le perquisizioni, con la sottrazione, in vari casi, di tutti i beni; la disinfestazione di massa; l’alloggiamento in baracche senza riscaldamento, in giacigli a castello, senza materassi e coperte;24 il nutrimento assolutamente insufficiente;25 la durezza dei guardiani del campo nell’imporre la disciplina, e le terribili punizioni per chi la infrangeva;26 il ludibrio in piazza, al momento della a guardare con la fame che avevano, guardare mangiare gli altri e lavorare sempre così" (W. Rossi). 24 Le interviste non fanno che confermare lo shock del primo impatto con il campo, le baracche e gli appelli: "Era freddo nel campo di concentramento [Meppen]; in ogni angolo vi erano fari e mitragliatrici sistemate sopra delle torrette con militari in servizio giorno e notte. L'intero recinto in filo spinato era alto circa 3 metri; nel recinto vi erano molte baracche di legno piene di pidocchi e altri insetti [...] ufficiali, sottoufficiali e truppa eravamo tutti assieme, poi un giorno prelevarono tutti gli ufficiali..." (Roseo); "[A Fallingbostel] consideri che erano baracche dove c'era uno spazio entrando con un tavolo e poi dei secchi per i bisogni notturni, o dei bidoni, poi le... chiamiamole cuccette, erano degli alveari, quattro piani più sopra un quinto piano [...] ogni mattino c'era la sveglia alle sei, dovevamo uscire, ci mettevano in un cortile, in fila lì ce n'era sempre per due ore, in piedi, contavano, ricontavano..." (Montanari); " [A Benjaminowo] i tedeschi si divertivano a farci star male dal freddo, chiamavamo la piazza dell'appello la 'piazza polmonite'. D'inverno stavamo in piedi in mezzo alla neve [...] anche due ore. Con dei ragazzi che mi sono caduti di fianco perché erano denutriti e avevano il fisico indebolito. E questo era il loro divertimento"(Morsiani); "A Wietzendorf è stata la crisi finale perché lì eravamo in baracche che risalivano alla prima guerra mondiale, baracconi scuri [...] erano propio orribili, insomma; freddi, gelati" (Lucchi). Le condizioni delle baracche degli ufficiali erano invece buone a Przemysl (Giovenzana). 25 La fame, ossessiva, era la causa principale della distruzione fisica e morale: "In campo di prigionia vendevano tutto per mangiare, rimanevano senza niente, poi morivano. [...] Ognuno di noi era abbandonato a se stesso. Si mangiava una volta al giorno e molto poco, chi mangiava tutto alla sera, doveva arrivare alla sera successiva per rimangiare. Eravamo imbambolati per la fame.[...] Se ti buttava la disperazione era finita" (Fognani); "I primi tre mesi, la prima cosa sono andati giù, proprio giù fisicamente sono stati quelli che non hanno mai lavorato, come studenti, barbieri, gente che non ha mai lavorato [...] dopo gli altri tre mesi un'altra selezione, sono stati la gente robusta..." (Meschiari); "Ne sono morti tanti [...] ci gonfiava le palpebre sopra e sotto che addirittura non ci vedevano dalla debolezza. Poi dopo incominciavan a gonfiare le gambe e poi la faccia e poi dopo sparivano" (Bazzani); "Siamo arrivati lì in 120 perché eravamo in due baracche, di italiani, per Natale eravamo in 80, tutti morti" (Amici); "Non credo di ricordare che ci sia stata una mattina che non ci sia stato un morto; [...] se ne accorgevano quando facevano l'appello. [...] Eravamo in 200-250, ma tutte le mattine... insomma, fatto sta che in due mesi siamo rimasti in 75. I più sono morti giù in miniera [dove gli italiani lavoravano senza che fosse loro fornito il casco]" (Miselli). Era pericoloso ammalarsi: "Uno si riguardava a dire che era malato, perché quando era malato venivano: 'Ti portiamo a curare’. Non si rivedeva più quello là [...]. Perché loro degli ammalati non se ne facevano niente" (Veronesi); "Una volta sono passato per portare una razione a un ricoverato. Ho aperto una stanza e c'era cinque o sei morti, erano scheletri, morti di debolezza. Medicine non se ne parlava"(Fognani). 26 Riguardo alla disciplina, a differenza di quanto avveniva nei campi sovietici, dove i prigionieri venivano in pratica dimenticati e abbandonati a se stessi, le re-
Gli internati militari italiani
25
scelta da parte dei contadini degli uomini adatti, secondo le qualità fisiche, a svolgere i lavori agricoli.27 Ebbe così inizio un lungo viaggio di degradazione, attraverso la fame, il freddo, la mancanza di indumenti idonei e decenti, l’invasione di pidocchi e cimici. I campi furono abitati da uomini ridotti a scheletri, vestiti di stracci, alla ricerca affannosa di rifiuti da poter ingerire, soggetti a un processo involutivo che li privava delle stesse capacità di reazione e ragionamento;28 mentre nelle miniere, nei lavori di sterro, e anche nelle fabbriche i soldati erano sottoposti a uno sfruttamento bestiale, che non conosceva gole imposte nei lager nazisti erano ferree e dovevano essere fatte eseguire con assoluta precisione dagli esponenti della Wehrmacht adetti alla sorveglianza. Le testimonianze confermano che — salvo casi specifici — di norma non venivano compiute sevizie gratuite nei confronti degli italiani, mentre ne erano soggetti di frequente i russi, ma non era ammessa alcuna trasgressione delle regole (come sostiene Collotti, nei lager non era la sostanza che contava, ma la forma: tutto doveva avvenire secondo le regole e i regolamenti: E. Collotti, Ricerca storiografica e recupero di memoria storica: il caso di Dachau, in F. Cereja, B. Mantelli [a cura di], La deportazione nei campi di sterminio nazisti, Milano 1986, p. 229). Le rappresaglie erano feroci se gli internati attuavano una "resistenza passiva", ovvero mostravano "atteggiamento provocatorio" (cioè rifiuto di lavorare): Schreiber riporta vari casi di uccisioni (I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 652, 752) e altre vengono ricordate dalle testimonianze infra. Quasi tutti gli intervistati affermano però che i militari messi a guardia dei campi, tutti territoriali anziani, erano tolleranti e talora comprensivi; altrettanto alcuni (ma non tutti) quelli messi a guardia delle squadre di lavoro, purché non vi fossero superiori che osservavano; nel qual caso potevano diventare crudeli. C'erano tuttavia i seviziatori, che non mancavano occasione per punire con ferocia, e anche uccidere i prigionieri alla minima trasgressione: se ad esempio i prigionieri si avvicinavano inavvertitamente al filo spinato, se venivano trovati in possesso di una patata o di una rapa rubate, se commerciavano con i prigionieri degli altri campi, se rifiutavano di lavorare a causa della febbre o dello sfinimento ecc. (cfr. le testimonianze di Bazzani, Bertini, De Pietri, Galli, Giovenzana, Giuliani, Lucchi, Meschieri, Pradella, Roseo, Zeni, ecc.; in molti ricordano l'uccisione del tenente Romeo a Sandbostel). Tutti concordano poi sulla spietatezza delle SS e soprattutto sull'infamia dei giovani, i teppisti della Hitlerjugend ("L'unica paura erano le SS, perché quelli ci odiavano. Eravamo la terza categoria: ebrei, russi e italiani deportati": Morsiani; "I bambini della Hitlerjugend, questi erano maledetti": Testoni). 27 "A volte venivano dei contadini che avevano bisogno di manodopera e sceglievano i prigionieri guardando se erano robusti e se avevano buone dentature. Era come scegliere dei cavalli. Questo lo facevano con i soldati, li prelevavano e li portavano fuori" (Giuliani); "A Luckenwalde tutti i giorni ci guidavano fuori; in una piazza c'erano i borghesi che dicevano: "A me me ne vuole cinque! A me me ne vuole dieci! Ci trattavano come se fossimo al mercato del bestiame" (W. Rossi). 28 Riportiamo alcune espressioni delle interviste: "Una persona lì si trasforma, piano piano, si abitua, poi si trasforma" (Ballocchi); "Uno stato di miseria anche morale. Ad un certo punto si perdeva anche la dignità" (Giovenzana); "Noi non eravamo più uomini [...] non eravamo nemmeno degli animali [...] eravamo degli schiavi" (Montanari); "Se ci fosse stata una persona a guidarci, sarebbe stato diverso, nessuno che ci avesse insegnato il modo di ribellarci. Andavamo avanti noi di buona volontà" (Giberti).
26
G. PROCACCI
pietà o deroghe. “Era difficile vedere come esseri umani gli internati”, affermeranno i capi nazisti.29 Se un po’ di conforto venne ai giovani rinchiusi nei campi, questo fu quello fornito dai cosiddetti “ripetenti”, quei militari che avevano già vissuto l’esperienza della prima guerra mondiale, e avevano appreso alcune tattiche di sopravvivenza. Un’ultima considerazione riguardo allo specifico trattamento attuato nei confronti dei militari italiani.30 La loro trasformazione in lavoratori civili nell’estate del ‘44, voluta fortemente da Mussolini (che riuscì a vincere l’iniziale rifiuto di Hitler), che non riusciva più a giustificare di fronte all’opinione pubblica la mancata adesione al regime di una massa di più di mezzo milione di militari, né a fornire alla Germania il quantitativo di lavoratori che pretendeva, produsse un cambiamento radicale nella condizione degli ufficiali, che furono costretti al lavoro, e dispersi nelle fabbriche: il provvedimento umiliò ulteriormente gli internati non aderenti, perché li privò definitivamente della dignità legata al grado militare, e spezzò la loro identità di gruppo. L’atteggiamento deciso dai nazisti nei confronti degli italiani — cui si aggiungeva quello spavaldo e arrogante dei fascisti e degli ufficiali passati nelle loro fila, che venivano a richiedere l’adesione al regime — fu in larga parte alla radice dei motivi del rifiuto di collaborazione di una così impressionante massa di uomini, rinchiusi nei più lontani lager e pertanto tra loro neppure in 29 Cfr. V.E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 18; sulle condizioni di vita: G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, pp. 467-70, 60246; C. Sommaruga, Alcuni aspetti amministrativi, cit., pp. 251-67; G. Rochat, Prigionia di guerra e internamento, cit., pp. 327-36. 30 Come noto, la condizione dei francesi, degli inglesi e soprattutto degli americani, non ebbe nessun rapporto di paragone. Da costoro gli italiani furono fin dall'inizio tenuti separati, venendo rinchiusi nei campi peggiori. I campi degli inglesi e degli americani erano dotati di servizi, comprese aree per giuocare a football; i prigionieri abbondavano di viveri, grazie ai pacchi e alla Croce rossa, e alla possibilità di commerciare con gli stessi guardiani, scambiando sigarette e caffè (cfr. le interviste di De Pietri, Generali, Cottafavi e altri, infra). Queste circostanze vengono confermate dalle testimonianze raccolte da Bendotti e altri, I prigionieri, cit., pp. 183-96. Come ricorda Carocci, il campo degli americani era soprannominato "il campo dei signori"; gli americani erano "rasati in modo impeccabile, elegantissimi nelle divise che non mostravano né un buco né un rammendo, con le scarpe basse lucide [...] passeggiavano in su e in giù come dei villeggianti annoiati"; gli internati vengono in contatto con i francesi, che manovrano le docce della disinfestazione:"i francesi stavano infinitamente meglio di noi perché godevano della protezione della Croce Rossa": G. Carocci, Il campo degli ufficiali, Torino 1954, II ed. Firenze 1995, pp. 108-109. Secondo Rochat, il diverso trattamento dei prigionieri non era determinato tanto dalle convenzioni internazionali, quanto dai rapporti di forza della Germania con i paesi di origine: Rochat, Memorialistica, cit., p. 61.
Gli internati militari italiani
27
comunicazione, ma tutti unanimi nel ribadire il loro diniego. Come viene concordemente riconosciuto dai testimoni e dagli storici, se vi furono nei mesi successivi alla cattura degli aderenti, ciò che li spinse all’adesione fu la fame e il legittimo desiderio di sopravvivenza.31 Le terribili condizioni di vita indussero, comunque, non tanto ad aderire a Salò, quanto ad accettare di andare a lavorare.32 E in questo caso le adesioni, determinate anche da minacce, non furono poche.
31
Su questo aspetto, tutta la letteratura e le testimonianze sono unanimi. Non esistono dati esatti sul numero delle adesioni al lavoro volontario; secondo Rochat si può pensare che aderisse circa un terzo degli internati (e un quarto degli ufficiali, di cui un primo quarto aveva già lasciato i lager per la RSI; gli ufficiali superiori furono esclusi dalle richieste): G. Rochat, Prigionia di guerra, cit., pp. 350-51. Anche secondo Schreiber, i militari disposti a cambiare status furono circa il 30%. Gli altri furono costretti in seguito (I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 581-92). I dati che si traggono dalle rielaborazioni di Sommaruga (Dati quantitativi sull'internamento in Germania, cit.; Tempi e ragioni del no, cit.: "Cifre dell'internamento"), sono i seguenti, riguardo agli ufficiali: prima del 20.8.1944 (smilitarizzazione degli IMI) — esclusi gli optanti e i deceduti — gli ufficiali lavoratori volontari erano 2.300, gli ufficiali coatti (sotto scorta, come quelli dello Straflager di Colonia) 463; dopo il 20.8.1944, gli ufficiali lavoratori volontari (inclusi i precedenti 2.300) erano 5.400, gli ufficiali coatti sotto scorta della Wehrmacht (Straflager ecc.) 250, gli ufficiali coatti sotto scorta delle SS (KZ ecc.) 108: il totale degli ufficiali lavoratori risulta così di 8.058 unità. Gli ufficiali non lavoratori raggiunsero le 10.000 unità, ovvero: ufficiali dei campi di Wietzendorf e altri campi (8.000), generali, anziani, inabili ecc. (1.000), sanitari (770), cappellani militari (230). I dati sono molto più incerti per i soldati e i sottoufficiali. La smilitarizzazione dei soldati non fu spesso soggetta ad opzioni; nel caso che lo fosse, i non aderenti vennero costretti a firmare attraverso intimidazioni (cfr. le molte testimonianze in tal senso, infra). In alcuni campi sembra che fossero gli stessi guardiani tedeschi, territoriali anziani, a spingere a non fimare, temendo di esser inviati al fronte (Bartoli). L'ampiezza delle adesioni al lavoro viene confermata anche da varie testimonianze: cfr. O. Ascari, Cavicchioli, Morsiani e altri, infra. Vi furono tuttavia alcune migliaia di "irriducibili", che rifiutarono reiteratamente di firmare il passaggio allo stato civile ("Ho detto di 'no' fino alla fine. Sono uno dei pochi. L'adesione al lavoro non avvenne tutta in un colpo, avvenne gradualmente. Tant'è che alla fine eravamo in due campi soli, si parla di 35-40.000 ufficiali su 600.000 deportati. A dire di no alla fine siamo stati in 3-4-5.000 e non di più": O. Ascari; "Nei tre mesi che passiamo a Wietzendorf non è che ci chiedono di lavorare, ma ce lo impongono": Gozzi). Il rifiuto di lavorare era anche rifiuto di fornire aiuto materiale al nemico: "Ho rifiutato la Repubblica [di Salò] perché non mi andava il regime, diciamo; e poi perché ormai, insomma, non voglio muovere un dito per questi. Perché andare a lavorare per loro significava dare anche un piccolo aiuto" (Lucchi, uff.). Alcuni ufficiali, soprattutto quelli cui veniva imputata l'azione di propaganda per il "no", vennero inviati in campi di sterminio (KZ). Sui motivi per cui gli IMI vennero mandati nei campi delle SS, v. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 429-34; C. Sommaruga, L'"internamento": memoria e rimozione, cit. p. 85; Id., Cifre del lavoro degli IMI, in Schiavi allo sbaraglio, Cuneo 1990, pp. 132-34 e 121-150 passim; L. Cajani, Appunti per una storia degli internati militari in mano tedesca (1943-1945) attraverso le fonti d'archivio, in I militari italiani internati dai tedeschi dopo l'8 settembre, cit., pp. 95-96. 32
28
G. PROCACCI
Le testimonianze di militari internati della provincia di Modena comprese nel volume sono 58.33 Di esse 43 sono di soldati, graduati e sottufficiali (i sottufficiali vennero equiparati, nel trattamento, ai soldati); 15 di ufficiali (13 di complemento, 2 effettivi). La maggior parte degli intervistati (33) si trovava, al momento della cattura, in Italia (ivi compresi 8 in Istria e Dalmazia), spesso in zone di frontiera; gli altri erano di stanza in Grecia e nelle Isole (14), in Albania (5), in Jugoslavia (5); uno si trovava in Francia. I loro anni di nascita sono compresi tra il 1912 (un intervistato) e il 1924 (11 intervistati). Gli anni di maggiore frequenza sono il 1921 (13 intervistati), il 1923 (10) e il 1924; le classi dal 1920 al 1924 costituiscono, da sole, il 76%:34 la maggioranza era dunque costituita da militari giovani e giovanissimi.35 Delle formazioni cui appartenevano gli intervistati, dieci attuarono resistenza, le altre furono costrette subito a cedere le armi. 33 Sono state effettuate da Alberto Aloisio le seguenti interviste: Gastone Amici, Remo Bazzani, Carlo Bertini, Guido G. Capitani, Ennio Cavicchioli, Lanfranco Cottafavi, Ivaldo Ferrari, Pierino Fregni, Urbano Galli, Enzo Gozzi, Ugo Gualdi, Guido Lucchi, Severino Miselli, Trento Montanini, Riccardo Nava, Lorenzo Rocchi, Walter Rossi, Aroldo Vaccari, Oronzo Vadacca, Otello Veronesi. Sono state effettuate da Stefano Betti le interviste a Gino Ballocchi, Modesto Fognani, Benito Giberti, Giuseppe Mammei, Tarcisio Venturelli. Sono state effettuate da Giuliano Caselli le interviste a Odoardo Ascari, Ivo Balugani, Bruno Bartoli, Natale Biagini, Bruno Cecchelli, Primo Costi, Gino Dallari, Mario Gariboldi, Bruno Generali, Albertino Ghirardelli, Orazio Giovenzana, Emilio Giuliano, Gianfranco Gozzi, Vittorino Lotti, Aldo Mazzoni, Giuseppe Meschiari, Fernando Morsiani, Luigi Puviani, Carlo Roseo, Enzo Tassi, Angelo Testoni, Pietro Vandelli, Bruno Vezzelli. Sono state effettuate da Monica Casini le interviste a Germano Ascari, E. B. Sono state effettuate da Bruno Ferrari le interviste a Serse Andreoli, Tommaso De Pietri, Enrico Pradella, E. Rossi, Lelio Zeni. È stata effettuata da Alessandra Righi l'intervista a Gaetano Montanari. Bruno Generali ha intervistato Ezio Bartolai. 34 In taluni casi il luogo di nascita non è quello della provincia di Modena; il trasferimento avviene però in seguito (talora per l'iscrizione all'Accademia), e si conferma nel dopoguerra. 35 Alcune di queste indicazioni, ristrette a un numero limitato di casi, corrispondono in linea di massima a quelle deducibili da 1.657 casi. È stato infatti compiuto lo spoglio di circa 10.000 schede di reduci iscritti all'Associazione nazionale combattenti e reduci di Modena e provincia, e sono stati esaminati i comuni di Modena, Carpi, Castelfranco Emilia, Campogalliano, individuando 1.657 internati in Germania (di essi, 880 provenivano dal comune di Modena, 372 da quello di Carpi, 309 da quello di Castelfranco E., 96 da quello di Campogalliano). Dei 1.657 IMI l'82% appartenevano all'esercito (nella misura del 63% di soldati, 17% di sottoufficiali, 2% di ufficiali), il 6% erano avieri, il 2% provenivano dalla Marina (10% appartenenza non individuata). Riguardo al fronte di cattura, il 28% era stato fatto prigioniero in Italia, il 25% in Albania, Montenegro, Croazia, Yugoslavia, Balcani, il 17% in Grecia; per il 4% provenivano dal fronte orientale e da quello occidentale (26% provenienza non individuata). Le classi di età assolutamente prevalenti erano quelle del 1922 e del 1923, seguite da quelle del 1920-21. Dalle schede non si traggono utili indicazioni circa la professione. (La ricerca è stata svolta da Andrea Bruni e da Monica Casini).
Gli internati militari italiani
29
Le testimonianze raccolte confermano in linea di massima quanto già conosciuto attraverso la diaristica e le precedenti interviste attuate in altre zone d’Italia.36 Il fatto tuttavia che la maggior parte delle domande siano state rivolte a soldati, voci meno conosciute — la memorialistica appartiene soprattutto agli ufficiali —, permette di acquisire nuove informazioni.37 Alcune testimonianze rivestono un interesse particolare: ad esempio, quelle di tre militari della Acqui che sopravvissero alla strage di Cefalonia (due dei quali passati per i campi russi, uno detenuto insieme ai tedeschi); quelle, oltre alle già citate, che descrivono l’esperienza del periodo passato con i russi; quelle nelle quali sono esposti i motivi del rifiuto di firmare per il lavoro volontario da parte degli ufficiali non aderenti (internati nei campi di Colonia, Wietzendorf); la vicenda di un ufficiale ebreo, che, consapevole del destino che lo avrebbe atteso se fosse stata scoperta la sua identità, aderì, con l’accordo del suo gruppo, alla RSI, per poi darsi alla macchia e tentare, insieme alla famiglia, la fuga, riuscita, in Svizzera. È questo l’unico caso di “optante” tra gli intervistati. Il primo aspetto che vorrei prendere in considerazione è quello della reazione all’8 settembre. Le testimonianze confermano quanto già noto: l’assoluta mancanza di informazioni, l’altrettanto totale mancanza di ordini superiori da Roma, la incertezza sul da farsi dei comandi territoriali, la scomparsa degli ufficiali superiori, la solidarietà con i soldati dei giovani tenenti, i tentativi di resistenza e di lotta armata, la fucilazione di alcuni ufficiali, in base all’aberrante piano ACSE.38 36 In particolare quelle di A. Bendotti e altri (a cura di), Prigionieri in Germania, cit. Stanno per essere pubblicate anche alcune interviste svolte in Toscana sul tema: Il ritorno. La voce degli ex-internati militari. Vedi a proposito il saggio di N. Labanca, infra. 37 I temi su cui hanno particolarmente insistito gli intervistatori del gruppo modenese sono stati la situazione e i comportamenti al momento del comunicato dell'8 settembre; il viaggio verso la Germania, la Polonia, o gli altri paesi occupati; i motivi del "no"; l'arrivo ai campi e le condizioni di vita e di disciplina; il lavoro coatto, cui furono subito soggetti i soldati; il passaggio di status; la fuga dei tedeschi e i giorni di abbandono a se stessi; l'incontro con le truppe sovietiche, inglesi o americane; il ritorno a casa e l'accoglienza. 38 Sui caratteri dell'operazione ACSE, che prevedeva l'immediata uccisione degli ufficiali responsabili della resistenza, in contrasto a tutte le convenzioni internazionali, cfr. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, cit., pp. 147-49, 204; Id., Gli internati militari italiani ed i tedeschi (1943-1945), cit., pp. 38-39: le direttive tedesche contro gli italiani non trovarono riscontro in nessun teatro di guerra "nemmeno nella guerra di sterminio condotta contro l'Unione sovietica", dal momento che agli italiani non veniva riconosciuto il diritto a difendersi; l'unica analogia che può essere rintracciata è, secondo l'A., quella con le diretti-
30
G. PROCACCI
Tutti sottolineano che era impossibile difendersi, sia per inferiorità di armamento (soprattutto da parte dei distaccati in Albania, Kossovo, Macedonia, la cui funzione era essenzialmente quella antipartigiana)39, sia, per assenza di direttive dei comandi centrali,40 e per la latitanza di quelli di zona.41
ve per il trattamento dei commissari politici russi nel giugno 1941 (sugli eccidi, cfr. anche le testimonianze infra di Mammei e Mazzoni). 39 Al Pireo "Noi eravamo lì pronti per la difesa e arrivava l'ordine di difendere, ma eravamo pochi, c'erano solo 60 soldati lì al comando" (Morsiani, uff.); a Zara l'ordine era di arrendersi "tanto più che non si poteva resistere perché eravamo con le munizioni e le armi limitatissime e le truppe tedesche erano forti, numerose" (Pradella, uff.); nel Kossovo "ci hanno catturato senza sparare un colpo, perché se avessimo sparato un colpo ci avrebbero massacrato. [...] Poco glorioso ma è stato così" (Lucchi, uff.); a Navarino "fu presa la decisione di non combattere perché col modello 91 non si combatte" (Gualdi). Molte sono le testimonianze dei tentativi di resistenza: "A Passo Piè di Colle, abbiamo combattuto contro i tedeschi. [...] Il nostro maggiore diceva di non cedere le armi, ma lui era già stato disarmato. Dopo ci hanno fatto prigionieri" (Venturelli); a Frascati "Il capitano ha detto: 'Andiamo all'attacco'. Io gli dissi: 'Ci conti signor capitano'. Lui a un tratto ci guardò, eravamo rimasti in 39, e poi disse: 'Se qualcuno mi vuole seguire tentiamo di andare a Roma’. [...] Noi lo abbiamo seguito, poi lo abbiamo visto cadere. [...] Uno che ha tentato di saltare in strada è stato ucciso lì subito sul posto" (Bartolai); a Nauplia "facemmo prigionieri tutti i tedeschi. Noi italiani avevamo dalla nostra la sorpresa e il fatto di avere l'artiglieria che dominava la città [...]. I tedeschi erano più di noi, ma la sera dell'8 settembre erano quasi tutti al cinema e così alle dieci erano tutti disarmati e prigionieri. [...] C'è però un fatto: a mezzanotte eravamo prigionieri noi" (Ghirardelli); a Cefalonia "ho visto cadere falciato il mio comandante di compagnia che ci incitava ad andare avanti, i miei portamunizioni e gli altri compagni tutti intorno. Saltellando mi sono allora riparato tra alcune rocce [...]. La mattina quando ci siamo svegliati ci siamo all'improvviso visti davanti i tedeschi" (Tassi). 40 Da Tirana un ufficiale tenta di mettersi in contatto con Roma, e si svolge questo singolare colloquio: "'Sono il colonnello G., comandante dei Bersaglieri, da Tirana, con chi parlo?'[...] 'Ma qui non c'è mica nessuno'. 'Ah non è il Ministero della Guerra?'. 'Sì, ma sono andati via tutti. Il re non c'è più'[...]. 'E noi come ci comportiamo?'[...] 'Ma io sono l'usciere. Sono venuto a chiudere le finestre perché il sole non entri, poi vado a casa. Non c'è più nessuno'"(E. Rossi); a Brignoles, l'ufficiale medico cerca di mettersi in contatto con i comandi, ma "non c'era più nessuno. Non c'erano ordini" (Giuliani, uff.); al Brennero il comando di reggimento, che era riuscito a prendere ordini da Roma, dà come indicazione: "cerca di tergiversare" (Gariboldi, uff.); di fronte alle Bocche di Cattaro "alle 4 abbiamo iniziato il fuoco, solo che gli italiani non avevano più comandi esatti, qualche ufficiale si vendeva ai fascisti, ed era tutto un guazzabuglio che non si capiva niente. I cannoni delle Bocche di Cattaro ci sparavano addosso a noi. Il mio capitano è morto a sette metri da me" (Mammei). Al Brennero "c'era un inferno di fuoco. Rispondemmo per qualche ora. Ordini precisi non ce n'era, c'era un subbuglio, quindi ci siamo lasciati prendere. Il mio capitano era in piedi, esterrefatto, di ordini superiori non ne aveva, era in piedi in mezzo alle fucilate. [...] Cercammo di comunicare con il comando, ma non siamo riusciti, allora ci siamo arresi" (Ballocchi). 41 Nella maggior parte delle testimonianze di soldati viene accusata l'assenza degli ufficiali superiori: "I nostri ufficiali i più grossi sono scappati in aereo di notte... ci sono rimasti solo i piccoli gradi [...]. Ci hanno fatto depositare le armi e poi la Milizia e i Carabinieri hanno collaborato subito con i tedeschi" (W. Rossi). Analogamente Amici, Bazzani, Bertini, Cecchelli, Galli, Giberti, Gozzi, ecc.
Gli internati militari italiani
31
Pochi dicono di aver pensato alla fuga, che pure sarebbe stata possibile fino a quando il trasporto avveniva, in vagoni aperti, nei territori greci, macedoni, albanesi e sloveni (cioè fino ai campi di raccolta alla frontiera): vi era infatti, da una parte, il timore di finire nelle mani degli ustascia o di doversi arruolare tra i partigiani, e dall’altra — in tutti — la convinzione che gli ex alleati avrebbero mantenuto le promesse e avrebbero rimandato i militari in Italia. Molti tra gli intervistati, allora ragazzi di diciotto-diciannove anni, descrivono lo smarrimento provato quando capirono che non avrebbero fatto ritorno in Italia.42 Il senso di abbandono che li colse allora — nella grande maggioranza vennero subito divisi dagli ufficiali — non li lascerà più, e segnerà non solo la loro vicenda di prigionia, ma anche il loro ritorno in patria. Il rifiuto di collaborazione con i tedeschi fu determinato soprattutto da reazioni elementari di sopravvivenza: la speranza che la guerra fosse alla fine, e che quindi la prigionia fosse di breve durata; il timore — comune a quasi tutti i soldati intervistati — che l’adesione potesse comportare la formazione di una divisione da inviare in Russia, con le drammatiche conseguenze di cui si era a conoscenza;43 la stanchezza per una guerra che era apparsa a molti — soprattutto ai più anziani, già combattenti su altri fronti — una
42 "Non si può chiamare sotto le armi dei ragazzi di 19 anni. [...] Non sapevo neanche andare a Bologna [...]. Là mi hanno abbandonato, e il re è scappato, è arrivato delle forze inferiori alla nostra, ma organizzate e abbiamo dovuto cedere le armi, perché mancavano degli ordini dall'alto" (E. Rossi); "Ero stato educato e formato per ubbidire ed eseguire gli ordini ed ora quali erano gli ordini? Dovevo decidere da solo" (Giuliani, uff.); "Io compivo i vent’anni nel '44... e allora eravamo là che eravamo ancora bambini, certe esperienze non si avevano" (Ferrari); "I nostri uomini, vedendo che gli ufficiali vanno via, che partono, chiedono consiglio: ‘Voi andate via, dove andate?’; ‘Ma non lo sappiamo’. [...] ‘Ma noi cosa dobbiamo fare?’"(Gozzi). 43 A questo motivo — richiamato in quasi tutte le testimonianze infra — non fa riferimento specifico l'inchiesta di Caforio-Nuciari. Viene invece esplicitamente richiamato da Schreiber, secondo il quale influirono anche la visione delle città distrutte, la convinzione della fine imminente della guerra, e l'odio crescente verso tedeschi e fascisti, considerati responsabili della loro miseria: G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, cit., pp. 506-9. Nelle testimonianze, la convinzione che la guerra fosse alla fine e il timore di essere inviati in Russia sono quasi sempre congiunti: "se aderiamo in massa, fanno una bella divisione e ci mandano sul fronte russo. Questo era il nostro convincimento" (Galli); "La nostra paura era di andare contro i russi. Se fossi stato sicuro di andare in Italia saremmo andati, avremmo tentato di scappare" (Giberti); cfr. anche le testimonianze di Meschiari, Miselli, Galli, Pradella, Venturelli, Ballocchi, E. Rossi e altri.
32
G. PROCACCI
guerra sbagliata, con insufficienti armamenti, e insufficiente preparazione.44 Altri si abbandonarono al destino. “Alcuni si sentirono immaturi per una decisione cosciente e si chiusero nel no come in una botte di ferro”45. I più giovani si affidarono, sia all’inizio che nel proseguo della prigionia, ai consigli e alle decisioni degli “anziani”46. Spingeva a rifiutare l’adesione anche, e forse soprattutto, la diffidenza verso i tedeschi, nutrita da tutti dopo l’8 settembre, ma maturata da tempo in quanti avevano già combattuto a loro fianco.47 Più che una valutazione politica, del comportamento degli 44 "Eravamo stanchi della guerra fascista, di come era stata condotta. Era stata condotta in modo orribile, non avevamo niente, usavamo ancora dei cannoni della prima guerra mondiale" (Morsiani, uff.); "Eravamo stanchi della guerra, volevamo tornare a casa. Per il resto, la gente della nostra zona non vedeva bene il rapporto che c'è stato nel periodo di alleanza, non vedevano bene il rapporto né con le camicie nere, né con i tedeschi" (Costi); "Noi della guerra eravamo stanchi, poi nell'andare con i fascisti ci si aggregava ad una setta che nel nostro corpo non aveva preso molto piede. Quando sono andato a militare io ho iniziato a soffrire la fame. [...] Tante volte non so se siano stati meglio i tedeschi o gli italiani" (Ballocchi); "Non accettiamo prima di tutto per motivo ideale, perché non ho mai condiviso quella impostazione della guerra e soprattutto l'impostazione fascista; e poi proprio per convenienza. I discorsi che facevamo spesso tra i colleghi erano: 'Adesso la nostra situazione è quella di un prigioniero militare. [...] Andare ad aderire vuol dire ancora andare a far parte di un esercito che è affiancato ai tedeschi e combatte contro gli inglesi e gli americani. Si rischia ancora la pelle'" (G. Gozzi, uff.); "Io non ci credevo. [..] contro chi dovevo combattere, contro i miei, allora?" (Cavicchioli); "Nessuno aderì [alla Repubblica sociale]. Andare in Italia significava andare a fare ancora la guerra. L'avevamo scampata e ora dovevamo offrirci per tornare in guerra per una cosa che non esisteva più?"(Ghirardelli). 45 Natta, op. cit., p. 32. "A vent'anni cosa vuoi che se ne intende...'Non firmiamo, non firmiamo, non firmiamo', e quindi la voce ha..., si è sparpagliata in modo tale, anch'io ho aderito a questa cosa di non firmare" (Zeni). "Io non voglio andare volontario. Anche andare contro la morte" (Fognani); "Andrò dove mi conduce il destino" (Ferrari). 46 "I risultati dell'adesione furono però molto limitati, soprattutto perché la parte degli ufficiali superiori frenava, aveva detto: 'No, noi restiamo fedeli alla nostra idea, voi giovani state attenti a non farvi abbagliare'". (Gariboldi); "Avevamo gli anziani, del 1910-1911, ci minacciavano che se ci andavamo ci uccidevano sul posto" (Venturelli); "Io non ho rifiutato per coraggio, ma perché ero incerto. Ho pensato che non sapevo dove mi avrebbero mandato, per cui era meglio rimaner lì. [...] Io ero insieme agli ufficiali più anziani, Guareschi e gli altri, e loro hanno deciso di non andare, quindi anche noi non abbiamo aderito" (Morsiani); "Sono tornati quattro o cinque volte per cercare di convincerci ad aderire... ma noi abbiamo sempre resistito e senza concordare fra noi, era una cosa istintiva ne avevamo abbastanza della vita militare che non volevamo che la guerra continuasse di più [...] noi più anziani, devo essere sincero, cercavamo di fare un po' di propaganda per i giovani perché i giovani cedevano soprattutto per la fame" (W. Rossi). 47 "Noi non volevamo saper né del duce né di Hitler, noi volevamo solo la pace" (E. Rossi); "Era subentrato un odio tremendo contro i tedeschi. L'odio l'avevamo già prima dell'8 settembre, anche. Perché in Jugoslavia arrivavamo nei paesini che avevamo conquistato noi, arrivavano loro... eran loro che avevano conquistato. Noi eravamo pezze da piedi, ci mettevan da parte" (Veronesi); "Per noi che veniva-
Gli internati militari italiani
33
ex alleati veniva dato un giudizio morale, determinato dalla brutalità e dall’atteggiamento sprezzante nei propri confronti, dalla crudeltà verso le popolazioni soggette (“son chi lì i nostri amis?”, chiede un caporal maggiore al proprio ufficiale alla vista di un ragazzo della Hitlerjugend che uccide una donna ebrea che raccoglieva delle gallette gettatele dai soldati italiani dal treno che attraversava la Polonia durante la campagna di Russia)48. Anche l’opposizione a Salò era più dettata da reazioni emotive che basata su ragionamenti e convinzioni ideologiche (le quali traspaiono tuttavia in alcune interviste)49. Come ricorda Natta, del fascismo “vennero primariamente discussi e colpiti gli aspetti plateali e ridicoli, il tragicomico degli ‘otto milioni di baionette’, o dello ‘spezzeremo le reni alla Grecia’ [...] più che la sostanza politica del regime di conservazione sociale e di aggressività bellicista”50. Ma fu proprio in questo frangente — come è stato già rilevamo dal fronte russo, la Tridentina, c'erano i precedenti di quel fronte, quello che avevamo passato con i tedeschi, le azioni di prepotenza durante il ripiegamento [...] e soprattutto il loro tentativo, già manifesto, di dare la colpa di tutto lo sfascio del fronte russo a noi" (Gariboldi); "In primo luogo il fatto di non voler collaborare con i tedeschi, il fatto numero uno era questo, la situazione numero due poi variava" (Montanari); "Nessuno aveva voglia di andare coi tedeschi, perché dei tedeschi noi eravamo stanchi. Eravamo stanchi della loro disciplina" (Balugani); "La mia scelta è stata motivata dal fatto che primo non andavo d'accordo con i tedeschi e secondo non ho fatto la guerra per l'Italia: figurarsi se la facevo per loro; terzo io ero degli alpini che avevano come particolare diciamo così avversione al tedesco, perché si ricordavano quello che era successo in Russia..." (E.B.). 48 O. Ascari, infra: "Quando arrivammo in linea sul Don avevamo vergogna di essere alleati dei tedeschi" (Id.). 49 Cfr. la nota 44. Il disprezzo verso gli atteggiamenti arroganti e provocatori dei fascisti è comune a molte delle testimonianze infra: "Quando venivano nei nostri campi, i fascisti arrivavano con una divisa tutta pulita [...], facevano i gradassi, allora molte volte facevamo a botte. [...] Arruolarsi con quella gente lì [tedeschi] bisognava far delle robe che non eravamo disposti a sopportare" (Ballocchi); "Noi eravamo là per colpa del regime fascista!"(Ferrari); "Loro ci hanno sfilato davanti a noi con una bella pagnotta da un chilo sotto il braccio... e noi li abbiamo fischiati, li abbiamo detto dei traditori" (Meschiari); "Fuori dal reticolato c'erano là seduti tutti i fascisti con le gavette piene di pastasciutta, dicevano: 'Venite con noi, se volete mangiare... vedete qui come mangiamo bene!'. [...] E dopo in più vennero dei tenenti cappellani, vestiti da militari, con la croce da prete, a fare propaganda dentro al concentramento...che andassimo volontari" (Veronesi). È noto che di norma, dopo i rifiuti di aderire, le razioni venivano ridotte della metà. 50 Natta, op. cit., p. 32. Cfr. anche la testimonianza di G. Girardet, La mia prigionia 1943-45, "Bollettino della società di studi valdesi", 1998, n. 182, pp. 25-30 ("Parlando di quei 17 mesi, due inverni di Lager, si deve dire subito con chiarezza che la nostra coscienza politica, e addirittura la conoscenza delle cose politiche, era, vista con gli occhi di poi, così parziale e distorta da non poter neppure essere definita, strettamente parlando, come una consapevole scelta politica antifascista. Non fu certamente un caso che Giovanni Guareschi, che nel Lager [Sandbostel] era stato il simbolo di una resistenza antitedesca, piena di humour e di umanità, doveva poi schierarsi con i neofascisti": pp. 26-27). Come scrive Rochat (Le diverse prigionie,
34
G. PROCACCI
to — che una generazione nata ed educata sotto un regime autoritario, che non aveva alcuna conoscenza del fatto politico, iniziò a discutere.51 La non adesione fu accompagnata talora da un’esplicita volontà di manifestare la propria condanna nei confronti della monarchia e del fascismo: “[Gli aderenti] cantavano tutti i vari inni fascisti [...]. Noi per dimostrare ai tedeschi il nostro pensiero, dal fregio del nostro berretto avevamo tolto la corona reale”: così ricorda un ufficiale, che soggiunge che ciò che lo aveva spinto resistere era stato “l’amore della patria”; una patria che non era quindi morta, in seguito alla caduta del fascismo e al tradimento della monarchia, ma che sopravviveva come valore da difendere.52 Al rifiuto di collaborare o aderire contribuì il giuramento (si consideri che, soprattutto tra i soldati, alcuni erano all’oscuro della fuga del re)53, inteso però da molti come principio di coerenza personale. Tra coloro che dicevano ‘no’, ve ne erano di due tipi. Gli ufficiali dei carabinieri e alcuni ufficiali effettivi dicevano ‘no’ perché dicevano: ‘Io ho giurato fedeltà al Re’. Questo era un giuramento che i tedeschi avversavano ma era l’unico che comprendevano perché era speculare al loro. [...] Poi c’erano quelli come Guareschi, ‘i figli di don Chisciotte’: ‘No, perché
cit., p. 24) si trattava di un "antifascismo 'esistenziale', che nasceva essenzialmente da una scelta morale dinanzi a circostanze estreme, e trovava alimento nella 'società dei lager'". Una conferma anche dalle testimonianze infra: "No, no la politica non entrava mai perché eravamo all'oscuro. Noi siamo cresciuti, almeno noi giovani, nel ventennio, nel fascismo, perciò non è che sapevamo" (Bertini); "Ad Hammerstein non si parlava di liberazione o di politica, si parlava soltanto di mangiare" (Generali). 51 "Si discusse molto fra noi nel campo, fra chi era deciso a un no assoluto e chi invece diceva: 'Una volta che sei andato là... insomma, io scappo e non mi faccio prendere' [...]. Ormai si erano formati diversi gruppetti..." (Gariboldi); "'Devono arrivare questi e questi [fascisti] per [farci] aderire'... allora facciamo delle riunioni..." (Galli); "Non è che ci fosse gran discussione di politica: era solo nel momento in cui venivano quelli là per cercare di far aderire il più possibile, che allora, magari, in quel momento lì si diceva chi ha ragione, chi non ha ragione" (Bertini). 52 E. Pradella. Queste parole, e in generale l'atteggiamento di molti degli intervistati, mettono in dubbio quanto affermato dai sostenitori della "morte della patria" dopo l'8 settembre; si rinvia a proposito alla nota 7. 53 "Prima di tutto io ci tenevo ad essere ufficiale del re. [...] Ero profondamente fedele al giuramento fatto al re. [...] Alla fedeltà al re forse si aggiungeva anche il sentimento di repulsione per tedeschi e fascisti" (Giovenzana, uff.); "Ognuno naturalmente aveva delle sue idee, ma direi che si doveva rispettare il giuramento che avevamo fatto, quello almeno per la parte ufficiali era alla base di tutto" (Gariboldi, uff.); "Io mi sentivo legato ad un giuramento, io ed anche gli altri, gli ufficiali più di noi erano... ma non tutti" (Montanari); "La spinta a rimanere sulle mie posizioni è stata il giuramento fatto alla Marina militare" (Gualdi, sottouff.).
Gli internati militari italiani
35
no, per dignità’. A me del giuramento fatto al Re non m’interessava niente, era soltanto per dignità. La risposta è no! Così eravamo noi.54 Era un giuramento generale, con la repubblica sociale non abbiamo mai avuto a che fare.55
Quando le richieste di adesione giunsero dopo il trasferimento nei campi, il rifiuto divenne simbolo di dignità personale, “un supremo tentativo — scrive Giuntella — di restare uomini in un contesto disumano”56. Questa sofferta scelta morale rese più coeso il gruppo e isolò chi ne usciva: gli “optanti”, che esibivano i privilegi alimentari guadagnati con la loro decisione, verso i quali veniva nutrito disprezzo (ma anche — come traspare da alcune testimonianze — una certa invidia, per essere riusciti a tornare in Italia); i capi campo, passati dalla parte dei tedeschi, e odiati più di questi ultimi; gli aderenti per fame, che ispiravano invece umana comprensione.57 Nel mantenere compatto il gruppo, nel convincere i più giovani a resistere alla fame e al degrado, contribuì in modo determinante l’azione degli anziani, e di alcune figure carismatiche: Credevano che finché fossimo rimasti nel campo noi, gli ufficiali in servizio effettivo, la resistenza sarebbe stata forte, ma si sbagliavano perché non eravamo noi il vero nocciolo duro, la resistenza più solida era invece data da altra gente, soprattutto da intellettuali e non sempre da militari di carriera. Il capitano Pinkel, che poi i russi hanno cotto vivo nella margarina, sapeva che la resistenza nel campo [Wietzendorf] faceva leva su tre, quattro personaggi. Nessuno di noi era per esempio di sinistra.58
Si venne a costituire così, nei campi degli ufficiali, quella “società dei lager” che permise ai detenuti di resistere fino alla fine, 54
O. Ascari (uff.). A. Mazzoni (uff.); "[Il giuramento] direi che quello lì non c'entrava; non c'entrava, insomma non credo che fosse quello. Era entrato uno stato d'animo, posso dire. Il giuramento, vista la figura che han fatto i nostri governanti..." (Lucchi, uff.). 56 Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 18. 57 Le valutazioni date dagli intervistati sul numero delle adesioni risultano inferiori alla realtà (soprattutto quelle espresse dai soldati): 1%, 5%; o addiritura "1 per mille" (Andreoli),"solo il trombettiere" (Fregni); fatto indicativo dell'estraneità al fenomeno della gran parte dei combattenti IMI. I motivi che gli intervistati attribuiscono a coloro che decisero di optare non si differenziano da quelli già noti: all'inizio l'ideologia, e anche le possibilità di fuga, le minacce ai familiari; in seguito, la fame. 58 Testimonianze di Gariboldi e O. Ascari, infra. Tra le personalità citate nelle testimonianze (infra), spiccano i nomi di Guareschi, di Novello, di Gianrico Tedeschi. 55
36
G. PROCACCI
di reagire alla spersonalizzazione prodotta dalla vita reclusa, dalla mancanza di notizie, dalla fame e dal senso di abbandono.59 La presenza di un gruppo di sostegno, così fondamentale per la resistenza e la sopravvivenza morale e mentale degli internati, ebbe riscontro però solo nei campi degli ufficiali. I soldati si aggregavano in due, tre, per fornirsi l’aiuto e la difesa indispensabili per sopravvivere. Anche per le difficoltà stesse derivanti dal lavoro disperso, solo raramente si formava un gruppo (se ciò avvenne, fu dopo la smilitarizzazione, per l’acquisita libertà di movimento, e spesso per l’incontro con militari appartenenti allo stesso paese o alla stessa zona d’Italia). Come si evince dai racconti, la lotta per la sopravvivenza non lasciava spazio per la solidarietà,60 come non lasciava tempo per momenti di raccoglimento o di divago.61 Per quanti furono costretti al lavoro coatto, le condizioni peggiori erano quelle del lavoro dequalificato — lo sterro, il trasporto di materiali pesanti, il lavoro in miniera, quello nelle fonderie —, al quale furono soprattutto assegnati, oltre ai deportati politici e razziali, i prigionieri appartenenti alle popolazioni più disprezzate, gli italiani e i russi. Il lavoro in fabbrica era di norma più accettabile, anche perché talora gli operai potevano usufruire di razioni alimentari meno ridotte; ma, come contropartita, vi era l’incubo dei bombardamenti.62 Sicuramente migliore era il lavoro in cam-
59 La resistenza veniva alimentata, nei campi degli ufficiali, da iniziative culturali, corsi, e soprattutto da un'azione capillare quotidiana: V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, cit., p. 114. 60 "All'interno del campo non si poteva cercare di aiutare gli altri, spesso anzi si doveva stare attenti anche agli stessi prigionieri italiani [...] tra noi eravamo più capaci di bisticciare che di aiutarci, in quei casi lì ognuno pensa per sé" (Ballocchi); "Fra noi c'era anche chi rubava il mangiare a degli altri! In baracca si faceva compagnia però ognuno di noi doveva agire per se stesso. Non c'era chi aiutava" (Fognani); "Dopo ho iniziato a pensare solo a me a sopravvivere" (Cecchelli). Anche tra gli ufficiali "la solidarietà esisteva fra tutti e fra nessuno. Uno pensava per sé, c'era dell'egoismo. Infatti, arrivava un pacco, di solito ognuno se lo teneva per sé. Era un'autodifesa" (Mazzoni). Spesso la solidarietà non esistette nemmeno al momento delle razzie, successive alla liberazione: "'Questo è mio, lo tengo io!'. Questa era la psicosi che avevano prodotto tanti mesi di prigionia e privazioni. C'era gente che dormiva tenendo abbracciati pacchi e pacchi di sigarette" (Giuliani). 61 "Non si parlava di religione, non si parlava di niente. Non ce ne sarebbe stata nemmeno la voglia di parlare religione" (Fregni); "avevamo altro da pensare... c'era la resistenza in ballo" (Galli). 62 "La Rhur intera era bombardata e mitragliata in continuazione, pensate essere dentro una baracca di legno o in fabbrica, era un inferno, dieci-dodici bombardamenti per notte fra bombe e contraerea non si dormiva più, ci auguravamo tutti che in qualche modo finisse, o una bomba o qualcos'altro" (Roseo).
Gli internati militari italiani
37
pagna, per la possibilità di nutrirsi e di vivere in locali in qualche modo riscaldati: ma era quasi sempre un lavoro temporaneo. Alcune interviste ci rivelano che qualcuno riusciva a trovare degli arrangiamenti che gli permettevano di non soffrire la fame, e talora di aiutare anche i compagni: lavorando alla mensa, in un mulino, in uno zuccherificio, alla distribuzione dei pacchi, facendo il sarto, in un ospedale per cavalli ecc. Coloro che non si abbandonavano alla disperazione e alla passività, e reagivano, riuscivano a crearsi delle condizioni di vita migliori; in posizione decisamente meno umiliante si ponevano quanti conoscevano il tedesco, e anche quanti mantenevano un minimo di decoro esterno: allora non erano considerati più degli schiavi, ma degli uomini.63 Decisamente buona fu la condizione di quegli ufficiali che, avendo accettato di andare a lavorare, erano stati inviati in centri di addestramento professionale, o a svolgere lavori consoni alla loro professione.64 Una prova ulteriore che le terribili condizioni di vita e di lavoro erano collegate alla volontà punitiva dei nazisti. Il mutamento di status dell’estate del 1944 non modificò il trattamento dei soldati riguardo all’orario di lavoro e alle razioni alimentari. Ma, come si trae da alcune testimonianze, la maggiore libertà acquisita permise loro di procurarsi del cibo al di fuori dal campo, attraverso scambi, lavori presso privati la domenica, qualche furto di patate e di altri generi.65 63 "Avevo capito un'altra cosa dai tedeschi [...] che bisognava essere puliti, ben rasati, sempre lavati, mai... e neanche troppo melensi [...] essere meno straccioni possibile" (Galli)"; “Io mi lavavo e cercavo di lavare la roba, ma c'erano quelli che non si lavavano, erano disperati e prendevano il mondo come veniva, tutti stracciati [...]" (Fognani); "Chi sapeva parlare un po' di lingua tedesca, allora lui lo rispettavano anche" (Ballocchi). 64 "I tedeschi, molte volte chiedevano degli specialisti; per esempio geometri, ingegneri, più che lavoro manuale perché lì avevano i soldati per fare i lavori manuali" (Lucchi). Generali, su consiglio del proprio comandante di baracca, accetta di andare presso una scuola di apprendistato di meccanica vicino a Stettino: "Lì la fame è scomparsa, mangiavamo a tavola [...]. L'alloggio era pulito ed ordinato [...]. Ci permettevano di fare una doccia tutti giorni quando rientravamo dalla fabbrica e ci lavavano anche la biancheria [...]. Avevamo anche 4 ore alla settimana di lezioni di tedesco". Mazzoni viene inviato a seguire un corso di meccanica, dopo esser stato nei campi di Wietzendorf e Dusseldorf: "Ad Amburgo si mangiava bene". 65 "Ci sono stati cambiamenti significativi, essenziali. Andavamo a lavorare da soli e alla sera quando eri stanco ti mettevi a dormire; prima dovevi aspettare l'appello [...] è stata una liberazione! [...] andavamo al cinema, e poi c'erano i rapporti con i civili [...] ci davano dei marchi, la fabbrica ci pagava uno stipendio" (Vaccari). Vi sono anche pareri contrari: "Per noi non è poi che sia cambiato niente, abbiamo seguitato a lavorare in fabbrica, e non è poi che fossimo tanto liberi! Nel campo c'erano le sentinelle come prima [...] hanno continuato a darci da mangiare quel
38
G. PROCACCI
I giorni della liberazione furono giorni di caos: scomparse le autorità del campo e gli stessi abitanti, gran parte degli IMI fu abbandonata a se stessa, senza possibilità di rifornirsi di viveri se non attraverso furti e razzie. Poi l’arrivo (o l’incontro quasi casuale) con i russi — con i cui prigionieri gli italiani dichiarano indistintamente di aver sempre fraternizzato, e che, anche per questo, trattarono gli IMI con umanità66 —, con gli inglesi, cui viene invece rimproverata la freddezza venata di disprezzo, con gli americani, considerati i più generosi e cordiali.67 I russi, gli inglesi e gli americani permisero agli ex detenuti di compiere rappresaglie e saccheggi, per un periodo di tempo limitato (da alcune interviste si trarrebbe che gli americani cercassero di evitare le vendette fisiche). E alcune rappresaglie verso i guardiani tedeschi o verso gli italiani che avevano funto da intermediari e avevano vessato i connazionali, furono atroci: Siamo stati liberati dagli inglesi — i topi del deserto, sa... quelli di Montgomery, quelli con la bandiera gialla con la morte nera sopra — riferisce un ufficiale —. Sono arrivati con i carri armati, ma non sono entrati niente di prima" (Capitani). Alcuni riconoscono che anche per gli ufficiali vi fu un certo miglioramento materiale: chi aveva alla fine accettato il lavoro ("se uno minaccia di spararti, allora vai a lavorare"), aveva infatti da mangiare: "Almeno mangiavamo qualcosa, ci davano una sbobba a mezzogiorno abbastanza buona. Avevamo il vantaggio alla sera, quando uscivamo dal lavoro alle sette, prendevamo di corsa il tram che ci portava in una zona del centro dove c'erano dei ristorantini che accettavano i soldi che ci davano loro per il lavoro" (Morsiani). 66 In grande maggioranza le testimonianze sono favorevoli ai russi, anche se viene sottolineata la grande disorganizzazione che esisteva fra le loro fila: "Non erano troppo esigenti e ti trattavano come i loro. Anche se il grosso problema era un po' la confusione che c'era tra soldati russi" (Biagini); "I russi erano un esercito molto disorganizzato, un esercito arrivato così dalla fossa. Sono arrivati con tutta gente reclutata di tutti i tipi: bambini, ragazzetti, vecchi e anche donne. [...] Male non ci hanno trattati" (Balugani); "I russi sono molto disorganizzati, ognuno dice una cosa diversa e i soldati sembrano comandare più degli ufficiali, è il primo che arriva che dà ordini, non il più alto in grado" (Ghirardelli); "La disorganizzazione russa era tanta [...] lavorare non ci hanno fatto lavorare a parte una volta o due, ma ci davano da mangiare bene (Vaccari); "Ci hanno portato a Hemer il 18 settembre del '44. Un campo che era in mano ai russi... Dei quali noi abbiamo un ricordo stupendo, a parte che erano sporchi, sì l'igiene non era molto..., però come ci hanno accolto, come ci hanno offerto persino le loro baracche" (Pradella). Ma alcune voci sono discordi: "I russi ci hanno sempre trattato da maiali" (Costi). 67 Alcune testimonianze ricordano che, a parte i russi, tutti gli altri accolsero con poca simpatia gli italiani, che erano "quelli della pugnalata alla schiena" per i francesi, i fascisti per gli inglesi, gli invasori per gli slavi ("Noi eravamo odiati da tutti": W. Rossi). Gli intervistati concordano sulla freddezza degli inglesi: "Loro ci trattano un po' duramente. Anche lì c'è proprio il disprezzo nei nostri confronti" (G. Gozzi); "Perquisizioni a tappeto, mangiare pochissimo, libertà poca. Erano peggio dei tedeschi, gli inglesi" (Fregni); "Sotto gli inglesi stavamo peggio che sotto i tedeschi" (Pradella).
Gli internati militari italiani
39
dall’ingresso... no, sono passati sopra il filo spinato, lo hanno travolto. Noi siamo accorsi tutti a festeggiarli, i tedeschi sono usciti dalla loro baracca e hanno deposto le armi, lì ai loro piedi davanti ai carri. Gli inglesi allora ci hanno lanciato sigarette, centinaia di pacchetti, e noi ci siamo messi a raccoglierne più che potevamo, tutti tranne i russi. I russi rimasero in piedi a fissare il comandante inglese, fissavano lui e fissavano i tedeschi. A un certo punto l’inglese fa un cenno di assenso con la testa, allora i russi si impossessano delle baionette, dei fucili dei tedeschi e con queste li hanno fatti a pezzi tutti. Ma letteralmente fatti a pezzi, pensi che a me è arrivata una mano a mezzo metro. Non ci fece più di tanto impressione, sapevamo quello che i russi avevano subito, sapevamo che dovevano vendicare i loro compagni uccisi e lo sapevano anche gli inglesi perché non mossero un dito. Non fecero niente neanche quando questi russi presero il comandante del campo e lo affogarono nel camion degli escrementi.68 I capi campo li hanno ammazzati tutti [...] il capo campo nostro è scappato via, è andato in un altro campo [...] quando arrivano i suoi del campo, lo trovano lì e si vedeva una fiumana di gente...lo facevano fuori, sbranato. Una gamba da una parte, un braccio dall’altra, la testa dall’altra...niente, lo strappavano così. [...] Erano più cattivi, i capi campo, che i tedeschi.69
Non tutti gli IMI riescono — con mezzi di fortuna, e anche a piedi — a tornare presto in patria: a certuni la sorte ha riservato la detenzione in campi di concentramento russi, dove restano mesi, anche anni prima di rivedere le loro case; molti non torneranno mai (come ci testimonia la relazione al convegno di Claudio Sommaruga). Gli intervistati che hanno vissuto nei campi russi danno versioni non sempre concordi: per alcuni i russi sono umani, non applicano una disciplina rigida, ma sono totalmente disinteressati della sorte dei prigionieri, che devono arrangiarsi per non morire di fame; per altri, e soprattutto per un internato restato nei campi russi insieme con i prigionieri tedeschi, non vi era differenza con i tedeschi.70 68 Intervista realizzata da E. Barbasso all'ufficiale D.T. (Torino 1916), detenuto nello Stalag XB: tesi di laurea, a.a. 1992-1993, Dipartimento di Economia politica, Facoltà di Economia, Università di Modena e Reggio. 69 P. Fregni, infra. 70 (Per le testimonianze sulla disorganizzazione dei russi, v. la nota 66)."Ho capito che non vi era differenza con i tedeschi, nessuno si è interessato di noi, chi eravamo, cosa facevamo, da dove venivamo. [...] Nei campi di prigionia russi sono sempre i tedeschi a comandare e ogni ingiuria che potevano farci la facevano. [...] I russi trattano i prigionieri uguali sia tedeschi che italiani. [...] Non riesco a scordare la prigionia in Russia, soprattutto perché ho sofferto molto il freddo, ho avuto la sensazione di morire diverse volte, cosa che con i tedeschi non mi è mai successo"
40
G. PROCACCI
Infine il ritorno e l’accoglienza. Secondo quanto risulta da alcune testimonianze, in molti era radicato un forte sentimento di amarezza già prima dell’arrivo in Italia, per l’abbandono di cui si erano sentiti vittime: “I figli di nessuno tornano a casa” scrissero gli IMI su di un treno che li riportava in Italia dalla Siberia.71 Giunti in Italia, i rimpatriati vennero accolti con diffidenza: lo stato, dopo averli sottoposti ad interrogatori in base ai quali molti rischiarono di essere considerati collaborazionisti per aver accettato di lavorare, dette loro un compenso irrisorio.72 La fondazione dell’ANEI venne vista con sospetto dalle istituzioni.73 Gli ex internati incontrarono ovunque un “ambiente di diffusa, inspiegabile incomprensione, spesso di indifferenza, quasi di ostilità”74. Come già era avvenuto nelle guerre precedenti, il prigioniero, “l’uomo disarmato”, non trovò nell’Italia del dopoguerra, che aveva combattuto per la propria liberazione, un clima e una cultura (Vezzelli). Le testimonianze sul soggiorno nei campi, dopo la liberazione, sono discordi: "I russi sono stati molto ospitali. [...] Ci consideravano come degli alleati" (Tassi); "[Nel campo] ci davano da mangiare, ma poco. Bisogna però dire che non ne avevano neanche di più per loro" (Cottafavi); "Sotto i russi... stavo meglio con i tedeschi [...] pretendevano troppo dagli italiani" (Rocchi); "Ci facevano lavorare ma ci trattavano abbastanza bene. Si mangiava quello che si poteva. Eravamo andati a finire dentro una cittadina ed ognuno si arrangiava, eravamo liberi" (Giberti). 71 Testimonianza di Remo Bazzani, raccolta da Silvia Passini. "L'Italia non la ringrazio per niente. Ci hanno abbandonato tutti. Non ci hanno dato niente a noi. Eravamo in 17 nazioni lì dentro, a tutti ci arrivava della roba, solo noi italiani non eravamo assistiti da nessuno" (Lotti). 72 "Erano increduli; se non avessi presentato le cartoline prestampate che distribuivano ai prigionieri nei lager, non mi credevano" (Lucchi); "Non ho avuto mai nulla dall'esercito" (Capitani). Come precisa Rochat, "l'impatto con le strutture militari fu quasi sempre sconcertante: i reduci vennero interrogati sulle circostanze della resa e non sulle vicende della prigionia, e le loro magre spettanze furono decurtate da quote per il 'vitto e alloggio', di cui avevano fruito in terra nemica": G. Rochat, I prigionieri di guerra: un problema rimosso, in Una storia di tutti, cit., p. 1. Per la totale incomprensione del problema da parte di Parri (poi ricredutosi) e di De Gasperi v. V. E. Giuntella, L'Associazione Nazionale Ex Internati e la memoria storica dell'internamento, in I militari italiani internati dai tedeschi dopo l'8 settembre, cit., p. 71; Sommaruga, Introduzione, in Dopo il Lager, cit., p. 33. 73 Quando nel '45 l'ANEI, appena nata a Torino, volle diventare nazionale, trovò resistenze nelle pubbliche autorità. Una circolare riservata del Ministero dell'Interno così si rivolgeva ai prefetti: "Si pregano le SSLL di impartire agli organi dipendenti riservate istruzioni perché, in linea generale, non vengano favorite iniziative simili a quella segnalata": A. Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro 1998, p. 31. L'ANEI verrà poi istituita, e riconosciuta giuridicamente, il 2 aprile 1948 dal governo De Gasperi, alla vigilia della prova elettorale. 74 "L'Unità democratica", 4.9.45, cit. da C. Silingardi, op. cit., p. 13 (il giornale era l'organo del CLN modenese). A queste conclusioni giunge anche A. Righi, attraverso una ricerca sui principali giornali del Modenese; la stampa non affronta mai, se non nelle cronache locali, le vicende degli IMI: tesi di laurea, a.a. 1997-1998, Dipartimento di Economia politica, Facoltà di Economia, Università di Modena e Reggio.
Gli internati militari italiani
41
disposti a riconoscere la sofferta esperienza della prigionia, e l’eccezionale fermezza dimostrata dagli IMI. Ricorda un intervistato: Qui da noi la Resistenza non ci ha mai riconosciuti, si è sempre parlato solo di Resistenza, per l’amor del cielo, io contro la Resistenza non ho niente [...] qui si parlava sempre e solo di Resistenza, di partigiani, in effetti molti hanno fatto il loro dovere, nessuno lo nasconde, io lo riconosco per primo... [ma gli internati sono stati] dimenticati, dimenticati...75
Spesso non trovavano lavoro, talora neppure il riconoscimento delle loro sofferenze da parte dei familiari: Ti credono esagerato. Perché quello che abbiamo visto noi in Germania è una cosa talmente grossa che non possono credere. Loro non credevano neanche. Poi i giovani dicono perché non facevate questo e quello...76
Ogni ex internato si ritrovò solo. All’identità collettiva — che, almeno nel caso degli ufficiali, aveva costituito il momento di forza e di sostegno durante la prigionia — fecero posto, come scrive Labanca, “sentimenti molteplici (volontà di dimenticare, coazione a ricordare, novità legate al reinserimento nella società civile e all’assunzione di altre identità: di lavoro, di vita, di collocazione ideologica)”77. Alcuni cancellarono l’esperienza dalla memoria per decenni.78 Altri si chiusero nel silenzio; che ruppero per la prima volta al momento dell’intervista. 75
G. Montanari, infra. Testimonianza di Meschiari e di Biagini, infra. Dura anche l'esperienza di chi era passato per i campi russi: "Non potevo raccontare la mia esperienza in Russia perché altrimenti diventavo anticomunista e non venivo accettato, per cui ne parlavo solo in famiglia quando me lo chiedevano, ma loro non si rendevano conto che il comunismo non era quello che credevano. [...] Io non posso dire che in Russia stavano bene, non posso dire che l'economia andava bene in Russia, perché tutto veniva trascurato" (Vezzelli). C'è anche chi non riceve alcuna domanda: "Come arrivo a casa, mia madre mi dice: 'Hai dei soldi che vado a comprare qualcosa?'. E io le ho detto che non avevo niente. [...] Al pomeriggio sono andato dove lavoravo e mi hanno detto che potevo cominciare domani. Ho fatto mezza giornata di riposo" (Costi). 77 Cfr. il saggio infra; come nota Rochat, gli IMI respingevano la politicizzazione delle associazioni partigiane, ma non potevano accettare il reducismo apolitico delle associazioni combattentistiche tradizionali (G. Rochat, Memorialistica, cit., p. 25). 78 "C'è stato un periodo in cui la mia memoria era non dico zero ma quasi. Avevo una memoria visiva, ma non il ricordo dei fatti" (Dallari). Fu questo anche il caso di Sommaruga: "Rimossi dal mio io questa assurda e orrida storia rivivendola 76
42
G. PROCACCI
Ho cercato di dimenticare la mia esperienza, mi ci è voluto del tempo per capire che la vita continuava, non capivo chi si divertiva, chi andava a ballare, mi facevano rabbia. [...] Della mia esperienza dettagliata come ho fatto adesso non ne ho parlato con nessuno. L’ho fatto con lei, perché mi sembra interessato. Ho anche cercato qualcuno per scrivere un libro, ma a chi interessa la mia storia? A chi serve?79
per trentacinque anni dal di fuori, come se non mi riguardasse e l'avessi solo vista al cinema": C. Sommaruga, "Meglio morti che schiavi". Anatomia di una resistenza nei lager nazisti, "Studi piacentini", 1988, n. 3, p. 222. Il mio incontro con il dott. Sommaruga — in un convegno sulle "diverse prigionie" —, la successiva intensa corrispondenza, attraverso la quale conobbi le vicende del suo internamento, sono stati lo stimolo principale per la ricerca sulla memoria degli internati e dei deportati del Modenese. 79 Testimonianza di Bruno Vezzelli, infra. Cfr. anche Bartoli: "Non ho raccontato niente della mia storia. Lo faccio adesso, ecco, ma non l'ho mai fatto prima perché non ne voglio sapere".
INTERNATI MILITARI ITALIANI CINQUANTOTTO INTERVISTE a cura di Giovanna Procacci
GASTONE AMICI - 1917 - Modena - Soldato […] E dopo, come è cominciato i primi momenti in cui si conosceva che cominciava a venir brutto, che si andava verso la guerra, allora mi hanno mandato vicino a Trento, a controllare i moschetti del reggimento perché con tutti i richiamati... C’erano 4.000 moschetti, ne ho fatto un mucchio, poi a un bel momento son venuto a casa; ne avevo trovati 200 su 2.000 buoni. Eran tutti quelli della del ‘14. Son andato a casa: “Guardi, così... e così”, “Va bene, va bene”... mai più detto niente. C’eran solo quelli lì, con tutti i richiamati, gli davan quelli lì. […] Sono stato 17 giorni in Grecia, poi ci han preso. […] Siamo stati catturati per la viltà, bisogna dire, degli ufficiali, perché addirittura ci hanno svegliato al mattino, non c’era più neanche un ufficiale. No, è stato una sera, non c’era più neanche un ufficiale, ci hanno inquadrati, ci hanno fatto fare il giro della cittadina che era Volo, in Grecia, e poi ci hanno portato in un cortile e al mattino sono arrivati i tedeschi. […] Spediti con promessa di mandarci in Italia. Ci hanno disarmato e poi ci hanno mandato sul treno, senza nessuna guardia, così. Per 17 giorni abbiamo viaggiato. Era più il tempo che stavamo fermi per dare passaggio alle truppe tedesche che andavano in Grecia... […] Nel viaggio abbiamo sempre pensato proprio che ci mandassero in Italia. […] Nessuno ci dava da mangiare, ma ne avevamo portato un po’ con noi. E poi andavamo nei paesi, quando si fermava il treno, fuori binario, a cercar da mangiare. […] Non ce n’erano di tedeschi. C’erano solo nelle stazioni, un sottufficiale. E quando siamo arrivati in Croazia, perché, c’era un treno, io ero in un vagone scoperto, ce n’erano alcuni di vagoni scoperti, sfondati, così, e gli altri eran vagoni coperti. Ritenevamo, dato il caldo, di essere stati fortunati; solo che in Croazia siamo stati assaliti dagli Ustascia. Ci hanno portato via tutto quello che avevamo nei vagoni scoperti. Poi è saltato fuori quel sergente maggiore che era di servizio lì, con una mitragliatrice, ha cominciato a sparare contro i vagoni e sono scappati. […] Siamo arrivati al campo di lavoro e purtroppo era una fabbrica di munizioni. […] Riesa, in Sassonia. […] Dopo un mese circa è arrivato un giornalino dall’Italia; si chiamava «Patria», e quello che scriveva era Giorgio Almirante, me lo ricordo... qua guardi non ce l’ho, mi spiace perché i giornali, non c’avevamo neanche
44
G. PROCACCI (a cura di)
carta, li usavamo per il gabinetto, ma se avessi saputo chi fosse, perché non sapevamo neanche chi era... e ci diceva di passare dalla parte dei tedeschi e venire in Italia a difendere la patria perché qua stanno massacrandosi qua e là... […] Dopo questo giornale, dopo quindici giorni, nella fabbrica ci hanno riuniti tutti; c’erano due ufficiali tedeschi, uno mi pare fosse anche un tenente italiano, con un interprete, che ci spiegava, chi voleva venire là, chi vuol venire sarà trattato bene, faccia un passo avanti. Eravamo in 80 lì, uno. Uno ha fatto il passo avanti; dopo due giorni ce l’han rimandato. Era un bergamasco; l’han mandato indietro, cosa se ne facevano? Sai, erano rimasti male i tedeschi, eh. C’avevano diminuito mezz’etto il pane. […] Dunque, estate o inverno, ci svegliavano alle sei del mattino, con dei ghiacci che non riuscivamo neanche a lavarci perché le fontane erano all’aperto. Alle 7 si partiva, ma anche prima, alle 6:30; perché dovevamo fare quattro chilometri a piedi per arrivare al posto di lavoro. Quando arrivavamo là, andavamo ai nostri reparti, ci venivano a prendere i capi e poi si lavorava fino a mezzogiorno. Ci davano mezz’ora, tre quarti d’ora, non mi ricordo. Probabilmente mezz’ora perché avevano bisogno di lavoro e poi si tornava a lavorare, e la sera lo sapevi poi quando eri a casa quando tornavi indietro. A caricare dei vagoni di munizioni in continuazione; il fronte ne richiedeva sempre di più ma bisognava fare quel che si poteva. […] C’erano dei russi e dei prigionieri civili. Avevano un vestito particolare: avevano un vestito nero con una striscia gialla, i civili. […] C’erano dei francesi, pochi; americani ed inglesi neanche uno, perché a loro ci arrivavano due pacchi al mese di cinque chili. […] I francesi erano trattati come gli inglesi e gli americani. A loro ci arrivavano i pacchi, a noi... perché noi non eravamo associati alla Croce rossa. […] Solo una volta ci ha mandato mezzo chilo di riso e mezzo chilo di zucchero, il Vaticano. […] E pacchi gliene hanno spediti? Spediti due, me n’è arrivato uno con due pezzi di salame, uno differente dall’altro... quando son venuto a casa gli ho detto: “Avevate solo dei pezzi di salame da spedire?”. E mi han detto: “No, noi li abbiamo mandati interi.” Il tedesco, quando ci hanno aperto il pacco davanti a noi, c’erano i timbri e i piombi di Modena, han detto se ti manca qualcosa noi... ed era vero. L’avevano rubato a Modena, quando han fatto la spedizione in Corso Vittorio. Son tornati indietro, glielo hanno aperto, ricucito, ripiombato e ne han tagliato via metà. […] Parliamo di alloggio? Dunque, era una baracca che c’eravamo dentro in 80. Se fosse stato un ospedale con pochi posti, al massimo 30. Erano così, si toccava il soffitto. C’erano tre posti letto. […] Siamo arrivati lì in 120 perché eravamo in due baracche, di italiani, per Natale eravamo in 80, eh, tutti morti. […] Si ricorda di perquisizioni o magari angherie da parte dei soldati? No. No, perché eran tutti vecchi, tutti territoriali, gente che aveva dei figli al fronte, magari morti. […] E con la popolazione civile tedesca avevate contatti? Eravamo a contatto con quelli che lavoravano. Ma era della brava gente, anche loro. Anche quelli erano tutti vecchi a parte le donne. […] Dovevamo essere liberati dai russi ma noi siamo arrivati sul ponte dell’Elba, lì a Torgau e ci han fatto passare di là gli americani.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
45
[…] C’era chi piangeva. C’era chi piangeva perché non restava più in piedi, perché sapeva che quando lo venivano a prendere che non lavorava più, dove lo portavano ci restava. Una volta siamo andati fuori a caricare, in una fattoria, a caricare delle munizioni perché le avevano sparse in tutti i casolari, ma portarle dentro...; e nel tornare indietro ho visto una fetta così di pane bianco in terra; son saltato giù dal coso, poi son tornato perché il trattore andava piano. A salire su, eravamo in tre; l’ho diviso in tre, un pezzettino per uno. […] Noi ci conoscevamo tutti, oramai, perché sai, erano dei mesi che eravamo lì. C’era dell’amicizia, sì... ma della severità; perché c’era sempre qualcuno che rubava un torsolo di mela... insomma... Quindi era sempre un’amicizia segnata... Dalla severità. Perché uno è stato una settimana senza pane per avere rubato; e poi l’ho schivato da... ho detto basta perché sennò lo facciamo morire. È rimasto senza pane perché voi avevate deciso di punirlo, insomma. Sì, sì. Era una legge che abbiamo fatto subito, quando si è visto la miseria che avevamo da mangiare; chi tocca il mangiare... […] Il nostro compito era, quando arrivavano dentro i vagoni dal fronte, raccogliere tutti i bossoli dei fucili, delle mitragliatrici, insomma tutti i bossoli fino alla 20 mm; per farli ricaricare perché oramai si era alla fine. Ed ultimamente, i bossoli li facevano di ferro; il ferro si espande di più e bisognava dividerli, fonderli e rifarli, dall’ottone. Quello era il nostro compito. E poi di caricare le munizioni nuove. Avevamo uno di quei carrelli elettrici lì... La squadra di lavoro da quante persone era composta? Eravamo in tre noi, più il capo, sì, quello che ci guidava. Lui sapeva dove si doveva andare. Quello è stato il mio compito per due anni circa. […] C’erano di quelli che si lasciavano andare giù, proprio demoralizzati; e tanti poi sono morti per il fumo. Davano via il mangiare per il fumo; ho bisticciato anche con vari che vendevano il mangiare per il fumo. Perché ci han dato un pacco di sigarette da 100 una volta, di papiroska russe che... Chi ve le ha date? I tedeschi. Che ci voleva solo il coraggio dei russi a fumarle. Erano dure come chissà! Allora quelli che hanno fatto quella fine lì, bastava fumare, nient’altro; non ci interessava il mangiare, sono morti tutti. Addirittura fumavano le bucce delle patate. Facevano le sigarette con le bucce delle patate perché sigarette non ce n’erano mica. […] Quando sono arrivati i russi con gli aerei, noi ci facevan girare lo stesso, eh; bassi, insomma penso che venivano fino ad una trentina di metri, ci salutavano, e noi salutavamo loro; però se vedevano uno in bicicletta o con un fucile, ci davano una raffica subito. Un giorno, lo han fatto per due o tre giorni, e poi han visto che fuori dal campo, c’era un prato enorme con tutte delle case tutte uguali; erano i depositi di polvere, perché ci andavamo anche noi là. Erano intelaiature in legno e sopra erano catramati; chissà, gli è venuta voglia, e gli hanno dato una raffica e... ci fu una vampata, perché se non è chiusa non fa niente. […] Perché poi quando siamo stati liberati, non avevamo nessuno che ci dava da mangiare. Ed allora, quando siamo passati dal ponte dalla zona russa, lì alla zona americana, siamo stati due o tre giorni, o quattro o cinque, dentro in una caserma.
46
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Un’enorme caserma dove c’erano migliaia tra russi e italiani, in particolare. Ed allora bisognava andarsi a trovare da mangiare. Quel mio amico lì, non aveva mica un gran coraggio. Siamo partiti in una squadra, le fattorie là sono lontane l’una dall’altra; eravamo arrivati in una ma ormai c’era già stata tanta gente. Allora avevamo dei marchi suoi che gli avevano cambiati e, non mi ricordo, siamo andati dentro una fattoria ed abbiamo chiesto se avevano roba da mangiare; pagandola, naturalmente. […] Dal campo chi è che vi ha liberati? Dal campo di lavoro? Hanno lasciato aperto e sono scappati via tutti. Perché avanzavano i russi? Sì. Stavano minando il ponte di cui gli ho detto prima, tutta la fabbrica. Anche loro avevano un controllo oramai... Quindi non c’è stato l’arrivo dei soldati russi nel campo, processi sommari. Neanche americani. Sono scappati loro. Però quelli che prendevano, che li trovavano in fila coi profughi, li vedevi impiccati, eh! Li impiccavano tutti i soldati. […] SERSE ANDREOLI - 1920 - San Possidonio (Mo) - Soldato Dove eravate di stanza all’8 settembre ‘43? Eravamo ai confini con la Grecia. […] Io l’8 settembre ero all’ospedale. Mi era venuta una febbre, credevo che fosse la febbre della malaria, perché in Albania c’era la malaria e non era una febbre così, che era venuta... così. Comunque, quando è venuto l’8 settembre all’ospedale, non sono venuti là a farci prigionieri i tedeschi. Dopo mi han lasciato, sono andato fuori e dopo sono andato con tutti gli altri che son stati fatti prigionieri, perché non sapevo dove andare. […] Sì, ci hanno raccolti e poi dopo ci hanno imbarcati su una nave e poi durante il tragitto c’è stata anche una cosa: che lì c’erano i tedeschi, la nave era italiana, ma chi comandava la nave erano i tedeschi, forse era, magari tutti quelli che maneggiavano la nave insieme al capitano, tutta quella gente lì, forse erano italiani, adesso non lo so, non lo so neanche, perché sa, quando si è prigionieri, si sanno tante poche cose. Però quando siamo stati ad un certo punto, facevamo sempre la costa, vicino alle “Bocche di Cattaro” c’era una artiglieria tedesca che controllava la spiaggia, han cercato di frenare la nave, e i tedeschi che erano a bordo con il megafono facevano capire chi erano, la nave era guidata da loro che insomma erano loro che comandavano la nave. Però quelli là avevano capito o non avevano capito, loro han sparato prima un colpo davanti, di cannone, e poi un altro di dietro, la nave non si è fermata, han sparato a bordo e ci sono stati 16 morti e 30 feriti. […] E poi dopo siamo andati via in treno fino in Germania. […] Non vi avevano dato da mangiare durante il viaggio? Durante il viaggio non ce l’hanno mica dato, perché ci eravamo arrangiati un po’ prima noi e qualche cosa avevamo. Insomma siamo arrivati affamati. Quindi siete arrivati al campo affamati. E allora loro, con quella fame lì, son venuti con dei cestoni di pagnotte, ci è venuto quelli delle Brigate, cioè delle Brigate nere, che erano loro gli
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
47
italiani, che ci spiegavano che se andavamo con loro, ci portavano in Italia e tante belle cose che non stavano tutte a delle belle cose. Però sarà venuto fuori l’uno per mille. Si qualcuno è venuto fuori. Poi dopo noi ci hanno smistato, chi da una parte chi dall’altra. Io sono andato a finire in una miniera, una brutta roba. […] La miniera era fonda tre pozzi. Si andava sotto terra tre, c’erano tre ascensori, io penso che fossero, che so, 300 metri, non lo so quanto, erano molto fondi. Lì ci sono stato una quindicina di giorni, però capivo che lì era un brutto posto, c’era da lasciarci la pelle o venir fuori con i polmoni messi male. […] Ci davano delle, aspetti pure come si chiamano, le rape con la foglia, che erano amare e qualche carotina dentro, patate niente, quella roba lì, roba che era immangiabile, però la fame era così micidiale che la mangiavamo lo stesso. Tanto è vero che eravamo, perché noi altri siamo anche passati per militari internati civili, un bel momento, potevamo anche andare fuori. Questo ve l’han chiesto quando vi hanno passato lavoratori civili? No, ci hanno passato. Ve l’hanno comunicato e basta? Ce l’han comunicato e basta. Siam passati tutti così. […] Dopo mi è arrivato qualche pacco da casa, e allora lì le cose sono state un pochino, e poi siamo anche andati in mensa, perché là c’erano degli operai italiani ancora prima della guerra, che andavano di quelli stagionali anche, le donne per le barbabietole, per altri lavori e erano rimasti là, e avevano una mensa, quella mensa lì siamo stati... anche noi altri, mi è andata bene per un mese. […] Sì, ne ho ricevuti dei pacchi. E tanto è vero che io ero amico con un meridionale che lui non poteva avere i pacchi perché là c’erano gli americani, allora io ho scritto ai miei genitori, perché mi davano solo un, come si dice, si quel foglio da mandare a casa per avere il pacco, me ne davano uno al mese, e uno lo davano anche a lui, non guardavano mica dove stavi. Allora io ho scritto ai miei genitori che mandassero su lo stesso quel pacco lì a nome di quello lì, che era un mio amico, che dopo ce lo mangiavamo insieme. […] C’era unione, però eravamo tutti giù di morale che sembrava che non fossimo neanche amici, per dire, era il morale che era troppo basso. […] Com’era la vita nel campo? Gli appelli, la disciplina nel campo? Mah, non era male; poi gli appelli, gli appelli neanche tanti. Si, perché, cosa vuole, come le dico, allora eravamo liberi, potevamo anche scappare via, cioè potevamo andar fuori e non rientrare più, però ero in Germania. Voglio dire, gli appelli li facevano qualche volta, non li facevano mica sempre. Lei mi ha detto che son venuti quelli della Repubblica sociale a chiedere chi voleva... Si ma quello è stato tanto tempo prima. […] Voglio raccontare una cosa per la fame. Noi eravamo qui in una baracca e di là c’era un muro e c’erano delle baracche. Là c’erano i strafgefanger, li chiamavano, erano prigionieri che non potevano superare i 40 giorni, morivano, dopo 40 giorni. E una volta è venuto un apparecchio e ha buttato giù una bomba, e è andata, e è andata, e un tedesco è saltato per aria, e un pezzo di carne del tedesco è andato là dentro e l’han mangiato.
48
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Avevamo il massimo del mangiare, ci davano il massimo a noi altri perché passava per un lavoro pesante. C’erano i leggeri, i superleggeri, i pesanti e, insomma, era ridotto in tre, quattro categorie il mangiare; noi avevamo il massimo, però, era un massimo da poco. Era un filone di pane in 3 al giorno, era un filone non so mica cosa fosse, cosa fosse di peso, però, era così, io dico che c’era dentro della crusca, non so cosa c’era in mezzo, aveva poche calorie. […] Di queste cose qui ne ha parlato? Ma si, con dei miei amici se ne parlava, ma io ero sempre quello un po’ restio nel parlare, perché non mi piaceva, perché mi venivano dei brutti ricordi, e allora son sempre stato un po’ restio per parlare. Ah si, qualcuno che insisteva per me era barboso. Non ne volevo tanto parlare io, però delle cose belle non ce ne erano neanche una, tutte cose brutte, tutti i morti, i feriti, fame, tutte cose brutte erano quelle lì. GERMANO ASCARI - 1921 - Soliera (Mo) - Soldato […] Dalla Grecia dopo ci hanno imbarcati e siamo andati vicino all’Olanda. Siamo stati in giro per un mese; davano tutta la precedenza agli altri treni tedeschi militari, allora si passava tutti per la Grecia perché Tito aveva fatto saltare tutti i ponti. E allora siamo andati su dalla Bulgaria, non mi ricordo più Sofia, Skopje e poi siamo entrati in Austria, poi dopo su, su ai confini con la Francia. Poi dopo ci hanno mandato a lavorare al fronte a fare camminamenti, fosse anticarri, quelle robe lì. […] Quelli invece, che erano nella Prussia, erano pestiferi: quelli lì sì che erano delle SS! Gli olandesi invece non erano tanto male: quando potevano ci dicevano qualche cosa, quando magari succedeva qualche cosa di grosso. Quando ci fu ad esempio l’attentato ad Hitler, perché loro ascoltavano la radio e poi ce li venivano a raccontare. Oppure arrivava il prete, perché c’erano dei preti italiani che ogni tanto arrivavano nei campi, perché poi erano prigionieri anche loro; arrivavano e li mandavano dai vari capi erano poi dei cappellani militari, che loro ci informavano quando capitava qualche cosa, perché altrimenti noi non sapevamo mai niente. Ci facevano la guardia molti austriaci, tutta gente richiamata, gente anziana gente che ne aveva abbastanza della guerra e che tante volte ci ha trattato bene. Delle volte mi dicevano: “Dormi un po’ che qui ci pensiamo noi!”, allora noi potevamo fare un sonnellino e loro non ci facevano niente. Perché standoci insieme a questa gente per degli anni ci si era anche affezionati un po’ perché tutta ‘sta gente qui ti raccontava la sua storia: chi era contadino, chi era operaio... poi ti facevano vedere le fotografie, le mogli, i figli, i bambini che avevano lasciato a casa. […] Con noi avevamo solo degli internati di tutte le nazionalità: avevamo dei russi, dei polacchi, dei francesi molti perché i francesi erano prigionieri anche loro perché li avevano invasi dalla Germania. Invece inglesi e americani no: gli americani prigionieri erano messi in un campo da soli perché loro non lavoravano mica. Loro tutti i giorni giocavano a baseball, giocavano a pallone, e si vede che la sua Croce rossa era meglio della nostra, perché loro sì che avevano tanti tedeschi in mano loro e allora... forse sapevano farsi valere di più mentre invece i tedeschi non hanno voluto riconoscere la Croce rossa internazionale e allora noi italiani non ci
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
49
proteggevano per niente; noi e i russi eravamo quelli trattati peggio. In mezzo a loro c’era tutta la gente c’erano polacchi, ungheresi, che poi erano con i tedeschi anche loro… almeno i primi tempi ad esempio l’Ungheria era con i tedeschi. […] Francesi e americani li hanno mandati a casa subito, noi siamo venuti a casa dopo. Ah! Dopo tre o quattro mesi. E allora noi eravamo in quattro amici e siamo andati a lavorare con loro in cucina, con gli americani. Erano lì, era una divisione che era a riposo. Eravamo in un posto che era da villeggiatura, un posto che era una meraviglia: sotto c’era una cantina piena di champagne francese, però non hanno mica preso niente gli americani dopo hanno fatto… hanno chiesto al padrone, glielo hanno pagato e poi lo hanno bevuto. Però si comportavano così loro. Beh noi abbiamo lavorato nelle loro cucine dove erano quasi tutti italoamericani, erano quasi tutti figli di siciliani e così parlavano anche l’italiano mica proprio correttamente però ci capivamo. […] Ma c’è anche della gente che è tornata a casa addirittura dopo un anno o forse anche più. E quelli l’hanno passata ancora peggio perché noi ci hanno portato in Germania e già lì era brutta e invece loro sono rimasti in Jugoslavia, e i tedeschi a un bel momento sono spariti e non c’erano più e li hanno presi in consegna Tito e i partigiani di Tito e sono dovuti stare là un altro anno. Sono venuti a casa fino a quasi alla fine del ’46, tutti pelati, rasati. […] Ci davano delle lettere a posta sì, scritte anche in tedesco e in italiano. A me cinque o sei lettere me le hanno mandate a casa. Sì, sì, sì erano comunicazioni che però hanno cominciato ad arrivare a casa dopo circa un anno che i miei non sapevano niente. E poi mio padre mi aveva mandato anche dei pacchi: due o tre mi sono arrivati con un po’ di pane, delle sigarette, perché poi loro li aprivano e quello che gli interessava lo prendevano. […] Poi ci sono arrivate delle gallette. Mussolini ci ha mandato delle gallette, un regalo che ci ha fatto avere a noi prigionieri di guerra; e allora ci hanno dato qualche galletta, ma poca roba. Che poi erano piene di vermi. Ma io le ho mangiate lo stesso. Comunque è stato un periodo bruttissimo. [...] ODOARDO ASCARI - 1922 - Modena - Ufficiale […] In estate avrei dovuto fare tre mesi di corso ufficiali a Bassano del Grappa nel 1941 e tre mesi nel 1942, invece nel 1941 dopo soli tre mesi ci fecero dare l’esame e chi era promosso diventava ufficiale degli alpini. […] Noi che venivamo dalla pianura eravamo pochissimi e venivamo guardati con disprezzo: “Sacchi di merda”, “Alpini di quota zero”, etc. Io ci sono andato perché avevo l’impressione che quegli uomini della montagna fossero migliori dal punto di vista umano, no dei “furbi”. Infatti, io che avevo vinto il concorso nazionale di prosa latina, mi credevo di insegnare a loro ma quando sono andato al reggimento mi sono accorto che erano loro che insegnavano tutto a me. Erano prima di tutto dei protestanti nel senso vero della parola, ti potevano perdonare la violenza ma mai la frode, non sopportavano la retorica in modo assoluto, erano immuni dalla retorica, completamente immuni. E poi come era scritto nel cortile del battaglione Aosta: “Pietà l’è morta”. Cosa che la prima volta mi
50
G. PROCACCI (a cura di)
fece impressione. Erano profondamente convinti che non ci fosse perdono, che cioè se taluno mancava doveva pagare. Un pensiero molto protestante! Tutto per un uomo che amano. E chi ha sbagliato deve pagare, finito. Chiuso. Questo non si dovrebbe dire ma penso proprio che in guerra, due o tre ufficiali li hanno fatti fuori proprio loro. Gli alpini non perdonano, l’ufficiale viene giudicato e difatti hanno ottenuto, mandando avanti i sottufficiali, molte sostituzioni dicendo: “Guardate che il tale, lì non va bene”. L’ufficiale viene giudicato dagli alpini. Noi per esempio sul fronte russo non avemmo disertori. Abbandonare voleva dire tradire i propri compagni. […] Loro erano fatti così, in guerra si erano battuti molto bene e furono i primi a cominciare a litigare con i tedeschi, perché loro non sopportavano il sistema dei tedeschi. Era tutta una mentalità diversa. I tedeschi erano secondo loro dei barbari. Ad esempio noi siamo partiti verso il fronte russo, esattamente il 29 luglio del 1942 da Mondovì, pieni di diffidenza verso i tedeschi, non sapevamo niente di questo alleato di cui avevamo sentito parlare ma che non avevamo mai visto. Quando abbiamo attraversato la Polonia ci siamo imbattuti in una grande stazione ferroviaria di un piccolo paesino che noi chiamavamo “merdopoli”. Ci avevano fermato il treno per diverse ore perché era in corso un’offensiva tedesca sul fronte centrale e noi invece che eravamo diretti verso il Caucaso dovevamo cedere il passo ai convogli tedeschi. In questa stazione c’era un caldo terribile e non si sapeva quanto tempo dovevamo stare lì. Eravamo 1.500 alpini, tutti dovevano fare i loro bisogni e c’era venuta una puzza terribile, una puzza bestiale. Noi ufficiali andammo dal bahnoffizier, un vecchio ufficiale richiamato per le retrovie, zoppicava e il suo solo compito era quello di reggere questa stazione nelle retrovie. Gli chiedemmo di pulire la stazione e disse che ci avrebbe pensato lui. Dopo cinque o sei ore arriva una squadra comandata da un ragazzo con la divisa della Hitlerjugend, erano 10 donne ebree con la stella di David e con delle carriole su cui dovevano caricare la merda. Alcune erano vestite da borghesi e facevano molta tenerezza. Il ragazzo le comandava con voce dura. Tra gli alpini c’era baccano, molti giocavano alla morra, e si parlava ma già al loro apparire si fece un gran silenzio. All’altezza del secondo vagone di colpo una ragazza, che doveva avere imparato un poco di italiano, si voltò verso il treno e gridò: “Viva l’Italia! Viva il duce! Dare galletta!”. Gli alpini, che erano pieni di grosse riserve di mangiare perché erano appena partiti da casa — avevano maccheroni, formaggi, salami e ogni ben di dio che parenti ed amici e anche i contadini delle stazioni che avevamo attraversato loro avevano regalato — buttano quattro-cinque scatole da mezzo chilo di galletta. Lei ne raccolse tre. Il ragazzo urlò. E quando lei ebbe raccolta la quarta lui prese il fucile dalla parte della canna e glielo spaccò in testa perché non doveva prenderle. Gli alpini allora hanno subito sparato, 20 secondi e quello era morto. Gli hanno sperato in 30-40. Il caporal maggiore mi venne vicino e mi disse: “Son quelli lì i nostri amici?” Poi è uscito un maggiore tedesco con la pistola in mano e il sottotenente ha tirato fuori la sua pistola e gliela ha messa in bocca a lui. Quel tedesco era poi stupido, era solo e noi invece eravamo in 1.500. Quando arrivammo in linea sul Don avevamo vergogna di essere alleati dei tedeschi. Ecco perché i nostri rapporti con i tedeschi sono stati proprio orribili fin dall’inizio. Tornai a casa dalla Russia il 29 marzo 1943, e fui trasferito poi
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
51
in Alto Adige dopo il 25 luglio con i resti dei resti dei resti delle divisioni che erano in Russia. L’8 settembre, certo, abbiamo sparato. Ma io ho commesso l’errore di andare a dormire in un fienile e così mi hanno catturato non molto lontano da San Michele Appiano. Mi hanno portato prima in Polonia a Deblin Irena, e poi nel lager famoso di Biala Podlaska ad est di Brest Litovsk e poi quando i russi si sono avvicinati ci hanno messi su dei vagoni e ci hanno portati a Bremervörde al XB, in Germania, a sud di Brema, dove sono rimasto per il periodo più lungo dal marzo 1944 al 31 gennaio 1945 quando venni portato a Wietzendorf dove poi mi hanno liberato gli alleati, di fatto il 16 aprile 1945 e poi del tutto il 22 aprile successivo. I soldati italiani furono messi a lavorare di autorità in base alla Convenzione di Ginevra, infatti i soldati potevano essere messi a lavorare anche se non dovevano essere destinati alla produzione militare, ma la divisione che era valida nella prima guerra mondiale adesso non contava più niente perché se lei mette dei ragazzi a lavorare a dei cuscinetti a sfera… quelli servono per tutto, per i treni, per i carri armati, etc. E poi i treni, anche se non armati, non sono forse necessari per la guerra? Gli ufficiali furono messi di fronte al bivio. Anzi in un primo tempo furono messi davanti a tre soluzioni: aderire al lavoro, aderire alla Repubblica sociale, andare con i tedeschi. Ma i tedeschi, checché ne dicano adesso, non avevano nessuna intenzione di prenderci con loro, non ci volevano mica. Prima di tutto perché non sapevano cosa farsene di noi, poi perché non si fidavano più. Non sapevano come impiegarci, come, dove, quando, con chi, forse con altri reparti italiani? Loro avevano invece da risolvere il problema enorme del lavoro. Avevano deportato donne e uomini da tutta Europa e chiamavano a militare tutti gli uomini tedeschi, anche i ragazzini. La grande alternativa che si pose era l’adesione al lavoro: “Andare a lavorare”. Per i soldati non c’era niente da fare: li hanno messi a lavorare. Per chi lavorava nella fabbriche era poi un inferno: lunghi turni e solo dieci minuti di ritardo significavano sabotaggio. C’era anche chi era fortunato ed andava nella campagne e risolveva così tutti quanti i problemi. Ho detto di “No” sino alla fine. Sono uno dei pochi… L’adesione al lavoro non avvenne tutta in un colpo, avvenne gradualmente. Tant’è che alla fine eravamo in due campi soli, si parla di 35-40.000 ufficiali su 600.000 deportati. A dire di no alla fine, a dire veramente di “No” siamo stati in 34-5.000 e non di più. Ma io non me la prendo mica con quelli che hanno firmato. Neanche allora me la presi. Debbo dire che non ci hanno mai messo le mani addosso, ma hanno usato la fame. Non ci davano da mangiare e tanti sono morti di fame. Quando sono stato liberato ero 47 chili. Tra coloro che dicevano di no ve ne erano di due tipi. Gli ufficiali dei carabinieri e alcuni ufficiali effettivi dicevano di no perché dicevano: “Io ho giurato fedeltà al re”. Questo era un giuramento che i tedeschi avversavano ma era l’unico che comprendevano perché era speculare al loro. […] Poi c’erano quelli come Guareschi, “i figli di don Chisciotte”: “No, perché no, per dignità”. A me del giuramento fatto al re non m’interessava niente, era soltanto per dignità. “La risposta è no!”. Così eravamo noi. Difatti noi, gli ufficiali di complemento, Novello, Guareschi e gli altri avevamo creato una specie di aristocrazia culturale. Io per esempio vinsi il concorso letterario del lager, ho ancora l’attestato. I tede-
52
G. PROCACCI (a cura di)
schi lanciarono l’offensiva delle Ardenne che sembrò in un primo tempo vittoriosa e per questo motivo nel lager loro lanciavano dei bollettini straordinari e in poco tempo si diffuse la costernazione tra di noi, non che si pensasse però che la guerra potesse finire diversamente da come è finita. Siccome sembrava che stessero per raggiungere Abbeville e spaccare in due il fronte alleato, allora diventava evidente che la durata della guerra diventava enorme e andava ora oltre la nostra resistenza fisica. E così in pochi giorni restammo la metà, andarono quasi tutti a firmare e poi erano pentiti ma dicevano: “Cosa vuoi… La Germania non vincerà”. E poi tutte le donne che scrivevano da casa: “Sei un coglione, perché non firmi!”. È terribile una prigionia, ed è questo che nessuno ha messo in risalto, in cui esiste un botteghino aperto tutto il giorno dove tu potevi in qualunque momento andare ad apporre una firma per andare a lavorare. Bisognava poi vedere dove andavi però a finire. Era una tentazione incredibile. Una prigionia volontaria, solo degli italiani matti potevano… Infatti il maggiore Cooley, scozzese, ci rese immediatamente l’onore delle armi, non credeva che fosse possibile. Noi speravamo sempre che i tedeschi rendessero irrevocabile il lavoro. Chiusero le iscrizioni al lavoro il 31 gennaio del 1945 con la famosa promessa: “Vivi non vi daremo mai agli Alleati”. Alla fine fummo liberati dopo la promessa che ci avrebbero fucilati tutti, ma questa è una storia che ha già narrato Guareschi in “Diario clandestino”. Io sono stato con Giovannino Guareschi nei mesi che vanno fino al trasferimento a Wietzendorf e anche dopo a Wietzendorf. Lui ha raccontato tutto, con semplicità è riuscito a dire proprio tutto. È vero che fino al 31 gennaio del ’45 si poteva andare a lavorare. Ad un certo momento nel campo restammo in 3.000. Il capitano Pinkel, che poi i russi hanno cotto vivo nella margarina, sapeva che la resistenza nel campo faceva leva su tre, quattro grandi personaggi. Nessuno di noi era per esempio di sinistra. Io sono un liberista accanito, ho in pari avversione le camicie nere come le camicie rosse, io voglio delle camicie pulite. Mi fanno schifo sia gli uni che gli altri. Non è un problema di buona fede, che è terribile ed è un alibi, perché anche i miei aguzzini più feroci erano in buona fede. […] Il problema sta in questo, nel fatto che c’erano quattro-cinque uomini guida della resistenza, il più alto di tutti era Novello che sorrideva. Novello fu chiamato da Pinkel perché Guareschi gli aveva fatto credere che avrebbe firmato, credo gli abbia fregato quattro-cinque chili di patate e fumato tre-quattro sigarette. Poi quando alla fine Pinkel gli chiese: “Vuoi firmare?” E lui: “Io non firmo”. “E perché?”, fa quello. Guareschi [sic] allora gli disse: “Io non firmo perché non ho ancora conosciuto un tedesco che pur essendo vivo mi fosse simpatico come un tedesco morto”. Secondo me la sua salvezza fu dovuta al fatto che l’interprete, un mistosangue bolzanino, non ha tradotto o ha tradotto male, non so cosa abbia tradotto. Se avesse tradotto, non lo so, lui non si sarebbe salvato. Resta che noi non abbiamo firmato. […] Io sono nato così o ero diventato così, come Guareschi e Novello, il “No” era il “No” della dignità umana, fate quel che cavolo che volete ma io dico “No”. Non so però quello che avrei fatto se mi avessero messo le mani addosso. Non ho mai fatto i pugni ma se avevo un’arma in mano, avevo un’ottima mira. Come è il suo ricordo della prigionia?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
53
È drammatico per le sofferenze infinite ma prima di tutto ho conosciuto degli uomini di incredibile levatura umana e morale. Era più difficile dover sopportare la fame che dover combattere. A combattere ci riescono in parecchi, la fame invece da sopportare per mesi e mesi e mesi è molto più dura. […] GINO BALLOCCHI - 1924 - Pianorso Lama Mocogno (Mo) - Soldato L’8 settembre eravamo al Brennero, eravamo accampati e facevamo esercitazioni di tattica di guerra. Noi eravamo accampati alla destra della ferrovia, i tedeschi sulla sinistra, distanti 200-250 metri. Eravamo sotto la tenda, erano circa le otto di sera, ad un tratto iniziammo a sentire le fucilate. I tedeschi ci attaccavano. Dopo che era stato dato per radio il bollettino di Badoglio, i tedeschi senza pensarci due volte ci hanno attaccato. C’era un inferno di fuoco. Rispondemmo per qualche ora. Ordini precisi non ce n’era, c’era un subbuglio, quindi ci siamo lasciati prendere. Il mio capitano era in piedi, esterrefatto, di ordini superiori non ne aveva, era in piedi in mezzo alle fucilate. Era impazzito, in stato confusionale. Cercammo di comunicare con il comando ma non siamo riusciti, allora ci siamo arresi. […] Alla sera ci hanno fatto dormire in un fienile, poi per tranquillizzarci ci dissero di stare tranquilli che la mattina seguente ci avrebbero lasciato prendere la strada che volevamo. Invece fu tutta una truffa, noi eravamo incoscienti di quello che poteva succedere però eravamo in mano a loro ed al mattino in colonna ci hanno fatto fare 35-40 km dal Brennero a piedi fino ad Innsbruck, in Austria. […] Lì ci portarono in un grande campo sportivo, con alcune mitragliatrici piazzate su delle capanne. Erano poco organizzati, eravamo senz’altro 23.000, ci davano un pezzo di pane nero, così, alla rinfusa. Dopo ci caricarono in una tradotta e facemmo tappa in Polonia. Il treno era una lunga fila di carri bestiame con tutti i reticolati alle finestre. Ogni tanto aprivano il vagone e mettevano dentro qualche carota, così come le bestie. C’era un caos. Loro avevano ben altro da fare che occuparsi di noi. […] In Polonia, incontrammo gli ebrei, in colonna, scortati con le sentinelle con la baionetta innestata, ricorderò sempre, qualcuno parlava l’italiano di questi ebrei, e noi non ci rendevamo conto di quello che poteva succedere, ma loro lo sapevano già che lì c’erano i forni crematori. E per fortuna noi sostammo alcuni giorni lì, poi questo treno è ripartito. Si sentiva una atmosfera poco promettente, un odore acre, poco gradevole ma chi si poteva immaginare. Volevamo cercare di parlare con gli ebrei italiani, siamo riusciti a dirci poche parole perché era proibito, poi eravamo diretti da in una direzione e noi andavamo in un’altra. Qualcuno di loro ci fece capire che noi eravamo più fortunati di loro. Era già del tempo che loro erano lì. Noi proseguimmo per 15 giorni di treno e ci portarono in Prussia orientale. Il treno andava piano, stavamo fermi anche delle ore, nelle stazioni. Lì eravamo ammucchiati come le bestie, fino al campo. […] Subito ci portarono a lavorare a raccogliere delle patate e delle pietre erose dall’acqua. Li caricavamo su delle renne con dei carretti e li portavamo via. Era una specie di deserto. Ci siamo stati per tre giorni poi ci
54
G. PROCACCI (a cura di)
hanno trasferito di nuovo. Non era un campo vero e proprio ma un campo di lavoro, dormivamo all’aperto, senza niente che le cose che ci eravamo portati dall’Italia. A volte alcuni venivano portati in vecchi fienili della zona. Erano i primi giorni, non pensavamo di andare incontro ad una tragedia di questo tipo. Noi credevamo, e ciò ci ha aiutato ad andare avanti, e ci ha confortato un giorno dopo l’altro, eravamo convinti che fossero gli ultimi giorni di guerra anche per loro. Che a Natale saremmo tornati già a casa. […] Da lì ci portarono ad Amburgo, una città di mare. Non ci dicevano niente. Siamo arrivati in un campo immenso, con delle baracche immense, lunghe centinaia di metri, con i dormitori con i letti a castello, tre piani. Ci fecero stare lì tre mesi circa. Ci lasciavano nella miseria più spietata, carichi di pidocchi, ci diedero la prova che erano crudeli. Facendo così ci diedero la prova di ciò che pensavano di noi, che dopo illustrandoci la scelta se noi avessimo voluto firmare per arruolarci nel nuovo esercito di Mussolini, in quella condizione lì credevano che ci saremmo arresi, ma pochi di noi furono quelli che aderivano. Ricordo sempre alcune parole dei soldati che ci dissero per convincerci: “Siete italiani o non siete italiani?”. Se io ero sicuro che mi portavano in Italia a combattere, beh ci pensavo poi dopo a fuggire in qualche modo, ma la mia paura era che mi mandassero in Russia, allora era cattiva. E noi non ci fidavamo più: dal primo giorno, per tenerci calmi, per tenerci buoni, da quando ci avevano rassicurato che l’indomani ci avrebbero lasciati liberi, adesso avevamo paura che ci mentissero ancora. […] Ci portarono a lavorare in queste grandi fabbriche di Amburgo. C’erano molte fonderie. Ci facevano alzare la mattina, verso le quattro, le cinque di notte e ci portavano nel cortile inquadrati e lì ci contavano. Poi prendevamo un trenino Amburgo-Altona. Poi ci facevano scendere e ci ricontavano e ci portavano in fabbrica a lavorare. Fino alla sera alle 22 non si rientrava nelle baracche, freddo, neve o tempesta che era. Alla sera arrivava poi un cucchiaio di zuppa con carote, crauti ed un poco di sbrodaglia, e 250 grammi di pane, questa era la razione. E poi al mattino era la stessa storia, sempre così. […] Non potevamo avere niente, radio, orologi etc. Potevamo avere solo i nostri vestiti e qualcuno aveva un po’ di ricambio. Ogni tanto ci portavano poi alla disinfezione perché avevamo molti pidocchi, alla notte non si dormiva dai pidocchi che avevamo addosso. Era un inferno. C’era solo quel filo di speranza che il giorno dopo si sentisse dire che qualche cosa era cambiato. Ma per due anni le speranze cominciano un po’ a venire meno. Al mattino eravamo magari in un gruppetto di 20 e ci alzavamo anche in 19 o 18. Nel sonno qualcuno rimaneva lì. Arrivava la sentinella che urlava “Aufstehen, aufstehen”, sveglia, alzati, se non diceva niente con un piede gli dava un urto. Se non diceva niente, vuol dire che era morto. C’erano poi quelli che morivano sotto le bombe, perché gli americani e gli inglesi bombardavano sempre sopra. Noi eravamo sempre in piedi a lavorare, oggi si costruiva e domani era rotto, però loro non ci mollavano mica, erano tutti per uno ed uno per tutti. Avevano una disciplina enorme, non si poteva parlare con un civile e nessuno, guai, trasgrediva. […] Ogni tanto, uno o due mesi, ci portavano in un grande bagno e ci spogliavano. Poi ci mettevano i panni su una specie di attaccapanni, con un carrello li tiravano dentro ad una stanza e con il gran calore che c’era i
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
55
pidocchi morivano. Si faceva il bagno e poi si tornava di nuovo a lavorare. Però questo avveniva di rado. […] Il lager era grande come una città. C’erano le strade con i reticolati e nei campi vicini a noi c’erano francesi, polacchi, russi. Noi eravamo marchiati come degli animali. Avevamo un “MI” che voleva dire militari internati. Per me ci avevano dato quel nome lì in modo che noi tornassimo con loro a combattere. Noi non avevamo molti contatti con gli altri prigionieri. Qualche volta così, da un filo di reticolato all’altro si parlava, però non si poteva, e lì si rischiava le nervate. Rispetto agli altri prigionieri, noi eravamo trattati male, ma i peggio erano i russi. Ce ne accorgemmo subito. Quando arrivammo in Prussia, c’era un ufficiale tedesco a cavallo che, al nostro arrivo col treno, era nella stazione a comandare una colonna di prigionieri russi. La prima cosa che fece fu spianare il nervo addosso a queste giacche, queste spalle, questi poveri disgraziati, perché erano scomposti, non erano messi proprio in fila. […] I tedeschi erano anche abbastanza tolleranti. C’erano molti vecchietti ed allora chiudevano anche un occhio. Se qualcuno stava in piedi ma non lavorava molto forte, poteva anche darsi che non dicessero niente. Se ti capitava un hitleriano, un fanatico, lì era cattiva e si doveva andare. Un giorno un tedesco ci faceva portare delle poltrelle di binari di treno, sulle spalle, sono pesanti. Quello che cadeva in terra, era finito. Mi ricordo che ce n’era uno che era stremato; è caduto e gli hanno dato tante e tante vergate che non è riuscito più ad alzarsi. Lo hanno preso e portato in ospedale. Non lo abbiamo più rivisto. […] Eravamo vicino a dei forni a 50 gradi e si passava a zero gradi; mi fece ammalare. Mi venne l’acqua nei polmoni: la pleurite. Per fortuna c’era un medico italiano che con una siringa mi mise seduto all’indietro e con una siringa me la levò; un litro di acqua. Stetti lì in infermeria due o tre giorni, poi mi sparì la febbre e mi mandarono a lavorare, anche se per il dottore dovevo riposarmi per almeno un’altra settimana. Quelli che erano sani guarivano in pochi giorni, quelli che invece non erano sani morivano lì. […] Una persona lì si trasforma, piano piano, si abitua poi si trasforma. Ricordo che quando si seppe che ormai gli alleati erano vicini, allora si impazziva perché non sembrava vero, si sapeva che saremmo tornati in Italia, però, eravamo trasformati da tutte queste sofferenze che tornare in Italia sembrava una favola, invece era verità. […] L’ultima a morire è la speranza ma ormai eravamo in condizioni così brutte che eravamo angosciati, ti venivano dei groppi alla gola quando vedevi un connazionale, o anche uno straniero, quando andavamo a lavorare nelle macerie, sotto le bombe, e trovavi gente massacrata, allora perdevi anche le speranze. […] All’interno del campo non si poteva cercare di aiutare gli altri, spesso anzi si doveva stare attenti anche agli stessi prigionieri italiani. Se il tedesco poi se ne accorgeva erano botte anche per lui. E se uno bisticciava era ancora peggio. Se uno aveva bisogno non chiedeva niente a meno che non fosse ferito. Era sempre la sentinella che se ne occupava, tra di noi eravamo più capaci di bisticciare che di aiutarci, in quei casi lì ognuno pensa per sé. […] Come mai pochissimi di voi, nonostante foste disgregati come gruppo, hanno aderito alla Rsi?
56
G. PROCACCI (a cura di)
Noi della guerra eravamo stanchi, poi nell’andare con i fascisti ci si aggregava ad una setta che nel nostro corpo non aveva preso molto piede. Quando sono andato a militare io ho iniziato a soffrire la fame. Ci portavano su per le montagne, con delle fatiche sovrumane, mi sanguinava i piedi, tante volte, ci davano da mangiare delle pagnottine grosse come quelle che usano le donne da lasciar lievitare per usarle la fornata dopo come lievito. Tante volte non so se sono stati meglio i tedeschi o gli italiani. Quando venivano nei nostri campi, i fascisti arrivavano con una divisa tutta pulita, che sembrava fatta da un sarto appropriata per la persona, già prima della guerra li pagavano un poco più che noi, facevano i gradassi, allora molte volte facevamo a botte. Il peso della guerra lo abbiamo portato noi. Se c’era da fare un sacrificio, lo facevamo noi, su tutti i fronti è stato così. Poi, vedendoci così differenziati, non vedevamo di buon occhio i fascisti. Cercavano di convincerci con tante promesse che saremmo stati bene, etc… Poi arruolarsi lì voleva dire non crearsi un gran credito, anche dopo, alla fine della guerra. Ricordo che quelli che avevano accettato di arruolarsi, non erano partiti per l’Italia ma erano rimasti in Germania, per essere rimpatriati con noi, finita la guerra, avevano cercato di infiltrarsi nella camerata. Erano come degli agnellini, tanto che noialtri tacessimo; in tanti furono cacciati; se si andava in mezzo a quella gente lì, certo c’era da aspettarsi di essere attaccati. Le cose che vengono dopo si sanno poi dopo. Ma noi, che avevamo la coscienza a posto, non volevamo passare da delinquenti. Arruolarsi con quella gente lì, i tedeschi, bisognava far delle robe che non eravamo disposti a sopportare. […] Ci hanno chiesto subito che lavoro facevamo a casa. Ma noi, specialmente quelli del meridione, eravamo quasi tutti analfabeti. Che mestiere fai? Chi sapeva guidare una macchina erano in pochi, i meccanici altrettanto. Quasi tutti erano bauer (contadino). Allora chi sapeva parlare un po’ di lingua tedesca, allora lui lo rispettavano anche. C’era uno che sapeva dire soltanto due o tre parole, lo trattavano molto bene rispetto a noi. Ci davano un libricino da studiare con scritto in italiano ed in tedesco, ma chi aveva la voglia, il tempo, e poi a leggere all’italiana si legge in un modo, in tedesco c’erano dieci lettere e se ne leggono solo 6, non riuscivamo comunque a parlarlo. […] Ci facevano maneggiare i pesi di 30 o 40 kg e noi eravamo pelle e ossa, era una sofferenza. Quando sono stato catturato pesavo quasi ottanta chili, sono tornato che ne pesavo 38. Era una cosa… sempre con dei groppi alla gola, con umiliazione, fame, miseria, insomma, quando uno lavorava, era stanco, cercava di riposarsi, andava piano allora arrivava subito la guardia; siete mosci, siete mosci e dovevi ripartire altrimenti erano frustate se andava bene. Anche quando sono stato trasferito in un’altra fabbrica, ci facevano spostare del ferro, era pesante. Per tutto il tempo che siamo stati là un giorno era lungo come un mese perché non avevi un minuto, sempre controllato dalla guardia, dalla sentinella o dal capo. Era cattiva anche non saper parlare; oltre che con le guardie non ce n’era; chi ci allungava dai reticolati qualche cosa, sapeva che era proibito e rischiava… noi potevamo solo lavorare, tacere e guardare. […] Mi ricordo che c’era un ufficiale che era stato messo a lavorare a spalare del carbone con noi. Non era capace e gli davano calci in continuazione, punendolo davanti ai soldati semplici. Era umiliante per lui, non
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
57
era certo il trattamento che gli spettava. O andare con loro o incorrere nelle conseguenze. […] Siamo rimpatriati e ci hanno accolto freddamente, nessuno ci ha allungato un piatto di minestra quando siamo rientrati, c’era già un clima per noi che non ce lo aspettavamo. Ci entrò subito la politica: tutti quelli che erano stati sovversivi a Mussolini erano fuggiti in esilio. Tornando, in qualche modo cercavano di ingraziarsi la popolazione, conquistarli, per avere il loro voto, trattavano i partigiani come che fossero stati loro a vincere la guerra invece avevano solo fatto del male. Magari se c’era qualcosa da dare loro erano i primi, onori o soldi, insomma erano visti come degli eroi e noi ci ignoravano, queste sono cose che mi hanno fatto rimanere male. In tanti anni, nessuno ha fatto niente per noi, allora c’era miseria e non c’era neanche da pretendere, ognuno distribuisce anche quello che c’è, non è la quantità che si dà ma la proporzione che si usa nel distribuire le cose. In 50 anni, tu che hai fatto le sofferenze del purgatorio, perché lì era un purgatorio, non una ricompensa ma nemmeno una riconoscenza, niente. No, anzi si è quasi derisi da quelli che sono rimasti qua, convinti di aver fatto gli eroi, ma hanno fatto gli eroi rubando il pane agli altri e facendo del male e basta. È una cosa che dà molto da pensare, è una cosa che fa star male per quello lì. […] Modena era un deserto, non c’era nessuno ad aspettarci, a chiederci chi eravamo, da dove venivamo etc. Cercai un mezzo per arrivare a casa. Trovai un camion che trasportava carbone. Quando arrivai a Serramazzoni l’autista mi offrì da bere e ci fermammo in una osteria. C’era un vecchietto che mi chiese di suo figlio. Poi mi offrì un bicchiere di vino. Non sono riuscito a bere niente. Ero disfatto. Arrivo a Lama con gli stracci in spalla e si affaccia una donna che conoscevo e che si chiamava Gemma. Non mi ha riconosciuto. […] Piano piano sono arrivato vicino a casa. Dissi: “Chiama mia madre e digli che sono in arrivo”. Quando sono arrivato nell’aia, lei non mi ha riconosciuto, non mi riconosceva più. Gli feci vedere alcuni segni particolari e poi capì e si mise a piangere. […] Non mi aspettavo un trattamento esagerato ma almeno un poco di riconoscenza sì. Invece anche dopo quando ci portarono a Modena per degli interrogatori, non avemmo niente di niente; altri erano gli eroi, noi no. Nessuno si è preso carico di noi. E questo mi ha molto deluso. IVO BALUGANI - 1923 - Modena - Soldato Quando l’8 settembre abbiamo avuto la notizia dell’armistizio, tutti speravamo di venire a casa, non pensavamo a quello a cui si andava incontro, dei tedeschi e così via, noi non sapevamo niente. Ma alla sera, il tenente ci ha radunati perché noi restavamo a difendere l’isola […] Zante, nell’isola di fianco a Cefalonia. I comandanti hanno fatto resistenza ai tedeschi e purtroppo sono stati uccisi tutti, tranne qualcuno, che si è rifugiato in qualche casa perché aveva delle amicizie, magari aveva messo su ragazza, o era un amico di famiglia, i civili li hanno protetti sempre, rischiando. Per quattro o cinque giorni hanno resistito e sembrava che dovessero partire per scappare in Italia con delle imbarcazioni, con delle navi. Poi sono arrivati dei rinforzi tedeschi a Cefalonia e li hanno sopraf-
58
G. PROCACCI (a cura di)
fatti tutti e li hanno fucilati. Il colonnello B. ci ha radunati, probabilmente lui si è arreso subito al comando tedesco, che tramite il colonnello ci ha fatto una proposta, ovvero andare a combattere coi tedeschi o andare in campo di concentramento. Lui ha chiesto ai tedeschi se poteva far parlare tutti i soldati dell’isola. Così lui ci ha radunati in un campo, eravamo quattro gruppi di artiglieria, tre o quattro gruppi di fanteria, eravamo circa quattro o cinquemila soldati, forse un po’ di meno. Insomma eravamo in questo campo, tutti emozionati per tornare a casa, anche se il nostro tenente ci disse subito che noi andavamo a finire in un campo di concentramento se non difendevamo l’isola, perché lui era uno di quelli che avrebbe anche fatto resistenza. Noi eravamo incoscienti. Il colonnello cominciò a parlare e ci presentò le due condizioni: andare in campo di concentramento o combattere coi tedeschi. Però ci disse che andare coi tedeschi voleva dire essere considerati dei traditori una volta tornati in patria. Però andando in campo di concentramento significava duecento volte perdere la vita, perché il campo di concentramento è terribile. Noi tutta gente di 20-25 anni eravamo incoscienti, nessuno aveva voglia di andare coi tedeschi, perché dei tedeschi noi eravamo stanchi. Eravamo stanchi della loro disciplina che usavano al cento per cento mentre noi invece no. Ma i soldati hanno preferito il campo di concentramento, sono stati pochissimi quelli che sono andati coi tedeschi. Siamo stati a Zante altri tre o quattro giorni, ad aspettare che arrivasse una nave, la nave Sessia, me la ricordo bene, una nave grossa per essere greca. Un po’ per volta ci hanno caricati, duemila, duemilacinquecento per volta. Siamo partiti alla sera per il canale di Corinto e la sera dopo eravamo al Pireo. Quando i tedeschi vi hanno fatto prigionieri voi avete lasciato tutte le armi? Sì, abbiamo deposto tutte le armi in un ripostiglio che loro hanno controllato. Non hanno controllato tanto le armi, hanno controllato che uno mettesse giù le armi. Nessuno fece tentativo di resistenza? No, dov’ero io no, la gente si arrese proprio, ci siamo imbarcati. Qual era l’atteggiamento dei tedeschi appena vi hanno fatti prigionieri? Con noi non sono stati aggressivi perché noi non eravamo proprio ostili. Ci hanno portati subito al Pireo, dove ci hanno messo in un campo. Poi si partiva a scaglioni di mille, milleduecento per andare in Germania, anche se noi credevamo che ci portassero in Italia. Con la convinzione di tornare in Italia noi stavamo buoni. Si stava lì composti in questi carri. Abbiamo capito che non andavamo in Italia ma in Germania, quando siamo stati al confine per andare in Austria perché ci hanno chiusi coi catenacci nei vagoni bestiame, da lì non si veniva più fuori. Poi abbiamo attraversato l’Austria e siamo entrati in Germania e lì abbiamo capito che per noi l’Italia era solo un sogno. Andavamo a finire in campo di concentramento dove aveva detto il colonnello. E lì ci hanno fatto un’altra proposta ancora. […] Arrivati al campo di smistamento, un grande campo vicino a Berlino. Lì c’erano dei comandanti italiani che collaboravano coi tedeschi che fecero questo discorso per vedere se c’era ancora qualcuno che voleva andare con loro. Hanno reclutato ancora qualcuno, perché avevano paura della fame e non avevano nemmeno torto sotto un certo punto di vista, perché la fame era terribile. Noi eravamo in trecento nel campo dove ci avevano portato e siamo stati tra i più fortunati, perché ci hanno portati in una fabbrica di Berlino. Era una fabbrica di sportelli, di carrozzeria, di
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
59
alluminio per gli apparecchi. Prima però hanno fatto una selezione per vedere chi era adatto al lavoro, perché l’azienda, l’officina meccanica, era privata, però era sotto il controllo nazista. Un centinaio sono rimasti lì, gli altri li hanno portati in un altro campo ancora a lavorare. […] Lì noi eravamo fortunati perché eravamo protetti, avevamo la nostra baracca, non si facevano delle fatiche grosse, il lavoro non era pesante, però la fame era terribile. La fame era terribile perché quando avevamo finito le nostre energie, cominciava una debolezza, una debolezza, una debolezza, se dovevi fare le scale non ti reggevi più, e si pativa la fame. A fare le scale se uno non si tirava su con le mani non stava più in piedi. Se si continuava ancora così per dei mesi si finiva tutti male. […] Dopo ha cominciato ad arrivare qualche pacco, perché ci avevano dato dei moduli da caricare per mandare a prendere dei pacchi da mangiare. Arrivavano dall’Alta Italia dove non c’erano gli americani. Erano pacchi di contadini, perché anche gli altri non avevano più da mangiare neanche per loro. Il fatto principale che ci ha salvato è stato quando venne fuori quel decreto che era un regalo per noi, un premio del duce, trattamento come i civili, ma non era proprio così. Ci avevano concesso due o tre ore per andare fuori alla sera dopo il lavoro, quelle due o tre ore sono state sufficienti per fare delle conoscenze e raccogliere un po’ di pane, un po’ di verdura, patate e così via. Pian piano ci siamo sollevati, ma per chi non ha avuto questa possibilità è stato terribile. Quando andavamo fuori alla sera e vedevamo rientrare quelli che tornavano dalle macerie dei bombardamenti, con le pale in mano, e ci facevano compassione perché pian piano chi di loro non è stato ucciso con le camere a gas, è deceduto per gli stenti, così si sfiniva, con una debolezza così, subentravano delle malattie e da quelle non si guariva più. […] La fabbrica fu bombardata? Sì, fu colpita due o tre volte, ci sono state anche delle vittime, dei morti. Quando siamo passati a civili ci hanno fatto un trattamento: passavano alla mattina con tre fettine di pane con burro e marmellata sopra e al pomeriggio alle quattro prima di finire c’era un’altra sosta così. Quindi, dopo il primo arrivo al campo di smistamento, nessuno più vi ha fatto proposte di collaborazione o vi ha proposto di tornare in Italia? No, non ci hanno chiesto più niente, nessuna richiesta. Noi lo sapevamo già prima di partire dalla Grecia che una scelta era già stata fatta. Poi ne era già stata fatta un’altra in Germania. Non hanno più chiesto niente. […] Di militari nel campo ce n’erano pochi, c’era qualcuno che veniva a fare la guardia al mattino e alla sera faceva l’appello, ma c’erano dei civili. Non era cattivo il rapporto coi civili, perché erano quasi tutti gente anziana. Loro ci sorvegliavano e non facevano altro. Comunque tra di loro ce n’erano due o tre per ogni reparto che lavoravano con noi. […] Ci davano una busta paga ogni 15 giorni, con quei soldi lì si andava in certi bar dove si poteva contrattare, chi aveva una giacca, chi aveva un paio di pantaloni, chi aveva delle sigarette, pian piano uno si comprava dei vestiti e la divisa si buttava a monte. Per la divisa i tedeschi non dicevano niente. Noi ci siamo arrangiati così, arrangiandoci pian piano. […] Lei nell’aprile ‘45 dove venne trasferito? Vicino a Stettino, a 10-12 chilometri. Ci siamo arrivati attraversando il grande fiume, su dei ponti che i tedeschi costruivano di notte. Quando era a Stettino che cosa faceva?
60
G. PROCACCI (a cura di)
Ci portavano fuori dal campo a fare delle buche, dei camminamenti, dei passaggi alti come una persona, tutti arginati con delle pale per fermare l’avanzata dei russi, ma non contava niente, perché loro passavano con dei carri armati. Non contavano niente. […] Quando siamo stati liberati, ci hanno preso i russi, abbiamo subito temuto di fare altri due o tre anni in Russia o in Siberia, perché c’era quella paura lì. Potevamo essere prigionieri degli americani o dei tedeschi, adesso ci avevano presi questi qui. Dopo pian piano ci hanno radunato in questo campo e hanno cominciato a far partire qualche tradotta, tutti i giorni partivano mille o mille e duecento uomini, non mi ricordo, noi siamo stati tra gli ultimi a partire. Ci siamo fermati in un campo vicino ad Innsbruck, a fare una disinfestazione prima di entrare in Italia, poi siamo rientrati. In Italia, ci siamo fermati a Pescantina di Verona, e per fortuna c’era lì il corriere Bandiera anche lui di Modena che ci ha portati a casa. […] I russi erano un esercito molto disorganizzato, un esercito arrivato così dalla fossa. Sono arrivati con tutta gente reclutata di tutti i tipi: bambini, ragazzetti, vecchi e anche donne. Era tutto un esercito mescolato che non ci si capiva niente. Sono arrivati con dei carri armati, ci hanno messi lì nel campo, ma come organizzazione... Erano più organizzati gli americani. Male non ci hanno trattati, i russi pretendevano solo che andassimo a lavorare in campagna, ma nessuno aveva più voglia di fare niente. Quindi non lavoravate? No, non lavoravamo. Tentavano di portarci ad arare un campo, ma la gente andava nel campo poi scappava via. È stata un’esperienza. […] Non ebbe mai contatti con ufficiali italiani? Con noi è rimasto solo un qualche ufficiale che si era messo una divisa da soldato. Ma gli ufficiali erano in un campo a parte perché c’era una legge che diceva che non potevano obbligarli a lavorare. Però loro sono stati peggio di noi, perché soffrivano di più la fame, erano chiusi, non andavano mai fuori, loro hanno fatto tutti una brutta fine. […] Nel campo organizzaste attività ricreative per fare qualcosa? Sì, nel campo sì, c’era la sala della mensa dei tedeschi, anzi due o tre sale, che ci venivano date in prestito e ci facevamo delle serate allegre, chi era capace di cantare, di fare qualche barzelletta, c’era uno che suonava il piano, uno la fisarmonica. Quando abbiamo fatto quelle sere lì è venuto accompagnato da un colonnello tedesco il baritono Giuseppe Taddei, che io conoscevo perché ero amante della lirica fin da quando ero ragazzino. Questo ufficiale, forse un appassionato, lo portava nei campi a fare qualche concerto per tenere un po’ di allegria agli italiani. […] Può raccontare il suo rimpatrio? Sul treno abbiamo viaggiato fino in Italia. Quando siamo a Pescantina di Verona, siamo rimasti sorpresi perché con 100 lire che avevo in tasca non si comprava più niente. Io avevo 100 lire ancora in tasca e gliele ho fatte vedere ad un signore, ma ci volevano 150 lire per comprare un litro di vino. Siamo rimasti un po’ sorpresi dell’andamento di tutto questo cambiamento. Quando sono arrivato a Modena, di sera, all’ospedale San Geminiano, io volevo partire e andare subito a casa, per questo volevo trovare una bicicletta o qualcos’altro, sapevo che in stazione c’era un deposito bagagli con delle biciclette che tiene aperto anche di notte, ma mi
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
61
hanno detto che dovevo stare lì, perché c’era il ponte alto che era pericolante e di sera non era sicuro circolare. Siamo stati accolti bene. Siamo stati corteggiati dai partiti, dai parroci, dalle organizzazioni dei partiti, il Pci, il Psi, Dc. Ma noi eravamo un po’ confusi, non si sapeva niente. Io sono stato abbastanza fortunato, perché ero specializzato in un mestiere e anche se ho fatto un po’ fatica per trovare un lavoro, perché il nostro lavoro ha stentato a riprendere perché era strettamente commerciale, c’era infatti bisogno di girare e ponti, ferrovie e strade erano tutte rotte, non funzionava niente, ho potuto comunque riprendere a fare quello che facevo prima della guerra. Invece la maggior parte degli altri si sono dovuti adattare a lavorare nelle campagne, nell’edilizia. […] Non tutti sapevano quello che era successo in Germania. Durante la guerra c’erano queste trasmittenti, queste radio Londra, questa radio America, chi aveva la radio e ascoltava queste trasmissioni sapeva ma doveva fare attenzione: il fascismo puniva. Dei campi di sterminio si sapeva allora in Italia? Non lo sapevano. Dei campi di sterminio penso proprio di no. Questo l’hanno saputo quando la gente è rientrata. Lei da Berlino aveva capito qualcosa? No, io ho visto delle sofferenze, mentre la massa passava in corteo, tornando a casa dal lavoro. Li vedevo lì moribondi, ma dei campi di sterminio, dei lager, delle camere a gas non sapevamo niente, io non sapevo niente. […] Che altri stavano peggio di noi potevamo pensarlo, ma queste cose qui noi non le sapevamo. Dei campi della Polonia non si sapeva niente. Ne abbiamo avuto qualche testimonianza quando siamo tornati. Anche il lavoro degli ebrei, noi sapevamo che gli ebrei erano perseguitati, giravano sempre con quella divisa della Juventus. Quelli sapevamo che erano ebrei, che erano politici dicevano, sapevo che stavano male e che ogni tanto... che se ne salvavano pochi di quelli lì. Ma delle camere a gas, di persone uccise, non sapevamo niente. Quindi voi vedevate delle persone con queste divise? Vedevamo ma non si sapeva che cosa succedeva lì. Perché di campi di sterminio non ce n’erano vicino a noi, di quelli dove c’erano le camere a gas. […] EZIO BARTOLAI - 1914 - Montefiorino (Mo) - Soldato Sono stato chiamato alle armi per la prima volta nel ‘35 e nel ‘36 ho terminato la mia ferma e mi sono congedato. Sono stato richiamato tre volte e per tre volte ho avuto la fortuna di tornare a casa prima per i miei fratelli e poi per la licenza agricola. Io facevo l’agricoltore. Nel ‘43 a gennaio fui richiamato per la quarta volta al 3° artiglieria a Bologna. Sono stato lì fino alla fine di luglio poi mi hanno mandato per una settimana a Rimini. Successivamente sono stato assegnato al 13° artiglieria da campagna divisione granatieri di Sardegna a Roma. Lì sono rimasto fino all’8 settembre. Il giorno dell’armistizio il proclama era: “La guerra continua”. Il giorno 9 tutto era uguale a prima, ma verso sera viene dato l’ordine di trasferire tutta la divisione presso Porta Pia.
62
G. PROCACCI (a cura di)
La mia batteria la mattina del 10 stava sulla strada che da Frascati veniva verso Roma, altri erano già partiti per controllare la strada. I tedeschi provenivano da Frascati. Alle 11 il capitano che comandava la batteria ordina di partire immediatamente. Io gli dissi al capitano: “Se la strada sarà aperta!”. Lui mi rispose: “Se non è aperta l’apriremo noi”. È partito con una macchina con una mitraglia sopra, ha fatto un giro intorno a dove eravamo accampati, poi ritornato lì ha dato l’ordine: “Si parte subito!”. Dopo pochi secondi è arrivata la fine: sparavano. Il capitano è tornato al punto di partenza e ha detto: “Andiamo all’attacco”. Io gli dissi: “Ci conti signor capitano!”. Lui ad un tratto ci guardò, eravamo rimasti in 39, e poi disse: “Se c’è qualcuno che mi vuol seguire tentiamo di andare a Roma”. E ha preso giù per la prateria direttamente verso Cinecittà. Noi lo abbiamo seguito, poi lo abbiamo visto cadere. Non so se avevano sparato o se sarà caduto casualmente, ma non abbiamo avuto altro tempo perché sono saltati fuori i tedeschi e siamo giunti alla fine definitiva: ci hanno presi. […] Uno che ha tentato di saltare in strada è stato ucciso lì subito sul posto, non ha fatto in tempo neanche a respirare. Abbiamo passato la notte lì, circondati, e la mattina ci hanno portati via. Aumentavamo sempre di numero, ne arrivavano da tutte le parti. Ci hanno portati a Civitavecchia. Anche lì né bere, né mangiare, niente. Hanno cominciato a metterci su un treno in vagoni bestiame chiusi e lì il caldo già tremendo era ancor più insopportabile. […] Da dentro il vagone non si vedeva niente, c’era solo una specie di gratella da cui non si vedeva niente, e tutti gridavano: “Acqua! Acqua! Acqua!”. Ma non avevamo niente. Ben pochi avevano la gavetta e riuscivano a prendere un poco d’acqua quando la buttavano dal finestrino. Noi per esempio che eravamo stati presi a Roma non avevamo proprio niente di niente. Quella era la nostra sfortuna. […] Quando siamo partiti da Bolzano il gran caldo ci ha lasciati e la sete anche. La sete terminava perché c’era più freddo ed è stata una fortuna. Per cinque giorni e cinque notti ci hanno dato una volta soltanto un po’ di brodaglia ma mai acqua. Non si riusciva a vedere né a capire da che parte andavamo. Alla fine siamo arrivati alla meta, era di sera. Il treno completo com’era è andato direttamente dentro nel campo, ci hanno fatti scendere e ci hanno fatti sdraiare sopra della paglia dentro delle baracche. La mattina dopo, prestissimo, il treno era andato via, ci hanno fatti uscire e hanno preso ad inquadrarci a seconda di dove dovevamo essere mandati. Fui assegnato in un paesino dove c’era uno zuccherificio, però era distante da lì perché si dovette prendere il treno normale per andarci. Lì trovammo la bella accoglienza dei prigionieri russi. Si sentivano anche loro parte di noi perché erano nella nostra stessa condizione anche se qualcuno diceva che noi eravamo dei deportati. […] Avevamo un capo campo e un interprete. Dico la verità, mi dicevo che finita la guerra quei due sarebbero stati da processare tutti, ma anche il sarto, il calzolaio e il barbiere sarebbero stati da mandare sotto processo: quelli erano una cricca molto peggio dei tedeschi. Il lavoro era pesante ma era compensato dalla comprensione dei tedeschi che rispettavano chi lavorava. […] Se qualcuno si ammalava che cosa succedeva? Se qualcuno si ammalava era meglio che non dicesse niente. Fin che sono stato lì sono stato bene poi iniziarono a dire che ci avrebbero mandati
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
63
in miniera. E infatti all’inizio del novembre ‘43 ci spedirono a lavorare in una miniera di carbone in Alta Slesia. Io e gli altri miei compagni eravamo allo scarico del legname. Era dura lavorare senza uno scopo ma non mi posso lamentare perché mi hanno trattato veramente bene. I tedeschi mi aiutavano e uno, ricordo, mi diceva: “Tu non sei italiano, tu deutschland, tu lavora”. […] Io ero fortunato, continuavano sempre a dirmi che ero un tedesco e non mi prendevano in giro mentre agli altri italiani dicevano parolacce tremende chiamandoli “merde”. Faceva freddo e ci voleva legna per scaldarci. Noi eravamo in una quarantina e i tedeschi non ci lasciavano andare tutti a far legna, solo alcuni tra cui io potevano farlo. C’era una squadra che girava e chiedeva chi voleva aderire alla Repubblica sociale. Ci fu uno, un carabiniere, che si diceva che l’avevano picchiato perché non aveva voluto aderire. La mia risposta fu che ero un cattolico e che il resto non mi interessava. Facevo il mio dovere però la mia religione non permetteva certe cose. Questa è la verità. […] Nel gennaio ‘45 c’era un freddo spaventoso. La mattina si andava via che era buio e la sera si tornava che era buio. Ci davano patate, carote, verze da mangiare così com’erano, crude. Eravamo abbandonati da tutti. Io mi arrangiavo scambiando sigarette e pane. Una mattina eravamo pronti per andare a lavorare quando arrivarono due macchine con otto SS. Io avevo avuto da dei civili del pane che a loro costava 5 ma io lo avevo pagato 100. Avevo due pagnotte da un chilo. Le SS mi vedono il pane e io dico: “Sono finito!”. Quando mi sono venuti a chiedere dove lo avevo preso ho fatto l’ignorante. Io sapevo infatti abbastanza bene il tedesco perché nel ‘38 avevo lavorato in Germania per 6 mesi in agricoltura. Interpellarono anche il mio caposquadra che comandava sul lavoro, lui mi aiutò veramente. Alla fine mi portarono via tutto, avevo anche del tabacco, e l’ufficiale delle SS mi lasciò in più due schiaffi. Non sapevo il rischio a cui ero andato incontro. A fine gennaio era tutto un fuggi fuggi generale. Delle truppe tedesche non si sapeva più niente. Visto che non c’era più nessuno a controllarci abbiamo abbandonato quel posto e siamo andati allo sbando. Volevamo andare verso gli americani seguendo le colonne di profughi in direzione sud. […] Un giorno i miei compagni mi portarono a casa di una famiglia tedesca per cuocere lì delle patate che ci eravamo procurati. La signora mi offrì del pane e degli abiti civili ma io rifiutai perché dicevo che non avevo bisogno di niente. Mi ricordo che era il 25 aprile perché chiesi di poter ascoltare la radio e mano a mano che cercavo le stazioni italiane ne trovai una che diceva: “In questa ora stessa cessano le ostilità”. Sono rimasto senza respirare. Non vedevo l’ora di tornare in baracca per dare la notizia. Quando lo dissi ai miei compagni, nessuno ci voleva credere. Ma in fondo ero così anch’io: se non lo avessi sentito con le mie orecchie non ci avrei mai creduto. […] Verso l’8 maggio siamo a lavorare come al solito e improvvisamente sentiamo suonare le campane, era tutto un grido! Era finita la guerra nel piccolo paesino dove eravamo, dei soldati tedeschi non ce n’era più l’ombra, eravamo rimasti solo noi prigionieri e i civili. Salutai il mio capo augurandogli di ritrovare in buone condizioni la sua famiglia e mi misi in viaggio per tornare a casa. Volevo andare da solo ma alla fine ho formato
64
G. PROCACCI (a cura di)
un gruppetto con un modenese e due siciliani. Ho preso la mia valigia con la roba e mi sono messo in cammino con loro. […] I russi ci hanno portati in una grande piazza di Praga dove c’erano molti altri italiani. Siamo saliti su un treno militare con ancora le mitragliatrici e i cannoncini. C’era del personale cecoslovacco ma anche tanti russi. Da lì ci hanno portati al confine con l’Austria dalle parti di Linz. Il treno si è fermato e siamo scesi tutti, c’era gente che arrivava da tutte le parti: sembrava un formicaio. Donne, vecchi, prigionieri, tutti cercavano di andare verso la parte americana. I russi ci hanno dato dei pasti caldi, ma poco. In una marea così era difficile capirci qualche cosa. Dopo due giorni siamo partiti in camion verso Salisburgo. […] Siamo arrivati alle porte di Salisburgo sempre a piedi. C’era una distesa enorme di gente di ogni nazionalità, specialmente italiani. Io allora chiedo informazioni a due donne austriache e loro mi rispondono che si sta formando un campo di concentramento attorno a Salisburgo e ci porteranno tutti quelli che arrivano lì come me per evitare saccheggi e disordini. C’era gente accampata un po’ dappertutto che ammazzava vacche, cavalli, polli, tutto per mangiare. Poco lontano ho trovato una vecchia signora e le ho chiesto sa aveva delle uova, del burro, qualche cosa, da vendermi: lei si mise a piangere. Erano stati gli italiani a portarle via tutto, ma io non lo sapevo, me lo disse dopo. […] Gli altri decisero di restare a Salisburgo mentre io cercai di andarmene per tornare a casa. Non volevo trovare un altro posto di blocco e una donna che trovai mi disse di camminare lungo la ferrovia. Così feci e camminai fino ad una stazione, passai la notte lì e il giorno dopo quando sono ripartito ho camminato solo per 50 metri quando mi ferma un soldato americano che mi parla in italiano. Era figlio di emigranti, gli ho mostrato il foglio che mi avevano lasciato a Salisburgo e lui mi disse che senza il timbro degli americani o degli inglesi non potevo viaggiare. Mi fece salire con lui su un treno che portava i prigionieri tedeschi a ricostruire un ponte. […] La mattina ho ripreso il mio viaggio e sono arrivato ad un posto di blocco inglese. Il problema era che non ci capivamo, loro parlavano solo inglese e non capivano niente di italiano o tedesco. Mi hanno dato un pacchetto di gallette inglesi e mi hanno fatto capire di dover prendere la direzione di Venezia. Più tardi è passato di lì un camion e mi hanno caricato. Arrivati al confine con l’Italia, a Tarvisio, ci hanno fermati i partigiani. Io ero il solo prigioniero che tornava, hanno detto solo a me di scendere e mi hanno anche puntato addosso il moschetto perché non volevo saltare giù dal camion. Hanno preso giù i miei dati, hanno registrato che stavo rientrando e mi hanno lasciato partire solo più tardi quando è arrivato un altro camion. Non mi hanno chiesto se avevo bisogno di mangiare. […] A Mestre ci hanno preso in consegna gli inglesi. Mi hanno dato finalmente una scatoletta di minestra, un panino e delle gallette e finalmente ho mangiato. Mestre è stato l’unico posto dove ho trovato assistenza verso quelli che tornavano. […] In periferia di Padova scesi. C’erano tantissimi camion ma erano tutti fermi e con delle guardie. Io ho fatto gruppo con altri sei, c’era uno di Modena di cui non ricordo il nome, un ragazzino che tornava da una licenza, e ci siamo messi in cammino a piedi verso Bologna. Io avevo per
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
65
fortuna ancora il mio zaino con della roba da mangiare che mi portavo dietro dall’Austria. Alla fine lungo il cammino siamo rimasti solo io e il ragazzino. […] Siamo scesi proprio di fronte alla torre degli Asinelli, a Bologna. […] Poi abbiamo continuato fino in via Emilia, lì vediamo un camion targato Modena carico di fusti vuoti. […] Quando arrivo a Sassuolo in piazza non c’era anima viva, ma incontro un signore che mi dice che la corriera per la montagna la domenica non c’era più. Allora dico: “Ci sarà il cavallo di San Francesco”. E parto a piedi verso La Veggia. Dopo molto passa una Topolino, la fermo ma il signore che la guida mi dice: “Non c’ho posto”. Io gli dico: “Vedrai che lo troviamo. Lì c’è più posto di me e comunque tu non te ne vai da qui prima di avermi fatto salire”. Così costretto mi fa salire e mi porta fino al ponte per La Veggia. Il ponte era stato bombardato e ci siamo dovuti fermare. Da lì sono partito da solo per casa. A Vetriolo il primo che ho visto è stato uno dei miei fratelli che però non era sicuro di riconoscermi. Era il giorno della festa del Calvario. Dall’Austria ci ho messo 21 giorni a tornare a casa. Finalmente ritrovavo mia moglie e mia figlia, tutti i miei fratelli, tranne due ancora prigionieri in Jugoslavia, e i miei genitori. Ero contentissimo perché finalmente ero tornato a casa mia. […] BRUNO BARTOLI - 1924 - Sestola (Mo) - Soldato Ero in provincia di Trieste al 5° genio, 26° settore Gaf, che sarebbe guardia di frontiera, sono andato là con l’ultimo scaglione del ‘24 per fare istruzione di radiotelegrafista. […] Sono arrivati i tedeschi il 9 settembre, ma già dai giorni prima c’era un certo giro attorno alla caserma. Eravamo in 5.000 in quella caserma, c’erano, ricordo, i guastatori, che erano malmessi perché facevano tutto loro. Quando il colonnello ha fatto l’adunata in piazza d’armi ci disse: “Adesso andate a casa, chi può scappi perché abbiamo i tedeschi attorno. Se c’è un coraggioso…”. C’era un carro armato, davanti al portone con sette o otto tedeschi, sarebbe stato un compito dei guastatori, però erano tutti spariti. Allora ci hanno fatto buttare le armi, quelli che le avevano perché noi dovevamo ancora fare il giuramento e non eravamo armati. Poi l’11 settembre alla mattina ci hanno portato in fila alla stazione dei treni di Opicina e ci hanno portato in campo di concentramento. Abbiamo così passato cinque giorni in cui da mangiare avevamo della gallette che avevamo preso dalla caserma, ci siamo poi fermati in due stazioni dove ci hanno dato un brodetto e basta. […] Dentro dei vagoni come le bestie. Sette cavalli e 40 uomini, eravamo in 70 uomini e neanche un cavallo. I tedeschi come vi trattavano? Col calcio dei fucili se uno andava piano. Dentro al vagone eravamo chiusi con il catenaccio di fuori e così, chi la faceva lì, chi la faceva là. Dopo ci hanno portato in Prussia. Quando si fermava il treno in campagna, davano la possibilità di andare a fare i bisogni, questo solo due volte. Poi siamo arrivati al campo IB, in Prussia. Era vicino a Königsberg. Andavo a lavorare alla Scico, erano cantieri navali. […] Poi da lì mi hanno mandato in Austria.
66
G. PROCACCI (a cura di)
Vorrei tornare sul primo campo. C’erano anche altri prigionieri? C’erano degli ebrei, dietro un reticolato. Li ho visti per tre o quattro giorni, erano donne ebree. Mi dissero che erano polacche. Poi c’erano dei russi, io ho lavorato con degli ucraini dopo nella fabbrica. Quindi sono stato quattro giorni nel campo IB, poi due settimane nella filanda. Le ebree le ho viste nel campo, perché era un campo di smistamento. Era molto grande, ci entrava dentro il treno intero. In tutto lì saremo stati circa in diecimila. Non ci davano niente da mangiare, acqua e due fettine di pane, a volte un pezzettino unico di pane. Nell’acqua c’erano due pezzettini di patate. […] Sono stato a Königsberg due mesi, poi con un viaggio durato sette giorni mi hanno mandato a Linz in Austria, poi ho fatto tre mesi in prigione perché avevo tirato una chiave ad un tedesco. Ci hanno portato vicino a Linz ad Ashfeld [sic]. Era un paesino a 40 km da Linz, c’era un piccolo campo di concentramento lì, ci saranno state dieci baracche non di più. A Linz, ci lavavamo con la birra, perché con i marchi del campo si poteva comprare la birra, e noi la usavamo per lavarci, eravamo pieni di pidocchi. Inizialmente il campo non era ancora finito, non c’era l’acqua. La maglia era nera. C’erano le cimici nei pagliericci. In altri campi c’erano i lavandini. Quando sono arrivati i russi avevamo trovato della stoffa in un negozio abbandonato e un soldato di Matera, che faceva il sarto mi aveva fatto un paio di pantaloni. Tutte le mattine alle quattro andavamo a prendere un trenino locale che ci portava a Linz in stazione dove lavoravamo alla manutenzione dei vagoni e delle locomotive. C’era un capo austriaco senza un mano che era cattivo, cattivo, cattivo come la fame. Lui dava gli ordini, parlava anche un po’ di italiano. In gennaio, c’era freddo e nei padiglioni dove riparavamo vagoni e locomotive mettevano dei fusti di ferro con dentro del carbone per scaldare. Io a lavorare mi sono trovato bene, una volta avevo finito presto e mi avevano detto che fino a mezzogiorno potevo riposarmi, allora ero andato a scaldarmi. Ho messo uno sportello di una locomotiva su un braciere e poi mi sono messo dietro con la cassetta degli attrezzi, che poi dovevo sempre riconsegnare, volevo togliermi i pidocchi che avevo e buttarli a bruciare sullo sportellone rovente, lì non c’era la disinfezione e allora me la volevo fare io. Arriva all’improvviso questo capo da dietro e mi dà una pacca con la mano di gomma facendomi cadere sulla cassetta degli attrezzi e così sono finito proprio su di una chiave di ferro, l’ho presa e gliela ho tirata addosso. L’ho fatto cadere. Lì qualche italiano buono mi ha poi preso e fermato. Per questo, sono stato in campo di concentramento in prigione e poi mi hanno rimandato a lavorare. […] Ero in prigione, in campo di concentramento, c’era una stanzetta dove c’era davanti una guardia, era un sergente austriaco buono. Ricordo che lì c’era il capo campo, lui e poi un’altra guardia. Poi, dopo due giorni mi hanno rimandato a lavorare. Un bel giorno mi hanno chiamato per andare al processo a Linz. C’era un tenente che parlava benissimo l’italiano che mi chiese se avevo la roba dietro, si vede che sapeva già che mi avrebbero mandato in prigione, poi c’era l’interprete austriaco che mi suggeriva delle cose per discolparmi. Il tenente prima di andare via mi riempì lo zainetto di biscotti che la Croce rossa mandava ai francesi, c’era della brava gente anche lì. Dovevo andare in prigione in Polonia, a Graudenz. Così fui mandato in Polonia tre mesi. […]
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
67
C’era solidarietà fra di voi prigionieri? Nei campi sì, ci si conosceva, dalle altre parti invece… Se si poteva ci si rubava anche il mangiare. […] Io mi sono trovato meglio in prigione che in campo di concentramento. Lì c’erano inglesi, francesi, indiani e facevano un rancio per tutti. Le rape non piacevano agli inglesi, per cui ne rimanevano sempre e io ne mangiavo. Anche lì si dormiva nei letti a castello. Un giorno presi delle sberle da una guardia. Avevo male a un dente e in infermeria me lo otturarono, non so cosa ci avevano messo e mi diedero un giorno da stare in branda. Fatto sta che la medicazione mi dava fastidio, insomma sputai fuori dalla finestra e come lo feci vidi una guardia che mi aveva visto. È venuto subito su, credeva che avessi fatto apposta, mi diede una fila di schiaffoni, poi non mi disse niente perché aveva capito che avevo sputato per quel motivo lì. Da lì mi mandarono poi in un convalescenziario a Brandeburgo, dopo avere fatto la prigione mandavano lì, io ci sono rimasto un mese. C’erano americani, russi che erano poi di là, perché erano in un altro campo attaccato. Lì è successa una cosa brutta. C’erano delle baracche, divise da camminamenti antiaerei, i russi ci si nascondevano dentro in due e poi gli americani che erano trattati bene davano loro da mangiare. Noi non ci potevamo andare, i russi avevano fatto un buco nella rete passavano e ritornavano di qua. Noi stavano fuori, davanti alle baracche perché si stava bene, c’era caldo. Vedo un giorno questi russi che mi hanno fatto segno per sapere se vedevo la sentinella, che poi si è saputo che era un francese volontario. Subito ho visto che c’era e ho fatto loro segno, poi dopo un po’ non c’era più e allora ho dato il via libera, probabilmente però la guardia aveva capito che io facevo i segni, quindi questi russi sono passati di là dove c’erano i gabinetti che erano rialzati da terra, ho sentito subito il rumore di spari e ho visto un russo morto. Lo hanno lasciato lì due giorni col caldo che c’era, poi sono venuti dei russi con una barella fatta con delle frasche a portarlo via. Questo episodio ce l’ho sempre in mente perché è stata anche colpa mia. Dopo due minuti c’era un plotone di tedeschi a vedere cosa era successo. […] Per i francesi e gli americani c’era anche la piscina dove facevano della gare. […] Mi hanno mandato poi a Graz a fare fortificazioni perché c’erano i russi che dovevano arrivare. Ci diedero una medaglietta identificativa come quelle dei ferrovieri perché eravamo vicino al fronte e molti morivano sotto ai bombardamenti. […] Come era la popolazione civile? I ragazzi poi erano delinquenti. Una volta stavamo facendo un camminamento in un bosco e c’erano delle ghiande, noi le mangiavamo, faccio per prenderne una e un tedesco mi ha schiacciato la mano con lo stivale. Un’altra volta stavamo pulendo una piazza con la scopa, arriva un ragazzino e mi dà un pezzo di pane, sembrava che ci fosse dentro della margarina, invece era sabbia, ed erano bambini. […] Avevamo ancora le divise vecchie, qualcuno si era fatto una maglia con delle coperte che ci eravamo portati dietro. Noi parlavamo solo di mangiare, non è che avessimo grandi speranze. Per quanto riguarda il freddo, dove lavoravamo c’era il carbone per fortuna. Come scarpe avevamo degli zoccoli di legno, io personalmente ho tenuto le scarpe militari per un po’, ma c’erano quelli che le vendevano per un po’ di pane. C’era
68
G. PROCACCI (a cura di)
un alpino che dava via le sue due fette di pane per due sigarette, dopo alla sera lui guardava quelli che mangiavano e lui aveva già fumato. Come erano gli orari di lavoro? Otto ore, ci davano il rancio a mezzogiorno, dipendeva poi dai posti, a Brandeburgo era così. Lì tempravamo le corazze, c’era un reparto dove arrivavano i motori, invece nel reparto dove ero io mettevamo questa corazze negli altiforni, dove c’erano 24 canali di gas che tempravano, venivano fuori e le mettevamo a seconda della tempra che davano in vasche o di olio o d’altro e c’era un fumo dentro questi capannoni che era tremendo. Lì a tagliare le lastre d’acciaio erano tutte donne ucraine. Io tenevo dietro ai diagrammi per gli altiforni, perché ogni cannello del gas aveva un indicatore di calorie e se non veniva fuori il gas lo segnava. Avevo anche il tesserino per potere girare per tutta la fabbrica dove c’erano gli altiforni. Lì tutte le mattine dovevo andare là con il fascio di diagrammi per cambiarli e tirare via quelli del giorno prima per portarli in ufficio. […] Sentì parlare i tedeschi dei russi che stavano arrivando? Sì, avevano molta paura. Una volta venne un SS, gli si era inceppata la rivoltella. C’era un francese lì che era bravo a lavorare e fu capace di metterla a posto e il tedesco gliela lasciò perché il francese aveva paura dei russi. Noi invece ridevamo, perché i russi non ce l’avevano con noi, ce l’avevano più con i francesi che collaboravano che con noi. Noi non vedevamo l’ora che arrivasse qualcuno a liberarci. Siamo scappati verso gli americani perché correva voce che avessero i mezzi per portarci a casa prima. Quando siete arrivati dai russi avevate paura? No, ci davano da mangiare, sempre dello spezzatino, dormivamo nelle case private che erano abbandonate perché i tedeschi erano scappati via, eravamo in un paese che si chiamava Buckow [sic]. Avevano portato via tutto, mi ricordo però che c’erano delle sedie fatte con delle corna di cervo. […] Come è stato il rimpatrio? Ci hanno caricati su di una tradotta e ci hanno portati fino a dove c’erano gli americani, attorno a Berlino est. Da lì ci hanno preso in consegna gli americani. Loro ci hanno portati ad Innsbruck, dove c’era la disinfezione, poi ci hanno portati a Pescantina tutto in jeep e camion. […] Non ho mai raccontato niente della mia storia. Lo faccio adesso, ecco, ma non l’ho mai fatto prima perché non ne voglio sapere. A volte ne parlavo con gli amici, così. Però preferisco non parlarne. Una volta ho visto un abruzzese, mettevamo a posto un magazzino per i cavalli, quando ero in Polonia. Lui riuscì a prendere dei piselli e a portarli dentro. Li stava cuocendo, solo che c’era il coprifuoco e la guardia allora è venuta dentro, ha spento il fuoco e ha buttato tutto per terra. Quello che li stava cuocendo è scappato quando ha visto la guardia. È ritornato poco dopo che il tedesco se ne era andato e ha preso su i piselli ad uno ad uno, ha provato ancora a cuocerli ma la guardia stava tornando allora li ha mangiati crudi. Il giorno dopo stavamo lavorando in un campo di patate, lui li aveva fatti interi perché li aveva mangiati crudi e li stava pulendo con l’acqua per cuocerli di nuovo. Ha mai avuto paura di morire? No, io avevo paura di rimanere senza un braccio senza una gamba, ma se fossi morto avrei avuto piacere. La cosa terribile era la fame. La fame
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
69
peggiore è stata quando ci hanno portato da Königsberg in Austria, ci avevano dato un filone di pane e basta. L’ho finito il primo giorno dopo per gli altri sette è stata dura, ci davano ogni tanto un po’ di zuppa e dell’acqua. Per la fame si sveniva lì e basta. E i prigionieri russi stavano ancora peggio. Gli inglesi non mangiavano neanche il cibo che facevano i tedeschi, loro avevano i pacchi con la roba da mangiare. La davano anche via ma sempre in cambio di qualcosa mai per generosità. Anche a me è arrivato un qualche pacco, che poi si divideva in baracca. Me ne sono arrivati due su tre che la mia famiglia mi ha spedito da casa. A quelli del meridione invece niente non scrivevano neanche. Un po’ la fame univa. Nei pacchi c’era della roba da mangiare, come delle gallette. Erano pochi i pacchi che arrivavano perché gli italiani che lavoravano allo smistamento dei pacchi se riuscivano rubavano qualcosa. C’era differenza tra Wehrmacht e SS? Sì, le SS non c’erano neanche in fabbrica. I soldati che ci facevano la guardia erano tutti vecchi, quando ci chiamarono nel campo per passare civili, le guardie ci dicevano di non firmare perché avevano paura di venir mandati al fronte se lì non c’era più bisogno di loro. Non firmava nessuno perché avevamo paura di dovere poi andare a combattere, allora ci hanno messo civili d’ufficio. Come venne accolto a Pescantina? C’era una baracca con un prete, c’era scritto Modena e c’erano panini, pasta e del vino. Siamo stati lì tre o quattro ore poi è venuto a prenderci un camion e ci ha portato al distretto a Modena, abbiamo passato la notte lì e il giorno dopo siamo andati a Sestola. Dopo 15 o 20 giorni mi hanno chiamato per interrogarmi, ci hanno chiamato tre o quattro volte al distretto dove un ufficiale italiano ci interrogava per sapere se eravamo veramente stati prigionieri. […] E. B. - Ufficiale di complemento […] Dunque io sono un ufficiale degli alpini, l’8 settembre mi trovavo a Merano dov’ero di servizio e, alla sera, gli ufficiali sono stati chiamati diciamo così a un colloquio fra tutti per valutare i fatti che erano successi perché era l’8 settembre. Dunque, la sera decisero, gli alti ufficiali, quelli di grado superiore al capitano avevano deciso di fare una resistenza in Merano poi c’eravamo noi tapini vale a dire quelli come me che io ero solo sottotenente abbiamo detto: “No. Noi siamo alpini andiamo in montagna e dalla montagna guardiamo le situazioni!”. E loro: “No!” […] E naturalmente alla mattina ci siamo trovati circondati, catturati, ma la presenza degli ufficiali superiori non c’è stata! […] Essendo ufficiali ci hanno costretto solo alla fine al lavoro, hanno prima fatto delle avances o meno, pressioni psicologiche... sono quelle che sono state insomma. Naturalmente mi ricordo che mio padre si adoperò per fare arrivare dei pacchi per poter farmi mangiare, dei pacchi di sopravvivenza e ne ricevetti uno solo. Ma lui li ha spediti in tutte la parti del mondo; naturalmente erano fagocitati, presi e utilizzati in un altro modo, e questo lo possiamo capire. E in questa loro pressione perché noi lavorassimo per fare un buco, delle buche e delle fosse anticarro lei
70
G. PROCACCI (a cura di)
capisce che noi aprivamo un buco e ne chiudevamo un altro questo era il minimo che si poteva fare. […] L’ufficiale non è stato costretto a lavori infamanti o robe del genere, veniva angariato in altri modi: non so, facevano la riunione di tutti per contarci, simulavano che mancasse uno, e allora noi per delle ore in piedi ad aspettare al freddo, roba alla tedesca insomma. […] La mia scelta è stata motivata dal fatto che primo non andavo d’accordo coi tedeschi e secondo perché non ho fatto la guerra per l’Italia figurarsi se la facevo per loro, terzo io ero negli alpini che avevano come particolare, diciamo così, avversione al tedesco, perché si ricordavano quello che era successo in Russia. Io poi sono della Tridentina si figuri un po’. Ho avuto la fortuna di non fare della Russia e la sfortuna di fare la prigionia. […] Noi degli alpini eravamo in sette; la maggioranza erano dei bersaglieri, sommozzatori, paracadutisti, tutta gente che di militare ne avevano poco. Però per loro andavano bene. Noi ci presentammo dentro la caserma degli alpini in divisa fascista e quello che abbiamo suscitato dio solo lo sa... perché era abnorme per gli alpini avere un fascista in mezzo a loro all’epoca. E senza motivazioni particolari. Così. Ma gli alpini soprattutto quelli che venivano dal Nord Italia, quelli che erano da sempre a contatto con i tedeschi ce l’avevano con i tedeschi. […] Infierivano anche fisicamente su di voi? No. Io non ho mai avuto… io ho avuto una punizione solo quando mi hanno trovato che chiudevo i buchi che poi dopo che mi videro tornati al campo ebbi la punizione fisica: era la notte che si lanciarono i paracadutisti e quello fu il motivo per dire a me stesso: “Affrettati a scappare perché altrimenti puoi andare in un campo di punizione”. Io ho visto trattare gli altri in altre maniere, per esempio come trattavano con i guanti bianchi certi militari ma anche civili di nazionalità tipo americano o inglese come ho visto trattare nel peggiore dei modi i russi. […] Queste cose non interessano a nessuno e io non ne parlo mai con nessuno. Neanche con i suoi familiari? Beh a volte ne parlo con il piccolino [il nipotino] che mi dice: “Nonno mi racconti qualche cosa?”; per il resto con nessuno. Anche perché quelli che raccontano la loro esperienza di prigionia sono quasi sempre guidati da una specie di mania di grandezza che li porta a modificare i fatti, a travisare la realtà e questo non rientra nei miei piani […] C’era la possibilità di aiutarsi nel lager? Sì. Ad esempio se lei si sentiva poco bene come poteva saltarci fuori? Bisognava che ci fosse uno, almeno uno che la aiutasse, che facesse quelle cose... che... il fatto di “volemose bene” era molto importante perché poi c’erano quelli che avevano nostalgia e che andavano giù di testa, perché poi nel lager il guaio era proprio la questione psicologica perché poi i tedeschi indipendentemente dal fatto che sono tedeschi non sono cretini... perciò loro sapevano che i prigionieri andavano trattati in un certo modo, con poca umanità anzi con nessuna umanità, però non erano stupidi, questo no. La mia paura quando ero militare era... io temevo una cosa: temevo che mi facessero comandare un plotone d’esecuzione. Questo io non lo avrei fatto. Non lo avrei fatto. Chiuso. […]
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
71
Avete subito la violenza dei tedeschi? Io personalmente no. Non c’è stato un tedesco che mi ha dato una bastonata o roba del genere, e però sono stato psicologicamente distrutto. Poi : “Vigliacco! Traditore! Badogliano!”, era il minimo. Poi c’erano le lusinghe: che potevi andare a casa, che potevi stare meglio, e roba del genere. Poi dopo tanto tempo tutti i tuoi indumenti e roba del genere erano tutti rovinati perché non avevi mica l’attendente che ci tenesse dietro, e poi il non mangiare... […] Deblin, glielo posso illustrare, è una... era una roccaforte militare francese in Polonia, di Napoleone, dell’epoca napoleonica. Perciò basse, curve, corridoi stretti, umidi, e quella era ‘sta fortezza a Deblin Irena, e noi fummo cacciati lì dentro divisi in tanti blocchi che lei ha visto il cartellino del blocco. E lì molti hanno passato buona parte della prigionia, quelli che fisicamente erano meno prestanti spesso ci hanno lasciato la vita tra gli stenti morali, fisici, eccetera, di salute, a me mi ha salvato abbastanza la salute. […] Perché ha bruciato il suo diario di prigionia? Non ho bruciato solo il diario. Ho bruciato tutto. Io ho bruciato tutto perché non volevo più avere nessun rapporto con quel mondo, con quel periodo della mia vita. Sono venuto a casa, qui sotto non c’era questa casa qui, ho fatto un mucchio, ho preso una tanica di benzina e ci ho dato fuoco. […] Dal punto di vista diciamo fisico quello che colpiva di più era la fame, dal punto di vista morale era l’impossibilità della ribellione. REMO BAZZANI - 1923 - Sestola (Mo) - Soldato […] Eh, è arrivato l’8 settembre, il mattino ci siamo trovati lì nelle caserme una grande invasione di partigiani di Tito. L’8 settembre voi avete appreso dell’armistizio dalla radio? L’abbiamo appreso perché abbiamo sentito un pochino la radio e un pochino perché... gli ufficiali erano già andati, tutti. Ci hanno proprio abbandonato alla deriva. […] Poi ci siamo incolonnati e fortunatamente abbiamo trovato un capitano degli alpini. Che non era in caserma con voi... lo avete incontrato successivamente? No! No, per caso. Non lo avevano trovato i tedeschi, chissà. Disse, vi accompagno io a Trieste. Aveva di quelle cartine militari; attraverso i boschi so che abbiamo viaggiato un paio di giorni e una notte. Poi dopo arrivammo lì sotto Trieste a Opicina e ci incamminammo lungo un sentiero e lì siamo incappati in un posto di blocco tedesco. Li concentravano lì, come niente fosse, insomma, un’indifferenza, senza incolonnarci, comandarci, niente; concentravano lì e poi stavano lì un po’ in guardia che non andassimo via. […] Arrivati a Opicina, l’ufficiale è sparito, l’han portato via i tedeschi, così siamo rimasti lì e poi dopo ci hanno incolonnato e ci hanno portato giù a Trieste in stazione. […] Un particolare, quello mi è rimasto molto impresso: come siamo arrivati in Trieste, ci incamminavamo verso la stazione, è saltato fuori dalla
72
G. PROCACCI (a cura di)
colonna un triestino che aveva visto sua madre, credevano poi che scappasse o cosa, insomma, con una raffica lo hanno fatto fuori. […] Poi abbiamo viaggiato fino a Vienna. A Vienna siamo stati fermi che suonava l’allarme. Ci hanno messo lì fermi in stazione dentro ‘sti vagoni. Loro, i tedeschi se la sono svignata che prevedevano bombardamenti. Di noi se ne fregavano. Non gliene fregava niente. Poi dopo, cessato l’allarme siamo ripartiti. Per quanto riguarda il cibo, vi hanno dato qualcosa? […] Niente. Dopo, non mi ricordo se è stato dopo un giorno o due, che arrivammo su al IIIC a Küstrin, su ai confini della Polonia. […] Poi arrivando là trovammo un campo a parte, e c’erano tutti ‘sti ufficiali, generali, colonnelli, tenenti colonnelli, capitani, maggiori. Tutti là aggrappati a ‘sta rete metallica. […] Tutti là aggrappati... mi viene sempre in mente perché... “Militare, dammi una sigaretta”... vacca boia, come si erano ridotti. Con la fame anche loro. […] Eh, c’erano tutti ‘sti soldati, “Eh, te la do io la sigaretta!”. […] Quindi l’atteggiamento dei soldati verso gli ufficiali era di disprezzo. Altro che! […] Anche perché ci hanno piantato lì alla deriva; eravamo dei ragazzi, io avevo 19 anni; comunque, dopo siamo stati lì un giorno e una notte che è venuto a piovere e siamo stati sotto l’acqua. […] Poi dopo, finalmente, due o tre giorni ci incolonnarono; ah, eravamo nei capannoni tutti insieme. C’erano da una parte sette-otto bidoni così dove andavamo a fare i bisogni, tutto lì. Dentro chiusi ermeticamente, comunque, dopo finalmente eravamo quei sette-otto del paese, tutti insieme. “Stiamo uniti, stiamo uniti che almeno rimaniamo insieme”. […] Io sono stato portato a Berlino. […] Küstrin... strada facendo eravamo derisi, sputacchiati, insultati da ‘sti tedeschi. Dalla popolazione, dai civili. Certo. Ci davano dei badogliani. E poi ci facevano tutte di quelle cose lì. “Italiani merda”. Sheisser in tedesco, merda. Comunque siamo poi arrivati a ‘sto campo. Nel campo, il giorno dopo arrivarono in tre o quattro di quei gerarchi fascisti coi berretti, e vennero, ci facevano domande un pochino, bei discorsi, chi voleva aderire alla Rsi, chi voleva andare perché qui, perché là, insomma, per quanto mi risulta, ci andarono una diecina, non di più, di sicuro. Una decina; su quanti? In quanti eravate? Eravamo in tremila. E loro promettevano il ritorno in Italia al servizio della Rsi. Certo; ma ‘sti gerarchi tornarono via piuttosto indignati, con una rabbia [ride]. Anche perché c’era sempre il discorso che: “Cosa vuoi che andiamo a fare che finisce presto”. […] poi ci hanno concentrato in un campo, nelle baracche, e poi ci portarono a lavorare in una fabbrichetta lì, alle porte di Berlino. Eravamo a Straussberg, ad 8 km da Berlino, e lì lavoravamo in una fabbrichetta che facevano i 20 millimetri; noi facevamo i bossoli; 12 ore, una settimana di notte, una settimana di giorno; quando suonava l’allarme andavamo fuori, e nei rifugi non ci volevano. […] No, “Italienisch raus!”, “Italiani fuori!”. Stavamo così alla fortuna.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
73
[…] C’erano poi francesi, cecoslovacchi, greci, rumeni, bulgari, ungheresi, spagnoli... tutto un minestrone... tutti lì. […] Da mangiare, veramente, andavamo dopo che avevano mangiato i tedeschi, i polacchi, che i polacchi erano quasi collaboratori; i tedeschi stavano discretamente, i russi erano i peggio trattati, proprio, come gli ebrei. E dopo andavamo noi e delle volte se rimaneva qualche cosa si “rusgava” qualcosina in più, ma del resto anche in fabbrica c’erano dei tedeschi che prendevano dietro lo spuntino, diciamo così. […] Ci davano 75 papiroska al mese, son di quelle sigarette lunghe, polacche, che poi c’era tre quarti di cartone, vuoto, e un pezzettino di tabacco così. Ma quelli che davano via la razione... ne sono morti tanti. Incominciavano con, ci veniva, ci gonfiava le palpebre sopra e sotto che addirittura non ci vedevano dalla debolezza. Poi dopo ci incominciavan a gonfiare le gambe e poi la faccia e poi dopo sparivano. […] È arrivata la Croce rossa, che ci portarono un po’ di riso e poco altro, quasi niente. […] Dopo finalmente sono cominciati ad arrivare queste colonne interminabili di profughi tedeschi, e scappavano dal confine della Polonia, scappavano all’interno; c’era una propaganda così spietata contro i russi che sembrava che mangiassero i bambini, insomma, e un particolare... vacca bestia, però, comunque anche gli americani... c’erano delle colonne che erano lunghe come da qui a Fanano, sa; donne, vecchi, bambini. Arrivavano ‘sti disgraziati di americani, non si abbassavano a mitragliare quelle colonne lì? Sempre per demoralizzare la popolazione. Poi noi da quel campo lì scappammo quasi in centro a Berlino. […] Andammo vicino a Berlino; so che andammo dentro ad un ex campo o meglio sarà stato un campo che vi saran stati dei prigionieri che saranno scappati, non lo so; comunque c’erano delle baracche e poi c’era un rifugio, sa quei rifugi a zig-zag coperti magari con delle tavole e un po’ di terra sopra, paraschegge. E andammo lì, ci siamo stati 75 ore, senza venir fuori. Cannoneggiamenti in continuazione, ma un lavoro incredibile, proprio una cosa impressionante. […] Come siamo andati fuori da questo campo, eravamo proprio in prima, prima, primissima fila del fronte perché c’erano tutti i russi che stavano scavando dei camminamenti di difesa, poi arrivammo lì mentre stavano uscendo tutti quanti; arriva un ufficiale russo disse, parlava l’italiano: “Scappate!”. […] Perché prevedevano poi sempre l’arma segreta che parlava Hitler, della bomba atomica; […] ed allora gli dicemmo: “Abbiam fame!”; erano 75 ore che eravamo dentro senza mangiare. Allora ci disse: “Andate a vedere se trovate qualche cosa, ah, ah, ah...”. Ah, si trovava qualcosa; chi arrivava... uno è arrivato con una mucca... avesse visto come ci volavano addosso, ‘sta povera mucca; scotennarla viva e mangiar la carne così. Succhiavano il sangue come i vampiri, mangiavan dei pezzi di carne; chi arrivava con delle galline, con una capra, con dei conigli. […] Saremo stati in 200. Proprio nel centro della battaglia di Berlino, proprio nel centro completamente. C’erano dei pezzi, una gamba qui, una testa là, in terra come delle volte si vede dei rospi che ci ha passato su un camion, una macchina, si vedevano di questi poveri soldati che gli era passato sopra un carro armato, una cannonata, roba da non credere, addirittura; poi strada facendo ci arrangiavamo perché non ci davano mica
74
G. PROCACCI (a cura di)
niente da mangiare; andavamo a trovare qualche cosa negli orti, poi crudo, mangiavamo qualcosa. Poi finalmente, dopo, sempre a piedi eh, tutto a piedi, non so quanti giorni... dal 25 aprile abbiamo camminato a piedi fino ai primi di maggio; arrivammo a Varsavia. A Varsavia ci davano qualcosa da mangiare, poi siamo stati lì a fare niente fino ai primi di giugno. […] Eravamo accampati, ma ognuno poteva andare dove voleva..anche tornare a Berlino […] E poi dopo il 2 giugno o il 3, ci portarono in stazione; si parte, si parte, si parte, contenti come i matti, andiamo a casa, andiamo a casa... in stazione alla sera alle dieci. Da Varsavia questo? Da Varsavia. Poi ci incamminammo tutta la notte, caro mio, al mattino ci accorgemmo che andavamo verso nord. Poi viaggiammo tutto il giorno, tutta la notte, tutto il giorno dopo; arrivammo in un ex campo di concentramento a 450 km sopra Mosca. […] Tutto americano il mangiare. E poi partimmo finalmente e poi non venimmo giù, perché siamo stati in viaggio tutto il mese di agosto. Luglio a Varsavia, agosto in Russia; andammo a finire in Romania, attraversammo la Bassarabia, poi venimmo qua in Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Austria perché, lo imparammo che, loro, avevano le linee dirette per andare a Mosca che stavano saccheggiando, portando via tutta la roba bellica, dalla Germania la portavano in Russia. Allora le linee erano tutte intasate per la roba che portavano su. […] Arrivò un soldato americano; ci voleva prendere in consegna ed i russi cominciarono a litigare tra loro; “No, li ho presi in consegna e li porto in Italia, cioè li porto fino a dove...”; “No, li devo prendere io!”. […] Dopo poi imparammo che noi eravamo destinati ad andare ai lavori in Russia e a non tornare più, lo imparammo da fonte sicura che l’interessamento americano... “Ma questa gente qui la portate a casa, non in Russia”. E di lì poi arrivammo a Pescantina, ci schedavano, c’era la Croce rossa che ti chiedeva. […] La religione ha avuto un ruolo, per lei o per qualcun altro, cioè si pregava? No. Trovammo qualcuno a Varsavia, ma poco. Nel campo no, fra di voi... Mai. […] CARLO BERTINI - 1924 - Sassuolo (Mo) - Soldato Gruppo di appartenenza? Genio IV reggimento di stanza a Bolzano divisione trentina; ero telegrafista perché l’ho fatto durante il pre-militare; avevo fatto il corso da telegrafista quindi ho fatto il genio telegrafista, fatto poi poco perché sono andato il 17 agosto 1943 perché chiamato di leva sono stato a Bolzano, non ho mai avuto il fucile perché non so neanche che cosa sia perché non li avevano in quel momento lì e sono stato lì fino all’8 Settembre. […] L’8 settembre il comandante del reggimento ci aveva chiamato ed ha detto “Le reclute vadano a dormire, gli anziani vadano fuori di pattuglia a vedere cosa succede fuori”. Armati o disarmati?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
75
Armati. Allora c’è stato chi ha detto “Oddio andiamo a casa, è finita la guerra”. Chi era contento chi non lo era perché non si è capito bene cosa era successo. […] E lì la sera è stato questo il fatto: che a un certo punto non si è più visto, mi hanno detto i miei compagni, un soldato tedesco in giro, dove sono, dove non sono, nessuno ha visto più nessuno; i soldati anziani, sono andati un po’ in pattuglia, hanno girato un po’, poi sono tornati e allora noi verso mezzanotte, siamo andati in branda a dormire, alle 2 di notte, 2,30 sentiamo due-tre colpi di mortaio e noi giovani non ci rendevamo conto di cosa fosse successo e a un certo punto sentiamo una voce che dice: “Venite giù, venite giù!”. Allora abbiamo preso la coperta che avevamo e la gavetta, siamo andati giù e c’era già il tedesco che ci ha presi su. […] C’era un carro armato tedesco davanti al portone, che stava per sparare e invece no, perché non si è visto più nessun ufficiale, nessuno che dicesse niente e praticamente siamo rimasti così! […] Allora noi siamo stati lì fino alle sette, poi hanno iniziato a incolonnare e portare nel fiume, nel letto del fiume Tolvera, e ci hanno tutti ammassati e mentre siamo usciti c’era tutta la popolazione alto-atesina che ci sputava in faccia, ed erano tutti contenti. […] Quando hanno visto che non volevamo partire hanno iniziato a sparare per terra; ma lei deve immaginare che ero un ragazzo di 18 anni di allora, di allora, che aveva una mamma che era un po’ severa, sì, perché era vedova, certe cose non sapevo neanche che esistessero. Quando io sono andato a lavorare in fabbrica, non sapevo che esistessero le fabbriche, non sapevo cosa fossero, io ero uno studentello così, proprio un bambino, quello era il fatto. […] Lì a Bolzano, non vi hanno dato nulla da mangiare? […] No. Subito no. Subito hanno incominciato a dire “radio scarpa”. E non so se radio scarpa fosse una cosa inventata o vera. Tutte le voci... Sono sbarcati; è questione di qualche giorno poi gli americani sbarcano a Trieste e a Genova; chiudono la morsa e noi tra pochi giorni torniamo a casa. “Radio scarpa” era questa. E molte, molte volte, in campo di concentramento o c’erano tutte delle voci “Abbiamo ascoltato la radio.” Invece non era vero. Nascevano delle voci che davano un po’ di speranza. E ci sembrava una cosa... È questione di qualche giorno. Adesso sbarcano gli alleati in poco tempo e siamo a casa. Invece il giorno 12 siamo arrivati a Fallingbostel il primo campo di smistamento, dove ci hanno dato il numero, il 12 a mezzogiorno, ci hanno dato i numeri, io avevo il 155.885; con la foto. […] I treni arrivavano ogni due-tre ore perché era un campo di smistamento e difatti lì dopo tre-quattro giorni al massimo hanno cominciato a far circolare la voce, chi voleva fare l’attendente. […] Allora io con alcuni miei amici, abbiamo pensato, ma forse gli ufficiali li trattano meglio, andiamo con loro, e infatti dopo cinque-sei giorni siamo partiti per andare a finire al vero e proprio campo di concentramento: Przemysl. […] Przemysl era divisa in due: Nehrybka, dove ero io e dove c’è stato il colonnello D. che ha fatto firmare quegli ufficiali e l’altro era Pikulice; erano due campi uno vicino all’altro che come indirizzo avevano sempre Przemysl.
76
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Lì ho visto dei generali che andavano dietro la cucina per cercare di prendere quello che rimaneva. […] noi attendenti eravamo addetti a pulire le camerate, fino ai primi di febbraio siamo andati lì e pulivamo, poi dopo hanno tolto addirittura gli attendenti. Non glieli hanno più dati. Volevano che andassero a lavorare. […] Sono rimasto all’incirca fino al 10 gennaio 1944, perché stavano arrivando i russi... […] E ci hanno portato ad Hammerstein, abbiamo fatto anche quel viaggio lì, nel gennaio del ’44. […] Allora lì ci fu la faccenda del colonnello D. che fece giurare 100-105 sottotenenti che non avevano ancora fatto il giuramento, e di nascosto, lo fece fare al re. […] Noi non potevamo mica sapere. Solo ora col senno di poi. Per noi il re era la figura chiave, in quel momento, ed anche quegli ufficiali che avevano firmato volentieri perché erano convinti di quello che stavano facendo e si rifiutavano... hanno cominciato però... qualcuno ha accettato e allora lo mettevano di fianco da una parte e facevano vedere che gli davano da mangiare di più. […] Venne un emissario della Repubblica sociale... Sì, guardate che adesso Mussolini sta facendo una nuova repubblica e bisogna che voi veniate, chi vuol venire... Promettevano quindi razioni di cibo maggiore... Infatti lo facevano vedere, prendevano di là dal reticolato quelli che avevano aderito e gli facevano vedere che ci davano da mangiare. […] Ma tutti lo facevano per il mangiare, solo per il cibo, nessuno aveva l’idea di andare a combattere per Mussolini, sì, nessuno aveva quella idea lì. Successivamente a questo episodio, ci sono stati atri tentativi di propaganda? Ah, sì, sì, hanno continuato, questo era a Przemysl, poi dopo quando siamo arrivati ad Hammerstein ci hanno tolto da fare gli attendenti; cioè siamo rimasti nel campo ma non facevamo più gli attendenti; e questo perché volevano che anche gli ufficiali, anche lì per vedere e per costringerli ad aderire a lavorare; perché noi soldati siamo stati obbligati, non avevamo come gli ufficiali la facoltà di poter optare per andare a lavorare o meno, noi siamo stati costretti, per cui siamo stati prima tolti dal fare gli attendenti poi, piano piano, un giorno alla volta, li mandavano uno in una fabbrica, uno in un’altra fabbrica ed io sono andato via i primi di giugno e sono andato a Keslin [sic] a lavorare. […] Il carretto dei russi, andava alla disinfestazione, morivano da 70 a 100 al giorno, perché avendo il tifo petecchiale stavano molto male e li portavano dall’altra parte dove avevano l’infermeria, dove c’erano le docce e li mettevano sotto una bella doccia di acqua gelata, crollavano, li mettevano sopra ad un carretto e con un arpione andavano fuori, perché ho letto un giorno che ci sono ventiduemila russi morti ad Hammerstein. […] Gli americani avevano un pacco alla settimana di mangiare e un pacco al mese di vestire, perché gli americani facevano queste speculazioni, era una speculazione di guerra, perché loro siccome avevano la Croce rossa, loro erano obbligati, i tedeschi a portare questi pacchi, ad intasare dei treni interi, per portare i pacchi ai prigionieri, con quella scusa, che cosa facevano, intasavano dei treni, dovevano prendere dei treni apposta,
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
77
perché loro tutte le settimane ad ogni prigioniero americano davano un pacco di viveri e un pacco al mese di vestiario. […] Lei aveva ricevuto dei pacchi e della posta? Sì, ne ho ricevuti cinque, sei o sette, ora non ricordo con precisione, però li ho ricevuti. […] Venne quel soldato amico di quei soldati lì […] prese cinque prigionieri russi e la domenica veniva a divertirsi e con uno scudiscio li metteva a gattoni e con le gran stangate gli faceva fare la corsa, perché si voleva divertire. […] Ha dato via un orologio in cambio di una pagnotta? Ad un tedesco? Sì, un orologio Zenith d’argento, che era di mio zio, lo ricordo ancora. Per una pagnotta e mezza. Perché quando si voleva mangiare... Quindi sorveglianti e sentinelle si divertivano a fare angherie? Sia quando si andava a fare la doccia... Sia quando c’erano le perquisizioni. Dalla mattina alle sei, con un freddo cane, che c’era la neve per terra, che sono venuti con i cani a prenderci e ci hanno portati fuori, perché un paracadutista era sceso con uno stemma e quindi dovevano guardarci, ci hanno messo a dorso nudo e ci hanno lasciati lì fino alle due del pomeriggio. Perché era sceso un paracadutista che aveva una falce e martello, qui sotto… e allora dovete mettervi tutti nudi, a dorso nudo, ma tutta questa gente…e siamo stati lì fino alle due del pomeriggio, senza mangiare, senza niente al freddo, al gelo, perché c’era la neve... […] Qui c’era una sentinella, qui c’era un reticolato dove qui c’erano gli italiani e qui i russi, in fondo c’erano i gabinetti e gli italiani andavano lì, i russi andavano lì e si scambiavano chi le sigarette, chi il pane, si facevano dei cambi con della roba... questa sentinella quel giorno ha visto questo assembramento, e chissà perché ha detto “Allontanatevi”. Ma sono cose che uno poi non si allontana poi mai e allora ha sparato ed ha ucciso un russo, allora si sono allontanati e poi dopo una mezz’ora siamo tornati tutti lì per fare tutti i cambi, nel frattempo uno era andato a prendere una cosa, un altro un’altra cosa e quando siamo tornati a vedere è tornato ad uccidere un altro e nel frattempo questo tenente S. deve andare all’infermeria e deve passare davanti a questa sentinella, aveva il permesso del comandante italiano e allora dice: “Vado all’infermeria”, con il permesso, lo fa vedere a questa sentinella e gli dice: “Ma come, io voglio il permesso del comandante tedesco”. “No, io ho questo qui, questo vale lo stesso”. “No, no, non vale”. “No, no vale”. Ci fu una piccola discussione e come si è girato ci ha sparato e l’ha ucciso. Poi nel frattempo ha ferito ancora quell’altro russo, che poi passando quell’altro tedesco l’ha finito con altri due colpi. […] Ma quando ci si riuniva per mantenere su il morale, per fare delle lezioni, si discuteva di quella che poteva essere la situazione politica? No, no, no, la politica non entrava quasi mai perché eravamo poi nell’oscuro. Noi siamo cresciuti, almeno noi giovani, nel ventennio, nel fascismo per ciò non è che sapevamo... l’abbiamo incominciato poi a sapere dopo che c’erano i partiti, io non lo sapevo neanche. Non sapevo niente. Queste cose qui le ho imparate dopo la guerra... sapevo perché mio padre è stato ucciso dai fascisti, per cui sapevo com’era quella faccenda lì; però io avevo sei mesi perciò non è che abbia conosciuto bene quella faccenda, però di politica, niente non è che ci fosse gran discus-
78
G. PROCACCI (a cura di)
sione di politica; era solo nel momento in cui venivano quelli là per cercare di far aderire il più possibile, che allora, magari, in quel momento lì si diceva che ha ragione, non ha ragione; ma delle vere discussioni di politica non le ho mai sentite. […] Soprattutto a Przemysl quando si vedevano questi ufficiali che si abbassavano, abbassavano, diciamo così, andare a fare, un generale che vada per esempio a prendere una buccia di... per il militare tedesco era inconcepibile. Che un ufficiale si abbassasse a quel lavoro lì e non pensavano mica che la fame era uguale a un soldato e uguale a un ufficiale. […] Da quando eravamo arrivati ad Hammerstein, non eravamo più considerati attendenti, perché mentre a Przemysl facevamo le pulizie nelle camerate degli ufficiali, dopo eravamo considerati soldati e siamo andati in mezzo a tutti i soldati che c’erano e gli ufficiali stavano dalla loro parte. Allora è arrivato l’obbligo di andare a lavorare, ci hanno obbligato ad andare a lavorare. […] E lì l’impatto è stato un po’ grande perché io ero stato uno studente, va bene che ho lavorato dal ’41, l’estate impiegato al comune, all’ufficio annonario, tutta l’estate ’41, ’42, ’43, perché quando sono andato prigioniero il 17 agosto, fino al 14 di agosto ho lavorato al comune all’ufficio annonario, per aiutare la famiglia; mia madre era vedova con tre figli e c’era bisogno e d’inverno andavo a scuola e d’estate andavo a lavorare come impiegato. Perciò l’impatto, quando sono arrivato davanti a quella fabbrica, vedere i torni che non sapevo che cosa erano. Io i torni non sapevo che cosa fossero. E mi hanno messo sopra a questo tornio e dice adesso devi fare così, devi calibrare, devi fare il calibro al bossolo, perché era grezzo e noi dovevamo calibrarlo, se noi lo calibravamo un po’ alto, potevamo dare un’altra passatina, ma se lo calibravamo troppo stretto, quello lì diceva che facevo sabotaggio anche con me, e io dicevo: “Io non ho mai visto queste qua” e non era colpa mia, non è che lo facessi proprio con l’intenzione di fare sabotaggio, è questione che proprio io non sapevo proprio cosa fare. Allora il primo periodo, facevamo dalle 6 di mattina alle 7 di sera e dalle 7 di sera alle 6 di mattina, una settimana di giorno, due turni e invece dopo alcuni mesi siamo passati a tre turni. […] Il vitto lì era migliorato perché naturalmente facevamo una colazione veloce in fabbrica, perché ce la dava il padrone in fabbrica, avevamo tre quarti d’ora nelle 12 ore, avevamo tre quarti d’ora di pausa e lì ci davano loro... […] Al momento dell’avvicinarsi delle truppe russe, alcuni giorni prima e precisamente il 22 febbraio ‘45 è stato l’ultimo giorno di lavoro in fabbrica, perché sono cominciati ad arrivare notizie dell’avanzata dei russi. […] Allora quando abbiamo visto questi tre, noi credendo di fare una gran cosa, perché eravamo in una stalla, sì c’eravamo acquartierati in una stalla, sì perché lì c’era il fronte e si sentiva sparare di qua e di là, c’eravamo acquartierati in questa stalla e dicevamo adesso vediamo che cosa succede, e quella mattina lì del 5 marzo, arrivano questi tre e noi ci siamo buttati: “Camerati, camerati, papiroska” davano le sigarette... e questi qui sono rimasti così perché non capivano chi eravamo, perché eravamo in mezzo alla campagna e potevamo essere anche... […] Noi con quei tre lì, abbiamo incominciato a fraternizzare e cercare di convincerli, però loro non capivano niente e dopo sono andati via; sono andati avanti e si sentiva sparare e noi siamo rimasti lì, siamo rimasti lì e
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
79
“cosa facciamo”, allora per due-tre giorni non abbiamo più visto nessuno, né tedeschi, né russi, poi ad un certo punto abbiamo detto, adesso ci incamminiamo e andiamo e siamo partiti ed abbiamo fatto 25-30 km e prima di tutto un giorno siamo tornati a Keslin, dove eravamo e poi lì abbiamo incontrato il comando russo e ci hanno detto “Dodomo, andate a casa”, ma scusate bene, siamo quassù. “No, no, andate a casa”. Perché non avevano disposizioni di niente, non c’era ancora un’organizzazione. E da lì abbiamo incominciato giorno per giorno a fare 25-30 chilometri a piedi per portarci verso l’Italia, ma da lassù... […] Siamo andati a Varsavia dove c’era un gran campo di raccolta di tutte le razze, di tutte le nazionalità e siamo arrivati qui a Rotemburg, un sobborgo e siamo stati lì un mese in questo campo di raccolta dove c’era di tutte le nazionalità. […] Apprendiamo la notizia della impiccagione di Mussolini, la fine della guerra, hanno fatto i fuochi artificiali, hanno fatto tutte le feste perché era finita la guerra e finalmente il 25 maggio hanno detto andiamo a casa e siamo arrivati alla stazione e il treno invece di essere voltato verso l’Italia era voltato verso la Russia; perché bisogna essere sinceri, una prevenzione contro i russi l’abbiamo sempre avuta, perché c’era innata dalla propaganda che avevamo avuto prima. […] Ci hanno fatto scendere e ci hanno accompagnati in quest’altro campo di concentramento russo, ma non era un vero campo di concentramento perché era come un campo di raccolta anche quello lì. […] Eravate sempre divisi in capannoni con letto a castello? Sì, con letto a castello, ma molte volte a dormire a terra, perché dovete pensare che i russi non avevano un’organizzazione tale da poter soddisfare tutte le... e lì appunto il mangiare arrivava per il primo periodo, poi c’è stato un momento che cominciava a mancare il pane, una volta la sbobba, un’altra volta e allora... […] Siamo venuti il 12 settembre a Zitomir, a Budapest, siamo venuti per il lago Balaton... e lì ci hanno lasciato passare e siamo andati verso su Vienna e siamo andati su verso S. Valentino dove ci hanno consegnato agli americani e gli americani ci hanno fatto scendere e ci hanno buttato addosso il Ddt in polvere per disinfettarci. […] NATALE BIAGINI - 1924 - Sestola (Mo) - Soldato Partii per il servizio militare il 16 agosto 1943. Mi mandarono subito a Villa delle Mimose, vicino a Fiume in Istria, al 26° settore della guardia di frontiera. L’8 settembre stavamo facendo delle esercitazioni in un luogo isolato quando ci hanno dato l’annuncio dell’armistizio. Noi pensavamo di poter andare a casa. C’era chi diceva che non avrebbero fatto niente i tedeschi e chi invece diceva che ci avrebbero fatto la guerra: noi non sapevamo proprio a chi dare retta. Ma quando siamo tornati indietro, vicino a Trieste c’erano già i tedeschi appostati alle strade. Ci hanno bloccati, ci hanno fatti prigionieri e ci hanno messi in un recinto con una mitraglia che ci faceva da guardia. Uno di Fanano, circa della mia età, avrà avuto 18-19 anni, tentò la fuga ma lo ferirono mettendogli sette pallottole in una gamba. Da lì decisi di non rischiare la vita nella fuga. Ci incolonnano e ci portano nella piazza di Trieste tutta circondata da sentinelle. Dopo
80
G. PROCACCI (a cura di)
qualche giorno ci mettevano sui vagoni ferroviari per il bestiame e ci facevano partire. […] Dopo un viaggio di otto giorni, in 70 dentro un vagone, arriviamo in Germania. Ogni tanto in posti isolati fermavano il treno per farci fare i nostri bisogni. C’erano sentinelle dappertutto, sopra i vagoni, etc. […] Siamo arrivati a Küstrin, stalag IIIC. Ci mettono dentro al campo ma le baracche erano già occupate da altri: italiani e russi. Ci tenevano però separati. Noi eravamo all’aperto, cominciò a piovigginare e non avevamo niente per coprirci. Il recinto era fatto con filo spinato alto. Agli angoli c’erano delle torrette che di notte controllavano coi riflettori che nessuno si muovesse. Se qualcuno si avvicinava gli sparavano. […] Eravamo in così tanti che non facevano in tempo a preparare da mangiare e a darcene a tutti. In 24 ore mangiavi una volta. Una volta ci siamo alzati alle cinque per andare a prendere un mestolo di brodaglia. Un altro giorno invece alla sera tardi. Non riuscivano a far mangiare tutti. […] Ci hanno poi trasferiti fuori dal campo perché non c’era più spazio in una palestra grande dove dormivamo in un migliaio per terra perché non c’era niente là dentro. Al mattino ti facevano alzare alle cinque con degli urli per andare a prendere dell’acqua bollita con delle foglie di tiglio, una specie delle tisane di oggi, che non serviva a niente. E noi tante volte facevamo a meno di andare a prenderla perché era solo acqua bollita, non c’era neanche lo zucchero. Preferivamo restare a dormire in baracca ma loro non volevano ti prendevano a calci e giù botte. C’era un maresciallo di cavalleria alto due metri, aveva preso il fucile per la canna e colpiva tutti quelli che passavano che se prendeva qualcuno nella testa lo ammazzava. Io ho visto che stava per picchiarmi nella testa e allora ho fatto un salto e l’ho bloccato prima che il fucile prendesse spinta. Poi sono scappato. Allora ero molto agile. Noi eravamo in diversi di Sestola e avevamo fatto un patto per restare tutti insieme. Poi una mattina quello lì dandoci botte di qua e botte di là ci ha fatti schierare in piazza d’armi. Lì ci siamo divisi in gruppi da 50 ben distanziati. Ci mancava però della gente e i tedeschi mandarono alcuni tra cui io nella palestra a chiamare quelli che non erano ancora usciti. Fu un errore andarci perché così ci siamo divisi. Io sono rimasto solo con uno di Sestola. […] Quanto tempo rimase a Küstrin? Circa un mese e mezzo. Poi in pochi ci caricano su un camioncino che andava a legna e abbiamo fatto 150 km. Siamo andati nella provincia di Brandeburg nella Prussia orientale a Meseritz, a lavorare in fabbrica. Ci hanno preso e via… Solo dopo ci chiedono che cosa facevamo: io ero muratore. Mi mandarono a lavorare in una fabbrica metallurgica e siccome ero giovane mi avevano messo con i ragazzi tedeschi che imparavano il mestiere. Quindi lei lavorava assieme ai tedeschi. Si. Con il capo che faceva da maestro al nostro gruppetto era un ufficiale delle SS. Tutti i miei compagno di lavoro erano tedeschi. Tutti ragazzi, solo qualche adulto. Lavoravamo ai banchi. Eravamo il reparto modellisti. In quella fabbrica c’erano altri italiani ma non in quel settore lì con me. Loro erano alla catena di montaggio. Facevamo dei modelli di piedistallo per grosse macchine come per esempio le frese. Dopo riempivamo il piedistallo di cemento: ero io che facevo il cementista. Ero praticamente un jolly, un tuttofare.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
81
Come si trovava a lavorare in questa fabbrica? Molto meglio che nel campo; però […] si mangiava poco. Poi ti facevano fare 10-11 ore tutti i giorni, negli ultimi tempi anche 13. La domenica lavoravamo fino alle 2 di pomeriggio. Si lavorava tutti i giorni e guai a chi marcava visita, se non aveva davvero la febbre a più di 38 gradi, lo mandavano direttamente al lavoro. C’era solidarietà tra voi italiani? Sì abbastanza, ma solo fra noi tre amici di Sestola. Tra i tedeschi ce n’erano di quelli che non erano malvagi. Se non c’era nessuno ti parlavano se c’era qualcuno no. Lei conosceva il tedesco? Eh, abbastanza. Ogni volta che succedeva qualcosa i ragazzi tedeschi che lavoravano lì davano sempre la colpa a noi italiani perché non eravamo capaci di spiegarci e difenderci. Alla fine io imparai per difendermi e potermi spiegare. Sapevo i nomi di tutti gli attrezzi e ci sapevo saltar fuori. […] Ad un certo momento ci hanno fatto passare civili per liberare i soldati che ci facevano le guardie. Sono venuti due-tre ufficiali che ci puntavano la pistola dicendo: “O firmi o ti sparo!”. Che rapporti avevate con le guardie prima che ve le togliessero? La seconda guardia che abbiamo avuto era un austriaco un po’ malandato che diceva: “Voi altri siete ancora fortunati che se andate a casa almeno avete il fisico ancora a posto. Guardate invece me come sono conciato”. Gli mancavano mezzo braccio e una gamba. Insomma, era rovinato. Lui si lasciava andare a queste considerazioni con noi di nascosto, quando eravamo soli noi e lui. Quando passammo civili lui sparì. Altra differenza era che non ci chiudevano più a chiave la sera. Ma se uscivi fuori non potevi andare lontano. Dove andavate quando uscivate? Poco lontano a bere una birra. E i soldi? Ci pagavano. Quando siamo passati civili, io avevo lo stipendio più alto di tutti gli italiani che erano lì. Perché quelli del reparto modellisti erano più pagati. Però non potevi comperar niente, solo qualche bicchiere di birra. […] Fino a quando rimane a lavorare a Meseritz? Fino a quando non arrivano i russi, il 30 gennaio ‘45. Qualche giorno prima avevamo cominciato a sentire le cannonate. Ma i tedeschi avevano già cominciato, qualche tempo prima ancora, a mandarci al mattino a fare delle fortificazioni e dei camminamenti in giro per il paese e nelle campagne attorno. Facevamo piazzole per mitraglie, trincee… Tutta la fabbrica era andata a lavorare alle fortificazioni. Anche gli operai tedeschi che lavoravano con noi. Eravamo tedeschi e italiani insieme. Dei francesi avevano la baracca vicino a noi ma non lavoravano con noi. […] Ai tedeschi facevano paura i russi perché loro avevano fatto dei malanni grossi quando erano andati in Russia. Avevano fucilato tante persone. […] Dopo un po’ si iniziò a vedere alla sera il rossore degli incendi lontani delle case dei tedeschi. Poi fuochi di artiglieria e cannonate li sentivamo da tutte le parti. Si stavano formando le sacche dove i russi prendevano i tedeschi. I tedeschi scappavano. Avevano abbandonato le case. […] Un bel giorno ci hanno messi tutti in fila e in marcia per la Polonia.
82
G. PROCACCI (a cura di)
Quando camminavamo tutto il giorno. La sera, se arrivavamo in una fattoria con delle bestie, i russi ne prendevano una o due giovani e con il mitra le uccidevano per far da mangiare. Eravamo sempre all’aperto e ciascuno aveva la sua pentola con qualcosa dentro a bollire. Se pioveva si spegneva il fuoco. Poi se ti spostavi per andare a cercare altri due o tre pezzettini di legna, gli altri italiani ti portavano via il fuoco da sotto la gavetta. I russi erano solo ufficiali: erano loro che ci dirigevano. Eravamo un miscuglio di italiani e polacchi. Siamo passati da Posen e lì c’era ancora la guerra. Le artiglierie sparavano contro dei tedeschi delle SS che resistevano. Quelli lì erano destinati alla morte. […] Da Posen ci hanno portati a Breskens. Lì eravamo solo italiani. Ci davano da mangiare: mangiavamo abbastanza come quantità. Eravamo poi liberi di uscire dal campo e di andare a girare; ci chiesero chi voleva andare a collaborare. Si trattava di andare a pascolare i cavalli dei russi nelle praterie. Tanti hanno firmato subito e all’ultimo momento non volevano più andarci. Io invece mi dicevo: “Se mi mandano vado, se non mandano non vado”. I russi allora, avendo bisogno di uomini, ci fecero passare una visita per vedere chi era idoneo e chi no. Io fui preso e mandato a pascolare i cavalli nelle praterie per il 4° squadrone cosacchi. Ci sono rimasto fino ad ottobre ‘45. […] Come era il suo rapporto con i russi? Abbastanza buoni, non erano troppo esigenti e ti trattavano come i loro. Anche se il grosso problema era un po’ la confusione che c’era tra i soldati russi. I russi ci davano da mangiare tre volte al giorno. Il mattino alle 6 c’era il brodo con il bollito, patate pelate bollite nel brodo e in più ci davano due-tre cucchiai di miglio al burro, due-tre cucchiai di zucchero, le sigarette e una pagnotta di segala da 700 grammi per la giornata. Per noi era sufficiente. Poi noi avevamo anche un’altra risorsa: quando si azzoppava un cavallo dovevamo abbatterlo e poi lo mangiavamo. I russi invece non lo mangiavano mica, dicevano che era come il cane. Loro gli sparavano poi lo attaccavano ad una pariglia, lo trascinavano in un bosco e lo lasciavano lì. Noi andavamo là con un coltello e tagliavamo delle bistecche di cavallo gigantesche. Potevamo mangiarne fin che si voleva. In più ho anche imparato a pescare in un bel laghetto lì vicino. […] Dopo il suo rientro parlò della sua esperienza a parenti ed amici? Si, ma sa… Loro non credevano neanche. Poi i giovani dicono perché non facevate questo o quello… Ma quando andavi a lavorare bisognava stare a quello che ti dicevano di fare. Se eravamo coglioni allora c’eravamo in tanti! Ha raccontato la sua esperienza ai suoi nipoti? Si ma poi non ci credono mica. […] GUIDO GIOSUÈ CAPITANI - 1914 - Montefiorino (Mo) - Soldato […] Sono stato richiamato il 15 giugno del ’40, ero nel 343° battaglione mitraglieri, 3° compagnia all’Isola d’Elba; eravamo distaccati a Porto Ferraio dal ‘40 fino all’armistizio dell’8 settembre del ‘43 siamo rimasti lì. […] L’8 settembre ero all’Isola d’Elba eravamo guardacoste, e poi dopo il 12 settembre siamo scappati in tre con una barca. L’8 settembre 10 paracadutisti hanno invaso tutta l’isola; avevamo ordini di non sparare contro
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
83
nessuno... il generale di cui ero l’attendente ci aveva dato l’ordine di non sparare contro nessuno, allora quando abbiamo visto così abbiamo disertato. […] I paracadutisti hanno invaso tutta l’isola senza che fosse sparato un colpo. I nostri ufficiali sono stati fatti prigionieri con noi, non abbiamo opposto resistenza. L’8 e il 9 di settembre noi siamo stati attenti per vedere che cosa succedeva e si ascoltavano le notizie che ci dicevano di non muoverci perché eravamo in pericolo che se niente niente ci avesse trovato un tedesco ci poteva sparare e nessuno ci poteva dire niente ecco! Poi dopo noi abbiamo visto così abbiamo preso una barca e siamo scappati a Piombino; abbiamo avuto la fortuna che qui c’era tutto lo scoglio. Siamo arrivati lì e ci ha preso una pattuglia di tedeschi e avessero voluto ci fucilavano tutti in quattro file. Purtroppo invece siamo stati venduti, poi ci hanno rifermato tutta la tradotta e poi ci hanno portato qui a Reggio Emilia e siamo stati fermi un altro giorno, e intanto non ci davano niente da mangiare e i nostri bisogni li facevamo dentro la borsa di uno che poi l’abbiamo buttata via, ecco. Da Reggio ci hanno portato fino a Berlino senza nessuna sosta. Il viaggio è durato un paio di giorni e poi dopo ci hanno preso e ci hanno portato nelle baracche del IIID di Berlino; prima mi hanno messo 4 giorni nei trasporti e poi mi hanno passato al tornio, quando siamo arrivati ci hanno messo subito nelle baracche e poi veniva questo qui che c’era un campo grande ha fatto l’adunata e ci ha spiegato di andare volontari a lavorare perché era meglio. Era un campo di smistamento? No, era già un lager che io ci sono restato fino a quando non sono arrivati i russi, sempre lì, perché dopo a me mi hanno portato in Russia, ma questo dopo. Nelle baracche ci hanno contato, poi ci hanno perquisito; io ero partito con i pantaloncini corti e una canottiera e sono rimasto con quelli e basta, già faceva freddo, e lì ci hanno dato le tute con i numeri qui e sulla schiena. Non eravamo più cristiani, eravamo tutti numerati. Da mangiare ci davano quei cavoli verza e basta, pane un etto, un etto e mezzo al giorno, una fetta e basta. E poi siamo stati avviati al lavoro: siamo arrivati giù il 16 di settembre e il 20 siamo andati al lavoro e siamo andati a lavorare in questa fabbrica che faceva roba di apparecchi e noi lavoravamo ai fili della luce, raffinavamo i fili della luce che c’erano delle macchine tutte piene di ingranaggi che un mio compagno ci ha lasciato una mano, un mio compagno di Mocogno. Io ho imparato anche un po’ il tedesco e dopo mi chiamavano come interprete e per fortuna che trovai un tedesco che mi prese a ben volere e mi diede un libro che io tengo per ricordo a casa che c’era scritto in tedesco tradotto in italiano e con questo mi aiutavo, e tutti i giorni mi interrogava su una pagina perché io lavoravo di notte e di giorno studiavo il tedesco. Io i primi giorni mi hanno messo ai trasporti: facevo il facchino per 4 giorni e poi mi passarono al tornio perché io quando mi hanno chiesto che lavoro facevo io non gli dicevo niente, non gli volevo dare la soddisfazione di dire che lavoro facevo. Le nostre guardie nel campo erano anche italiani tutti delinquenti, tutti fascisti; erano tutti dei nostri le guardie, hanno chiamato i volontari che voleva venire a fare la guardia. Ha capito? Erano armati con i fucili, erano vestiti un po’ meglio di noi, io ho ancora i segni sulla schiena perché ci chiamarono in quattro a mettere a posto una caldaia in cucina e allora lì sapevano che noi avevamo fame e ci aprirono le pentole dove
84
G. PROCACCI (a cura di)
c’erano delle patate cotte e ne prendemmo tutti e quattro o cinque patate, me le misi in tasca che ancora bruciavano. Il capo campo dice: “Hai preso le patate?”, era tedesco quello: il capo campo, e mi mise la mano in tasca e trovò le patate e allora disse alla sentinella che era italiana di farmi tornare indietro, e io gli dissi di non farmi tornare indietro e lui disse che non poteva; mi fanno tornare indietro, e mentre lui si gira io butto via le patate e poi mi fanno tira fuori le patate, e io gli dissi che non ne avevo e lui per tutta risposta tira fuori il nerbo e mi ha tirato quattro vergate nella schiena ma proprio messe bene tanto che ho ancora i segni. Beh pazienza! Come sono stati scelti gli italiani che facevano le sentinelle? Sono andati volontari perché chiamavano chi voleva andare volontari anche a lavorare. Erano tutti fascisti, figli di fascisti, tutti giovani erano vestiti come noi ma a dormire erano separati e anche a mangiare, erano armati, ma non so nemmeno se ci avevano le munizioni però. Il campo era gestito dai tedeschi della Wehrmacht, ma il capo del campo però era una SS per il resto erano tutti soldati della Wehrmacht e tutti vecchi, ma quelli erano signori, era brava gente. Dopo tre-quattro giorni che eravamo lì venne un bombardamento e a noi ci mandarono a liberare le macerie, alle macerie trovammo un ufficiale della Wehrmacht e quello, noi eravamo in cinque, chiese se c’era qualcuno che parlava il tedesco e io dissi che c’ero io ma non tanto, e allora mi disse che uno doveva andare a togliere le macerie dal giardino, un altro lo metti a pulire i vetri che erano tutti spaccati, e poi a me mi disse: “Tu che mi sembri malato stai seduto e comanda gli altri!”, ci porta la colazione e noi... che mangiata ragazzi. Perché sapeva che avevamo fame e poi io mi ero messo a pulirgli i pavimenti perché quella era casa sua. Le sentinelle ci venivano a prendere al campo e poi ci ritornavano a prendere alla sera, lì a casa sua ci siamo andati per cinque domeniche perché ci mandavano a casa degli ufficiali solo la domenica, il resto della settimana stavamo in fabbrica perché quando lavorava la fabbrica bisognava che tu andassi in fabbrica, capisce? In quella casa lì ci sono tornato tante altre volte di nascosto perché poi mi ero fatto amico con la figliola, andavo a fare il giardino, quello lì mi voleva bene come un figliolo: io andavo da loro alla domenica mentre gli altri giorni andavo a lavorare in fabbrica; alla domenica ti portavano al lavoro, gliel’ho detto, ci portavano a tirare via le macerie e gli altri giorni te potevi anche sortire, uscire però bisognava che alle quattro ti presentassi al campo per dire: “Vado al lavoro!” […] Dunque nel ‘44 con un patto segreto fra Hitler e Mussolini tutti gli Internati militari italiani sono passati operai civili. Nell’ottobre del ‘44 mi sembra io ho ancora il libretto a casa, ma per noi non è poi che sia cambiato niente. Abbiamo seguitato a lavorare in fabbrica, e non è che poi fossimo tanto liberi. Nel campo c’erano le sentinelle come prima e lì ci sono state fino all’ultimo e quindi eravamo dei civili per modo di dire! Potevate andare fuori? Sì alla domenica come le dicevo prima ma non era mica un gran che di libertà perché andavamo a lavorare. […] Hanno continuato a darci da mangiare quel niente di prima. Noi da questo accordo non abbiamo avuto differenze in niente. In niente. Soltanto c’è questo che io… ci davano dei soldi che sembravano di quei buoni da cinema. Io avevo fatto amicizia con dei francesi che mi davano
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
85
la metà di marchi buoni se ci davo 100 marchi di quelli perché a noi ci pagavano ma ci pagavano con questi buoni che non potevi spendere, non si potevano spendere da nessuna parte meno che nello spaccio del campo. In questo spaccio c’erano solo delle stupidate ma da mangiare niente. Allora io mi facevo dare anche dai miei compagni quei buoni lì, coi francesi li cambiavo e mi davano metà soldi buoni, io poi dopo mi facevo portare anche il pane in fabbrica dai francesi; quando andavo dentro me lo legavo qui sotto la tuta. Vi perquisivano sempre quando andavate in fabbrica? Sì, ci perquisivano sempre, sempre, tanto all’entrata quanto all’uscita; anche dopo che siamo passati civili cosiddetti noi non abbiamo avuto nessun cambiamento neanche in questo campo, noi come tutto anche come vitto siamo andati sempre avanti come niente fosse stato, soltanto che te potevi girare un po’ di più, però eri sempre vestito da prigioniero, sempre con la divisa che ci avevano dato, allora deve sapere che io mi sono fatto anche la donna… […] Mi ero fatto amico con la cuoca: mi preparava sempre un bel piatto di patate calde tanto che mangiavo perché poi io avevo una fame, una fame che… ma anche lei rischiava con il darmi da mangiare perché se la vedevano le davano una fucilata. Noi, per solito, nel taschino avevamo sempre il cucchiaio, la penna stilografica per noi era il cucchiaio. Perché se ti capitava di mangiare mangiavi. Sicché un giorno nel cesto dove buttavano via la spazzatura trovai… perché là c’erano molte di quelle barbabietole rosse e allora ne trovai una lì, mezza marcia ma con la fame che avevo, senza neanche pulirla la prendo e la mangio ma poi mi è venuto uno di quei mal di stomaco che credevo di morire, proprio credevo di morire ma non potevo neanche stare a casa da lavorare, lì dovevi sempre andarci a lavorare. Bisognava andare: vado al mio tornio e c’è di fianco a me questo austriaco che mi dice: “Tu ti senti male!”, e io: “Sì, molto!” dice: “Vai al gabinetto che ci penso io alla tua macchina”, io lavoravo a un grosso tornio meccanico che aveva un grosso torchio con delle viti ancora più grosse. E difatti vado verso il gabinetto e lì capita una donna, una signora e mi chiede: “Italiano ti senti male?”, e io: “Sì e anche molto!”, e mi dice: “Hai mangiato?”, e io dico: “No!”. Va in cucina e mi porta quattro fette di pane con dentro ci mettevano l’uovo, ci mettevano il salame, ci mettevano la marmellata, ci mettevano tutta quella roba lì. Cosa avrebbe fatto lei? Cosa avrebbe fatto? L’ho preso e lei mi fa: “Domani sera uguale!”. Lei lavorava alla bacalite, le donne preparavano la bacalite e lei mi dice: “Passa da dove lavoro”, e io: “Ah, a passare da lì faccio presto”, e infatti passando da lei, lei venne su e anche lei rischiava tanto perché se ci arrivavano addosso si era fucilati subito. Dopo una settimana mi fa: “Dove vai domani mattina quando smonti?”, perché alle 6 si smontava e io: “Dove vuoi che vada?”, e lei: “Perché non vieni a casa mia?”; lei stava in un paesino che c’erano 12 km e allora le dico: “Perché no? Ma sei sola?”, e lei: “Sì, sì” e io: “Allora vengo!” e infatti la mattina dopo mi lavo e poi vestito da zingaro com’ero dico fra me e me: “Andiamo a vedere che cosa c’è di nuovo!”; vado là, suono il campanello e lei mi viene ad aprire e lei mi dice: “Capitano entra svelto!”. Loro non potevano fare vedere che accoglievano in casa i prigionieri e lei soprattutto perché poi mi disse che suo marito era un capitano della Wehrmacht e mi disse: “Noi abbiamo ordini che più vi trattiamo male voi italiani più stiamo bene… e a me
86
G. PROCACCI (a cura di)
questo non sta bene, mi fa male al cuore”, e poi mi presenta al marito… io a momenti muoio e poi mi fa lui: “Qui ci sono i letti, qui c’è da mangiare se hai fame però alle quattro devi andare al campo a presentarti perché se no ti chiederebbero dove sei stato, dove non sei stato e ci andremmo di mezzo anche noi!”, e io: “Non ci pensare, stai tranquillo!” e infatti io alle due partivo sempre per tornare indietro, e stare lì era un piacere: tornavo indietro leggero, leggero ma la pancia era piena. Poi dopo mi sono presentato, quando sono arrivati i russi, perché lei voleva venire in Italia perché lui poi, il marito, lo avevano mandato in Corsica e lei diceva: “Lui ormai è morto!” e lei dopo voleva venire in Italia con me. Io ci avevo già moglie e figlioli, dove la mettevo? Allora scappai da lei, e le dissi: “Vado a vedere al campo casa c’è di nuovo e poi ritorno!” e invece mentre stavo per arrivare al campo mi presero i russi e mi portarono via, mi portarono in Russia a piedi abbiamo attraversato tutta la Polonia e sono venuto a casa che ero 34 chili! […] Eravamo in più di tremila prigionieri perché poi erano tanti i campi uno attaccato all’altro: italiani e poi di tutte le nazionalità. C’erano i francesi che però erano trattati meglio e non si capiva neanche se erano prigionieri perché loro erano prigionieri di guerra e invece noi eravamo “volontari”, eravamo delle merde. Eravamo volontari noi, rappresentavamo il nostro governo. Che guardi che questa è stata proprio una vergogna, io sono venuto a casa che ero 34 chili. Mi diedero la settima dopo 2 anni di ospedale mi diedero la settima e poi mi hanno passato all’ottava del ’54. Dal ’47 che sono venuto fuori dall’ospedale mi hanno passato all’ottava nel ’54 a vita. Si ricorda qualche episodio particolare che le è successo nel campo? Mi ricordo i tanti morti che ci sono stati, tanti, tanti, tanti sono stati quelli che sono morti. Andavano a letto alla sera e al mattino erano diventati gonfi così, come dei palloni, le gambe grosse. […] Se trovavano qualcuno che avesse rubato qualche cosa lo portavano via e non si rivedeva più. Lo mandavano a Buchenwald dove c’era il forno crematorio, e io l’ho visto dove c’era il campo crematorio perché ci siamo passati quando siamo andati in Ucraina c’era una specie di torre come la Ghirlandina ma più grande assai, la torre di Pisa, più grande per andare lì c’era un ponte lungo quattro metri di qua e di là c’erano i sostegni per non buttarti di sotto e là c’era una porta quando arrivavano lì davanti ci davano una pedata e li buttavano giù e laggiù c’era il fuoco che faceva i suoi lavori … […] Invece quel giorno lì che dovevo rientrare come sempre alle 4 ci presero i russi e ci misero in colonna poi a piedi abbiamo fatto tutto a piedi anche Küstrin e poi tutta l’Ucraina, quando sono arrivati i russi i tedeschi sono spariti tutti quanti, ma i russi non sanno fare la guerra questo lo dico piano e forte perché venivano avanti ubriachi come le pecore. I tedeschi si erano accampati sopra il campanile e come i russi si presentavano li facevano fuori, quando poi Dio ha voluto sono arrivati e hanno ucciso il comandante e fatto prigionieri gli italiani. Insomma loro dicevano che ci avevano liberato ma in effetti ci avevano fatto prigionieri. Il viaggio che abbiamo fatto da quel campo lì a quello russo lo abbiamo fatto tutto a piedi; ci hanno preso ai primi di maggio e là ci siamo arrivati il 22, abbiamo attraversato tutta la Polonia.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
87
[…] Il 2 ottobre ci chiamano che dobbiamo partire, ma poi ci dicono che dovevamo lasciare passare una colonna di ammalati e poi ci hanno fatto rifare tutta la Polonia, tutta la Germania e poi ci hanno riportato a Stettino a fare la disinfezione… ma no mi sbaglio ce l’hanno fatta fare a Innsbruck: ti mandavano dentro da una parte nudo e tu uscivi dall’altra parte e loro… qui c’erano gli americani ti davano una specie di spray, era poi Ddt, e poi ti davano la roba per vestirsi. Ci hanno dato da mangiare e poi ci hanno portato a Pescantina e poi fino a Modena ci hanno portato con l’ambulanza, eravamo in 8, io stavo male, ero 34 kg non ce la facevo a camminare. […] E poi ho fatto mesi e mesi di ospedale con la pleurite mi mancava mezzo polmone e non ho avuto mai nulla dall’esercito; veramente che vorrei fare un articolo sul giornale: quando sono stato a Bologna al distretto mi hanno detto: “Se avevi fatti il partigiano anche solo per due ore ottenevi tutto!”. Questa è vera ingiustizia: io ho fatto 2 anni di ospedale, e questo è stato il ringraziamento dell’esercito italiano. ERMANNO CASTELFRANCO - 1914 - Modena - Ufficiale Il mio caso è unico in tutta Italia, in quanto laureato fui dichiarato ariano e per essere ariano bisognava che facessi il militare; se fossi stato ebreo non l’avrei fatto il militare ma poi si andava a finire ancora peggio. Ho fatto il corso allievi ufficiali a Pinerolo, 3 mesi e mezzo, e sono diventato sottotenente, quando è scoppiata la guerra albanese, sono partito per Albania, noi eravamo al confine con la Grecia. Abbiamo attraversato in Grecia per 150 km a piedi e nessuno ci veniva incontro, ci cacciavano via perché andavamo a casa degli altri, siamo arrivati a Margeritia [sic] sul mare. Quando i Greci hanno imparato dal servizio segreto che noi eravamo 4 scagnozzi senz’armi, disgraziati e affaticati, con i cavalli che erano tutti in stato di disastro per stanchezza mentre i camion erano rimasti in Albania e le armi erano rimaste a Bari o Brindisi, ecco che quando i Greci hanno visto che eravamo quattro scagnozzi disarmati, hanno cominciato ad avanzare e siamo scappati per 40 notti. Siamo partiti il giorno del mio compleanno, il 14 di agosto e siamo arrivati a Valona, 40 notti scappando sempre con gli stivaloni. Cha laurea aveva? Sono laureato in veterinaria e sono stato fatto sottotenente, ero in un reggimento di cavalleria, l’8 settembre ero in un reggimento di artiglieria, in ultimo a Tirana ero l’unico veterinario. […] Io sono stato due anni in Albania, non c’era avvicendamento, in Africa invece sì, fatti sei mesi ti mandavano a casa, in Albania dovevi morire lì e allora dato che conoscevo un medico albanese che era in ospedale […] e sono tornato in Italia con la nave ospedale. […] Poi sono stato destinato a Merano nel 33° reggimento artiglieria. L’8 settembre ero a Merano, lì ho fatto un anno in tutto, sono stato divinamente bene perché il mio reggimento era in prima linea in un posto delizioso, un clima fantastico, chi pensava alla guerra? E poi non potevo fare niente, il servizio militare lo dovevo finire. Il suo arruolamento è stato un errore? Non l’ho mai saputo. Dopo sei mesi che ero in Albania che era finita la guerra, ricevo una lettera da mio padre che mi diceva: guarda che qui ci
88
G. PROCACCI (a cura di)
hanno nominato ebrei, stai all’erta perché ti manderanno a casa. Questo giorno non è mai venuto e non ho mai saputo il perché, questo ritardo diciamo così, non è un ritardo perché questa mandata a casa potrebbe essere stata la mia sfortuna, se sono ancora al mondo, perché non si sapeva che fine facevano. […] Come viene a sapere dell’armistizio? Ci hanno chiamato tutti in caserma, c’erano due carri armati tedeschi, ci hanno preso in 4.000, dal gran che eravamo organizzati. E voi non faceste resistenza? Eravate disarmati? Sa come mi hanno preso a me? Mi hanno mandato l’attendente, io ero sottotenente, a dirmi che aveva bisogno il generale in caserma e che io andassi in caserma. Ci sono andato, eravamo militari bisognava ubbidire, non si poteva fare più di tanto. C’erano i tedeschi in caserma, ci hanno catturato in 2.000, 4.000 non mi ricordo più tanto bene e ci hanno portato verso il Polo Nord, sette giorni e sette notti in treno, seduti, in 45, lei può pensare come si può stare, non sono morto, ogni tanto uno sveniva, senza mangiare. […] Abbiamo dormito in un cortile a Innsbruck in una caserma e poi dopo 9 mesi che eravamo a Deblin Irena, è venuta una commissione a chiederci se volevamo aderire alla Repubblica italiana, perché era nata intanto la Repubblica italiana, la Repubblica sociale di Salò. Io dissi di sì, cercavo di scappare perché se qui risulto ebreo, qui salta fuori subito. Lei sapeva del trattamento impartito agli ebrei dai tedeschi in Germania, dell’esistenza dei campi di concentramento? No, non sapevo niente. Immaginavo, pensavo che non andava a finire bene quindi ho fatto di tutto per cercare di scappare in questo senso. Quindi Lei aderisce subito? Sì, aderisco con l’idea solo di scappare. Vengo a sapere che avevano bisogno di mandare a Modena due ufficiali veterinari a prendere 3.000 quadrupedi da portare là. E allora c’era un capitano tedesco, veramente tedesco, cattivo come una bestia, sono andato a dirgli: guardi, sono diventato papà, perché mia figlia era nata il 28 novembre del ‘43, e non l’avevo ancora vista perché quando sono stato preso io mia moglie era di 7 mesi. E quindi Lei riesce a farsi mandare a Modena. Riesco, promettendo a questo ufficiale prussiano carogna cattivo come tutta quella gente lì, che cosa vuole mai erano alla fame anche loro, io le porto quello che ho, ho mio padre che ha un negozio di stoffe, le porto quello che ha bisogno. Prima mi ha detto di no, mandandomi via in malo modo e poi dopo due ore ci ha pensato e io ero già in partenza per l’Italia, a Modena a prendere 3.000 quadrupedi, ero veterinario, e a portarli in Germania con un capitano modenese, reggiano, L. Questo capitano era un fascista. […] Siete in condizioni disgraziate nel campo perché mangiate una volta ogni tanto. E una volta aderito? Ci davano da mangiare il doppio. Eravate trattati bene. Sì, bene, si viveva, si poteva vivere. Ed eravate sempre in mezzo agli altri prigionieri, agli altri internati? Per qualche giorno sì, per qualche settimana e poi dopo no, ci hanno sparso, chi voleva lavorare, chi voleva aderire. […]
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
89
Il nome Castelfranco è un nome ebraico. Lei in prigionia, al momento degli appelli, aveva mantenuto il suo nome? Eh, per forza. E non venne mai riconosciuto? O non lo sapevano, forse non la sapevano questa, anzi senz’altro. Lei però con i suoi compagni di prigionia tenne nascosto il fatto di essere...? Per l’amor di dio, solo con un mio carissimo amico che sapevo che non mi poteva fare la spia, solo con lui mi sono confidato, che poi conosceva mio padre, conosceva mia madre, conosceva mio fratello, aveva un fratello anche lui che era amico di mio fratello. È stata una brutta esperienza. Non sono morto, è già molto perché ne sono morti […] Arriviamo al fatto che lei era in viaggio per Modena, siete bombardati a Monaco. Ci siamo bombardati a Monaco, a mezzanotte siamo arrivati a Modena, ci dovevamo presentare dove adesso c’è il Credito romagnolo, c’era il comando tedesco, dovevamo presentarci lì, dovevano mandare in Germania 3.000 quadrupedi e hanno scelto due ufficiali veterinari, un capitano un certo L. di Reggio Emilia, fascista lei si immagini, e me, che non sono mai stato fascista. È andata bene perché non lo sono venuti a sapere ma io non riuscivo a distaccarmi da questo mio superiore, perché lui era capitano io sottotenente, e sbarcati a Modena con mezzi di fortuna naturalmente, non sapevo come fare a liberarmi da questo tale che era un fascista. Siamo arrivati in Via Ponteraso a un certo momento dico: c’ho qui una mia zia vecchia, vado a sentire come sta, se vuoi stare qui ad aspettarmi, se no fai come vuoi. Sì ti aspetto stai su un po’? No no sto su cinque minuti, sono stato su due ore, non se ne andava mai, aspettavo che andasse via. E lei conosceva qualcuno in via Ponteraso? Nessuno. Tra l’altro per combinazione era il momento da nascondermi. […] Andandomi a chiudere in un granaio lì a Ponteraso che avevo trovato una porta aperta sono stato chiuso dentro due o tre ore, intanto che quello là, lui era un capitano, m’ha aspettato e poi è andato via. Quando è tornato a Mülsen, dove eravamo in prigionia, lo volevano fucilare perché era un disertore anche lui, io ero alle dipendenze di lui, lo volevano fucilare, perché io ero accompagnato a lui. […] Sì, difatti ho preso mia moglie, mio padre, mia madre, mia figlia e ci siamo fatti portare con un taxi da un certo G. che sapeva la situazione mia e che ha salvato dell’altra gente, suo padre era ebreo, mi ha portato a Fossoli, Fossoli sa che c’era un campo di concentramento e ci ha portato a Castelfranco Emilia a sedere sul treno e siamo andati a Milano da dei conoscenti che ci hanno tenuto nascosto per otto giorni lì mentre mio cognato che ha sposato mia sorella aveva indirizzato che c’erano questi passaggi oltre frontiera a pagamento, 10.000 lire a testa […] . [parla la moglie] Il papà era ebreo, l’avevano preso alla frontiera che cercava di scappare in Svizzera, noi stavamo a Milano allora, però quando l’han portato a S. Vittore a Milano, l’hanno preso non sapendo che era un Donati oriundo modenesissimo, l’hanno portato a Fossoli e da Fossoli poi è stato salvato da questo prof. T. che era un suo gran amico, era un chirurgo, ha fatto finta che avesse bisogno di una operazione di appendicite, se no lo mandavano in Germania e lo ha prelevato, ha detto: questo deve essere ope-
90
G. PROCACCI (a cura di)
rato urgentemente. Infatti l’ha operato, non aveva niente ma l’ha operato immediatamente di appendicite nella notte, lo ha fatto scappare. […] [parla Ermanno Castelfranco] Lei sa che a un certo momento ho ricevuto una lettera da mio padre, nel maggio del ‘44, che dice: guarda che ci hanno dichiarato ebrei, preparati che adesso ti manderanno a casa, d’altronde come facevo io ad andare a dire: guardi, io sono ebreo, mandatemi a casa. Poteva essere pericoloso, invece aderendo, stando lì può darsi che avevo un alibi per dire questo qui ha fatto la guerra. Questa comunicazione non è mai arrivata, non si sa ancora perché. […] Da Modena vi spostate a Milano con l’aiuto di questo taxista. A Milano siamo stati nascosti una settimana presso degli amici cattolici, cattolicissimi, ma c’era molta gente che aiutava intendiamoci, c’erano anche i delatori ma c’erano anche brave persone. Io vado in un caffè a Milano e ci trovo Gianetto che era il cameriere del caffè, mi è venuto a prendere perché non sapevo che anche lui era scappato per motivi. Sì, perché poi c’era gente che scappava per motivi politici, per motivi razziali diciamo come noi, insomma c’erano tante cose. Poi c’erano tanti fascisti che potevano rovinarlo uno. […] [parla la moglie] […] Da lì poi con un trenino siamo andati a Como poi da Como siamo andati, lui era vestito ancora da ufficiale dell’esercito perché era più sicuro, poteva essere in licenza e aveva la sua rivoltella, e dopo siamo andati su queste montagne dove avevamo appuntamento. C’era qualcuno che organizzava a Milano? Mi può parlare di questa organizzazione? Sì questa organizzazione c’era. Erano dei privati, erano dei contrabbandieri, della gentaglia. Mia sorella aveva sposato un milanese, stava a Milano e ha organizzato, ha contattato, si sapeva che si doveva contattare. Il cognato si è messo in contatto con i contrabbandieri in modo da farli passare in Svizzera. Era una quota altissima 10.000 lire a persona e poi solo qualche sacco da montagna. Io ero giovane, avevo 21 anni, il mio sacco da montagna in spalla e la mia bambina in braccio, non ti dico i miei suoceri perché erano persone molto più giovani di quello che sono in questo momento io ma abituati però in un’altra maniera, noi abbiamo sempre fatto sport, montagna, loro avevano sempre fatto una vita molto piana, portarli il montagna e fargli fare queste salite perché abbiamo camminato per ore e ore, poi a un certo momento avevamo quattro contrabbandieri e li avevamo pagati, dovevano portarci a questa rete metallica dalla quale noi dovevamo poi per terra, strisciare in terra e passare in Svizzera, a un certo momento io mi sono accorta che questi contrabbandieri piano piano non ce n’erano rimasti solo uno, uno. Allora mi sono rivolta a mio marito: ma senti, guarda che ci tradiscono, che ci abbandonano, allora lui prende la rivoltella e a questo contrabbandiere ha detto: guarda, se ci lasci, gli altri se ne sono andati, ma se ci lasci io ti sparo e poi dopo sparo ai miei. Allora lui che sapeva benissimo che cosa, perché erano dei contrabbandieri, erano della gente poco per bene, i contrabbandieri, allora lui ha detto: no per carità, ci ha fatto fare altre due ore di cammino e poi ci ha portati in una baita sopra, dalle parti di, perché noi siamo scesi a Bellinzona, quindi dalle parti del Lago di Como, e ci ha portato in questa baita, da questa moglie che si chiamava Regina, me lo ricorderò fin che campo, e ci ha nascosto in questa baita, dicendo: state
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
91
buoni, state tranquilli per qualche giorno, adesso vedo di riorganizzare il passaggio. [parla Ermanno Castelfranco] Nel frattempo nel pomeriggio alle tre sento una macchina che viene dentro a questo cortile, era l’ultima casina che c’era sulla montagna, e dico: qui siamo finiti, qui ci hanno trovato di sicuro. Erano dei carabinieri che facevano la ronda in perlustrazione, uno spavento! [parla la moglie] Siamo stati chiusi dentro in questa camera tutti assieme, siamo stati lì cinque o sei giorni e poi una notte alle due lui ci ha chiamato e ci ha detto: è la notte buona, partiamo. Con una luna, una notte meravigliosa, il 1° maggio ‘44. La bimba aveva sei mesi, bastava che si fosse messa a piangere, abbiamo visto passare la ronda tedesca. Ci è andata bene, ecco. A un certo momento si è illuminata tutta la montagna con dei fari che illuminavano dappertutto e allora loro ci hanno detto: a terra, a terra e ci siamo tutti sdraiati per terra e lì abbiamo sentito passare la ronda tedesca. Dopo di che siamo arrivati a questa rete, lui aveva già detto stabilito che la prima dovevo essere io a passare poi mi allungavano la bambina, poi sua madre, poi sua sorella, poi suo padre e per ultimo rimaneva lui. Così, quando sono passata lui mi ha gridato solo: adesso corri, perché c’erano 100 metri di zona neutra in cui ci potevano sparare, dalla quale sparavano, poi i racconti… certe cose si sapevano, avevamo già saputo che erano state ammazzate delle persone proprio nel tratto della zona neutra. E la cosa più bella che abbiamo visto è che, scesa questa collina, questa montagna, ho visto un paesino ai miei piedi e passare un treno illuminato che in Italia era tutto naturalmente buio, c’era il coprifuoco, con un vagone restaurant con la gente che mangiava. Ad ogni modo quegli svizzerotti sono stati bravi, bravissimi, hanno salvato noi, hanno salvato centomila altre persone, perché lì era un campo di concentramento solo con dei belgi, per esempio. Passato il confine in Svizzera, cosa vi succede dopo? Siamo andati a finire a Bellinzona perché siamo arrivati giù, la popolazione di queste quattro case mi è venuta incontro con una tazza di latte per me perché avevano visto che avevo in braccio ‘sta bambina e poi siamo andati, c’erano già delle baracchette attrezzate per quelli che passavano, che poi lo sapevano da che parte arrivavano gli italiani, ci siamo consegnati, avevamo nascosto dei gioielli e della roba d’oro nelle spalline delle giacche, perché se ne avevamo bisogno, questo ce l’avevano insegnato, ma ci hanno portato via tutto. Si sono comportati in modo indegno, malissimo, malissimo. Non si sapeva quando finiva la guerra, questo a loro discolpa, erano strapieni di stranieri da tutto il mondo, avevano paura di rimanere senza mangiare loro, c’era gente da tutta Europa, ero l’unica italiana. Voi vi consegnate a Bellinzona? A Bellinzona, a Bellinzona siamo rimasti 15 o 20 giorni e poi ci hanno smistato perché facevano campo di concentramento per uomini, campo di concentramento per donne e bambini dove sono andata io per esempio in Svizzera francese, e campi di concentramento per persone anziane, i miei suoceri poverini sono finiti malissimo in alta montagna sopra Lucerna, a 1.800 metri, con un freddo boia e senza mangiare, molto male, diciamo molto male.
92
G. PROCACCI (a cura di)
[parla Ermanno Castelfranco] Io ho mangiato perché facevo il cameriere degli svizzeri, rubavo cioccolato e zucchero da portare a mio padre. Voi godevate di una certa libertà? [parla la moglie] Sì, sì, eravamo liberissimi. Dovevamo lavorare 8 ore al giorno, questo dopo, a Bellinzona e Lugano eravamo tutti insieme non facevamo niente in attesa di questi smistamenti che non sapevamo neanche noi cosa succedeva, poi ci hanno divisi. Io sono andata a finire a Lion, sopra Montreaux, in un campo femminile e con una casa per bambini dove c’era Maria José, la moglie di Umberto di Savoia, è venuta a trovarci al campo di concentramento, ero l’unica italiana, mi ha portato un barattolino di borotalco grande così. Tu pensi in quelle condizioni, come eravamo messi. E gli svizzeri ci pagavano ogni dieci giorni, come soldati, siccome lavoravamo da matti, lui ha fatto il minatore, prima ha fatto il cameriere ma dopo ha fatto il minatore, ci pagavano e allora con quei soldini che ci davano io compravo per la mia Anna, non so, un panino bianco, perché loro avevano di tutto, avevano ogni ben di dio. [parla Ermanno Castelfranco] Io ero senza pantofole di inverno, facevo da mangiare a questi svizzeri, li servivo a tavola, gli lavavo i piatti io, in un magazzino che era stracarico di roba, della Croce rossa, han cuccato tutto gli svizzeri. [parla la moglie] Loro non davano, avevano una paura folle, non si sapeva quando la guerra fosse finita, loro erano isolati, avevano paura di finire le loro scorte, avevano tanta di quella cioccolata, tanta di quella roba che non vi dico per noi affamati era una cosa vedere quella roba. Dopo io ho venduto un braccialetto per una strozzata. Il cibo che ricevevate a pranzo e a cena dagli svizzeri come era? Terribile, delle gavette alte così. Solo patate. Più o meno come nel campo di concentramento. Io rubavo dai piatti in cucina, rubavo per portare a mio padre qualcosa. Mangiare molto male. Avevano paura loro di rimanere senza niente. Per dirti una cosa, perché dopo sono riuscita a farmi raggiungere da mio marito, nel campo avevano bisogno di un uomo, gli ultimi due mesi, e io lavoravo tanto che poi sono riuscita a fare venire mio marito a badare alle caldaie che ci vuole un uomo perché noi donne non sapevamo come fare, poi naturalmente quando la Val d’Ossola che è stata una delle prime liberata, ci hanno riunito, hanno detto chi ha parenti, qualcuno, sfollati da Milano, c’era gente da tutto il mondo, può partire. Effettivamente sua sorella era sfollata da Milano col marito e il bambino a S. Maria Maggiore che è proprio sopra Domodossola e lo sapevamo, speravamo di trovarla ancora perché avevamo ben 500 lire in tasca. Ah, ecco cosa volevo dire del vitto, il vitto era così scarso che io sono stata in Svizzera dal 1° maggio del ‘44 al 1° maggio ‘45, in un anno io sono calata 11 chili, questo per dirti, un chilo al mese, allattavo la mia bambina. Ci spettava 150 gr di cioccolata al giorno, mai vista, se la cuccavano loro. Questi capi campo, quella del mio campo, quella lì non era antipatica, la sera di Natale fa il discorso e allora mi prese, mi disse in francese perché naturalmente lei non sapeva l’italiano che io ero l’unica italiana, se volevo leggere il messaggio del Papa a tutta la comunità, dunque io ho
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
93
letto questo messaggio. Gli svizzeri si sono comportati malissimo, non sono stati molto carini e simpatici. Quando si libera la Val d’Ossola voi rientrate in Italia. Siete voi che decidete di rientrare? O gli svizzeri che vi spingono? Loro hanno detto: tutti quelli che possono e spingevano e siccome noi non vedevamo l’ora di venire via, eravamo uniti io lui e la bambina, mi ricordo che avvertimmo, non so neanche come abbiamo fatto ad avvertire il papà e la mamma, [...] insomma li abbiamo avvertiti in una qualche maniera, e ci siamo precipitati in Italia. In Svizzera hanno condannato 52 capi campo perché avevano rubato. […] Quando rientrate a Modena, si ricostituisce la comunità ebraica a Modena? Sì, ma non c’è più nessuno. Il rabbino è stato preso. […] Lei nel ‘51 riceve la croce al merito di guerra per la sua partecipazione alla campagna d’Albania: non per il periodo della prigionia? O è considerato anche quel periodo? [parla Ermanno Castelfranco] Sì, ma questo non lo so, non mi sono mai neanche interessato, mi bastava essere a casa. Non è finita brillantemente ma è l’unico caso che c’è in Italia, un ebreo che va a fare la guerra. Credo che non ci sia un altro caso simile. Lei si ricorda le condizioni di vita nel campo tedesco di Deblin? Esistevano delle attività ricreative organizzate dagli ufficiali, c’è qualcosa che manteneva un po’ il morale? […] Sì, c’erano dei miei amici che alla sera alle sette andavano a dire il rosario, si ritiravano in un triangolo e io smadonnavo, scusate il termine, perché non avevo neanche quel sollievo lì, che li invidiavo, era gente che era religiosa, si attaccavano alla religione e non han passato quello che ho passato io. Io sono stato peggio ancora perché non sapevo chi ero, come andava a finire. Ti posso dire che di Modena con me in campo di concentramento c’erano vari ufficiali, sette ufficiali, ci sono rimasto solo io, non c’è più nessuno, tutti morti per vecchiaia, che sapevano chi ero io e non ero io. ENNIO CAVICCHIOLI - 1924 - San Prospero (Mo) - Soldato […] Sono partito il 12 maggio del ’43. E dove è andato? A Como. […] Dopo è venuto l’8 settembre […] poi ognuno è andato a casa sua. […] E i comandanti? Dopo si sono arresi e hanno detto: “Fate quello che volete”. […] A Lodi abbiamo trovato una famiglia che abbiamo lasciato i nostri vestiti, ci ha dato, in settembre, era caldo… ci ha dato un paio di pantaloni e una camicetta, e poi… […] E allora siamo arrivati a Modena alle dieci di sera, circa. […] Siamo partiti, abbiamo fatto non so, cento metri, c’erano i tedeschi attendati. […] Allora lì ci hanno preso. […] E poi una bella giornata là in camerata, con i miei amici ho detto: “Guarda, io vado a casa!”. […] E allora sono rimasto lì e poi dopo un po’ allora mi son rimesso, sono partito e sono arrivato fino al cavalcavia, sopra al cavalcavia; solo che arrivo di là, prendo la campagna… sopra il cavalcavia passa una jeep di tedeschi.
94
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Nella jeep c’era il tenente cappellano. […] E così, allora mi ha conosciuto, allora ha fermato la jeep e poi mi ha detto: “Ma dove vai, a San Prospero?”, “Eh, dove vado, son già arrivato qua sopra, debbo solo andar laggiù, poi vado a casa, io”. Tutto è andato bene… e mi dice: “Ma ti rendi conto di quello che fai? Possono venirti a prendere e poi ti uccidono.” Adesso, se lui non dice niente, se lui adesso… dice… m’è sembrato o cosa, dico, se lui mi lascia andare… “Ma no. Fai una cosa non buona”. E allora dopo si è voltato indietro, ha fatto un segno ai tedeschi, sono venuti lì, mi hanno preso e poi mi hanno portato dentro. […] Allora siamo partiti alla mattina alle dieci da Modena, una tradotta di 2.000, 1.500 persone, non so quanti eravamo e lì in treno fino a Bolzano, senza fermarsi. […] Poi siamo arrivati a Küstrin, il campo di concentramento. […] Ognuno nel suo zaino aveva messo più che poteva, perché hanno detto: “Andate in Germania”, quel che uno poteva che aveva se l’è preso. È solo che quando siamo arrivati là al campo, abbiamo messo tutto in un quadro lì, e poi siamo andati a fare bagno e disinfezione; quando siamo tornati avevamo solo i panni che avevamo addosso, gli zaini non c’era più niente. […] Uno addosso all’altro. Un po’ si riparava perché proprio eravamo…, uno faceva da coperta all’altro, si poteva dire, così. E poi dopo lì una bella mattina ci hanno unito in un bel po’, tre per fila, lungo trenta o quaranta metri, è venuto uno con un camion, chiuso, e allora guardava, prendeva tutti, i più grassi no, perché non eravamo grassi nessuno, però prendeva tutti i più grandi. […] A Küstrin vi hanno fatto le prime proposte per passare alla Repubblica sociale? […] C’erano degli italiani. Misti no? Perché un po’ c’erano tedeschi con loro. E domandavano chi voleva andare volontario, li mandavano sul fronte italiano. Allora… io sono stato tentato, però ho detto: “Ma, e dopo, se cambiano posizione?”. E difatti i primi han detto, “radio scarpa”, che tutti quelli che sono andati via, in otto-dieci giorni li hanno mandati sul fronte russo. […] Aderirono in molti? Sì, sì, ce n’è, ce n’è. Una mattina ne son partiti circa un centinaio, hanno deciso perché oh, lì si mangiava poco, dopo si andava in truppa che dicevano che uno era considerato come un militare suo, dopo che aveva firmato che era andato con loro, era considerato tale e quale, e allora è così; e allora ce ne sono andati. Io sono stato tentato ma non ci sono andato. Dopo ho avuto quella fortuna lì che sono stato scelto insieme a quegli altri lì, siamo andati a Basdorf, in questa fabbrica, che là ce n’eran già un 200-250. C’erano sei baracche, tutti italiani. Ma lei perché non è andato con la Repubblica sociale? Perché aveva paura poi di finire sul fronte russo? No, perché non ci credevo. Ero fuori, io non ci credevo. E poi le dico anche una cosa; che quando sono andato militare, io, se avessi potuto sarei scappato via. Non volevo fare neanche il militare. E allora, ormai ero là, vabbè che son messo male, però perché dovevo combattere per i tedeschi? E allora perché dovevo andare anche se dicevano che mi mandavano in Italia, ma io, contro chi dovevo combattere, contro i miei, allora?! Sì, sono stato tentato, poi ho cominciato a riflettere e allora ho detto: “No. Al-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
95
lora io non ci vado”, e poi non sono rimasto mica solo io. Avevo anche dei miei amici di Bologna e tutto il resto. Tutti ragazzi del 1924 che… quello anziano, col poco mangiare, insomma, portava pazienza e andava… ma noialtri ragazzi avevamo 18 anni e lo stomaco tirava. Bisognava mangiare, però non c’era… E allora lì… siam venuti lì, poi lì sono stato fortunato quando siamo arrivati; in quindici ci hanno messo in cucina. […] Altri 15-20 al reparto montaggio, quell’altro al reparto… Sai, in una fabbrica di apparecchi, là c’erano 10.000 persone. C’erano russi, francesi. […] Era una fabbrica grande a Basdorf, bella grande. E allora quel mio amico lì, lui lavorava in fabbrica, e allora io in cucina quando potevo mi arrangiavo; una volta un filone di pane, una volta questo, una volta… […] Dopo siamo arrivati civili e allora… […] Nella primavera tardi. Hanno domandato per passare civili. E allora c’è stato chi… hanno messo fuori il tavolino e c’era da firmare. Allora c’è stata una parte che ha accettato, ma siamo stati in molti, che c’ero anch’io, che non abbiamo firmato, nemmeno per diventare civili, perché dicevamo: “Se delle volte questa firma va adoperata, per dire, avete firmato, bisogna che andiate là…”. E allora niente. Preferivate rimanere lì dove eravate e come stavate. Sì, loro ci hanno tenuti chiusi per due giorni in attesa di andare a firmare ma la maggioranza non ha firmato; avrà firmato, non so, una terza parte. E allora visto così dopo hanno aperto le baracche e hanno detto: “Siete tutti civili e buonasera!”. […] E allora dopo due mesi siamo andati a Berlino, in treno, perché eravamo liberi, e siamo andati al cinema. La sera potevate uscire tranquillamente? Sì, sì, venivamo a casa a mezzanotte, non c’erano guardie, niente. Eravamo civili, com’erano i francesi, che ce n’era un bel po’, i polacchi, i russi. I russi però erano ancora prigionieri… eh, loro no. C’erano francesi, olandesi, belgi. Loro erano poi civili da prima. E così siamo stati là fino alla liberazione dei russi. […] Poi siamo stati liberati il 21 aprile, dopo mezzogiorno, subito dopo pranzo, dai russi. Venivano avanti questi russi in staffetta, senza elmo, niente, così, a cavallo. Poi siamo stati lì un venti giorni. […] Nelle nostre baracche, sotto i russi, controllati. Subito ci hanno dato 24 ore di libertà per arrangiarsi come uno poteva. […] Alè, fuori dalle baracche, e andare a casa dei contadini. Chi prendeva il pollo, chi il maiale. […] E poi dopo hanno cominciato loro a darci da mangiare, mangiare a secco, e allora noi eravamo già in squadra con quelli di Bologna, in 10 o in 12, prendevamo tutto il nostro mangiare insieme e poi ci arrangiavamo a farci la minestra perché ci davano la minestra, il burro, tutto, da mangiare. Venivano lì e ti davano da mangiare a secco per due tre giorni, a secco, roba secca e poi te la dovevi cucinare. […] E poi siamo andati in questo paese, Bukow si chiamava, a Bukow. […] Poi là siamo rimasti là fino a settembre, là siamo rimasti un bel po’. C’erano delle colline con delle pinete che era una meraviglia. E con la quantità che c’era di prigionieri avevano fatto quattro squadre di giocatori da football. C’era il campo sopra la collina e con i pini lunghi sei ogni squadra aveva fatto la sua tribuna. […] Solo italiani. […]
96
G. PROCACCI (a cura di)
Non vi facevano lavorare? No, no, niente. Il nostro lavoro era quello di andare a vedere la partita, tutti i giorni c’era una partita. E poi c’era un teatro, facevano commedie, sempre fra prigionieri. […] Sulla via del ritorno, in Austria, siete stati consegnati dai russi agli americani? I russi non so quando li abbiam persi, ma in Austria non c’erano più. A Innsbruck ci siamo fermati che lì c’era un bel torrente che io mi ricordo sono andato a lavarmi. Lì siamo stati fermi due o tre ore. Dopo siamo arrivati in Italia. […] Dopo siamo andati al distretto ed io per quel periodo lì ho ricevuto 14.000 lire, come indennizzo. Ognuno è andato al distretto a far presenza e buonasera. E davano quella liquidazione lì. Anzi, non me la volevano dare, le dico anche questa. Perché ho fatto parte di quelli che non hanno firmato; e allora quelli che non hanno firmato non ricevevano quella liquidazione di 14.000 lire. E invece dopo ho insistito e dopo avranno detto… sembrava che non ne avessi diritto. Perché quelli che hanno firmato sono passati civili prima di agosto, prima di settembre, e noi invece no, non abbiamo firmato. Con il primo settembre hanno aperto le porte ed hanno detto: “Andate, se volete, siete liberi”. È stato in settembre. […] La religione vi dava un aiuto a stare uniti nei momenti più difficili? C’era un cappellano? No. C’era un cappellano che faceva la messa, chi ci voleva andare ma nelle nostre baracche, no, no… non andava nessuno. La religione non ci ha aiutato per niente. […] Quando siete arrivati a Küstrin, vi siete resi conto che voi italiani eravate trattati rispetto ad altri prigionieri in maniera differente? […] Quando siamo arrivati alla fabbrica, abbiamo avuto un periodo in cui anche quelli che erano già lì a lavorare come civili, italiani, anche quelli lì ci hanno dato dei traditori e dei buoni a nulla; perché “Dopo che l’8 settembre avete abbandonato la Germania, noi qua la nostra vita è cambiata; siamo considerati quasi come prigionieri e noi con la guerra non c’entravamo mica”. “Come non c’entravate? Siete scappati dall’Italia. Va bene che avevate bisogno di mangiare, guadagnarvi il pane, però accontentatevi, non dite che noi abbiamo tradito”. […] BRUNO CECCHELLI - 1923 - Sestola (Mo) - Soldato Dove si trovava l’8 settembre? Mi trovavo in Jugoslavia a Studenica. […] L’8 settembre dopo la notizia dell’armistizio ci siamo sbandati, volevamo tornare a casa. Un ufficiale ci disse: “O andate a fare adesso la vita del partigiano con gli jugoslavi o ve ne andate a casa”. Certo che tutti noi volevamo però tornare a casa. I nostri ufficiali, niente, dopo poco erano tutti spariti. Si arrangi chi può. Quando siamo arrivati sotto Trieste nell’attraversare un strada dei tedeschi ci hanno fermati e lì ci hanno presi. […] Ci fecero marciare fino a Trieste per sei-sette km. C’erano le camice nere con i tedeschi. Eravamo in tanti. Io avevo formato con altri amici un gruppetto di otto-dieci. Quando ero stato in città avevo pensato: “Quando trovo il primo portone aperto taglio la corda”. Uno ebbe la mia stessa idea, ci provò ma lo uccisero. Da allora decisi di non tentare la fuga.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
97
[…] Noi speravamo di andare a casa ma il giorno dopo ci hanno caricati su una tradotta. […] Arrivati a destinazione venne un plotone di soldati a prenderci. Vedendoli venire da noi un mio amico sceso dal treno chiese: “E che cosa ci fanno adesso?”. Io risposi: “Ci manca solo che ci vogliano ammazzare!”. Un altro mio amico si mise a piangere disperato pensando che era il plotone d’esecuzione. Era invece il plotone di scorta che ci veniva a prendere. Da lì siamo poi andati al campo IIIC che era a Küstrin. Non ricordo bene dove fosse, avrei bisogno di guardare in una cartina. Noi di Sestola eravamo tutti assieme durante il viaggio poi sono rimasto soltanto con Urbano Galli ed E.B. […] Dove vi hanno portato? Ad Oranienburg vicino a Berlino. Eravamo sempre insieme noi tre di Sestola: io, B. e Galli. Eravamo in una fabbrica di ali per apparecchi, non mi ricordo il nome. Andavamo alla stazione a prendere i pezzi per gli apparecchi e li portavamo in fabbrica su dei carri. B. invece era proprio dentro la fabbrica a lavorare con le macchine. Dormivamo in baracche a 500-600 metri dalla fabbrica. Avevamo dei pagliericci di paglia in castelli a tre piani. […] Quando andavamo alla stazione per la fabbrica guardavamo se si trovava qualcosa da mangiare ancora dentro ai vagoni. Una volta vedo un tedesco in cima ad un vagone che mi chiama. “Oddio e adesso cosa mi fa?”. Mi avvicinai, lui guardò in giro e mi passò un filone di pane. Io ero contento, facevo dei salti. L’unico tedesco buono. Del resto c’erano dei ragazzi della Hitlerjugend, erano come i Balilla nostri, che ci venivano vicini, buttavano per terra dei pezzi di pane e quando ci abbassavamo per prenderli ci prendevano a calci o schiacciavano il pane con i piedi dicendoci: “Traditori. Badoglio ha tradito”. Ma che colpa ne avevamo noi? In fabbrica avevate contatti con operai tedeschi? L’unico tedesco vicino a noi era quello che ci comandava, era il capo e si chiamava Paul. Io da lui ho preso tante botte. Fino a quando rimase a lavorare in quella fabbrica? Fino a che ero completamente sfinito sfinito. Non avevo più forze. A Urbano bastava quello che ci davano, a me invece no, dovevo mangiare di più. Non potevo più muovermi e insomma, non ce la facevo più. Andai allora dal nostro capo, Paul, e lui mi diede delle botte perché diceva che ero diventato pigro. Tornando indietro dalla fabbrica, mettevamo sulle stufe a cuocere le bucce che di nascosto riuscivamo a raccogliere dalla spazzatura della cucina. Le attaccavamo sulla stufa e quando cadevano giù le mangiavamo. Io e Urbano siamo nel gruppo di amici di Sestola catturati insieme, quelli che sono stati peggio. Io avevo sempre una fame che… Sapevo che potevo prendere una fucilata ad andare a rubare le bucce delle patate, ma era meglio morire d’un colpo solo che morire di stenti. […] Andavamo nei gabinetti a cercare le cicche buttate per terra, poi le fumavamo. Quando vedevamo un pezzetto di pane per terra, lo raccoglievamo e lo mangiavamo subito. Ero diventato 49 kg mentre prima di partire a militare ero 65 kg. Non mi reggevo più in piedi. Vivevo di stenti. Feci allora un voto alla Madonna: se fossi tornato a casa le avrei fatto dire una messa tutti gli anni. Era un momento di crisi. A Oranienburg una volta vidi fuori dal campo un tedesco pescare, a me piaceva molto la pesca, e mi dissi: “Guarda un po’ quello lì è libero “. E mi prese
98
G. PROCACCI (a cura di)
una tristezza. [si commuove]. Ne ho fatti di pianti la sera prima di dormire... Non credevo più di poter tornare a casa e poi agli inizi pensavo molto alla famiglia, ai miei genitori e ai miei quattro fratelli. Dopo ho iniziato a pensare solo a me a sopravvivere. Non pensavo neanche più a nessuno. Tornato a casa venni a sapere che durante tutta la prigionia i miei genitori mi avevano inviato dieci-dodici pacchi: non ne ho ricevuto uno. I francesi quelli sì che ricevevano dei pacchi e facevano anche scambi. Ce ne erano due che lavoravano in fabbrica con Galli e qualche volta ci passavano della zuppa buona. Ricordo che una volta mi chiamarono e io li salutai con il saluto fascista e loro mi spiegarono che non si salutava più così. Il capo mi dava tante botte perché ero sempre stanco. Un mattino ero stanco e marcai visita. Dissi che stavo male e rimasi nella baracca dove mi misi ad urlare finche non mi portarono in infermeria. Poi mi mandarono all’ospedale di Luckenwald per deperimento organico. C’erano francesi, italiani, serbi, etc. Sono stato lì un mese. Persi così Urbano, lo rividi solo a guerra finita un giorno davanti al distretto militare a Modena. Come fu trattato nell’ospedale? Mah, il capo della mia baracca mi aveva preso bene e io come mi trovavo bene lì gli ho chiesto allora di restare. Venivano sempre a prendere gente per fare gli operai, ma lui mi disse: “Fin che posso ti faccio restare!”. Tutte le mattine si faceva l’appello e una mattina uno era sparito. Non lo trovavamo. Poi, cerca, cerca, guardammo meglio nei nostri castelli di tre piani e lo trovammo. Era proprio sotto di me. Era morto. Ognuno era per suo conto e nessuno se ne era accorto. Era morto dallo stento. Uno fece una battuta: “Poteva morire prima dell’appello!”. Vedere i morti oramai non faceva mica più impressione. Anche dopo quando ci hanno liberato, i russi il primo lavoro che mi hanno fatto fare fu quello di seppellire i morti. Nell’ospedale mangiò meglio? Beh, sì. Ma era comunque poco. E se mangiavo meglio era perché mi arrangiavo. C’erano i francesi che facevano degli scambi perché ricevevano molti pacchi. Ad un certo punto mi mandarono a lavorare e il capo baracca mi disse: “Vai a star bene. Vai a lavorare in campagna ai lavori leggeri”. Infatti da lì andai in campagna. Ero rimasto in ospedale una ventina, forse venticinque giorni. Dove la mandarono? Vicino a un piccolo paesino in periferia di Berlino; era una piantagione di rabarbaro. Eravamo in una baracca tutti italiani, con una guardia tedesca anziana che ci seguiva sempre. Ma quello era buono. Andavamo in campagna a raccogliere le patate e il rabarbaro. Lavoravamo per una signora che possedeva del terreno. Come era la vostra guardia? Era buono. Ci aiutava. Ci permetteva a volte di portarci a casa delle patate di nascosto. Se ti vedevano gli altri tedeschi erano tante botte. Ad un certo punto ci chiesero di firmare ma noi non abbiamo firmato perché si diceva che mandassero in Russia. Si vede che avevano bisogno di soldati per mandarli al fronte. Poi ci hanno passati civili. Non eravamo più accompagnati dalla guardia ma abbiamo continuato a lavorare. Avevate contatti con tedeschi civili?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
99
Con noi a lavorare c’erano delle donne tedesche e polacche. Avevamo contatti con loro di rado. Vi pagavano per il vostro lavoro? Sì. Ci davano dei marchi civili. Li usavamo per comprare sigarette. Ci davano un pezzettino di margarina e una fettina di pane al giorno e nei campi c’era anche chi per fumare rinunciava alla sua razione di margarina. Io non ho mai venduto la mia margarina per fumare. […] Come avviene l’arrivo dei russi? Io stavo lavorando. I tedeschi che erano lì con noi sentendo gli scoppi avvicinarsi scapparono e noi ci nascondemmo. Poi ci incamminammo per tornare ai nostri alloggi. Strada facendo trovammo un forno abbandonato con il pane in vetrina e ci riempimmo le braccia di pagnotte. Per strada non c’era nessuno. Ad un certo punto mi venne davanti un russo che mi diede l’alt e mi fece restare lì, erano circa le 10 di mattina. Nel pomeriggio arrivò un grossa colonna. Li vidi avanzare scansando i morti lungo la strada. […] A noi poi ce li fecero raccogliere e portare via. Allora pensavamo solo a noi e vedere e toccare un morto non ci faceva senso. Non pensavo a nessuno neanche alla famiglia, pensavo solo a me stesso. Era così. […] Con altri italiani avevamo trovato delle biciclette e un carrettino: volevamo tornare in Italia con quelle. Partimmo. Ci fermavamo occupando lungo la strada le case che i tedeschi avevano abbandonato. Cercavamo da mangiare dappertutto e trovavamo di tutto. Era stata così forte la nostra fame che nonostante il nostro stomaco si fosse rimpicciolito volevamo buttare dentro tutto quello che trovavamo, fu così che una sera mi riempii di zabaione e stetti male tutta la notte perché era troppo quello che avevo mangiato, persi anche sangue. Molti invece morirono. Ci mancò poco che ci lasciassi la pelle proprio alla fine della guerra. Con la fame che c’era… Arrivammo fin quasi a Francoforte. Lì i russi ci fermarono e ci volevano mandare a un campo di raccolta. Siamo rimasti con quel gruppo di russi per sette-otto giorni poi siamo andati nel campo. Speravamo arrivasse l’ordine di portarci in Italia. Nel campo trovai altri italiani ma anche dei serbi. Il capitano russo ci voleva un bene a noi che… Ci trattava bene. Quando siamo andati via e ci fecero passare la visita, mentre ai serbi che erano partiti prima di noi tolsero quello che avevano preso dalle case o che avevano comunque con loro, a noi invece non controllarono nulla e tolsero. Come la trattano i russi nel campo? Bene. Avevamo ripreso un po’ di peso. Ci davano da mangiare del gran spezzatino. Usavano tutte le bestie che trovavano, anche i cavalli. Noi eravamo liberi di girare e andavamo in campagna a vedere se trovavamo delle patate. Quanto tempo rimase in quel campo? Mah, lì vicino a Kottbus [sic] ci rimasi tutta estate. Poi un giorno ci fecero una disinfestazione, ci misero su un treno e ci portarono in un bosco dove a metà avevano tagliato lungo una striscia tutti gli alberi, era il confine tra russi e americani. Ci consegnarono agli americani che ci misero subito su un treno per Innsbruck. […] Siamo poi ripartiti per l’Italia e arrivati al Brennero ci diedero un sacchettino di carta con sei-sette mele. A Pescantina trovammo il comitato di accoglienza: “Benvenuti in Italia prigionieri in Germania”. Lì c’era una tenda
100
G. PROCACCI (a cura di)
per ogni provincia: Reggio, Modena, Ferrara… Andai alla tenda di Modena. Trovai un passaggio su un camion e il 7 settembre ero a Modena. […] PRIMO COSTI - 1922 - Formigine (Mo) - Soldato […] Io ero in Grecia, precisamente in un paesino vicino a Corinto ed ero ricoverato perché avevo avuto la febbre di malaria. Il mio reparto stava rientrando in Italia siccome ero nel corpo di artiglieria, l’8° Corpo d’armata e di lì loro stavano rientrando, invece io sono rimasto all’ospedale in quanto avevo la febbre e via di seguito. E mi hanno beccato lì, all’ospedale. Poiché faceva caldo, eravamo a settembre, avevo tenuto solo le scarpe bucate vecchie, un vestito di tela ed il minimo per lavarmi i denti e farmi la barba, ed il resto lo avevo lasciato tutto al reparto pensando poi di utilizzare la roba buona che avevo conservato quando rientravo in patria. […] E finalmente verso le sette di sera ci fecero uscire dal recinto dell’ospedale e avevano un gran marmittone di maccheroni, e ho mangiato. E di lì dopo due giorni ci hanno incamminati fino ad una stazione e messi sui vagoni. […] E da lì ci hanno messi sui vagoni e abbiamo attraversato tutti i Balcani, siamo entrati in Ungheria. I Balcani li abbiamo fatti sempre camminando, finché siamo arrivati senza mai fermarci in Ungheria e lì c’era una popolazione che offriva da mangiare, pagnotte, polli, di tutto, in cambio di tessuti. Da quando eravamo partiti, non avevano più dato un chicco di grano da mangiare o una crosta di pane, niente. […] Alla prima stazione siamo scesi, ognuno a fare i servizi igienici, e di lì saremmo anche potuti scappare perché c’erano solo due soldati, uno davanti e uno dietro, ma nessuno ci ha pensato, proprio, per quel che ne so io, nessuno ci ha pensato. E la storia è continuata finché siamo arrivati a Vienna e lì ci hanno inchiodati dentro i vagoni, piombati, stop. E di lì ci siamo incamminati verso la Germania. Una volta la notte una volta al giorno aprivano i vagoni per farci fare i nostri bisogni. Siamo stati quattro giorni senza mangiare niente, il quarto giorno alla sera ci diedero un po’ di brodino con della farina di granturco fintanto che siamo arrivati al campo di concentramento nella Prussia orientale. Si ricorda il nome del campo? Hammerstein. In quel campo quanto tempo ci é rimasto? Quattro o cinque mesi, eravamo in una barca di persone qui di Modena. […] Non appena arrivati, era una sera, verso l’imbrunire, ci hanno messo in un recinto e ci hanno fatto il solito discorso che la nostra patria ha bisogno, che loro sono i nostri amici, i nostri alleati, e che dovevamo fare la nostra scelta ed andare con loro, eccetera. E allora hanno detto “Quelli che sono disponibili vadano in quella posizione”, non si è mosso nessuno, e allora ci hanno tenuto lì quattro ore fino a mezzanotte, un po’ con discorsi buoni, un po’ con discorsi cattivi, non si è mosso nessuno. […] E secondo lei per quali motivi voi soldati non siete andati in quella posizione? Primo, eravamo stanchi di guerra, volevamo tornare a casa. Per il resto, la gente della nostra zona non vedeva bene il rapporto che c’è stato nel periodo di alleanza, non vedevamo bene il rapporto né con le camicie nere,
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
101
né con i tedeschi, c’era un rapporto di sudditanza perché erano dei prepotenti sia gli uni che gli altri. […] Eravamo in dei baracconi di legno a due piani, cimici e pulci erano all’ordine del giorno. Ci davano due mestoli di una specie di zuppa di orzo, liquida, una volta al giorno; dovevi stare in fila sul presente, se no non beccavi niente e un pezzetto di pane, una pagnotta al giorno per una decina di persone. Nel nostro confine c’erano gli italiani, dall’altra parte c’erano i russi e proprio dalla parte del nostro confine avevano scavato una fossa dove buttavano i morti, e noi li vedevamo. Finché lì di tanto in tanto chiamavano dei volontari che uscissero per lavorare. In un primo momento avevamo il timore che ci portassero a fare delle trincee e ci costringessero a collaborare. E poi hanno detto: “Vogliamo un numero di 50 persone per andare in un paese”, che si chiamava Kupen [sic], “per lavorare” dicevano loro “nell’agricoltura”. E invece non era poi agricoltura, era un bosco, la Foresta Nera. Avevano fatto una baracca là, per cinquanta persone, con attorno un reticolato, a una decina di chilometri dal confine polacco a segare delle piante lunghe due metri. Prima di noi c’erano stati i russi su quel confine. Ci dicevano: “Lavorate”. In baracca avevamo due soldati e nel bosco avevamo due civili che ci facevano lavorare. […] Bah, erano due sempliciotti, un po’ stupidotti, magari erano i due scemi del villaggio che li avevano messi lì ed arrivavano a dei momenti di estrema idiozia. C’era quello che ti svegliava che arrivava con un bastone e ti dava delle randellate. […] Ed era così anche il rapporto con i civili? C’era un rapporto molto distaccato. Ci minacciavano. C’era tra noi gente che non aveva mai lavorato e ci mettevano lì con dei segoni, voglio dire, ti veniva un mal di schiena che non ne potevi più, ed eravamo già in novembre, dicembre, gennaio. Nevicava tutto il giorno, pioggerella o neve, sotto le piante, che ti bagnavi tutto. Io ero ridotto ad uno straccio, col mio vestito di tela. E poi mangiavate anche poco, immagino. Loro ci portavano un carico di rape, verze, margarina e pane una volta la settimana. Avevamo eletto un cuoco, avevamo fatto un buco in terra, una specie di magazzino, coperto, in cui mettevamo tutta la roba, e si gestiva per tutta la settimana quella roba lì. Non era tanta. A mezzogiorno si faceva la sosta e i tedeschi avevano il pane con il burro ed il caffelatte. Stavamo lì come tanti cani che guardano il padrone. Delle volte davano a qualcuno una mezza fetta di pane. Lì è stata l’unica volta che ho avuto paura di morire. […] In primavera mi è tornata la febbre di malaria. Un mattino ci portarono in un bosco che era stato tagliato per fare il rimboschimento, per piantare le piantine piccole. Ha cominciato a girarmi la testa per il caldo. Alle dieci avevo una sete che non ne potevo più. Andai a dire al capo che stavo male e lui mi disse: “Lavora, se no ti do delle randellate”. E io sono svenuto. Allora ha detto a due colleghi di accompagnarmi a casa, alla baracca. Mi hanno tenuto una settimana a casa senza portarmi all’ospedale. Bevevo solo dell’acqua. E non si deve bere acqua quando hai quelle crisi lì di febbre di malaria. Mi veniva la febbre a quarantaduequarantatre, con un freddo spaventoso, e sudavo. Finché una domenica mattina viene la sorella di uno di quelli lì, mi guarda e mi dice: “Sei ammalato”. Si vede che proprio avevo un aspetto cadaverico. Mi sono spie-
102
G. PROCACCI (a cura di)
gato alla meglio per dirle che suo fratello non mi voleva portare all’ospedale. Lei è andata lì e... [si scusa, si commuove] Questa donna, ad ogni modo, ha fatto un gran casino. Fatto sta che al mattino mi hanno portato all’ospedale. È stata l’unica volta, quel pomeriggio, che ho pensato: “Qui ci lascio le penne”. Non avevo pensato così neanche in Grecia quando ci era arrivata una bomba lì vicino. Andare all’ospedale è stata la mia fortuna. Ho avuto il medico, le pastiglie di chinino, una discreta alimentazione, e mi sono ripreso. […] Il vostro campo non era sorvegliato? All’esterno no. Solo dentro le baracche. Venivano, contavano, andavano via. Trascorso un certo periodo di tempo, quando vedevano che non succedeva niente, avevano una specie di fiducia nei nostri confronti. E anche quando i soldati si sono accorti che avevamo pane, uova, ci vedevano mangiare e avevano capito, non sono venuti a dirci niente. […] Fino a quando è rimasto a lavorare in quel campo nella Foresta Nera? Siamo rimasti lì fino alla fine del ‘44. Ad un certo momento alla notte si sentiva uno sferragliare per la strada, c’era una strada di fianco alla ferrovia. Hanno cominciato ad avanzare dei carri armati russi. Era buio, ma in base alla loro direzione avevamo capito che erano dei carri armati russi. Per sei mesi avevamo sentito un bombardamento continuo. A Ostroleka si era fermato il fronte e c’erano giorni che era un bombardamento continuo. Il fronte ha cominciato ad avanzare ed hanno iniziato a bombardare Kupen, che noi eravamo sempre là. Poi un giorno è venuto il podestà. I soldati erano già andati via, eravamo rimasti da soli. Senza nemmeno i civili a controllarvi sul lavoro? Eh, no, gli ultimi giorni se l’erano squagliata tutti. È arrivato quello che ci portava da mangiare che era poi una specie di podestà, un funzionario, e ci disse che sgomberavano il paese perché i russi stavano avanzando. La stazione era rasa al suolo, i contadini, i civili, avevano fatto una gran colonna con i carri e le mucche e ci era stato dato l’ordine di seguirli e di sorvegliare che le mucche non scappassero. C’era un metro di neve e niente da mangiare, non ci hanno mai dato un pasto. Non ricordo il giorno in cui siamo partiti da Kupen. Facevamo strade secondarie in mezzo alla boscaglia, finivamo in paesini sperduti e pernottavamo lì. Noi eravamo allo sbaraglio. […] Siamo andati avanti così per diversi giorni e sentivamo questo bombardamento sempre più vicino, poi delle fucilate, finché una notte siamo arrivati ad un gruppo di case. La colonna si era progressivamente ridotta, eravamo partiti con 100 carri, ne erano rimasti 20. Ci siamo fermati una notte presso questo gruppo di case, una decina, e c’era una stalla enorme. Questi ci dicono di andare a dormire nella stalla. Si sentivano nella notte queste fucilate. Qualcuno aveva paura e non dormiva. Qualcuno diceva che nel fienile c’erano dei francesi vestiti da tedeschi. Qualcuno diceva che dei civili erano andati nel bosco con dei fucili. I francesi, verso il mattino, sono scappati. Erano rimasti tre tedeschi. Usciamo al mattino e non si vede nessuno. Poi vediamo un gruppetto di civili e di militari e una donna che ci comincia a dire “Italianski, italianski, cameraten”, era una russa. E quella diceva ai russi che eravamo soldati italiani che aveva visto passare ieri. La donna ci disse di venir via, di prendere quello che volevamo e di andare con loro verso un paese. C’era gente di tutte le nazionalità e man mano che camminavamo verso questo paesino la colonna di
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
103
persone si ingrossava. Strada facendo trovavamo delle case tutte vuote, e noi prendevamo polli, uova e così via. Siamo arrivati in una cittadina che si chiamava Rastenburgo. I russi ci han presi e hanno cominciato a dividerci, perché i russi stavano dividendo la città in settori, noi siamo stati portati in un gruppo di case popolari e là c’erano i letti. In quella città lì c’erano ancora le tavole imbandite, che la gente stava mangiando quando è scappata. Nelle case abbiamo trovato dei morti, si vede che i russi quando sono arrivati non sono stati tanto a guardare per il sottile. Ci siamo sistemati lì. Ci hanno detto: “Domattina venite al comando che vi diamo da mangiare”. Erano organizzati, avevano un ufficio, dei cavalli, delle salmerie. Dopo qualche giorno, venne il comandante della zona in cui eravamo sistemati e ci disse “Adesso dovete cominciare a collaborare, a lavorare”. Il mattino un soldato russo ci portava in una piazzetta e io sono stato scelto per lavorare con il comandante del magazzino viveri. Questo russo era buono. […] Siamo stati lì dei mesi e sono successe diverse vicende. Anche tra noi italiani, ognuno aveva le sue malinconie. Io avevo la mania di mangiare e avevo scoperto dove i tedeschi nascondevano la loro roba migliore. Andavamo nelle case e le vuotavamo. Un giorno andiamo in una casa e su un divano c’erano due vecchiette. Una aveva la fede. Dentro questa abitazione avevamo trovato due bottiglie di grappa e beviamo. […] Usavamo i marchi come carta igienica e per accendere le sigarette. […] Prima di arrivare a Rastenburgo, abbiamo attraversato delle città in fiamme, e l’unica cosa che vedevamo erano delle donne che erano a caccia di cecchini tedeschi, mentre i russi erano tutti ubriachi. Le uniche che hanno liberato veramente le città erano le donne russe. Erano quelle che hanno fatto sgomberare i tedeschi dalle città, ma più che altro li hanno fatti secchi. Lì abbiamo cominciato a camminare. Dopo un po’ di tempo i russi ci hanno detto di rientrare in Italia. Ci hanno detto “Prendete questa strada e continuate a camminare di lì”. A me hanno dato un cavallo col carretto per portare gli zaini come ricompensa per dei favori che avevo fatto: interprete, lavori di riparazione. Quel cavallo mi è durato 5 km, poi incontriamo una squadra di russi che ci fermano e il comandante, dopo averci chiesto i documenti, ci prende il cavallo e ce ne dà uno zoppo. Insomma, il carretto ce lo siamo dovuto tirare da soli. Mentre attraversavamo queste strade, trovavamo dei tedeschi dappertutto, schiacciati in mezzo alle strade. Nelle curve, c’erano dei fossi e lì c’erano tutti i morti tedeschi che gli avevano sparato in fronte mentre venivano avanti. Qualcuno era morto sulla strada, altri erano stati schiacciati dai carri armati, altri erano dei contadini che erano stati ammazzati dai tedeschi. Una carneficina. Ci sono stati due o tre giorni in cui tutti avevano poco appetito. A Rastenburgo, man mano che spariva la neve le cornacchie cominciavano a beccare gli occhi, le guance, le labbra dei morti per la strada. Questo finché siamo arrivati a Gummina [sic] e lì eravamo cinque o seimila, concentrati tutti lì. Dopo cinque o sei mesi ci hanno liberati. […] Il mio rientro a casa accadde così. Siamo arrivati in una cittadina del Veneto, Pescantina. I russi ci hanno sempre trattati da maiali, tant’è vero che ho preso due legnate sulla schiena da un mongolo russo perché stavo cercando di rubare delle patate da un campo una volta che il treno era fermo. In più col rischio di perdere il treno. E rientravamo in treno. Niente da mangiare. Eravamo sistemati alla bell’è meglio in vagoni bestiame.
104
G. PROCACCI (a cura di)
C’erano un russo dietro e uno davanti. Strada facendo, non mi ricordo in che città fossimo, incontriamo un altro treno e sentiamo degli spari, il treno si ferma. Era un treno che trasportava della merce e con un affare che sporgeva ha agganciato la porta del nostro vagone. […] Un mio amico di Finale, era seduto davanti allo sportello del vagone. Quell’affare lì lo ha tirato giù dal treno, sotto le rotaie. Quando il treno si è fermato, siamo scesi per cercare Renato. Era finito in fondo al vagone. Lo abbiamo portato in infermeria, ancora vivo, e ci chiedeva di non lasciarlo lì, di portarlo a casa. Ma i russi ci hanno fatto ripartire, e di lui non si è più saputo niente. Proprio più niente. Che destino. E di lì siamo arrivati a Pescantina. Di fronte a noi c’era un vagone. C’erano gli americani, neri e bianchi. Cominciamo a girare a Pescantina, e vediamo un posto dove dicevano che dessero dei soldi. In pochi minuti si era formata una fila. Davano 10 o 15.000 lire, ma tutti me ne chiedevano in prestito, me ne sono rimasti solo per un pacchetto di sigarette. Poi alla notte siamo partiti. […] Mio padre era morto quando avevo 14 anni. Avevo un fratello e due sorelle, e mia madre per mantenerli andava a lavorare. Le mie sorelle erano in collegio in via Scarpazza e mio fratello era andato alla posta poi lo avevano incastrato per delle armi ed era dovuto scappare, era andato nei partigiani. Erano tutti a casa ma erano disoccupati, non avevano un soldo. Come arrivo a casa mia madre mi dice: “Hai dei soldi che vado a comprare qualcosa?”. E io le ho detto che non avevo niente. Poi sono arrivati tutti i miei amici e conoscenti ed è venuto mezzogiorno. Al pomeriggio sono andato dove lavoravo e mi hanno detto che potevo cominciare domani. E così ha ricominciato. Ah, ho fatto mezza giornata di riposo. […] Ognuno aveva le sue vicende e non era il caso di parlare delle proprie. Racconto le mie vicende ai miei nipoti, ad episodi, me le chiedono e io gliele racconto, ma difficilmente mi capita di parlarne. […] Primo, rivivere quelle faccende lì mi fa molto male. E poi, non ne vedo la ragione. [...] LANFRANCO COTTAFAVI - 1913 - Rubiera (Re) - Ufficiale Io sono stato chiamato a militare ad ottobre del ‘41. Ero allora già ufficiale medico. […] Mi arrivò lì la comunicazione di recarmi in Jugoslavia, era tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del ‘41. Sono andato prima a Fiume ma lì non sapevano dov’era la mia divisione ed allora mi hanno mandato a Spalato. Posso capire che al comando d’armata non sapessero dov’era un soldato, ma un’intera divisione … […] In seguito, nel settembre del 43, venni comandato in un ospedale da campo a Lubiana, della divisione “cacciatori delle Alpi”, XI Corpo d’armata. L’8 settembre ero a Lubiana e il 9 siamo tutti caduti prigionieri dei tedeschi. Come siete stati messi al corrente dell’armistizio? La sera fu il comando di divisione a comunicarcelo. Speravamo di tornare in Italia e invece il 9 sono arrivati i tedeschi che ci hanno disarmati. Mi ricordo che ho dormito la prima notte in un campo da football a ciel se-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
105
reno senza niente, poi la mattina dopo ci hanno caricati sul treno e ci hanno portati allo stalag IIIB di Fürstenwalde sull’Oder. Non vi fu nessuna resistenza da parte vostra? No, no. Nessuna resistenza, anche perché il generale comandante non c’era, […] ci aveva lasciati per andare a comandare la piazza di Milano e il suo sostituto che doveva arrivare da Roma non si era ancora presentato, probabilmente aveva nasato qualcosa ed era ancora là. Non lo abbiamo mai visto. Il corpo d’armata lo comandava il generale Gambara e mi pare che lui poi abbia aderito con degli altri. Non c’è stato nessuno che ha resistito e ci hanno preso le armi, così siamo caduti prigionieri. Non avevamo ordini se non il proclama di Badoglio. Ci hanno caricati su dei vagoni bestiame e abbiamo viaggiato diversi giorni senza mangiare. Siamo arrivati a Dresda e da lì ci hanno portati a Fürstenwalde sull’Oder. Arrivati al campo ci hanno dato da mangiare una di quelle suppen tedesche che si vomitava solo a vederle. Era pieno di italiani, venivano dalla Grecia, dall’Albania, venivano da tutte le parti. Ce n’erano tanti che non finivano mai. Molti erano malati e io perdevo le mattine intere a cambiare i bendoni a quelli che purtroppo avevano preso la sifilide con delle avventure. Quando siete partiti da Lubiana pensavate di poter poi rientrare in Italia? No. Eravamo già rasseganti al campo di concentramento. In principio qualcuno pensava che la guerra fosse finita e che prima o poi ci avrebbero fatti tornare in Italia, ma poi … Il lager dove ero era il IIIB, lì ci sono rimasto alcuni mesi. Ci eravamo organizzati. Eravamo tutti insieme noi medici della divisione “cacciatori delle Alpi”. Alcuni giorni dopo il nostro arrivo ci hanno messi come in un teatro e sono venuti dei fascisti a farci tutto un discorso. Per chiederci se volevamo andare con loro. Poi ci passò in rassegna un colonnello dell’esercito tedesco e chi voleva aderire lo faceva mettere da parte. Arrivato alla mia altezza mi prese tirandomi fuori dai ranghi e mi fece andare con quelli che aderivano, ma io gli dissi con l’interprete: “Io non aderisco mica!”. E il colonnello: “Ma come… non aderisce?”, “No, no. Stia sicuro che io non aderisco mica!”. Tornai così nei ranghi e lui continuò a mettere da parte altri ufficiali medici. La mattina dopo diversi ufficiali sono partiti. Anche al campo dei generali a Schocken dove venni poi trasferito ho saputo che prima del mio arrivo erano venuti a chiedere se qualcuno voleva aderire. Hanno continuato a venire, ma io non ci andavo più. Avevano aderito gli ufficiali che partivano? Sì, ma non tutti. Sono partiti tutti quelli che erano stati messi da parte, sia quelli che avevano aderito volontariamente sia quelli a cui il colonnello aveva ordinato di mettersi da parte. Ma sono pochi quelli che hanno aderito, anche tra i soldati. C’era anche la truppa con voi? Sì, ce n’erano di soldati. Quello era un campo per la truppa. Poi ci hanno riportati tutti dentro il campo. Io ero con altri ufficiali medici e noi lì in quel campo facevamo solo il nostro mestiere di medici. I tedeschi avevano il progetto di creare in quel campo un grande ospedale per i prigionieri e io dovevo curarvi circa una decina di malati. Ma un giorno, mi ricordo che era verso dicembre, il comando tedesco mi mandò a chiamare e mi trasferì ad un altro campo. Non so il perché. Hanno trasferito soltanto me e un sottufficiale medico. Il trasferimento fu strano perché i sodati
106
G. PROCACCI (a cura di)
che ci accompagnavano avevano sbagliato treno. Poi tardi, la sera, siamo arrivati al campo 64Z di Schocken, in Polonia, e lì con grande sorpresa ci hanno perquisiti e ci hanno sequestrato anche quelle poche cose che avevamo ancora in tasca ed eravamo riusciti a salvare nell’altro campo. Siamo andati a letto. La mattina ci manda a chiamare un generale italiano, il generale Gariboldi, fiduciario del campo, che era stato in Libia insieme a Rommel. C’erano anche altri generali ed erano tutti spaventati perché c’era un medico solo ed era un serbo. Provavano a parlare in francese con lui ma si capivano poco. Abbiamo preso servizio lì io e il sottufficiale che era venuto con me da Fürstenwalde. Come era il rapporto con le sentinelle tedesche del campo IIIB di Fürstenwalde? C’era un rapporto non bello diciamo. I tedeschi giravano coi cani e se c’era un italiano che osava aprire la bocca glieli aizzavano contro. C’erano solo italiani? No. C’erano anche gli americani. Però gli americani, loro facevano quello che volevano perché avevano il caffè e le sigarette. E con il caffè e le sigarette si compravano anche i tedeschi. C’era quindi un commercio clandestino, un mercato nero fra prigionieri? Si. Noi non avevamo niente e i nostri hanno allora cominciato a dare via gli orologi per delle pagnotte di pane. Noi medici eravamo fortunati perché potevamo uscire fuori, bastava che almeno un ufficiale medico rimanesse nel campo. Che contatti avevate con la popolazione tedesca? Quasi nessuno. E poi ci guardavano anche male… Giravamo per Fürstenwalde e poi andavamo a guardare le barche che trasportavano merci e in terra c’erano solo dei pacchetti di sigarette che gli americani davano ai tedeschi. Nel campo i prigionieri erano divisi secondo le nazionalità, c’erano anche dei russi, e i contatti erano vietati. Se una sentinella tedesca vedeva un russo e un americano vicini alla rete metallica che separava il settore dei russi da quello degli americani, che provavano a parlarsi o a scambiarsi qualcosa, non ci pensava due volte e sparava subito al russo. Non uccideva mai l’americano, perché gli americani avevano le sigarette, il caffè e la cioccolata. Noi italiani invece non avevamo niente e poi non eravamo protetti dalla Convenzione di Ginevra, tant’è vero che eravamo internanti militari. Mi ricordo che un giorno la Croce rossa internazionale ci ha mandato dei giochi e c’erano dei guantoni per fare la boxe, ma noi non stavamo neanche in piedi dalla fame che avevamo quindi dei guantoni non sapevamo proprio cosa farcene. Delle cose ridicole. I tedeschi ci davano da mangiare poco e niente, una volta alla settimana mi davano un formaggio che era così puzzolente che lo mettevo alla finestra, se no appestava tutta la camera. Com’era il morale? C’era coesione? Sapevamo già che la guerra era perduta, ancor prima dell’8 settembre. Dopo fu solo una questione di tempo ma eravamo comunque tutti della stessa idea. Ho poi avuto anche molti amici che hanno aderito alla Repubblica di Salò, ma loro non erano con me, erano in un altro campo. Loro hanno fatto un altro ragionamento. Molti tornati in Italia erano stati smobilitati e li ho poi ritrovati finita la guerra come impiegati statali e loro si sono meravigliati della mia sorte in campo di concentramento. Ricevevate dei pacchi da casa?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
107
Fin quando stavo al campo truppa, il IIIB, no. Ma quando sono arrivato al campo ufficiali, lì allora ho cominciato a spedire delle cartoline che ci davano nel campo e a ricevere dei pacchi con dentro delle cartoline da casa. Un po’ abbiamo vissuto con quelli lì. Devo essere specialmente grato ai miei genitori perché mi mandavano della pancetta e della zuppa in scatola. Nell’infermeria dove stavo sempre io c’era un sergente che faceva il cuoco a Milano perché aveva un ristorante e allora preparava tutto lui da mangiare. Il riso, mi ricordo, lo faceva bollire per molto tempo così si gonfiava di acqua e riempiva di più e sembrava di mangiare chi sa che cosa. […] Le nostre condizioni e le condizioni igienico-sanitarie erano molto precarie. C’avevamo delle garze di carta, ecco cosa c’avevamo. Anche a Schocken dove c’erano i generali non avevamo quasi niente. Mi ricordo che qualcuno morì di broncopolmonite, ma allora non avevamo medicine, niente antibiotici, niente penicillina, niente. Si ricorda di punizioni, rappresaglie o perquisizioni? Sì, soprattutto nel campo dei generali, ce ne sono state molte. Lì ci venivano quelli della Gestapo ad interrogare i generali, venivano anche di notte e non scherzavano mica quelli. Una sera mi ricordo che sono venuti a prendere Campioni, che aveva comandato l’Isola di Rodi, e Mascherpa e li hanno portati via. Abbiamo saputo in seguito che li avevano portati a Parma dove li avevano messi sotto processo e li hanno fucilati. Altri sette od otto generali, tra cui Gariboldi furono trasferiti a Thorn, poi da Thorn a Brescia, poi è finita la guerra ed è finito tutto. Ce n’era uno, di cui non ricordo il nome, che era finito in un campo di punizione e di lui non abbiamo può saputo nulla. Come eravate sistemati nel campo di Schocken? Nel campo di prima a Fürstenwalde noi medici avevamo una baracca per noi, ma era allo stesso tempo l’infermeria. Al campo di Schocken ero un signore e stavo molto meglio, lì io stavo sempre in infermeria e i tedeschi venivano a controllarmi lì, mentre ai generali italiani toccava di andare sempre fuori in cortile per l’appello. I controlli erano rigidi, più rigidi che nel primo campo, i tedeschi controllavano anche di notte e durante il giorno c’erano sempre due appelli. Ma ripeto, essendo io l’unico medico a Schocken, stavo sempre in infermeria. C’era un cappellano militare con voi? Sì, a Fürstenwalde lo avevano però punito. Perché faceva un po’ di propaganda in mezzo ai soldati. I tedeschi lo avevano imparato e allora lo avevano punito. C’era un cappellano anche a Schocken. C’erano delle attività culturali a Schocken organizzate tra gli ufficiali? Non tanto. C’era uno di Bergamo che faceva i burattini. Tutte le sere si diceva il rosario, perché c’erano dei generali molto religiosi, era il generale P. quello che teneva banco, lui era molto religioso. A Schocken tra gli ufficiali la vita era spartana e c’era disciplina. […] A Fürstenwalde dov’ero prima, c’era un gruppo tra cui ero io che era fortemente deciso a non aderire. Chi aderiva era sempre messo nel disprezzo. Mi ricordo che al campo di Schocken i tedeschi avevano preso un certo numero di ufficiali generali e li avevano mandati a vivere in un albergo in Francia, non mi ricordo il nome del posto, dopo un mese gli hanno detto: “O aderite o tornate in campo di concentramento”. Allora i più fieri sono tornati in campo di concentramento, alcuni hanno aderito,
108
G. PROCACCI (a cura di)
e altri li hanno tenuti lì un altro poco e poi come non hanno aderito i tedeschi li hanno rimandati in campo di concentramento. Erano visti male da tutti gli altri perché non avevano rifiutato di aderire subito, sembrava che avessero la peste bubbonica. […] Alcuni hanno aderito prima che arrivassi io, poi altri, tre o quattro, hanno aderito dopo. Ce n’era uno della Milizia che era venuto da me: “Sa dotto’, io ho dovuto aderire perché c’erano delle minacce sulla mia famiglia, su casa mia…” Un altro, il generale R., me lo ricorderò sempre: “I miei figli sono stati furbi!”, “Perché?”, “Perché mi hanno consigliato di presentarmi ai tedeschi perché avevano paura che fucilassero loro. Così i tedeschi mi hanno portato subito qua”. Ce n’erano degli altri che erano andati a casa che erano tenenti colonnelli, e stando a casa erano diventati generali. […] Fu chiesto ai generali di aderire al lavoro? No. I soldati furono obbligati, agli ufficiali fu proposto, ma ai generali non venne nemmeno chiesto, insomma, loro erano dei generali… E poi tutti sarebbero anche stati dei lavoratori da tre soldi. Avevano tutti poi una certa età. Avevate notizie sull’andamento della guerra? Sì. A volte riuscivamo ad avere i giornali tedeschi. Quando erano loro che vincevano allora si trovavano pacchi di giornali tedeschi, ma quando erano gli Alleati a vincere, allora non si trovava nemmeno un pezzo di carta e le guardie erano tutte moge moge. Nel primo campo c’erano due soldati che andavano a fare gli attendenti da un sottufficiale tedesco e lui aveva la radio. Mentre lui era in ufficio, loro stavano a pulire la sua camera e ascoltavano la radio di nascosto. E i bombardamenti? I bombardamenti li abbiamo visti con molta felicità. Erano tutti lontani da noi e mentre i tedeschi ci ordinavano di stare nelle baracche, io uscivo per vedere. A Schocken vedevamo passare un numero di aerei tale che non riuscivamo neanche a contarli. Fino a quando siete rimasti a Schocken? Fino al gennaio del ‘45 quando i tedeschi ci hanno fatti partire da lì dicendo che dovevamo andare in un paese vicino, a 25-30 chilometri, a prendere un treno. Eravamo vicino a Posen in Polonia e con quel treno ci dovevano portare in Germania. Siamo partiti tutti meno quelli che non potevano girare. Io avevo avuto una cisti in un piede e non potevo camminare bene ma mi presero ugualmente con loro perché avevano bisogno di un ufficiale medico. Facevamo 15-20 chilometri tutti i giorni con quelle poche robe che ci eravamo portati dietro per cambiarci. Molte cose la avevamo lasciate o le avevamo buttate via perché erano un peso. La stazione per prendere il treno non l’abbiamo mai trovata. Dopo più di 10 giorni di marcia ininterrotta siamo arrivati a Watten [sic]. Lì si camminava dalla mattina alla sera eh… Si arrivava alla sera che si era stanchi morti, si tiravano degli accidenti che… Ce l’avevamo coi tedeschi. Eravamo fortunati quando dormivamo dentro le stalle, perché se c’erano delle bestie era caldo, se no dormivamo sempre in case di tedeschi o polacchi che erano scappati. Faceva un freddo diabolico e avevamo fame, ma si dormiva e si trovava comunque qualcosa da mangiare. […] Dopo aver camminato un bel po’ siamo arrivati vicino a Woegarten [sic], lì il generale di corpo d’armata S. ha detto che non andava più, era
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
109
tutto il giorno che marciavamo e lui non ce la faceva più ad andare avanti. I tedeschi avevano fretta perché i russi avanzavano e volevano farci rimettere in marcia un’altra volta. Noi invece eravamo decisi a non partire più, volevamo aspettare i russi. I tedeschi riuscirono a farci rimettere in marcia ma il generale S. con altri sette o otto rimase lì fermo e mentre noi andavamo via da quel posto il nostro interprete che era di Bressanone mi è venuto vicino e mi ha detto: “Ha fatto male quel generale che si è fermato e anche quegli altri che si sono fermati con lui”. “Perché hanno fatto male?”, “Perché il reparto di SS che è con noi da stamattina li farà ripartire”. E infatti sono ripartiti e quelli poi che non reggevano a camminare li hanno fatti fuori. […] A Wugarten abbiamo dormito in una stalla di pecore e la mattina quando ci siamo svegliati ho cominciato a sentire delle urla da fuori: i tedeschi non c’erano più. Erano scappati perché avevano saputo che i russi quella notte ci avevano scavalcati. Infatti prima quando marciavamo le nostre guardie chiedevano sempre ai soldati che incontravamo quanto erano ancora lontani i russi, perché avevano paura di loro. I tedeschi avevano il vero terrore dei russi. Poco dopo arrivarono proprio dei soldati russi e, capito che eravamo dei prigionieri di guerra in trasferimento abbandonati dai tedeschi, ci lasciarono stare, ma molto furbamente chiedemmo un lasciapassare che spiegasse ai russi che avremmo incontrato poi che eravamo prigionieri italiani liberati. Ricordo che c’era tanta confusione e noi eravamo rimasti soli. I russi non sempre riconoscevano le nostre uniformi. Successivamente infatti imparai che una mattina tre generali che erano riusciti a scappare dalla colonna si erano nascosti e poi si erano avvicinati ad una fattoria, uno era entrato per vedere se trovava una radio per ascoltare le informazioni su cosa stava succedendo e per chiedere da mangiare, mentre il generale B. e un altro erano rimasti fuori a fare un giro intorno alla casa. Arrivarono i russi e visti i due generali fuori della casa scambiarono la loro uniforme per tedesca, e infatti si assomigliava, e li uccisero. […] Uno era rimasto solo ferito e si trascinò dentro la casa. Ma i russi, accortisi che c’era un solo morto entrarono anche loro nella casa e trovatolo gli spararono ancora credendolo questa volta morto per davvero. Ma lo avevano solo colpito ad un pollice e ad un orecchio e per questo era svenuto. Credutolo morto lo avevano lasciato lì. Dopo lo ha ritrovato il terzo generale superstite e illeso e per sei mesi è sempre stato accompagnato da qualcuno perché non riusciva a camminare da solo. Il colpo all’orecchio aveva leso la coclea e per questo aveva vertigini in continuazione. Quello era tra tutti il generale più elevato in grado. A Wugarten eravamo rimasti soli e vedevamo passare tanto tedeschi che russi. Quando erano i tedeschi a passare quelli erano cattivi, una volta due soldati mi hanno anche messo al muro per fucilarmi, ma alla fine non lo hanno fatto perché appena saputo che i russi ci avevano già superati e che potevano ancora essere nei dintorni se la sono data a gambe levate. Quando invece erano i russi a passare, mostravamo il documento che ci avevano lasciato i primi che avevamo incontrato e non c’erano problemi. Dopo la liberazione quando giravamo per le case dei civili tedeschi del paese trovavamo della roba da mangiare, oche, galline, salsicce, uova sott’olio e tanta carne affumicata, ma io non riuscivo a mangiare, anzi inghiottivo tutto dalla fame e poi vomitavo perché non ero più abituato a
110
G. PROCACCI (a cura di)
mangiare in abbondanza e soprattutto a mangiare della carne. Eravamo così stati liberati, era il 29 gennaio 1945. Siamo rimasti lì per un po’ di tempo, i russi non avevano infatti tanti mezzi per trasportarci altrove. […] Lì c’erano anche dei reparti di prigionieri francesi ed americani. Gli americani sono spariti subito, non so dove siano andati. I francesi invece ricordo che erano in buona armonia coi russi. Ma coi russi sì che abbiamo avuto rapporti; con i soldati russi c’erano anche tante donne soldato che lavoravano come uomini, erano molto forti. Loro si divertivano a venire a scherzare con noi che eravamo deboli e deperiti. A molti gli facevano lo scherzo di cavargli i pantaloni. Un giorno andai al comando russo a lamentarmi del fatto che non avevo materiale sterile per fare le medicazioni: “Io le medicazioni le posso anche fare ma il materiale che ho non è sterile, e allora le ferite si infettano e i feriti muoiono!”. Ma ai russi non importava molto, un ufficiale venne a vedere alcuni feriti con gravi infezioni in corso: li finì con un colpo alla testa e basta. Di lì ci hanno caricati su un treno e ci hanno portati a Lublino dove la popolazione polacca fu molto generosa con noi; ci invitavano a pranzo e ti mettevano dei soldi in tasca poi hanno anche preso giù tutti i nostri nomi per darli alla Croce rossa. Era da giugno ‘44 che non avevo più notizie della mia famiglia, loro invece hanno avuto mie notizie dalla Croce rossa, grazie proprio a quei polacchi, dopo quasi due mesi, verso aprile, i russi ci hanno messi di nuovo in treno e ci hanno portati in Russia a Ljubotin un piccolo paese a una trentina di chilometri da Karkov dove siamo rimasti per diversi mesi. Lì hanno fatto un campo di generali per noi, non lontano c’era anche un campo per la truppa. Siamo rimasti lì fino al 15 settembre 1945. Come era la vita in questo campo russo? Ci davano da mangiare ma poco. Bisogna però dire che non ne avevano neanche di più per loro. Io come medico mi lamentai perché molti erano malati, i tedeschi prima non ci avevano quasi mai dato carne e ora che ce n’era noi ne avevamo bisogno. I russi presero a darci solo delle zampe e delle teste delle bestie dicendo che la carne serviva ai loro soldati e che quello che ci passavano era anche troppo per dei generali che avevano combattuto in Spagna. “Ehi, io in Spagna non ci sono mica andato, non c’entro niente con questa storia. Che cosa volete fare?”. E così riuscii ad avere almeno un pochetto di carne buona da mangiare. […] Il 15 settembre ci hanno messi sul treno per rimpatriarci, ci sono venuti a salutare dei generali russi con una fanfara mentre la popolazione non poteva avere contatti con noi. Se un civile ci veniva a salutare o a parlare lo toglievano dalla circolazione per qualche tempo. Siamo partiti e siamo rimasti poi fermi sette-otto giorni al confine tra Ungheria e Austria. […] Arrivati a Vienna, da lì siamo poi giunti a Tarvisio. Noi di assistenza non abbiamo avuto niente di niente da nessuno. Nel treno c’era solo un vagone cucina dove lungo il viaggio veniva preparata la zuppa per noi. Da Tarvisio poi Udine, Verona e Pescantina. A Verona trovammo un sottufficiale sardo che aveva da mangiare ma trattava tutti a pesci in faccia, anche i generali. A Pescantina invece abbiamo trovato il Vaticano, lì ci hanno dato 1.500 lire a testa e poi per chi aveva bisogno di vestiti ti davano scarpe, pantaloni, giacche, camicie, di tutto insomma. Lì abbiamo mangiato la prima frutta. […] La Croce rossa, era di sera, si fermò a Suzzara o Luzzara e lì si vede che c’era un punto di assistenza, dopo così tanto tempo, mangiare del
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
111
pane bianco era una sorpresa. Mangiare del salume e bere poi del lambrusco era per noi il massimo. […] GINO DALLARI - 1921 - Modena - Soldato Dove si trovava l’8 settembre e come venne catturato dai tedeschi? Ero militare a San Giovanni in Persiceto e facevo l’istruttore alle reclute. Io sono del ‘21 e le reclute che erano appena venute o che erano sotto le armi da neanche 2 mesi erano tutte del ‘24. Una sera sono arrivati i tedeschi e hanno circondato il campo di San Giovanni in Persiceto. Il giorno dopo ci hanno caricati su dei camion e ci hanno portati a Bologna. A Bologna ci hanno messi su delle tradotte, insomma dei carri bestiame, chiamiamoli così, e ci hanno portati in Germania. In Germania subito sono stato mandato in un campo che si chiamava Bodenwerder in una località che era a 30-40 km, forse meno, dall’Olanda. […] Sono sempre stato lì fino alla fine: quando siamo stati liberati dagli americani. Noi eravamo su vagoni bestiame. Venne uno in stazione e ci disse chi vuole aderire alla Repubblica di Salò scenda giù. Mi ricordo che furono in due in un vagone di 50-60 persone a scendere. Furono due nel mio vagone. Uno era di Modena e lo rincontrai a guerra finita tornato a casa. Lui mi disse: “Si io ho aderito, non ce la facevo più, però ho avuto la fortuna di scappare, dopo essere tornato in Italia, e di andare dai partigiani”. Sono stati pochi ad aderire. Gente magari non tanto debole di carattere ma debole per la fame. Ma sono stati pochi anche perché chi lo sapeva che non ti avrebbero mandato a combattere di nuovo magari contro i russi? La questione era che aderire non significava certo andare nella bambagia, ma andare dietro a loro, ai tedeschi, a fare la guerra. Come era la vita nel campo? La mattina ci alzavamo verso le 6,30-7 poi arrivavano i soldati che ci portavano a lavorare. Io ero stato mandato in una cava a 4-5 km dal campo assieme a tanti altri a spicconare e a raccogliere sassi. Ma il problema più grosso era il mangiare a parte il lavoro. A mezzogiorno ci davano qualcosa da mangiare là nella cava e la sera si rientrava a dormire nei castelli. La vita era monotona, ma era quella. Si mangiava molto poco. Pensi che ero diventato 35 kg mentre prima ero sui 62-63 kg. Lavorare era un disastro. Eri debole e facevi quel che potevi. Aspettavamo sempre di far venire l’ora di mangiare. Anzi vorrei dire un particolare triste per me: là uno per la fame rubava e insomma faceva anche delle cose che non erano corrette. Una volta mi capitò di prendere un panino ad un amico e lui moriva di fame come tutti. Questa non me la sono mai perdonata. Ma questo comportamento era dato dalla disperazione per la fame. Facevamo cose che in certe situazioni non si dovrebbe nemmeno pensare di fare. [scoppia in lacrime] Prima della Germania ero stato a far la guerra in Africa ed avevo fatto tutta la ritirata da Tripoli a Bengasi. Era stata dura. Quindi per certe cose ero già ferrato, avevo già fatto la guerra. In Germania però avevano preso per lo più ragazzi della classe del ‘24 che erano appena venuti a soldati e per loro è stata più dura. Era dura per tutti ma per loro lo era di più. Ha visto morire molti italiani nel campo?
112
G. PROCACCI (a cura di)
Sì, sì. Si faceva fatica a portarli al cimitero. Morì uno di stenti e nessuno voleva andare a seppellirlo perché lo si doveva portare su per una salita ed era troppo faticoso per noi che non mangiavamo. Non avevamo la forza. Come vi trattavano i tedeschi nel campo? Inizialmente c’era un graduato piuttosto rigido con i suoi sottoposti che voleva che fossimo sempre tutti in fila a fare la doccia, a… insomma a fare tutto. Aveva certe cose proprio da tedesco. Dopo quello andò via e ne venne un altro che non dico che lasciasse correre ma diciamo pure che era più umano, più alla mano. Di botte e roba del genere mai. Almeno io non ne ho mai ricevute. La cosa che era per noi molto penosa era che, nella cava, dovevamo fare una salita per portare le pietre ma eravamo tutti 30-40 kg. Ce la facevamo ma era molto dura. Quando uno cadeva c’era il soldato buono che ti dava una mano e ti rialzava e c’era quell’altro che ti picchiava. […] Ma da quel lavoro venni via e fui trasferito in un gruppo di lavoro che partiva dal campo per andare a lavorare in campi di patate. Mentre le raccoglievamo le mangiavamo di nascosto anche crude dalla fame. Lì a forza di mangiare quasi solo patate ero diventato un pallone gonfio, gonfio, gonfio: una trasformazione che non aveva toccato solo me ma anche tanti altri. Dal problema di mangiar poco si era arrivati ad un bel momento a quello di essere arrivati dove da mangiare ce n’era ma era sempre quello: patate. Era il mangiare dei tedeschi. Arrivati gli americani pensavamo di tornare in Italia subito ma aspettammo ancora un mese nel campo. C’erano troppi prigionieri: russi, francesi, belgi, etc. Nel nostro campo ce n’erano delle baracche piene a non finire e ci voleva il suo tempo a convogliare tutta quella gente. Ad un bel momento ci caricarono su una tradotta e tornammo in Italia. […] Quale è stato il peso della memoria dell’internamento per lei? C’è stato un periodo in cui la mia memoria era non dico zero ma quasi. Avevo una memoria visiva ma non il ricordo dei fatti. Vedevo delle cose e basta. Mi ricordo più delle cose belle che delle cose brutte. […] TOMMASO DE PIETRI - 1922 - Reggio Emilia - Soldato […] Io sono andato in Albania [dopo l’8 settembre] . […] Siamo andati in alta montagna e abbiamo messo i pezzi in postazione, perché dovevamo sparare ai tedeschi. Eravamo in appoggio al battaglione Edolo degli alpini. Noi avevamo il colpo in canna, potevamo sparare da un momento all’altro, senonché è venuta su una delegazione tedesca a patteggiare. Si sono messi d’accordo che ci avrebbero mandati tutti a casa, e noi polli d’allevamento, e poi fra quei sergenti lì non c’era mentalità di comando, non c’era mentalità di voler fare. Cioè la gente ha preferito “calare le braghe” e andare a casa, piuttosto che fare fronte. In molti posti hanno fatto fronte, in altri no e i tedeschi con poca roba hanno pulito l’Italia. Allora noialtri abbiamo “mollato le braghe”, senonché quando siamo tornati giù per andare verso Merano, avevamo tutti i muli, ci è arrivato addosso un battaglione di SS, ci hanno disarmato, ci hanno portato in caserma, ci hanno spogliato di tutto e il giorno dopo ci hanno trasferito in Germania in campo di concentramento.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
113
[…] Siamo rimasti a Fallingbostel neanche un mese poi mi hanno destinato ad Hannover e lavoravo all’Hanomag a fare i carrarmati. Lì era una roba da piangere. Eravamo in baracche, e alla mattina ci venivano a dare la sveglia, ci mettevano in fila e ci contavano a 50 per volta. Cioè contava la prima guardia e diceva 350, poi contava la seconda e diceva 347. Il maresciallo diventava rosso come una bestia e diceva: legnate a tutti. Si partiva e si andava all’Hanomag e si facevano 13 km a piedi per andare a lavorare. Io lavoravo agli altiforni, cioè le ruote dei carrarmati venivano fuori dal forno e venivano immerse dentro a questi oli speciali poi uscivano. Quando uscivano le mettevano in carri e noi li trainavamo a mano. Facevamo questo qui: le portavamo agli altiforni, le mettevamo dentro e poi le portavamo fuori e facevamo 12 ore di lavoro al giorno. Alla sera si tornava a piedi. E sa cos’era il pasto? Era una gavetta di rape e un pane da un kg in cinque. […] No non potevamo accendere la stufa perché c’erano i bombardamenti aerei. Avevamo un freddo da boia, ci davano quel mangiare lì, però noi alla sera avevamo dalla parte opposta, c’era una strada che ci divideva, dalla parte opposta c’erano due batterie da 88, antiaeree; allora queste batterie facevano da mangiare nella cucina dove mangiavamo noi, cioè a noi ci facevano le rape, ma per loro, loro mangiavano bene, perché facevano la... facevano tutto. E in più loro avevano una fila, sa come le tenevano le patate? Le mettevano su a triangolo così, poi le coprivano con la paglia e la terra, per mantenerle. Poi ne avevano molte, patate e rape e cosa avevano ancora? Non mi ricordo neanche. Però avevamo un reticolato qui, noi altri, e poi si doveva passare sotto per andare sulla strada, poi andare. Allora la sera tiravamo al paglia più lunga, chi gli capitava doveva passare sotto e andare a fregare le patate alla batteria contraerea. Li si rischiava la pelle, perché se ti vedevano ti sparavano a vista. […] Una mattina un ragazzo, un bergamasco della Valtellina, era del mio reggimento, aveva un pezzo di una ragazza che, era diventato, per l’esaurimento che aveva non capiva più niente; una mattina l’han beccato con una rapa in mano, il maresciallo l’ha ucciso. Sa come l’ha ucciso? Sa quei bocchettoni per quando si bagna […] L’ha ucciso con dei colpi di bocchettone così nella testa. […] Il mio amico T. era uno che ha avuto una fortuna sfacciata, perché andava a casa di un colonnello tedesco e andava ad imbottire i divani, sai, faceva l’imbottitore, e questo qui l’aveva preso bene e la sera portava dentro sempre dei filoni di pane, portava sempre della roba. E questo qui ha aiutato molto quel ragazzo là, l’ha aiutato moltissimo, perché lui andava fuori. E io invece andavo a pelare le patate al campo francese, alla cucina francese e rimediavo qualche cosa, e in più avevo la fortuna che portavo, dalla cucina francese portavo il rancio, cioè, due o tre bidoni di roba al campo americano. […] Gli americani avevano pacchi, li mandavano tutti dall’America. Avevano la Croce rossa americana, la Croce rossa internazionale, gli americani avevano, lì al campo di fianco al nostro avevano un magazzino loro, che facevano la guardia i tedeschi, con un sacco di roba, un sacco di roba. […] Un giorno tra russi e italiani si buttavano della roba, cioè, c’era un reticolato [...], sa cosa ha fatto la sentinella? Ha tirato via al baionetta, ha puntato il fucile, ha sparato, ne ha uccisi tre. Tra italiani e russi?
114
G. PROCACCI (a cura di)
Tre italiani. Che cosa si tiravano italiani e russi? Da mangiare? Erano, si tiravano di là, buttavano, per esempio, un pacchetto di sigarette, quell’altro buttava un filone di pane, per dire. E gli ha sparato e ne ha uccisi tre. […] IVALDO FERRARI - 1924 - Nonantola (Mo) - Soldato […] Io sono partito l’8 settembre da Modena; ero a fare il militare a Modena, ero a Modena perché avevo il diritto che avevo tre fratelli militari che erano già in zona di operazione e allora mi avevano dato il diritto di stare a Modena. Allora da Modena dall’oggi al domani e al dopodomani che c’erano dei controlli che erano enormi parte sono fuggiti per la fognatura e sono venuti fuori, degli altri sono rimasti là sotto e quando i tedeschi se ne sono accorti hanno tirato delle bombe lungo le fognature. In ogni modo dopo siamo partiti e siamo andati in Germania, non mi ricordo il giorno preciso. […] Quando è venuto l’armistizio alla sera prima avevano già circondato il sesto campale quello qua di Modena. […] Praticamente ci hanno fatto prigionieri l’8 di settembre e il 14 di settembre siamo partiti per la Germania, siamo andati al terzo smistamento che loro lo chiamavano stammlager, che era poi un campo di concentramento, uno smistamento. […] Era un paesino quasi vicino a Berlino, 24-25 chilometri. […] Dopo che siamo stati smistati che eravamo già ai posti dove intendevano lasciarci allora qualche cosa hanno incominciato a darcela ma poca robe: delle carote, poco condite o per non dire no perché si poteva lavare i piatti che non c’era mica dell’unto [ride] e ci davano un filone di pane, un filone da un chilo e 600 grammi in sedici, per ogni camerata che eravamo, quindi un etto di pane a testa. […] Ci sono stati dei prigionieri che hanno deciso di tornare in Italia e di aderire alla Repubblica? Oh! Ce l’hanno chiesto a tutti, mi scusi l’idea, se volevo restare in Italia è venuto un uomo con un interprete, no una donna che era interprete se volevo restare in Italia mi davano lo schioppo, avevo tutta la libertà che volevo, andavo a casa la sera. Questo qui a Modena, prima di partire, e anche là me lo hanno chiesto chi voleva fare il volontario per venire in Italia sotto alle SS ma del mio campo dove lavoravo io non c’è stato nessuno, non ho sentito nessuno perché è una cosa che se uno ci pensa un po’ dietro, nonostante che noi eravamo giovani, perché a 19 anni eravamo già prigionieri, sono stato preso del ’43, io compivo i 20 anni nel ’44, e allora eravamo là che eravamo ancora bambini. Certe esperienze non si avevano, c’era poi un qualche… c’era un uomo anziano che diceva: “Fai così… fai così…” quando siamo poi andati in fabbrica a lavorare abbiamo trovato gli italiani che erano a lavorare là, i lavoratori civili, ma ce n’erano anche degli stranieri perché là ce n’erano di sei-sette qualità: c’erano degli olandesi, dei francesi, dei greci, dei russi, ma ce n’erano di tutte le qualità, ah, ai russi ci tenevano dietro eh! Povera gente anche loro. […] Quindi in fabbrica c’erano anche dei lavoratori italiani civili?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
115
Sì, sì. Ce n’erano che lavoravano con me, a fianco a me nello stesso reparto. C’erano una parte di italiani là che ci chiamavano “Badoglio” ed erano dalla parte del duce e se uno avesse avuto bisogno bisognava rivolgersi a uno straniero: a un francese, a un greco, perché dopo un periodo di tempo, più di un anno che eravamo là ci davano dei bollini da andare a prendere il pane allo spaccio. Ma questo succedeva più di un anno dopo e questi bollini non si potevano spendere noi perché i tedeschi non ce lo davano il pane a noi, allora bisognava chiedere a uno straniero che era civile ci davi i bollini e loro ti portavano quel po’ di pane che ti spettava, ma degli italiani nessuno. Se c’era degli italiani là, ne ho trovato uno o due però, lui mi ha detto, sì ha parlato benissimo: “Guarda io non sono come te però sono controllato quasi uguale e io non posso farti questo piacere; bisogna che tu lo chieda a un francese o a un greco”. Ah! Ma non c’era poi mica l’abbondanza lo stesso; non c’era mica l’abbondanza lo stesso però insomma qualche cosa di più. […] Lei è stato mai punito o ha visto infliggere delle punizioni a dei suoi compagni? Ah! Poveretti. Mi ricordo R. poverino, era di Salerno, non stava più in piedi, lo abbiamo preso in due, lo abbiamo portato in baracca, alla sera quando siamo rientrati e loro lo picchiavano e noi lo avevamo stretto. E qualcuna di quelle botte la prendevamo anche noi. Poi è andato in infermeria e dopo quattro o cinque giorni è morto, purtroppo. E c’era una cosa che non so se gliel’ha raccontata anche Cavicchioli: a ogni baracca quelli che trovavano anche dietro a prendere su una patata, una mela se la trovavano o che se ne accorgessero mentre andavano attorno ai bidoni dei rifiuti per cercare qualche cosa ecco quello veniva punito, gli rasavano completamente i capelli per dare da vedere agli altri che quello lì era uno che aveva fatto così e cosà e lo mettevano in una camerata da solo e poi alla sera venivano a fare il contrappello, a vedere se c’eravamo tutti, che non mancasse qualcuno. Per ordine del sergente maggiore ci facevano venire fuori tutti dalla baracca, tutti nel corridoi e poi gli faceva rivoltare i materassi e poi buttarci sopra dell’acqua in mezzo alla camerata perché avevamo i letti a castello; buttarci dell’acqua sopra e poi dovevano dormire lì, si gonfiavano poverini. Di quelli lì non è venuto a casa nessuno. No, no, no quella lì era la camera dei puniti, veniva chiamata così e li facevano lavorare tutto il giorno. […] Alle 7 si partiva dal campo. Avevamo quattro chilometri da fare a piedi per arrivare e si ritornava fuori dalla fabbrica alle 7 la sera, quindi lavoravamo 12 ore salvo quel quarto d’ora del pasto di mezzogiorno. […] Il problema della fame: più si andava avanti più era evidente o no? Ma no, a dire la verità più o meno era sempre quasi uguale, solo che, come gli dico, che delle volte si aveva fatto anche qualche amicizia, c’era qualcuno che ti dava una fettina di pane e quando ti davano una fettina di pane era come se ti avessero dato la vita. Ecco ma anche dei tedeschi ce n’era qualcuno che ti dava qualche cosa, perché loro alle 10 mangiavano e noi niente, e noi continuavamo a lavorare perché bisognava lavorare, e allora c’era qualcuno che ti allungava qualche cosa. C’era qualcuno anche dei greci perché loro stavano meglio perché era già da tempo che erano là, anche dei civili che erano là a lavorare dei greci; per me i migliori erano i greci e i francesi. […] Lei prima mi ha detto che qualche pacco dall’Italia lo ha ricevuto...
116
G. PROCACCI (a cura di)
Sì ne ho ricevuti due, ma dopo che hanno incominciato a bombardare, gli americani, forte su Berlino noi giravamo alla sera poi alle 11 c’era l’allarme e noi via nei bunker, nei rifugi, e fino alle 2, alle 3, alle 4 del mattino, poi dopo andare a letto con un freddo che non c’era niente da coprirsi e poi dopo quando gli americani sono arrivati a bombardare, che bombardavano poi continuamente, passarono lì dalla fabbrica e andarono... sì una domenica mattina che andavamo a lavorare sono passati due apparecchi, hanno fatto un giro tutt’attorno alla fabbrica, sono venuti dopo otto giorni hanno bombardato la fabbrica: non c’era rimasto un muro alto un metro: l’hanno distrutta come le dico di cinque chilometri mica una cosa... e allora in quella fabbrica non si poteva più lavorare […] Io sono andato sull’Oder a fare le trincee, i camminamenti per le trincee perché eravamo sul fronte della guerra: c’erano i russi da una parte del fiume, che è un fiume grande, e i tedeschi da questa parte. E allora noi facevamo quei buchi lì, quei camminamenti e sentivamo quelli che andavano e quelli che venivano. […] Abbiamo fatto tre giorni di treno per andare a trovare i confini, mi hanno trasferito e messo a disposizione dell’esercito tedesco. Non ho cambiato solo lavoro, ho anche cambiato posto. Da lì ci siamo ritirati man mano che venivano avanti i russi. E allora aspetta un giorno, aspetta due sempre c’era il genio pontiere che faceva il ponte sopra questo grande fiume. I russi arrivavano i tedeschi li bombardavano, allora si vede che una bella volta hanno ridotto tutta la cosa... tutta la munizione proprio vicino al fiume e poi sono venuti giù con tanti di quegli apparecchi che non si vedeva più il sole. […] E allora venivano avanti, veniva avanti il fronte russo. A un bel momento, dopo sette-otto mesi che noi tutti i giorni ci ritiravamo due o tre chilometri, sono partiti con una battaglia i russi che avevano tanto materiale che ce n’era un castigo di Dio, li hanno buttati a Berlino, abbiamo fatto 15 giorni di ritirata e siamo tornati nel campo da cui eravamo partiti. […] Eravamo ritornati al campo al mattino e alla sera sono arrivati i russi a liberare il campo. Subito, quella stessa sera. E noi infatti li sentivamo venire avanti. […] E questo che periodo era? Ah dunque è stato l’8 maggio che hanno liberato Berlino. Dunque noi c’era una ventina di chilometri, quando sono arrivati hanno preso tutti i loro compagni i russi, i suoi amici che erano prigionieri con noi li hanno armati tutti, perché anche loro hanno ricevuto delle ingiurie, dei lavori ancora peggio di noi e si sono armati e si sono affiancati ai russi a andare avanti per la guerra. E voi che cosa avete fatto? Ah noi siamo rimasti lì. Allora poi ritornando sul discorso noi siamo rimasti lì nel campo e poi è arrivato poi il grosso dei russi e nel campo lì abbiamo avuto due giorni liberi di fare quello che volevamo, che ci pareva, cercare da mangiare e noi siamo andati subito a cercare da mangiare, e poi dopo 48 ore i russi che sono arrivati ci hanno detto: “Adesso basta! Da mangiare ve ne diamo noi!”, perché noi eravamo come degli sbandati. […] Siete stati trattati bene dai russi? Benissimo. Ah benissimo eravamo anche curati perché c’era un’infermeria lì. […]
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
117
E la vita sotto i russi come andava avanti? Eravamo lì insieme, ci davano da mangiare, giravamo per dove volevamo noi, eravamo liberi, diciamo, di fare quello che uno voleva. Sicuro che non si poteva mica andare da un paese all’altro; noi aspettavamo che i russi ci facessero tornare a casa perché eravamo nelle loro mani, e ci hanno mandato alla frontiera, ci hanno accompagnati fino al confine dell’Austria con l’Italia. Ci hanno accompagnati loro in treno e poi c’erano i camion che ci portavano a casa perché la ferrovia era stata tutta bombardata e allora siamo venuti a casa con dei camion. […] Il viaggio è stato lungo ma tranquillo, ecco, ci davano da mangiare in treno i russi. Il viaggio era ben organizzato insomma. Prima della partenza si sono organizzati loro perché poi loro dovevano portare il mangiare dalla Russia a venire in Italia perché come le ho detto non c’erano i treni che potessero fare il collegamento, io sono stato molto contento dei russi ecco. […] A Modena com’è stata l’accoglienza… ad esempio quella del distretto militare? Sì ci hanno fatto la denuncia subito e ci hanno dato 5.000 lire. Che mi ricordo che 5.000 lire io le ho spese per mettermi su i denti perché mangiare di quella roba là, mangiare di quella porcheria là mi erano caduti tutti i denti. Cinquemila lire le ho spese a Modena per mettermi su i denti. […] Le faccio l’ultima domanda: ha detto prima che eravate in 16 ed eravate riusciti a farvi mettere tutti insieme. Per il morale questo è servito? È servito moltissimo, eravamo un gruppo molto unito. Avevamo voglia di cantare che eravamo neanche capaci di girare per modo di dire, c’era già l’allegria, c’era già un’unione di fratellanza, c’era solidarietà, eravamo tutti uniti. È servito moltissimo. È così la vita. […] Le chiedo l’ultima cosa sull’adesione alla Repubblica sociale. Lei mi ha detto che praticamente del suo campo non ha aderito quasi nessuno. No, no, no; là no. Erano anche poi tutti convinti che la guerra si finisse prima, non si pensava mica di restare due anni là. Si pensava che la guerra finisse prima. Salvo che come adesso ci può essere stato qualcuno che adesso non mi viene in mente però sono poi anche gente che quando sono andati via erano iscritti al fascio o che hanno cambiata idea da una parte ad andare a un’altra quando si sono trovati male là hanno pensato che magari facendo la firma si sarebbero trovati meglio a combattere a fianco ai tedeschi È una decisone che non è mica facile da fare, e io ho detto: “Andrò dove mi conduce il destino, capita quello che capita!”, ah c’era poco da fare il destino è andato così, mi sono salvato grazie a Dio. La colpa era del regime fascista. Noi eravamo là per colpa del regime fascista, non si scappa. Il problema più grave però è stata la fame, e tutti quei poveri disgraziati che sono andati in punizione. E i suoi fratelli? Ne avevo uno in Russia che quando gli hanno dato il cambio erano già due anni che era in Russia, quello dell’Africa, poverino, è morto, quello invece della Jugoslavia dopo la liberazione dell’8 settembre lui è venuto a casa dalla Jugoslavia, è rimasto a casa e gli avevano fatto un certificato i tedeschi che poteva circolare avendo due fratelli in Germania e uno in Africa, perché quello della Russia dopo era sotto l’esercito quando è rientrato dalla Russia e dopo lo hanno preso e l’hanno portato in Germania e
118
G. PROCACCI (a cura di)
si è fatto due anni di Germania anche lui. Eh sì! Ha fatto dodici anni di militare: dieci da militare e due da prigioniero in Germania. MODESTO FOGNANI - 1920 - Polinago (Mo) - Soldato L’8 settembre a Tirana si sentiva alla radio Badoglio che aveva fatto l’armistizio, ed allora i nostri militari italiani, credendo che la guerra fosse finita, saccheggiavano e distruggevano gli edifici del fascio lì a Tirana. Poi il giorno dopo sono arrivati un ufficiale tedesco con due guardie armate a fianco, e lì ci hanno detto di consegnare le armi, hanno parlato con il nostro colonnello, noi abbiamo, senza altri ordini superiori, obbedito. Ai soldati il colonnello aveva detto: “Tentiamo a stare insieme, ci hanno promesso che se ci arrendiamo, torniamo in Italia”, invece, poi hanno dimostrato il contrario. Quando sono arrivati i tedeschi, noi saremmo stati decisi anche a reagire se fossimo stati tutti d’accordo; solo che c’erano i fascisti, alcuni se la sono data a gambe per cercare di tornare a casa in Italia in qualche modo. Il colonnello, che era una brava persona, è stato con noi, ci ha detto: “Tentiamo la sorte, quello che capita, capita”. […] Siamo arrivati a piedi in Macedonia, arrivati al lago di Ocrida, vicino al confine, piano piano mangiando i nostri viveri, siamo riusciti a montare sui camion che avevamo per magazzino. Quando siamo arrivati in Macedonia, che poi è la Bulgaria, abbiamo lasciato ai soldati bulgari le nostre armi, perché ci avevano lasciato le armi scariche per evitare attacchi dei partigiani, perché avevano paura che potessero reagire. Poi siamo andati in treno. Nel viaggio non ci hanno dato niente, abbiamo mangiato tutto quello che avevamo noi. Dalla stazione di Bitola, ci hanno fatto prendere il treno e dal 29 settembre ci hanno fatto arrivare in Germania. In dieci giorni, ci hanno dato da mangiare solo una piccola minestrina tre volte. Siamo arrivati in un campo di smistamento e ci hanno diviso. Durante il viaggio che abbiamo fatto dalla Macedonia ad andare in Germania, ognuno cercava di vendere i vestiti, camicie, qualsiasi cosa, per mangiare. Io ho cercato di mangiare un poco alla volta per guadagnare tempo, altri vendevano tutto per mangiare. Anche là in campo di prigionia, vendevano tutto per mangiare, rimanevano senza niente, poi morivano. Per mangiare uno faceva di tutto. […] Io all’inizio, siccome sapevo lavorare in officina, il mio capo mi ha messo nella officina della miniera. Ci sono stato un mese o due, poi sono arrivati i militari che ci hanno preso e portato in una impresa siderurgica. Era un disastro andare a lavorare lì: prima nella miniera non ci hanno mai bombardato. C’erano i forni, un sacco di operai, chi serviva da manutenzione, chi riparava i danni dei bombardamenti, chi i forni... io ho sempre fatto l’aggiustatore meccanico. Qualche volta mi mandavano fuori in qualche altro stabilimento. Dopo che mi sono ammalato mi hanno mandato a fare dei lavori manuali fuori, a scavare, a fare degli sbancamenti, delle trincee. […] La vita del lager all’inizio non sembrava male, ma poi si è rivelata tragica; ognuno di noi era abbandonato a se stesso; si mangiava una volta al giorno e molto poco, chi mangiava tutto alla sera, doveva arrivare alla sera successiva per poter rimangiare. Eravamo degli imbambolati dalla
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
119
fame, io ero debole, quasi sfinito, nel ritornare al campo una volta sono caduto a terra svenuto, non me ne sono accorto, i miei compagni mi hanno preso su, mi hanno tirato in campo e mi sono ripreso. Se ti buttava la disperazione era finita. C’erano dei giovani che venivano catturati e li portavano li con noi. Se si buttavano a letto, non c’era mica scampo, operava la debolezza e finivano in fin di vita. Se uno si lasciava andare era finita. Non mangiavano neanche più. Due ragazzi vicini a me, uno di Napoli ed uno di Bologna, si sono buttati a letto, li hanno portati via e non so che fine abbiano fatto. Fra di noi c’era anche chi rubava il mangiare a degli altri. In baracca ci facevamo compagnia però ognuno di noi doveva agire per se stesso. Non c’era chi aiutava. Si stava in compagnia ma quando si distribuiva il pane, ognuno pensava a sé. La razione, normalmente una pagnotta da 1 kg e mezzo, la dividevamo in cinque. Bisognava dividerla e fare le fettine. Poi si faceva la conta per stabilire a chi toccasse dei cinque la fetta, perché non ci fosse niente da dire. Si buttavano giù le dita e si contava. Poi più tardi abbiamo fatto una bilancina equilibrata bene così controllavamo le fettine di pane che fossero precise. Una briciola faceva osservazione, si considerava. Quando si passava per la strada, se si vedeva una cicca per terra, si ci buttava per raccoglierla. […] Il nostro campo era solo di italiani. Confinavamo con campo di francesi ed inglesi, separati fra loro. Stavano meglio perché gli arrivava la roba, erano trattati diversamente. […] Da noi le baracche non erano neanche male, però in baracca c’erano quelli che non si pulivano, eravamo quindi pieni di pidocchi. Io mi lavavo e cercavo di lavare la roba ma c’erano quelli che non si lavavano, erano disperati e prendevano il mondo come veniva, tutti stracciati. Io il mio vestito l’ho portato per tutta la prigionia, 22 mesi, finché non è bruciato in un bombardamento. […] Non c’era l’ospedale, solo l’infermeria. Una volta sono passato per portare la razione ad uno ricoverato. Ho aperto una stanza e c’erano cinque o sei morti, erano scheletri, morti di debolezza. Medicine non se ne parlava, non cambiava niente, nell’infermeria forse li controllavano meglio ma se andava in fin di vita poi non si sapeva niente. Noi l’infermeria del campo la chiamavamo villa triste, perché era la villa degli ammalati. Chi andava lì, la maggior parte era già in fin di vita, era già ammalato ammalato. […] Quelli che facevano delle mancanze erano puniti in modo molto rigido. Li spogliavano, li facevano stare appena coperti che con quel freddo gelavano, degli scheletri, poi li facevano l’appello spesso, di notte, a tutte le ore per non farli dormire e poi li portavano a lavorare. Morivano dallo stento, dalla fame, poco dormire, poco riposo etc. I militari tedeschi del campo non ci trattavano malissimo, era il mangiare, la disperazione, era quello che ci mancava. Io lavoravo con i civili. Non mi trattavano male, qualcuno era esigente. […] Da prigioniero ci hanno chiesto parecchie volte se volevamo andare con i tedeschi, facevano le riunioni, chi voleva andare con i tedeschi a combattere, veniva portato via in un altro campo. Io sono rimasto in campo, non ho mai alzato la mano perché io ho detto: mi hanno fatto prigioniero: resto prigioniero. Io non voglio andare volontario. Anche andare contro la morte ma io... ho deciso così. Mai pensato di farlo. […] Noi siamo passati civili nell’autunno del 1944, dopo la raccolta delle patate, me lo ricordo perché quando sono passato civile siamo andati a
120
G. PROCACCI (a cura di)
cercare le patate nei campi dove erano state già raccolte. Avevo portato a casa un sacchettino di patate, i miei amici, qualcuno lavorava nello zuccherificio e riusciva a portare a casa qualche cosa. […] L’11 aprile, alla mattina alle 8 sono arrivati gli americani. Erano simpatici con noi. Mentre loro ci buttavano sigarette, caramelle in mezzo a noi, invece gli altri francesi ed inglesi ci trattavano male. Una volta gli inglesi ci hanno fatto una perquisizione e ci hanno rubato tutto quello che avevamo portato via dalle case e dalle officine vicino al campo. Quelli che avevano preso delle cose, gli hanno portato via tutto. È stato un atto abusivo perché sono fuggiti quando hanno saputo che stava arrivando la polizia americana. Siamo andati in giro allo zuccherificio a prendere lo zucchero nero, dalle famiglie a prendere delle cose. Dopo l’11 aprile ci hanno dato da mangiare le stesse cose dei tedeschi. Siamo sempre rimasti nel campo, eravamo liberi ma non sapevamo come fare da Hannover a venire giù. Io sono partito il 16 luglio e sono arrivato il 25 luglio. PIERINO FREGNI - 1918 - Camposanto (Mo) - Sottufficiale È partito, è stato chiamato il 2 aprile del ‘39. E dov’era di stanza? A Roma, nel 2° reggimento granatieri di Sardegna. […] In infermeria sono andato a fare un corso all’ospedale militare Celio di 9 mesi, accelerato, con il diploma da infermiere reggimentale. […] Al febbraio del ‘43, sono andato volontario. C’era un battaglione che andava a sostituire un battaglione in Grecia. […] Siamo andati ad Atene, dopo, sempre poi in infermeria, han piantato un’infermeria con 40 letti... ed è venuto il famoso 8 settembre, che noi credevamo che fosse finita la guerra, e invece […] il colonnello fece suonare la tromba dell’adunata e ci disse: “Guardate che la guerra per noi non è finita ma incomincia adesso”. […] Allora lì ci dissero che noi si doveva venire in Italia a tenere il buon ordine, essendo che gli ufficiali erano andati via tutti e io ero l’unico sottufficiale più anziano, il colonnello mi diede ordini di comandare la compagnia per venire poi a Roma. […] Su venivano i tedeschi, non si doveva sparare contro i tedeschi. […] Siamo partiti in treno e quando siamo stati a Sofia, ci siamo fermati. Allora lì, il colonnello ci chiamò e ci disse, a noi comandanti, che io ero... rappresentavo il comandante della compagnia. Noi adesso da qui partiamo. Ci sono fuori di Sofia, c’è un bivio; se noi prendiamo la destra andiamo in Italia, se prendiamo la sinistra andiamo in Germania, e difatti fu così; invece di prender la destra ha preso la sinistra, ci avevan messo due locomotive, a 160-170 km all’ora, siam partiti da lì, abbiam girato due giorni e due notti, e siamo arrivati nel cuore proprio della Germania. […] Il colonnello ci diede ordine di buttare, quando si passava sui fiumi, buttare tutte le armi dentro i fiumi perché così non le avrebbero adoperate. […] Noi siamo stati catturati quando ci siam fermati dopo due giorni e una notte, ci siam fermati, e lì siamo stati catturati, e lì non c’è più stato niente da fare. Ci han portato in questo campo; la prima cosa che han fatto, han diviso subito gli ufficiali dalle reclute. […] Poi ci han portato nel campo 11B […] vicino ad Hannover.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
121
[…] Ci hanno portato in questo campo qua, poi dopo ci hanno divisi 96 sono andati con un capo, noi eravamo in 27, siamo andati sotto un altro, in una fabbrica. […] Noi eravamo a costruire la fonderia. E lì si lavorava dalla mattina alla sera, ci portavano a lavorare facendo circa tre km, tre km e mezzo a piedi. […] Il campo com’era strutturato? C’eran baracche? Sì, baracche di legno; eravamo 24 ogni, ogni camera, diciamo così. Le camere, in castelli di due persone, uno sopra e uno sotto. E il cibo? Oh! Orrendo, orrendo. Qualche patata, pane pochissimo, e la minestra, più che altro, secondo me erano foglie di erba spagna, o di quadrifoglio. Roba che... […] Lì ci fecero un discorso. Ci fecero un discorso, che la frase, io non me la dimenticherò mai, ci chiamava con un nomignolo questo fascista: “Noi sapremo spegnervi il sorriso sulle labbra”. Chi aderiva, andare a collaborare con loro, bene, ti davano da mangiare, ti davano tutto; promettevano... poi che fine abbiano fatto quelli che ci sono andati... ma non nel nostro reggimento. Nel nostro reggimento ce n’è andato uno solo, il trombettiere. […] E quando lui ha detto: “Chi vuol venire, faccia due passi avanti”. Il colonnello diede l’attenti al reggimento; ci siamo messi tutti sull’attenti, solo il trombettiere ha fatto un passo avanti, che è andato... non lo so che fine abbia fatto, non lo so. Noi siamo rimasti tutti lì; tutti, tutti. […] “Sapremo spegnervi il sorriso sulle labbra”. Ed è stato vero. È stato vero perché, a quello che mi è risultato, noi di 3.000 siamo entrati in Italia in 600, i granatieri. […] Da quelli che siamo andati in Germania del 3° reggimento granatieri, su 3.000, siamo entrati in 600, mentre gli altri son morti. […] La nostra salvezza è stata che è incominciato ad arrivare qualche pacco. […] In mezzo al bosco stavan costruendo una villetta per il capo di tutta la fabbrica, fuori dai bombardamenti, perché, ritornando poi indietro, gli americani non volevano disfare quella fabbrica lì, perché la fabbrica era molto importante, facevano le V-1, le V-2, le ali degli apparecchi, insomma una fabbrica che buttava fuori tanta roba... 300 di quelle macchine anfibie che andavano nell’acqua, allora loro volevano salvarla finché era possibile. E difatti vennero a bombardarla non con le bombe, con gli spezzoni per rovinare tutti gli uffici, perché c’era, questa fabbrica e sopra c’erano tutti gli uffici. Hanno danneggiato tutti gli uffici. […] E poi dopo a un bel momento ci ha detto, han portato tutti i volantini, di lasciare la fabbrica, di andare in mezzo il bosco, perché altrimenti venivano a bombardare. […] Una bella mattina ci siamo alzati,.. non c’era più nessuno, non c’era più niente. Cos’era successo, avevano abbandonato anche le armi, le armi le avevan lasciate lì, perché avevan portato via tutto. […] C’era una camionetta americana che veniva avanti. […] Per quanto riguarda il lager, le condizioni sanitarie erano abbastanza buone? Ah, niente, niente, non esistevano. La pulizia, l’ordine, sì, il bagno lo facevano, perché, portavano là, anzi, lavavano senz’altro perché, c’erano
122
G. PROCACCI (a cura di)
queste docce calde, finite le docce calde, eravamo tutti per terra perché ti arrivavano con degli idranti ad acqua fredda, gelata, proprio fredda, gelata. Prima il caldo, poi il freddo, tutti svenuti. […] Si ricorda di soldati puniti in maniera particolarmente violenta o percossi? No, no, lì erano botte, erano botte. Infatti quello lì di Camposanto, D. lì, aveva trovato un pezzettino di patata, l’aveva messo sulla stufa, mentre era sulla stufa per farlo cuocere, ma era una cosa che avevan buttato via, non so dove, una guardia è venuta dentro, l’ha trovato, l’ha picchiato. Cioè, più che altro, loro menavano. […] I capo campi li hanno ammazzati tutti. […] Il capo campo nostro, è scappato via, è andato in un altro campo dicendo che era uno di quelli che andava per lavorar la terra, invece poi quando arrivavano i suoi del campo, lo trovavano lì e si vedeva una fiumana di gente... “È il capo campo del tal posto, è il capo campo...”; lo facevano fuori, sbranato, sbranato. Una gamba da una parte, un braccio dall’altra, la testa dall’altra... niente, lo strappavano così. […] Erano più cattivi, i capo campi, che i tedeschi. […] E i rapporti con la popolazione civile? Ah, beh, loro non ci son più in casa, non ci son più le case, altrimenti era un insulto: “Maccheroni, maccheroni!”, anche i ragazzini, perché secondo loro... Quando andavate a lavorare, lungo il tragitto vi insultavano? Sì, sì, sì. Perché d’altra parte loro dicevano che noi li avevamo traditi; prima eravamo alleati e poi dopo li avevamo traditi. […] Ognuno aiutava chi poteva, ecco. Come le dicevo, magari, uno che si sentiva male, che lo portavi a lavorare, lo tenevi a braccetto, ecco, cercavi di aiutarlo. […] La religione aveva un ruolo...? No. Non si parlava di religione, non si parlava di niente. Non ce ne sarebbe stata nemmeno la voglia di parlar di religione. […] Molti si sono strappati via i gradi; avendo la divisa non come la mia, che io essendo... come sanitario, pensavo di andare poi negli ospedali, come sarebbe stato nostro diritto, ma gli altri ufficiali si son strappati via subito i gradi, erano in grigioverde, senza gradi. […] Perché loro ce l’avevan di più con gli ufficiali. […] Avete mai avuto contatti con prigionieri russi? Sì, c’eran francesi, olandesi, russi, polacchi, belgi e deportati russi. Più che altro erano deportati. Però, purtroppo c’erano anche nelle SS dei russi che erano più cattivi che i tedeschi, eh! […] E alla fine quando siamo stati liberati, sa quante ragazze hanno ammazzato? Loro stessi, eh! I russi stessi. Io avevo un’olandese a letto con me, e una notte son venuti e l’han scoperta, han visto che non era delle sue, sono andati via. Altrimenti, quelle, che erano con degli italiani, perché non volevano che venissero fuori dalla sua patria. Allora le ammazzavano lì, di fianco; al soldato non gli facevano niente, ma a lei l’ammazzavano. […] Dei bombardamenti alleati vi rendevate conto? Ah, tutta la notte, tutta la notte, passavano, si sentiva; tutta la notte, dalla sera alla mattina, era un continuo; mai un minuto... erano migliaia, migliaia, il cielo era coperto. E si sentiva, le fortezze volanti, perché cariche... quando andavano via vuote... andavano via dall’altro lato. Da un lato arrivavano, da un altro andavan via.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
123
[…] Sono arrivati prima gli americani, poi sono arrivati gli inglesi, peggio dei tedeschi; perquisizioni a tappeto, mangiare pochissimo, libertà poca. Erano peggio dei tedeschi, gli inglesi. […] Sono arrivati i russi, sono andati dentro l’ospedale, ma noi non li abbiamo quasi mica visti, eh! Saran stati solo di passaggio perché dopo han fatto le quattro zone. […] Quindi da aprile a luglio siete rimasti liberi, sotto gli inglesi? Sì, sotto gli inglesi, liberi sotto gli inglesi. […] Poi ci hanno portato in questa stazione che ci hanno imbarcato sul carro merci e ci hanno portato via, che siamo arrivati poi fino a Verona. A Verona sono poi venuti i camion, a portarci tutti a Modena, chi a Carpi... URBANO GALLI - 1923 - Sestola (Mo) - Soldato Marzo 1943: lei si trovava a fare il servizio militare come guardia di frontiera alla frontiera con la Jugoslavia? Sì. A Villa del Nevoso […] . Eravamo in un battaglione mobile per andare poi oltre alle caserme, che mi sembra erano tre o quattro caserme, eravamo diverse... 2 o 3.000, andare poi nell’interno della Jugoslavia alla ricerca dei partigiani etc, che poi io ho avuto la fortuna di non andarci mai. […] Come si svolsero i fatti l’8 settembre? I fatti si svolsero così: noi eravamo in piazza, diciamo così, in piazza d’Armi di queste quattro, cinque caserme, che c’era una gran piazza lì; sentimmo alla radio il comunicato del maresciallo Badoglio, l’8 settembre; poi il generale e i colonnelli che erano tutti lì presenti, dissero così, che adesso la guerra si doveva fare in un altro modo, si doveva fare contro i tedeschi come aveva detto Badoglio, solo che il 9 settembre non c’era più un ufficiale. Erano rimasti solo i soldati. C’era rimasto un sottotenente, che non ricordo come si chiama, dei bersaglieri, che era aggregato alla guardia di frontiera; era un sottotenente dei bersaglieri; […] il 9, il mattino dopo c’era già tutto il Monte Nevoso pieno di partigiani, sembrava fossero nati come i funghi, a migliaia, scesero giù e dissero: “Se volete stare con noi, vi lasciamo le armi, però venite e state con noi. Se volete andare a casa, cedete tutte le armi, tutte”; bombe a mano, ne avevamo tantissime di armi; ognuno aveva un fucile mitragliatore, ogni militare. In quei mesi lì eravamo proprio armati fino ai denti; una borsa di bombe a mano, tutte quelle cose lì. Allora il 99% disse: “No, no”. Speravano tutti di andare a casa. E qualcuno, invece, optò per loro; ma pochissimi perché tutti speravano di andare a casa. Era una cosa normale, insomma. […] E quindi il 13 si partì con questo sottotenente o tenente dei bersaglieri, che ci portò per i boschi, dopo per cercare di rientrare poi in provincia di Trieste; facemmo tante, oltre 100 km, no, più di 200 km a piedi, che ci voleva portare fuori dalla mischia; fuori dai partigiani slavi c’eravamo già, ma fuori dalla mischia soprattutto dei tedeschi che cominciarono subito ad entrare dal Brennero e si espansero in quattro e quattr’otto, in pochi giorni, in tutt’Italia; per sfuggire appunto ai tedeschi. […] E il 13 settembre al bivio Oresina su di Trieste ci presero con delle pattuglie, con dei cani lupo, perché diversamente forse non ci prendevano perché eravamo all’aperto, nei boschi, etc, ma avevano molti cani lu-
124
G. PROCACCI (a cura di)
po, e arrivavano lì i cani, così, bisognava stare zitti. Così ci portarono a Piazza dell’Unità, che c’era una caserma. […] Ci portarono tutti lì dentro a migliaia, dopo due tre giorni ci spedirono in Germania, prigionieri. Ci caricarono su dei vagoni da bestiame, in sessantaquattro ogni carro bestiame. Per sei giorni e sei notti non ci aprirono nemmeno, mai una volta. […] Come fu l’atteggiamento dei tedeschi quando vi catturarono? La prima volta che ci aprirono fu, come le ho detto, dopo sei giorni in aperta campagna; portarono il binario in aperta campagna. Eh, non si sapeva se c’era la volontà di… perché era proprio in aperta campagna… di farci fuori o che cosa, o di fucilarci, non so. […] Ci ricaricarono, poi ci portarono a Küstrin, sull’Oder. Che era lo stamlager IIIC. Su 600.000, eravamo in 300.000 lì a Küstrin sull’Oder, sull’OderNeiss. […] Cominciarono a venire tutti i direttori, o non so chi, privati, non so, delle fabbriche, a chiedere cinquanta, sessanta, cento, mille uomini, duemila, cinquemila, capito? E man mano, smistavano. […] Come eravate trattati dai tedeschi? Ma... dai tedeschi, ci davano qualcosa, qualche brodaglia da mangiare così, roba da poco ma... eh, dai tedeschi eravamo trattati un po’ meno peggio, ecco, diciamo così, degli ebrei e dei russi; perché subito dopo eravamo noi, come traditori, come traditori. Infatti la parola traditore, che la sapevano loro benissimo in italiano, anche quando andai in fabbrica a Orianenburg, vicino a Berlino, […] noi, ci tiravano, d’inverno ci tiravano dietro, era già inverno oramai, perché in settembre, ottobre c’era già la neve là dove siamo andati... ci tirarono le palle di neve, sassate, sputi in faccia, etc, anche la popolazione. […] Io da Küstrin... noi tre venimmo trasferiti a Orianenburg. […] In una fabbrica di Fokker. Ali, facevan ancora le ali d’apparecchio dei Fokker. Eran i migliori caccia tedeschi che avevano loro. […] Vennero degli ufficiali, degli alti ufficiali tedeschi con dei... non saprei come dire, forse con dei... non so, plenipotenziari... non so chi fossero, con delle persone in borghese italiane, ma in borghese. Ci parlarono, dicendo così, che in Italia era stata fondata una Repubblica, che era poi forse la Repubblica sociale, non so, la fondarono subito, per le adesioni etc etc. Solo che almeno a Küstrin il 99% non... e lì fu la Resistenza, secondo me. Perché sapevamo che stavan venendo: “Devono arrivare questi e questi per aderire...”; allora facciamo delle riunioni e se ci mandano in Italia, se fossimo sicuri che ci mandano in Italia, aderiamo e poi... eh, eh, dopo poi sapremo noi cosa fare, ma se aderiamo in massa fanno una bella divisione o due divisioni o tre divisioni e ci mandano su un fronte russo. […] La propaganda fu fatta più che altro da quelli che venivano dall’Italia ma i tedeschi, almeno io, io avevo poi solo vent’anni, capirà con la quinta elementare, a vent’anni si capisce quello che si capisce. […] In questo campo, in questo lager vicino alla fabbrica, com’era la vita, com’era la vita? Ma io più che altro ci sono stato alla notte perché facevo 16 o 17 ore al giorno. […] Ci davano due volte la brodaglia, la chiavamano brodaglia, tutti, anche negli altri campi, a mezzogiorno, il giorno e alla sera; poi ci davano 250 grammi di pane al giorno. […] Poi un cucchiaio di zucchero a settimana, un cucchiaio da tavola di zucchero alla settimana e un cuc-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
125
chiaio da tavola di marmellata alla settimana, 40 grammi di margarina alla settimana. Quello era il nostro mangiare. Tanto è vero che in quei 160 che eravamo lì, dopo nove mesi ci eravamo ridotti in 110 perché gli altri erano tutti andati a pallino, tutti ammalati, se ne erano andati. Io, siccome lavoravo fuori […] fuori trovavamo alla stazione, allo scalo, trovavamo delle patate, trovavamo dei cavoli, delle rape, sa cosa vuol dire? Voleva dire la vita; a rischio anche di... perché quando ci trovavano, anche a prendere su due patate, dico, io mi son trovato lungo i binari con una botta qua [indica la faccia] col calcio del fucile che mi è venuto a prender su il mio amico, io non sapevo neanche cosa era successo. […] In fabbrica venivano al gabinetto uomini o donne olandesi, belgi, francesi, e siamo stati aiutati da questi; portavano magari un pezzettino di pane così, noi tutti i giorni eravamo lì, chi portava anche un mozzicone di sigaretta o una sigaretta per... così, perché c’era anche chi fumava. […] Eravate soggetti ad angherie o comunque a punizioni corporali? Ma no, se debbo dir la verità, almeno in quel campo lì, no; perché soprattutto io avevo calcolato che non lo facevano perché, perché non gli conveniva; perché avevano bisogno di lavoro, perché non c’era un tedesco in fabbrica, c’erano solo dei vecchi tedeschi e basta, degli anziani, donne e anziani, ma dei quarantenni, dei trentenni non ce n’era mica uno, dei ventenni non ce n’era mica uno tedesco eh, dentro. Non c’era nessuno; tutti al fronte. […] Allora era così: alle sei... alle tre e mezza, quattro, sveglia nel lager, tutte le mattine, i tre km e mezzo a piedi e tutte le mattine incontravamo i politici che venivano giù dal turno di notte, i politici che avevano... erano tutti vestiti a righe lunghe sia i pantaloni e sia la giacca. Ad un certo momento della strada, incontravamo questi prigionieri politici che lavoravano il turno di notte. […] C’era una mezz’ora di intervallo, un’ora di intervallo, neanche, tre quarti d’ora d’intervallo, mezz’ora tre quarti d’ora, per il frühstück, dicevano, il frühstück, ma il frühstück, noi non ne facevamo perché non avevamo niente da mangiare. Facevano loro, i tedeschi, si facevano anche vedere, che avevano le scatoline di ferro, che tiravan fuori la margarina, che tiravano fuori... ci mangiavano in faccia e... ciao. Però... quella era la vita da prigionieri. […] Di notte ci chiudevano a chiave dentro […] e poi le porte, le finestre, c’erano le finestre in queste baracche ma come arrivammo ce le inchiodarono subito; inchiodate, proprio con dei chiodi grossi così, inchiodate tutte. […] Se avevamo qualcosa in più, cercavamo di aiutare, ma... roba da poco, perché se non ce n’era non ce n’era. Ho capito quello che ha voluto dire; no, i peggiori, peggio dei tedeschi, gli dirò chi erano, erano i nostri amici che facevano i dolmetscher. […] I dolmetscher, gli interpreti; penso che si dica così in tedesco. […] Poi cercavano anche di essere cattivi ‘sti tedeschi, e loro aiutavano, se lo volevano fare prendere qualche botta a qualcuno, erano proprio loro. […] Loro per..., infatti erano grassi come i maiali, per... fare gli interpreti italiani, naturalmente dovevano far vedere che erano duri con noi. Così avevano più marmellata, più zucchero, quello che fregavano poi a noi altri 260. […] La religione ha avuto un ruolo importante? C’era ad esempio possibilità di seguire una messa?
126
G. PROCACCI (a cura di)
No. O pregavate insieme? No. No, a parte il fatto che avevamo altro da pensare, molto altro da pensare, veramente, lì c’era la resistenza in ballo, non si scappa; vabbè, qualcuno da solo avrà... io non lo ho mai fatto perché sono anche un po’... forse sono ateo, non lo so. E allora, così... ma anche in gruppo, così, non si faceva. Non si faceva, non lo abbiamo mai fatto. Sa cosa c’era? C’era, ci tenevamo molto, perché i tedeschi ci tenevano, cercavamo di tenerci molto puliti, sbarbati, coi capelli tagliati molto. […] Avevo capito anche un’altra cosa dai tedeschi […] che bisognava essere: puliti, ben rasati, ben puliti, sempre lavati, mai... e neanche troppo melensi, cioè, non accettavano i tedeschi, io questo l’avevo capito immediatamente, non accettavano... ha capito? Per carità, non so, andavi a prostrarti, eccetera; io avevo capito che a fargli vedere... farsi vedere un po’ più duri, ti consideravano di più. Ed è vero, eh, è vero. E soprattutto bisognava essere, così, essere meno straccioni possibile, se era possibile, perché poi, non ci han mai dato niente di vestiti, in due anni non ho mai avuto un calzino, perciò eravamo... come potevamo essere; però puliti, lavati, sì, anche rasati e coi capelli tagliati, a posto, ah, guai, non perdonavano. […] I francesi, nonostante la pugnalata, anche i francesi ci hanno aiutato molto, almeno noi che eravamo lì. Perché anche in quella squadra, in quella squadra lì che andavamo alla stazione, c’era una squadra di francesi, di francesi prigionieri, ma di francesi; loro avevano i pacchi, loro avevano tutto, ma sono stati gli unici soldati che abbiam visti noi, francesi. Ed avevano, lassù, avevano installato una baracchetta, che era stabile, perché lavoravano sempre lì, dormivano e lavoravano lì, questo gruppo di francesi. Facevano il lavoro che facevamo noi alla stazione, cioè, carico e scarico merci, era solo una stazione merci, carico e scarico merci, e, ci chiamarono un giorno, ci chiamarono: “Italien, italien”, siamo andati là, noi due, perché eravamo in due, perché quell’altro era in fabbrica, ci diedero subito una bella zuppa, così, di patate, c’eran dentro fagioli, c’eran dentro... oooh! E tutti i giorni, che andavamo su, ce ne davano. Pensa un po’ da chi abbiamo avuto... da chi abbiam pugnalato alla schiena. […] Noi l’11 maggio eravamo ancora in mezzo, vicino all’Elba, al fiume Elba, dove si incontrarono i russi e gli americani. […] Eravamo in una foresta dove 40.000 SS facevano ancora resistenza. Noi due potevamo essere... potevamo morire anche dopo che era finita la guerra. […] Qual è stato il primo impatto coi russi? Il primo impatto coi russi è stato così: c’era chi parlava anche lì l’italiano, e s’incaricavano di dirci che avevamo carta bianca, anche contro i tedeschi, contro... diciamo così, sì, potevamo fare quello che volevamo contro i tedeschi, così. Questo durò quindici giorni; sotto gli americani durò un mese, questo l’ho saputo dopo, sotto gli inglesi lo stesso, sotto i russi durò quindici giorni, perché molti stranieri, prigionieri, fossero polacchi, fossero rumeni, fossero italiani, anche italiani, eccetera, i maltrattamenti ai tedeschi erano arrivati a un certo grado, erano arrivati a un grado anche piuttosto... sa dopo due anni di angherie, sa com’è. Io personalmente non ne ho fatte; moltissime non ne han fatte, io credo che tantissimi ita-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
127
liani non abbiano fatto, ma altri l’avran pur fatto. […] Siamo stati a Bukow. […] Com’era la vita a Bukow? Ah, niente, una vita da militare; una vita da militare, da militare... ma così, civile militare, civile, ma organizzata da... così, specialmente per quella roba in natura che davano i russi, perché non è che avessero poi tanto, tanto, anche loro, eh. […] Ci davano la farina e il pane, ci davano le patate secche e, ci davano i fagioli, e noi li dovevamo cuocere, cioè, non è che facessero le zuppe loro, e infatti ci arrangiavamo poi noi. […] I russi ci hanno consegnato agli americani in Austria. […] Da Pescantina ci hanno caricato su dei camion e ci hanno portato nella nostra provincia. […] E dopo otto giorni son stato chiamato, cioè, sono andato a... siamo andati tutti quanti... otto, dieci giorni, siamo andati al distretto militare a riscuotere 6.000 lire, tutto quello che abbiam riscosso di due anni di prigionia. […]
MARIO GARIBOLDI - 1920 - Bologna - Ufficiale Dove si trovava l’8 settembre? Ero tenente al 5° reggimento alpini. Rientrato dal fronte russo nel maggio, dopo un periodo di licenza post fronte, ero di nuovo tornato con il 5° alpini. Siamo stati prima in Alto Adige e poi siamo stati trasferiti al confine orientale d’Italia in provincia di Gorizia in funzione anti-partigiani, nel contempo ci si stava riorganizzando, riarmando, ripreparando per altro impiego. Tra la fine di agosto e gli inizi di settembre, tutta la Tridentina, di cui facevamo parte, era stata portata nella valle dell’Isarco, a protezione della ferrovia del Brennero. Tutti in realtà si chiedevano un po’ da chi perché stavano affluendo dal Brennero tedeschi a valanga sulla ferrovia verso l’Italia. Il compito era quello di evitare atti di sabotaggio e, nel caso di lancio di paracadutisti, di salvaguardare la ferrovia, i ponti e specialmente i punti sensibili. Inoltre sapevamo che c’era anche un piano di opposizione ai tedeschi qualora questi prendessero l’iniziativa di prendere il controllo della ferrovia. Però di questo non se ne parlava, insomma se ne parlava sottobanco. L’8 settembre mi ha sorpreso in particolare a Fortezza, in provincia di Bolzano, dove comandavo una compagnia già come tenente. Eravamo attendati molto vicino alla stazione ferroviaria e avevamo il compito della vigilanza lungo la linea a cavallo della zona di Fortezza. Nei giorni precedenti, su iniziativa del colonnello comandante del 5° alpini, avevamo anche studiato degli itinerari dalla valle dell’Isarco verso occidente, nel caso si fosse dovuta abbandonare la zona. Ovviamente se dovevamo abbandonare le posizioni non potevamo farlo lungo l’asse del Brennero, ma dovevamo spostarci attraverso le montagne; avevamo quindi preparato un itinerario per arrivare nella zona di Merano. Così si arrivò a quel giorno. Non avevamo adottato nessuna particolare predisposizione né ci aspettavamo un qualche avvenimento. Sentimmo vociare nella stazione e venimmo così a sapere nel tardo pomeriggio del
128
G. PROCACCI (a cura di)
comunicato e del proclama di Badoglio, per cui misi subito il reparto in allarme: distribuzione di munizioni etc. senza avere ancora un’idea di cosa potesse succedere di preciso. Come apprese del comunicato di Badoglio? Ma... lo sentimmo perché lo ripeteva la radio ogni quarto d’ora, non fu una comunicazione via ufficio, ma via mass media direi. Comunque, presi contatto con il comando di reggimento, anch’esso a Fortezza, non era lontano, riferii al comando il quale era tuttavia già in allarme. Non mi risulta che nessun ordine o comunicazione sia arrivato attraverso i canali ufficiali. Passarono alcune ore in preparativi senza che ci fossero novità essenziali. C’era una compagnia abbastanza forte, era una compagnia rinforzata tedesca con compiti antiaerei, con mitragliere antiaeree e dei mezzi semicingolati, ai margini di Fortezza, verso il forte: da lì non veniva nessun rumore né comunicazione, eravamo in contatto con questi in quanto erano stati fatti inviti reciproci al rancio ma con un po’ di freddezza, nulla. Verso le nove e un quarto, nove e mezzo, sentii degli spari a sud dello scalo ferroviario di Fortezza dove c’era un nostro punto di vigilanza della linea ferroviaria che era stato investito dai soldati di questo reparto tedesco i quali con i due semicingolati erano arrivati sul posto e volevano le armi. Quindi ne seguì una sparatoria e fui informato che v’era una vittima: una guardia di finanza. Anch’egli era incaricato della sorveglianza alla ferrovia e non avendo voluto dare le armi venne ucciso con una raffica di mitra. Mi assicurai che tutti gli uomini avessero capito che si faceva sul serio, che c’era da difendersi dai tedeschi che ci stavano attaccando, perlomeno stando a questa notizia ancora parziale. Fummo sotto minaccia di attacco dopo 20-30 minuti, quando altri quattro mezzi arrivarono sul piazzale della stazione. Cercai di prendere contatto verbale con questi, per sapere che cosa volevano, ovviamente tenendomi a distanza. Loro dissero: “Sappiamo che voi siete ormai usciti dall’alleanza e dal combattimento e dovremo prendere noi il controllo della ferrovia del Brennero”. Al che, dissi che non avevamo ancora ordini e proposi che stessero fermi lì. “Noi non faremo atti di offesa, anche noi abbiamo lo stesso compito almeno fino a quando non ci saranno ordini precisi in merito”. Dopo aver lasciato a uno degli ufficiali della compagnia la responsabilità di quel posto del piazzale della stazione, facendo un giro piuttosto lungo, per evitare altre intercettazioni, arrivai fino al comando di reggimento a dare queste novità e per sapere che cosa succedeva. In quel momento erano riusciti a prendere ordini e mi dissero: “Cerca di tergiversare”, e mi dissero praticamente di non sparare e di rendere inutilizzabili le armi e di farle sparire buttandole via senza consegnarle. […] Noi non avevamo armamento pesante perché le mitragliatrici e i mortai dovevano ancora arrivare, avevamo solo armamento individuale, feci quindi buttare in un fossato a parte tutte le armi lunghe, moschetti e fucili, dopo aver tolto gli otturatori, mentre degli otturatori ne feci una cassetta e mandai due a gettarla nel lago, il lago artificiale di Fortezza che era lì vicino, in modo che fossero inutilizzabili. Restavano quattro ufficiali compreso il sottoscritto e due sottufficiali ancora tutti armati con le proprie pistole. Questa specie di tregua continuò per buona parte della notte perché fino alle 2,30 di notte tutto si fermò. Sentimmo sparare da lontano: gli spari venivano proprio dal forte dove c’era un deposito di
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
129
munizioni presidiato da italiani. Verso le 2,30, venne il tenente che comandava questa compagnia tedesca, venne proprio lui a contattarmi e mi disse: “Guardi che so che hanno avuto l’ordine di cederci le armi”. E io dissi: “Le armi non sono più utilizzabili perché le abbiamo rese inattive”, questo fu molto seccato da ciò però non prese nessuna iniziativa particolare. “Voi restate qui, non faccia muovere nessuno perché neanche noi sappiamo quale sarà la vostra sorte, dovreste, da quello che ho sentito, essere avviati verso Verona e da lì vedremo che ordini ci sono”. […] Verso le due di pomeriggio, vedemmo che in stazione c’era un po’ di movimento, i ferrovieri preparavano due convogli. Lo scalo di Fortezza era molto grande e aveva vagoni in abbondanza. Quando furono pronti questi due convogli di carri merci più ognuno due carrozze miste di prima e seconda, tornò il tenente tedesco dicendo: “Bene, salite, però gli ufficiali e i sottufficiali nelle due vetture, mentre gli alpini negli altri carri”. Questo a noi non andava molto bene perché volevamo restare uniti con i nostri uomini. […] Quando anche noi ufficiali ci imbarcammo sulla vettura, la sorpresa fu vedere che il locomotore veniva attaccato non dalla parte di Verona ma dall’altra parte. Allora capimmo subito il trucco che avevano usato, ma ormai c’era poco da fare, eravamo oggetto e non soggetto di storia. […] Fino a quel momento avevamo ancora le nostre pistole. Ce le ritirarono, le nostre pistole, nel momento in cui partiva il treno. […] Partimmo verso sera e pian piano ebbe il sopravvento la stanchezza di una notte passata senza chiudere occhio e la mattina ci svegliammo già in Austria, senza sapere minimamente dove fossimo diretti. […] Così cominciò la nostra odissea. Per il momento si pensava come prigionieri, la dizione internati militari ancora non esisteva, non c’era ancora, viaggiammo tre giorni, sembrava di andare in qua e in là per l’Europa, il tragitto non fu rettilineo perché tutte le linee principali evidentemente erano occupate da reparti tedeschi in affluenza, ci fecero fare strade strane, probabilmente neanche loro sapevano esattamente dove ci avrebbero scaricati, ci allontanavano dalla zona e basta. La terza mattina, quindi dovrebbe essere stato il 12, direi di sì, il 12 mattina, ci svegliammo e guardando fuori vedemmo una lunghissima scritta che non era più tedesca, cioè era in caratteri tedeschi ma il nome effettivamente non era tedesco, ed era Tschenstochau, Czestochowa, oggi in Polonia. Fermi sullo scalo, dopo un po’, vedendo che il treno non si muoveva capimmo che eravamo arrivati a destinazione; infatti nel corso della mattinata ci fecero scendere sia noi sia i soldati, solo che ci tennero separati gli uni dagli altri, senza riprendere ognuno il proprio reparto. Poi, ad un bel momento i soldati vennero fermati ed inviati su di un altro convoglio, solo ufficiali e sottufficiali vennero portati nell’edificio della stazione e piantonati. Da notare che fino a quel momento nessuno si era sognato di darci da mangiare, erano tre giorni che stavamo viaggiando, avevamo quel poco che avevamo portato con noi. Tuttavia, veramente non avevamo nemmeno voglia di mangiare, e lì la Croce rossa, che aveva un posto in quella stazione, ci diede una sbobba calda. […] Nel pomeriggio, ci misero tutti insieme, eravamo, io credo 150-200, e a piedi per le vie di Czestochowa, mi ricordo un grande vale ombroso, ci portarono in un gruppo di caserme che evidentemente avevano sgombrato e rimesso in funzione allora senza che avessero nessuna predisposi-
130
G. PROCACCI (a cura di)
zione come campo di concentramento. Mi ricordo una cosa che ci fece impressione: lì lungo la strada, la popolazione di Czestochowa venne a vederci, i più ardimentosi perché non era permesso, e i tedeschi sparavano anche in aria per mandarli via, cercavano di portarci anche del pane, qualche cosa insomma, lanciavano sigarette e soprattutto ci facevano segno con le mani di amicizia e questo naturalmente nell’abbattimento che ci aveva preso completo fu il primo segno un po’ di riscossa, per dire: “Beh, non siamo proprio soli e anche il nostro atteggiamento è stato capito da qualcuno che non è italiano”. Arrivammo in questa gran caserma, avevano steso del reticolato volante, così senza sentinelle, e cominciammo la nostra vita di internati. Questa praticamente è la prima fase perché lì dovemmo passare qualche giorno per doverci abituare a questa vita, ma tutto scorreva nella assoluta incoscienza di quello che stava avvenendo fuori, perché dell’Italia non sapevamo più niente, né permettevano che qualcuno ci informasse ovviamente. Ci registrarono naturalmente, ci presero tutti i dati nostri, si fecero consegnare denaro, oggetti preziosi, dandoci una bella ricevuta [ride]. Anche, oddio, l’alimentazione non era piacevole come la nostra indubbiamente, però noi che avevamo visto anche in Russia le loro razioni militari, perché a volte ce le scambiavamo, sapevamo che erano solo un po’ più ridotte, erano quelle praticamente dei reparti tedeschi in patria, i territoriali diciamo, quindi con minori calorie, però insomma meglio che niente. Poi dopo alcuni giorni, cominciarono dei movimenti, ci accorgemmo che i tedeschi avevano cominciato a rastrellare e a far partire da lì gli ufficiali più giovani, un giorno sì e un giorno no. Arrivavano invece ufficiali superiori, e la voce ormai del campo, circolavano infatti notizie e voci a volte anche fantastiche, diceva: “Questo deve diventare un campo solo per ufficiali superiori”. Questo ci mise subito in guardia sul fatto che “questi vogliono da noi qualche forma di adesione o di lavoro o altro, perché se ci separano per gradi già probabilmente c’è un’intenzione”. Però questa selezione dopo un po’ di giorni finì e rimanemmo con due terzi buoni dei posti occupati da ufficiali superiori e un terzo ancora da ufficiali inferiori, subalterni, e allora arrivarono le prime notizie da fuori. Le portarono alcuni italiani venuti nel campo per comunicarci che si stava formando un governo nell’Italia settentrionale e saremmo stati aiutati da questo governo a risolvere questa situazione. Naturalmente non demmo molto credito a quello che dicevano. […] Poi, dopo alcuni giorni invece si installò proprio una commissione tedesca con qualcuno di questi e anche già dei militari italiani che avevano dato la loro adesione e cominciarono a fare propaganda dicendo: “Voi potete tornare in Italia aderendo ad un governo del nord, sarete portati in Italia e sarà formato un nuovo esercito italiano che salvaguarderà il paese da sventure maggiori”, etc. Questo fu accolto con un po’ di freddezza. Naturalmente si discusse molto fra di noi nel campo, fra chi era già deciso a un no assoluto e chi invece diceva: “Una volta che sei andato là... insomma, ma io scappo e non mi faccio prendere”. C’era questa tendenza forse minoritaria, ma abbastanza sentita, di gente quasi decisa a mettere una firma con l’idea poi di scappare e darsi alla macchia in Italia, di questo qualcuno ne parlava apertamente, altri lo dicevano solo sottobanco. I risultati dell’adesione furono però molto limitati lì, soprattutto perché la parte degli ufficiali superiori frenava, aveva detto: “No, no, noi
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
131
restiamo fedeli alla nostra idea, voi giovani state attenti a non lasciarvi abbagliare” etc. Questo era quello che ci dicevano. Ormai si erano formati diversi gruppetti, ci eravamo associati nelle camerette e camerate che c’erano, un po’ per simpatia, un po’ seguendo i gruppi già esistenti. Noi del 5° alpini più o meno eravamo tutti insieme. Ebbi la fortuna di far parte di un gruppetto veramente deciso che vide le cose abbastanza chiaramente dicendo: “No, noi assolutamente non dobbiamo aderire a nessuna forma di collaborazione con i tedeschi che ci detengono, vedremo cosa succede, intanto noi diciamo no a qualsiasi proposta”. Porta bandiera di questo gruppetto, era ancora il colonnello nostro, Adami, ma sotto c’era una persona che poi è diventata molto famosa che non era del 5° alpini ma era comunque lì: Guareschi. C’erano anche il pittore Novello, che era nel 5° alpini, un altro che era in artiglieria ma non so da che reparto venisse, Rebora, filosofo e poeta. Fu un gruppo veramente di intellettuali che presero un pochettino il comando morale dell’azione. Mentre già c’era qualcuno che era andato in una stanza famosa dove si doveva andare individualmente a discutere circa il porre la propria firma, alcuni erano già andati, quando sorse questo primo gruppo di no assoluto, ci fu un riflusso quasi, gente che andò a cercare di eliminare la domanda che aveva fatto dicendo: “No non accettiamo”. Da lì non era ancora partito nessuno, tutti quelli che avevano fatto la domanda erano ancora lì in attesa di decisioni. Non vi fu nessun attrito tra quanti erano andati in quella stanza e coloro che facevano resistenza? L’attrito vi fu in discussione. Ma, soprattutto con quelli che non avevano ritirato la domanda, quelli che avevano accettato stavano lì aspettando tempi migliori per loro, cioè di tagliare la corda dal campo di concentramento. In effetti dopo un’altra settimana dall’inizio delle opzioni, questi vennero presi e portati via in Germania e dopo in Italia etc. Sono stati quelli che hanno inquadrato in parte l’esercito della Repubblica sociale. Ma si può dire che lì a Czestochowa l’adesione fu molto, molto limitata, non so il numero preciso ma parlerei di qualche decina su 1.500 presenti a Czestochowa, sì 20 o 30 saranno stati. Con questi non c’è stato nessun contrasto più in là delle parole e dello scontro di opinioni anche perché inopinatamente un giorno sono partiti senza dir niente. Alcuni di questi furono rimandati dopo circa un mese ancora nel campo per far vedere che erano liberi e ben nutriti, eh, piuttosto rubicondi [ridendo] a far da propagandisti, ma naturalmente, in quel caso lì, furono cacciati via malamente [ridendo] perché ormai le posizioni si erano chiarite. Il perché della posizione nostra? Ognuno naturalmente aveva delle sua idee, mah, direi che si doveva rispettare il giuramento che avevamo fatto, quello almeno per la parte ufficiali era alla base di tutto, ma per noi che venivamo dal fronte russo, la Tridentina, c’erano i precedenti di quel fronte, quello che avevamo passato con i tedeschi, le azioni di prepotenza durante il ripiegamento non sempre ci furono, ma c’erano state, e soprattutto il loro tentativo, già manifesto, di dare la colpa di tutto lo sfascio del fronte russo a noi... insomma chi era tornato dalla Russia non era certo favorevole ai tedeschi, e dopo essere stato catturato. Così tenemmo duro fino a novembre inoltrato e un bel giorno vollero attuare proprio la separazione completa tra ufficiali superiori ed inferiori, perché videro o intuirono che noi giovani non avremmo mai aderito se in contatto con gli ufficiali supe-
132
G. PROCACCI (a cura di)
riori, che ci tenevano ancora in pugno. Quindi, insieme a quel terzo di giovani che erano nel campo, eravamo qualche centinaio, 400-500, fummo caricati in treno e, con un viaggio di un giorno, fummo portati sempre in Polonia, vicino a Varsavia, nel campo di Benjaminowo. Benjaminowo era a 20 km nord-est di Varsavia, in un’ansa della Vistola su un terreno paludoso. Questo era proprio stato costruito come campo di concentramento, infatti aveva già una lunga storia: nel ‘39 v’erano stati messi i polacchi dell’esercito. Eravate informati di questo? Venimmo a saperlo subito, anche perché ad alcuni servizi di questo campo erano addetti dei polacchi, per esempio lo svuotamento di tutte le latrine che avveniva con dei carri tirati a mano con delle pompe etc. lo facevano dei polacchi, per la pulizia della parte del campo tedesca etc. venivano dei polacchi. E insomma, ci furono contatti con questi, quindi noi sapemmo la storia, c’erano stati polacchi, c’erano stati ebrei, c’erano stati i russi, c’erano state già due epidemie di tifo petecchiale che avevano sfoltito per due volte, e poi era rimasto vuoto, credo con poca gente e quindi ci hanno mandati là. Quando arrivammo noi, c’erano già altri italiani, di grado tra capitano e sottotenente. Solo ufficiali inferiori. Era un campo piuttosto piccolo, se non sbaglio saremo stati un migliaio, non di più. E da novembre restammo lì fino a febbraio, naturalmente con tutti i guai dell’inverno, che si assommarono alla fame, che restava sovrana. Le razioni si erano ormai ridotte ancora rispetto ai primi tempi, e era la fame, non più quella nervosa, lancinante di quello che ha saltato dei pasti, ma era la fame più profonda, quella proprio di quello che si stava indebolendo perché mangiava poco o niente. A questo si assommava dunque l’inverno quasi russo della pianura polacca, il riscaldamento era molto limitato, avevamo delle stufette a legna, ma si riusciva a farle funzionare un po’ solo la sera, fino a che non si spegnevano nella notte. […] A Benjaminowo, però c’è questo, che tramite i polacchi specie quelli dei carri M [ridendo], è chiaro che l’M è l’iniziale di qualche cosa, eravamo riusciti a prendere contatto con la Resistenza polacca che stava organizzandosi. Vennero sotto forma di tiratori di questi carri degli emissari dei loro comitati di Resistenza, chiesero i nostri capi baracca, ci furono dei contatti e questi non sfuggirono ai tedeschi naturalmente i quali avevano i loro informatori e stavano con gli occhi aperti. Per questo, a febbraio, decisero di toglierci da lì per evitare un ulteriore pericolo, anche perché la situazione stava peggiorando al fronte orientale e questo si avvicinava ormai ai confini polacchi, però, stranamente, invece di portarci indietro ci spostarono lateralmente e con un viaggio notturno in treno ci portarono a Deblin. Continuarono le proposte di adesione a Benjaminowo? Ovviamente appena arrivati a Benjaminowo ci fu una ripresa della propaganda, dal momento che ci avevano infatti portati via da Czestochowa perché avevano capito che là non sarebbero più riusciti ad ottenere alcuna adesione. Invece dopo averci portati lì, con un inasprimento delle condizioni di vita, del freddo e anche della fame etc. speravano di piegarci. Qualcuno aderì anche lì. Pochi. E l’atteggiamento del comando italiano del campo? L’atteggiamento del comando italiano del campo nei riguardi della propaganda da fuori era di lasciarla fare, non c’era modo di... anzi si guarda-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
133
vano bene dal dire... semmai ci facevano sapere da sotto, [ride divertito] di fare attenzione prima di comprometterci con qualche adesione, ufficialmente non potevano fare una contropropaganda in tale senso, perché altrimenti li avrebbero spediti chissà dove in campi di punizione. […] Dopo un mese cominciarono ad arrivare […] dei pacchi, pochissimi, tra i quali arrivò a uno che aveva non so se la moglie o un figlio che conosceva il gergo del radioamatore del materiale per costruire una radio. Questo si era fatto mandare un’unica valvola multifunzione, che poteva servirgli per mettere insieme un qualcosa in grado di ricevere. Gli arrivò nascosta dentro ad una scatola di conserva di pomodoro, la valvola era dentro a bagno nel pomodoro e il coperchio era stato poi risaldato. […] Tutti gli avvolgimenti necessari furono fatti con l’indotto di una dinamo da bicicletta sottratto al maresciallo dell’infermeria tedesco che veniva lì a visitarci il quale la sera si trovò con la dinamo che non funzionava perché non c’era dentro niente. Probabilmente non gli venne nemmeno l’idea del vero motivo di quell’atto, lo prese forse come un atto di solo teppismo, mancanza di rispetto. La morale è che questa radio cominciò a funzionare negli ultimi giorni che eravamo a Benjaminowo, sapemmo così attraverso la radio che le operazioni sul fronte russo erano molto più vicine di quello che invece i tedeschi dicevano. L’ascoltava uno solo e l’ascoltava stando disteso sul lettino triposto in alto sotto le coperte con l’antenna fra gli alluci dei due piedi e stando sotto con la cuffia e facendo finta di dormire, poi ogni tanto riemergeva per prendere qualche nota che attraverso due o tre stadi di passaggio arrivava a tutto il campo. Noi però non sapevamo come, io ho scoperto solo dopo la prigionia, quando è stata ricostruita la storia della Caterina, che conoscevo benissimo il numero due, non quello che l’aveva costruita ma il primo che portava le notizie, era del mio corso all’accademia. Ma lì non avrei mai immaginato che fosse lui, e questo era necessario perché c’erano fughe di notizie, c’erano informatori, ce ne accorgemmo appunto dal fatto che i tedeschi si accorsero della presenza di notizie sicuramente provenienti da una radio, quindi cominciarono a sospettare prima poi a esser certi della presenza di una radio nel campo ne conseguirono riviste e ispezioni a non finire. Però non sono mai riusciti a trovarla. A fine febbraio all’improvviso ci spostarono a Deblin. […] Fu organizzato qualcosa per il morale e per passare il tempo? Ancora a Benjaminowo ben poco. Cominciò però ad esserci qualche iniziativa, tipo degli ufficiali di marina che conoscevano bene l’inglese cominciarono a fare dei corsi d’inglese, tipo qualcuno che era riuscito a portarsi dietro degli strumenti musicali, ad esempio due erano riusciti a portarsi dietro un violino perché appassionati, e i tedeschi diedero inoltre il permesso di andare a prendere altri strumenti, un clarino, un clarinetto, un qualche cosa insomma per formare un’orchestrina la quale però ancora a Benjaminowo non funzionava. Erano piuttosto individui che facevano un po’ di musica la sera facendo intonare qualche coro qua e là. Il trasferimento a Deblin fu molto ragionato da parte dei tedeschi e molto salutare per noi; infatti ci tolse dalla zona di Varsavia poco prima dell’insurrezione di Varsavia, giusto un paio di mesi prima. Se fossimo rimasti a Benjaminowo, gli accordi erano già stati presi, saremmo passati con la Resistenza polacca immediatamente, ma, come si sa, della Resistenza polacca a Varsavia si salvarono in pochi purtroppo.
134
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Ora su Deblin si è parlato molto: vi sarebbero stati massacri, etc. Per quanto riguarda Deblin, v’erano due campi: Deblin Irena e Deblin Fortezza, noi eravamo a Deblin Irena. Comunque i due campi erano in contatto l’uno con l’altro perché avevano l’infermeria in comune e quindi chi andava alla visita medica veniva a sapere cose anche dell’altro campo mentre si portava dietro le notizie nostre, quindi i due campi erano a vasi comunicanti diciamo. Devo dire che, assolutamente per Deblin potrei mettere la mano sul fuoco, fino a che ci siamo stati noi, cioè fino a quando i tedeschi hanno sgomberato d’urgenza tutti i campi della Polonia che erano rimasti, non c’è stato nessun ammanco di personale e anche l’atmosfera non era tale da pensare che potessero fare una cosa del genere perché insomma eravamo nelle mani di ufficiali e sottufficiali tedeschi piuttosto anziani, le guardie tedesche, dell’esercito, erano anche loro piuttosto anziane, erano già state in guerra etc. Sebbene avessero forse non una grande opinione di noi tuttavia avevano un po’ il comportamento da militari e un po’ il rispetto dei diritti umani. Sarebbe stato difficile anche per loro procedere. Certo, poteva esserci un prelevamento e poi le SS avrebbero pensato ad eliminarci, ma, fatto sta, non è mancato nessuno di quelli che erano nel campo di Deblin Irena e per quanto sappiamo anche a Deblin Fortezza fu lo stesso. Quindi, direi che per quanto riguarda Deblin potrebbe darsi che se è arrivato qualcuno o è rimasto qualcuno dopo che noi eravamo stati portati in Germania, lì sia successo qualche cosa prima del passaggio del fronte […]. A Deblin ripresero tutti i tentativi di convincerci ad andare a lavorare, noi opponemmo tutti il fatto che era la prima volta che ce lo proponevano e secondo la Convenzione di Ginevra l’ufficiale prigioniero non è obbligato a lavorare, pertanto noi non intendevamo assolutamente dare questo apporto. Qualcuno aderì. Qualcuno diceva: “Piuttosto che stare qui a non far niente”. Effettivamente aveva ragione, come parte morale, ma pochi allora aderirono e questi partirono per fabbriche varie e non si videro più, pochi comunque. In aprile, erano due mesi che eravamo a Deblin, venne dato l’ordine, che sapemmo subito essere per tutti i campi della Polonia, del trasferimento a ovest in Germania. Seguì il solito carico sulle tradotte. […] Nel trasporto in Germania noi andammo a finire al XB di Sandbostel, al centro del triangolo Amburgo, Brema, Lubecca. Questo campo era molto vasto, anch’esso costruito già al tempo delle operazioni contro la Polonia e poi contro la Russia, era parzialmente già occupato a settori. C’era un settore francese, ancora, un settore di slavi, di Jugoslavia, piccolo però, e poi c’erano belgi, inglesi, pochi. I settori erano separati e non era possibile nessun avvicinamento dal momento che tra l’uno e l’altro restava una zona neutra tra i due fili e le concertine. Questo era un campo di grandi dimensioni, credo che siamo arrivati a 15-20.000 presenze. Lì avemmo subito un periodo in cui fu forte la minaccia di un’epidemia di tifo. Vi furono alcuni casi nel campo, quindi seguirono grandi misure per scongiurare l’epidemia, e infatti la cosa si fermò. Vi furono solo una decina di casi e ci trovammo in quarantena, quindi più nessun contatto con i tedeschi che solitamente venivano nel campo, anche l’infermeria venne isolata. Con questo ci lasciarono in pace per due mesi, senza neanche propaganda. Quando la quarantena stava finendo, vi fu improvvisamente un gran parapiglia: “Stringersi e lasciare tutto un settore di baracche”, il perché non lo sapevamo ancora. Si trattava dei pochi sopravvissuti alla
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
135
lotta nel centro di Varsavia, nel ghetto: furono portati a Sandbostel anche loro. Saranno stati 1.500 polacchi circa. Capimmo subito cosa era successo, c’erano infatti le notizie della radio che continuava a funzionare nel campo e poi avevamo avuto i contatti a Benjaminowo con la Resistenza: questo fu per noi l’avvenimento decisivo per farci rifiutare qualsiasi altro approccio tedesco, perché vedemmo questi, gente di tutti i ceti e di tutte le provenienze, dagli ex militari ai letterati, ai professori etc. fino al manovale, e poi donne e bambini, c’era un po’ di tutto, molti portati lì immediatamente da Varsavia feriti ed ancora con fasce insanguinate. Ci fecero molta impressione, ma d’altra parte vedemmo una cosa che ci commosse e che ancora adesso, devo dire, mi lascia il cuore in gola: subito, il primo giorno del loro arrivo, sebbene non ancora organizzati in nessun modo, restarono inquadrati tutti insieme e prima di sciogliersi li vedemmo tutti in ginocchio intonare in coro una preghiera per la Polonia. Questo ci causò uno shock veramente violento e nello stesso tempo ci fece vergognare del nostro atteggiamento un po’ sciatto ormai di vecchi prigionieri e ridette forza anche alla vita del campo; difatti da allora ripresero con più forza i corsi, i concerti, il teatro sperimentale. C’era nientemeno che Gianenrico Tedeschi, lì con noi, il quale ancora agli inizi, si formò una compagnia. I tedeschi ci lasciarono per 15-20 giorni con questi polacchi in libera circolazione per il campo, senza separazioni. Ci furono pertanto parecchi contatti, tra l’altro loro venivano ai nostri concerti la sera, ricordo in particolare una rappresentazione teatrale di Pirandello, dove vedemmo una quindicina di questi polacchi venire e soffermarsi lì a guardare. Chiedemmo in francese, perché parlavano tutti francese, se riuscivano a seguire, e loro risposero di non capire quello che veniva detto tuttavia conoscevano quella rappresentazione perché l’avevano già vista in polacco. C’era pertanto un livello intellettuale, almeno per alcuni, elevato. Dopo un po’ di tempo li spostarono in altri campi e noi restammo di nuovo soli. Eravamo nel ‘44, ormai in tarda primavera, ed avvenne lo sbarco in Normandia. Noi lo sapemmo il giorno stesso mentre la guardia tedesca lo seppe dopo due giorni. In quel momento era difficile mantenerci a freno e non far vedere che sapevamo cose che loro non sapevano. Quale fu la reazione dei tedeschi alla notizia dello sbarco in Normandia? Quando l’appresero restarono molto abbacchiati... molto abbacchiati. Mentre nei primo tempi le nostre guardie erano soldati piuttosto anziani, ma pur sempre soldati, ora ci avevano messo nelle mani di territoriali vecchiotti che non vedevano l’ora che finisse la guerra. […] Naturalmente il nostro morale salì alle stelle con lo sbarco in Normandia e le operazioni successive. Eravamo ottimisti e pensavamo che entro l’autunno del ‘44 finisse tutto. Seguimmo le notizie di radio Londra degli aviosbarchi ad Arnhem, etc. ci sentivamo ormai quasi superati da questi in quanto eravamo molto vicini anche se spostati più a sud. Lì ci fu nell’estate del ‘44 una forte offensiva della propaganda tedesca per indurci al lavoro: questa volta nelle campagne. Dissero: “Va beh, noi sappiamo che voi volete mantenevi aderenti a queste regole e non volete che il vostro lavoro partecipi allo sforzo bellico. Capiamo questo, non vi offriamo più di andare a lavorare nelle fabbriche ma semplicemente di andare a lavorare presso i contadini”, presso aziende agricole dando una mano e così migliorando anche le condizioni del campo perché avevano anche promesso che una parte di quello che sarebbe stato prodotto sa-
136
G. PROCACCI (a cura di)
rebbe stato distribuito nel campo. E lì vi fu una certa aliquota che aderì, sebbene vi fossero dei nuclei di resistenza che cercavano di impedire la collaborazione con i tedeschi. Finì il 1944, venne la sosta in Belgio, l’offensiva e la controffensiva delle Ardenne, con un collasso del morale tra di noi perché si diceva “Chissà quanto dura ancora, perché qua ci hanno ancora la forza di reagire”. Intanto le razioni continuavano di mese in mese a sfinarsi. […] Così insomma affrontammo il secondo inverno di prigionia, questo fu più duro del primo sul piano del trattamento alimentare. In generale tuttavia il disprezzo nei nostri riguardi calò, infatti se noi eravamo avviliti per il blocco delle operazioni, loro ormai, i militari del campo, avevano capito che ormai non c’era più niente da fare, era solo questione di tempo, divennero allora più malleabili, nel senso che di brutalità non ne fecero più. A proposito di questo bisogna dire che quando eravamo ancora a Sandbostel, vi furono alcuni casi di gente uccisa ai reticolati, non molti casi però. Nel campo dove ero io ci furono tre casi, e anche prima a Deblin un altro, quindi quattro casi. Tutti poi, per motivi non proprio legati a tentativi di fuga: non era gente infatti che voleva veramente superare il reticolato ed andarsene. I fatti sono da attribuire al nervosismo delle sentinelle che magari quel giorno erano “di traverso”. Non so, ad esempio, uno aveva appoggiato l’asciugamano dopo essersi lavato sul filo di avviso prima del reticolato e la sentinella lo aspettò quando andò a riprenderlo e tirò su di lui. Quello fu un vero omicidio fuori dalle regole, infatti credo che venne processata quella sentinella. I trattamenti dei malati, etc erano poi piuttosto ruvidi. Nel tardo ‘44 tuttavia cominciarono ad essere più moderati con noi. Arriviamo così alla fine dell’inverno del ‘44: ultima fase della prigionia. Sapevamo dalle notizie provenienti ormai anche dai tedeschi stessi che il fronte si avvicinava. Seguivamo questo movimento sulle cartine che ci eravamo fatti noi stessi traendole da libri. S’era costituita una bella biblioteca nel campo con tutto quello che queste 15.000 persone si erano portate dietro, c’erano le cose più strane, dai classici ai fumetti, da trattati di archeologia o di astronomia a libri in varie lingue, si era messo tutto insieme e si poteva andare a prendere qualcosa da leggere quando si voleva. Cominciò il nervosismo dell’ “arriveranno fra poco”, ma arrivò anche l’ultima doccia fredda: il comando tedesco diede ordine di approntarsi per la partenza. Ma dove potevamo andare? Lo spazio era ormai limitato. Quello che ci dette la sensazione un po’ di tragedia fu che ci dissero: “Lasciate tutto quello che avete e portatevi dietro solo quanto può stare in spalla in un sacchetto molto piccolo perché ci sarà da camminare”. Poi divisero i blocchi e effettivamente venimmo poi a sapere che l’intenzione del comando era di eliminare i prigionieri. Però questo da nessuna parte è stato fatto perché gli stessi tedeschi ormai si redevan conto che era meglio disubbidire e salvare in qualche maniera la faccia, se no sarebbe toccato poi a loro a distanza di qualche giorno o qualche settimana. Restammo un giorno in allarme pronti a partire con il nostro sacchetto poi venne invece il contrordine: si rientrò nelle camerate e restammo fermi. In aprile, cominciarono a sentirsi sempre più vicini i colpi di artiglieria, vedevamo nelle due strade non lontano dal campo passare un continuo flusso di reparti tedeschi. Da Sandbostel, nel settembre del ‘44, dopo una retata di tutti gli ufficiali effettivi in servizio permanente, ci spostarono in un altro campo in concomitanza con
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
137
l’offensiva psicologica del lavoro nelle campagne. Credevano infatti che finché fossimo rimasti nel campo noi, gli ufficiali in servizio effettivo, la resistenza sarebbe stata forte, ma si sbagliavano perché non eravamo noi il vero nocciolo duro, la resistenza più solida era invece data da altra gente, soprattutto da intellettuali e non sempre solo da militari di carriera. Il loro calcolo fu quindi completamente errato. Ci spostarono di poco, circa 30 km, in un campo per ufficiali con circa 1.000 posti dove c’erano già degli inglesi e pochi francesi. Lì arrivò dopo di noi un bel gruppo di americani presi prigionieri tra le Ardenne e le operazioni in Olanda, Arnhem etc. Li portarono dentro il campo ed avemmo con loro dei contatti anche molto stretti: infatti da un lato i tedeschi non potevano più controllare a pieno l’interno dei campi che traboccavano di gente, mentre dall’altro lato di questi americani, quasi tutti paracadutisti, una buona parte erano oriundi italiani. Questi parlavano anche qualche dialettaccio italiano e fu la nostra fortuna in un certo senso per il dopo, perché mentre gli altri, francesi e inglesi, continuavano a ricevere i pacchi della Croce rossa, che tenevano sempre tutti per sé, gli americani non li ricevettero mai, forse perché non erano previsti nel campo, e ci fu addirittura un passaggio di roba da noi a questi ultimi perché trovato l’amico del cugino o l’ex compaesano, allora quel pochettino di marmellata che arrivava una volta alla settimana lo si dava a quello che non sapeva come tirare avanti perché aveva la fame dei primi giorni. Questo ci valse il fatto che al momento della liberazione il colonnello americano che prese il comando dell’ex campo si impegnò a trattarci allo stesso livello degli ex prigionieri alleati; infatti aveva visto che avevamo aiutato i prigionieri americani proprio noi che non avevamo nemmeno gli occhi per piangere, mentre i loro cugini inglesi e amici francesi non avevano fatto nulla. Avemmo subito sia un trattamento alimentare che un rispetto notevoli, tanto che l’8-9 maggio, finite le operazioni in Germania, volendo gli americani fare una parata di tutti gli ex prigionieri delle varie nazionalità in un ex campo di aviazione vicino ad Hannover, sebbene in un primo tempo gli italiani non fossero compresi, questo colonnello americano ci costrinse a formare ugualmente un battaglione misto, perché lì vicino c’era anche un campo truppa. Ci arrangiammo in una qualche maniera e così partecipammo con un battaglione di rappresentanza italiano. Torniamo alla liberazione vera e propria. Il fronte si avvicinava e un battaglione di SS prese posizione subito dietro il nostro campo. Ci aspettavamo d’essere ridotti in polpette con l’arrivo degli alleati. Tuttavia i canadesi che vennero nel nostro settore, i quali erano già stati informati, penso dalla popolazione locale della presenza del campo, evitarono di investire il settore del campo, aggirandolo. Nella notte successiva questo battaglione di SS ripiegò e la mattina arrivarono carri armati canadesi nel campo. […] Il passaggio dei poteri fu incruento e il comando italiano si dette molto da fare per evitare sia qualsiasi atto di vendetta verso questi poveracci, tedeschi mezzi vecchi e strampalati che erano lì. […] Cominciarono ad andare via con vari convogli prima francesi, belgi e olandesi, quelli più vicini, poi andarono via gli jugoslavi, naturalmente inglesi e americani erano stati i primi a partire, restammo infine noi e una quantità di russi. Visto che questi grossi campi tra Wietzendorf e Sandbostel dove eravamo noi, si stavano svuotando, gli alleati li riempirono con ex prigionieri russi rastrellati in giro. Li misero in questi campi
138
G. PROCACCI (a cura di)
in attesa del loro rimpatrio; vennero anche le loro commissioni di inchiesta, diciamo, che dovevano interrogarli uno per uno per farli rimpatriare. La presenza dei russi fu per noi un guaio, perché questi con tutto quello che avevano subito erano diventati aggressivi anche nei riguardi di quelli che non c’entravano come noi, aggressivi nel senso che tutto quello che vedevano lo volevano prendere loro come per esempio i pochi orologi che si erano salvati dagli scambi per il pane etc. […] Finalmente venne il giorno del rimpatrio, da lì prima con autocolonna di mezzi americani fummo portati fino in Baviera dove subimmo un primo spidocchiamento, nei due giorni di sosta ci diedero anche dei medicinali, poi con convogli ferroviari raggiungemmo il Brennero e arrivammo a Pescantina, la piattaforma di smistamento di tutti gli ex internati che ritornavano.[…] BRUNO GENERALI - 1921 - Modena - Ufficiale Ero partito per il servizio militare in fanteria nel dicembre ‘41 dopo che l’anno prima avevo avuto la revoca della chiamata perché facevo l’ultimo anno delle magistrali. In quanto diplomato ero stato subito inviato a Vipiteno a fare un corso allievi ufficiali senza aver chiesto niente. Dov’era l’8 settembre 1943? Il 5 settembre 1943 per disposizione del Ministero della Guerra mi presentai al deposito del 58° reggimento fanteria motorizzata di Padova e presi servizio. […] Arrivato a Padova presi un quaderno e iniziai a tenere una specie di diario. Il mio diario finì nel momento in cui venni catturato dai tedeschi. Non perché loro mi abbiano impedito di scrivere ma perché io non sentivo più la necessità di farlo. Per tutto il periodo della prigionia io non ho più scritto neanche una riga. […] Quali sono state le vostre reazioni alla notizia dell’armistizio? Secondo me siamo rimasti quasi insensibili. Non ci siamo resi conto… Eravamo abituati a subire gli avvenimenti. Cioè mancavamo, con il senno di poi e l’esperienza di una vita vissuta, di un senso critico che ci permettesse di analizzare gli avvenimenti. […] Al momento dell’armistizio nella caserma vi sono pochi ufficiali quasi tutti anziani, perché si trattava di un deposito. Erano quasi tutti padovani, del posto quindi. Catturati dai tedeschi siamo rimasti la notte tra il 10 e l’11 settembre nella nostra caserma, poi i tedeschi ci trasportarono con dei camion dalla caserma di Santa Giustina che era in Prato della Valle in una caserma dell’artiglieria che era da un’altra parte. […] Raccogliemmo così un po’ di roba che ci portammo dietro quando il 12 settembre un reparto tedesco ci raccolse nel cortiletto e fattici salire su un camion ci condusse alla stazione ferroviaria. Ci costrinsero a salire su un treno per la Germania. Lungo il tragitto, prima di varcare il confine italiano il sottotenente S. R. nella notte fra il 12 e il 13 settembre riuscì a scappare. […] Lungo il viaggio, la popolazione della zona fa di tutto per ritirare da noi dei bigliettini da mandare poi ai nostri a casa. Anch’io riuscii a mandare due biglietti scritti da me, gentilmente trasmessi da persone sconosciute.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
139
[…] Erano specialmente donne, si avvicinavano ai nostri portelloni aperti e ci passavano dei pezzetti di carta con matite dicendoci di scrivere e di mettere sopra l’indirizzo di casa, loro avrebbero pensato a spedirli. […] La fame per fortuna non si faceva sentire perché fino a Trento le popolazioni che avevamo passato ci avevano stracaricati di roba da mangiare. Sempre con i vagoni aperti, attraversiamo tutta la Germania fino ad arrivare a Wietzendorf, vicino ad Amburgo. Quello è il primo campo che facciamo. È un campo di smistamento enorme. Come primo impatto ci dicono che lì sono morti 60.000 russi [sic] . […] Lì abbiamo il primo trauma delle baracche. Sono baracche dove entrando sembra di entrare in una caverna buia, nera con degli scaffali, questa la prima impressione, di quelli che si riveleranno essere i nostri castelli. Io almeno avevo già fatto l’esperienza dei castelli quando ero stato alla scuola allievi ufficiali a Vipiteno, ma quelli lì a quattro piani, tutti stretti neri e sporchi come chissà cosa, sembravano loculi funerari. […] Ricordo che il problema fame si faceva sentire sempre più. La cucina dove preparavano il nostro mangiare era così strutturata per i due terzi reparto cottura e per un terzo deposito per i barili con la zuppa che veniva poi portata alle diverse baracche. Visto che qualcuno riusciva ad infilarsi dentro e con la gavetta in mano, attraversato di corsa il reparto cottura, la riempiva nei bidoni per poi scappare fuori, anch’io ci provai una volta o due. Ma il sergente tedesco si accorse di quello che facevamo e dovemmo smettere. Un pomeriggio, mentre eravamo lì, ci hanno radunati, non so quanti eravamo, solo ufficiali penso, in un campo rettangolare col fondo di sabbia tutto circondato da reticolati. In un angolo c’era un gruppo di persone tra cui uno in divisa da fascista. Lì vicino c’era una fossa e di fianco dei tedeschi armati. Noi siamo stati fatti schierare tutti al di là della fossa. Questo signore ci ha fatto un discorsetto per convincerci a tornare in Italia dicendoci che sarebbe stato ricostituito l’esercito italiano. […] I tedeschi che erano con lui non dissero niente. Chi era d’accordo doveva saltare il fosso. Per quello che ho visto io, soltanto un capitano saltò il fosso e si avvicinò a questo signore. Il fascista gli allungò la mano forse per complimentarsi con lui ma il capitano gli ha sputato in faccia. L’hanno preso e l’hanno portato via. Non so chi fosse e che fine abbia fatto. […] Questo fatto mi è rimasto impresso. In quel campo lì, ricordo, che dopo pochi giorni un reggimento di granatieri disarmato entrò completamente in ordine con il colonnello in testa, venivano dalla Grecia. […] Secondo “radio scarpa” avevano consegnato le armi perché i tedeschi avevano garantito al colonnello che sarebbero stati tutti rimpatriati in Italia. Le truppe che erano oltremare in Grecia e in Jugoslavia erano operative, loro sì che potevano fare resistenza, quelle invece che erano in Italia erano fatte di richiamati e non avevano la potenzialità bellica di poter contrastare i tedeschi. Anche perché i tedeschi si erano preparati da tempo. […] Nessuno sapeva niente. Nessuno poteva prevedere come saremmo stati trattati. Non eravamo neanche disperati, almeno a livello mio personale io non mi disperavo. Vivevamo la realtà in una maniera passiva. Le parole di quella persona non ci hanno minimamente toccato. Eravamo completamente passivi. […] Le condizioni del lager erano miserevoli, ma non abbiamo subito angherie da parte dei tedeschi: non avevamo contatti con loro perché le
140
G. PROCACCI (a cura di)
guardie stavano fuori dal campo. Noi dell’esterno poi non vedevamo niente. Da Wietzendorf, sempre coi vagoni aperti, siamo stati portati a Deblin Irena, al 307, a Deblin c’era una fortezza polacca enorme con muri di 10-12 metri. La parte interna della cittadella era stata divisa in rettangoli in corrispondenza dei vari blocchi. C’erano delle baracche anche all’esterno. Lì siamo stati fotografati con il numero di matricola e poi ci hanno perquisiti per la prima volta e fatto la disinfestazione. Ci hanno anche visitati e fatte delle punture. Infine ci hanno sistemati in baracche dentro la fortezza in castelli a due piani. Dove eravamo noi c’era pulizia anche perché c’era poco da sporcare. Ci davano della torba da bruciare dentro degli stufoni enormi, ma io ero dall’altra parte e per me la stufa non esisteva. Ero sempre con il mio amico R. M. Io e lui siamo stati catturati assieme e poi siamo sempre stati assieme fino all’agosto del ‘44. Il nostro abbinamento era molto strano perché avevamo due caratteri completamente opposti però ci integravamo l’uno con l’altro. […] Facevamo due appelli al giorno che consistevano nello schierare tutti gli ufficiali del blocco fuori all’aperto anche con 20 cm di neve e il ghiaccio fin che il sergente tedesco non aveva voglia di farci rientrare. […] Un’altra volta il comandante del campo ci chiese se gli ufficiali più giovani erano disponibili ad andare a lavorare in cucina per tutto il blocco: non per i tedeschi ma per noi stessi. […] Dietro la sollecitazione del comandante del campo io accettai subito: quello non era lavorare per i tedeschi. […] R. invece non accettò, non se la sentiva assolutamente, forse si vedeva minorato accettando quell’incarico. Lui piuttosto mi teneva in ordine la mia roba, lavandomi anche i vestiti. […] Avendo accettato di andare in cucina la mia situazione alimentare era alquanto migliorata. Mi hanno dato un paio di zoccoli che sono stati la mia salvezza perché dovevamo stare nell’umido tutto il giorno. Andavamo a lavorare alle 4 del mattino e ci stavamo fino alle 11 di sera. Io portavo una gavetta di quella sbobba lì al mio amico R. In un secondo tempo si è convinto anche lui a venire a lavorare in cucina. […] Il 5 era passato un reparto di ufficiali italiani che cantavano “Giovinezza”, e noi come li abbiamo sentiti gli abbiamo detto della roba da chiodi. Il giorno dopo noi fummo il primo blocco a partire da lì, ma forse questa è stata una coincidenza, perché nessuno ci ha mai chiesto niente. Ci hanno caricato su dei camion e ci hanno portati in stazione e lì è iniziato un duro viaggio. C’erano dei 16-17 gradi sotto lo zero. Siamo saliti su un piccolo vagone di ferro in 40-45. C’era una stufa nel mezzo ma… faceva freddo, io avevo con me una coperta. Poi ci hanno attaccati ad un treno che veniva da un altro campo, forse Przemysl, e non ci hanno né detto né dato niente. Non si faceva che urlare: “Wasser! Brot! Wasser! Brot!”. Siamo così rimasti tre giorni senza mangiare dopodiché siamo giunti a Varsavia. Chi tra di noi capiva il tedesco, ascoltando le guardie parlare, intese che eravamo rimasti senza cibo né acqua perché loro credevano che ci avessero già dato le nostre razioni alla partenza. Invece al nostro campo non ci avevano dato niente. […] Tutti i viveri mangiati dopo tre giorni di digiuno e il freddo hanno causato quasi subito una forma di dissenteria collettiva. […] Il vagone era chiuso e l’unica apertura era un pertugio delle dimensioni di una cartolina da cui noi buttavamo fuori i nostri escrementi che ci passavamo
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
141
nelle scatolette di carne vuote uno a uno. L’odore era insopportabile, ma sopportavamo lo stesso. Cercavamo di evitare gli isterismi e la disperazione. […] Arrivando abbiamo iniziato a vedere delle torrette e degli edifici in muratura. Erano il campo di prigionieri francesi, il campo di prigionieri inglesi e il campo dei prigionieri americani. C’era gente che suonava, cantava, rideva, etc. Pensandoci adesso, quello doveva far parte di un piano di destabilizzazione fisica e psichica. Finito di fare tutto il giro, noi eravamo contentissimi perché vedevamo che la gente lì stava bene: “Mamma mia dove siamo venuti a finire!”. Anche se noi venivamo da Deblin Irena Fortezza dove la condizione non era poi così dura… Eravate solo ufficiali? Si, solo ufficiali e tutti di complemento. Gira e gira abbiamo abbandonato questi campi bellissimi e per un terreno sabbioso siamo arrivati a dei baraccamenti di legno. La mia baracca aveva il pavimento in terra battuta. C’era un freddo cane. Non ci hanno dato da mangiare e ci hanno tenuto lì tutta notte. Ricordo che un mio caro amico, il tenente B. di Brescia, si è steso vicino a me con una copertina da campo che si era portato dietro. Avevamo solo quello che ci eravamo portati dietro; i tedeschi non ci hanno dato niente. A Deblin ci avevano dato delle coperte ma prima di partire ce le avevano ritirate. Eravamo arrivati nel campo dei russi, questi venivano trattati come delle bestie. Abbiamo visto una sistemazione di gente completamente diversa da quella che avevamo visto appena arrivati negli altri campi con francesi, inglesi e americani. […] Dopo la perquisizione ci hanno fatto fare la doccia e la disinfestazione. Ti mettevi in fila e ti portavano in un locale dove c’era un corridoio, lì ti dovevi svestire completamente ed attaccare i tuoi abiti a un attaccapanni che i russi venivano poi a ritirare con dei carrellini per portarli alla disinfestazione. Da lì si accedeva al locale della doccia e a quello della disinfestazione. Entrati nella doccia c’era un tedesco che con un tubo ti sparava addosso un getto d’acqua fredda gelata e poi bollentissima, poi di nuovo fredda. Nudi andavamo in un altro stanzone con delle stufe non accese e là aspettavamo per tre ore finisse il ciclo della disinfestazione. Quello stesso tedesco oltretutto si divertiva ogni tanto ad aprire la porta collegata con l’esterno ed arrivavano delle ventate d’aria gelida; in gennaio e febbraio ad Hammerstein c’erano 15-16 gradi sotto zero. […] Da quel momento non abbiamo più visto prigionieri francesi, americani o inglesi. Coi russi invece noi avevamo quasi i gabinetti in comune, perché da un lato ci andavamo noi mentre loro andavano dall’altro; non erano chiusi ma solo delimitati da del filo spinato, noi li chiamavamo i pollai. Lì si riusciva a fare degli scambi: pane, orologi, etc. La cucina era invece nel mezzo del nostro campo. Non era come a Deblin Irena dove con una tinozza si portava la sbobba ai blocchi. Per andare a prendere da mangiare, bisognava uscire dalla baracca e fare una fila lunghissima per prendere il cibo e anche per tornare in baracca a mangiare. L’attesa per ricevere quei 300 grammi di acqua con due grammi di sale e un po’ di barbabietola durava a volte delle ore e addirittura. Facendo la fila vedevamo giorno e notte uomini, donne e bambini che per ore e ore aspettavano di avere il rancio; da dove venissero e dove dormissero o andassero non lo so, penso però che fossero deportati russi civili. In certi periodi ho visto la cucine funzionare 24 ore su 24.
142
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Il nostro lavoro quotidiano era di prendere la carta che avevamo e di scrivere delle ricette. La notte questo produceva i suoi effetti: io mi sognavo esclusivamente il mangiare, non mia madre che mi abbracciava, ma mia madre che mi preparava da mangiare. Mi svegliavo con tutta la bocca impastata di sangue perché mi mordevo le labbra e la lingua. Durante il giorno non mi è mai venuto il ricordo di mio padre o di mia madre, né parlavamo delle nostre famiglie. Scambiavo delle lettere con casa, ma ci voleva molto tempo. […] Ad Hammerstein non si parlava di liberazione o di politica, si parlava soltanto di mangiare. Loro non facevano altro che raccontare. […] C’era quello che misurava il pane, lunghezza e larghezza, quello che teneva il registro dei “culetti”, le due estremità con la crosta della pagnotta che venivano assegnate a turno, quello che segnava le fette e quello che le tagliava, con un coltellino o una stecca di legno presa da un castello e affilata come un seghetto. Tutta la camerata partecipava, anche non direttamente, a questa operazione di misura, taglio. Le fette poi venivano pesate con bilancine di precisione costruite con materiale di fortuna; le briciole che restavano lì venivano divise nelle 8 parti in modo che non ci restasse neanche un granello di niente. Ma l’operazione era finita: ci voltavamo tutti in modo da non vedere le fette e uno diceva: “Questa qui chi la vuole?” Il primo che apriva bocca se la prendeva senza averla però vista prima. […] Un giorno i tedeschi attraverso il nostro capo baracca ci avvertirono che ci sarebbe stata la possibilità di andare a lavorare secondo le nostre capacità in un grosso complesso bancario [probabilmente il termine fa riferimento a bunker]. […] Ad Amburgo, avevano bisogno di 450 uomini. Il mio comandante di baracca senza coercizione alcuna da parte dei tedeschi mi disse che io e M. essendo giovani dovevamo approfittare dell’occasione se volevamo tornare a casa e rifare l’Italia. Sembra una frase retorica ma lui la disse proprio con convinzione. Di firme non ricordo di averne fatte ma loro hanno certamente fatto degli elenchi con i nostri due nomi. Fatto questo io e R. siamo stati messi nella seconda parte o sezione sempre della nostra stessa baracca assieme a degli altri che avevano aderito a questa richiesta. […] Dopo che abbiamo accettato ci hanno trasferiti in un altro reparto. Ma nessuno ci ha chiesto di optare. Siamo andati a finire in una baracca che era l’ultima prima del reticolato che separava il nostro campo con un campo di addestramento di una scuola di allievi ufficiali o sottufficiali. […] Davanti alla nostra baracca spostata lateralmente di 3-4 metri c’era quella degli optanti. Come fossero diventati optanti io non lo so dire. Loro avevano optato per la Repubblica sociale o per l’esercito tedesco. Noi li chiamavamo optanti. […] Non erano in un gran gruppo: saranno stati una decina, una quindicina. Una mattina dovevo fare pipì e allora sono andato dietro la mia baracca. Mentre stavo tornando indietro, passai vicino alla baracca degli optanti e un tenente dei bersaglieri fece un cenno ad un tedesco che stava arrivando con i cani indicandogli quello che avevo fatto, cioè che era andato là dietro a pisciare. […] Nel pomeriggio venne un soldato a chiamarmi al comando del campo e mi fece prendere dietro le coperte che avevo perché dovevo andare a scontare 5 giorni di camera di punizione. Eravamo in tutto sei a dover
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
143
scontare una punizione. Lì è stata la prima volta che ho visto il fiduciario del campo il capitano C., un uomo di carità cristiana incredibile che ci diede un pacchetto di sigarette e delle coperte. La guardia ci portò nel campo russo e lì c’era una stanzina che sarà stata un metro e mezzo per due e mezzo e noi eravamo in sei. Il pavimento era in terra battuta e le pareti in muratura con una finestra abbastanza grande, da cui ho visto per la prima volta tutta la fantasmagoria di razze che erano i russi. Le porte erano pezzi di legno inchiodati ed appoggiati contro la parete, attraverso delle fessure si potevano vedere l’entrata e il corridoio su cui davano le altre celle. Stando lì, le coperte ci bastavano, solo facevamo fatica a stare in piedi, e allora ci siamo messi seduti su uno strato di coperte tenendoci addosso quelle che ci potevano servire per la notte. Eravamo stretti stretti, io seduto addirittura coi piedi toccavo la parete di fronte a me. […] Mentre eravamo sempre in quel campo in attesa di andare a lavorare, il campo di fronte al nostro venne adibito a lazzaretto per i soldati russi affetti da tifo petecchiale. I russi tutte le mattine portavano dentro i loro malati su un carro e dopo averli scaricati, quelli nelle baracche che erano ancora in forze aiutavano a caricarci sopra quelli che erano morti durante la notte. Quello stesso carro noi poi lo utilizzavamo più tardi per andare a ritirare il pane. I tedeschi non si facevano neanche vedere perché avevano paura del tifo petecchiale. […] Dopo un po’ quel campo lì venne disinfestato e dopo ci venivano a passare la quarantena i soldati americani che venivano catturati sul fronte italiano. Noi vedevamo della gente vestita bene, tutta in salute che non faceva altro tutto il giorno che giocare a baseball. In quel periodo si alternavano giorno e notte lunghe e interminabili colonne di civili russi o ucraini. […] Qualche tempo dopo arrivò per noi l’ordine di partire per una scuola di apprendistato a Frauendorf, una piccola località vicina a Stettino. Siamo partiti in 110, mi pare, ed alcuni altri ci hanno raggiunti dopo. Quando siamo arrivati abbiamo trovato un piccolo campo con delle baracche, tutto era pulito e ordinato; c’era anche un bel cortile. Abbiamo potuto fare subito delle docce e rimetterci in ordine. Poi ci hanno portati in fabbrica dove eravamo stati divisi in gruppi sparsi per tre-quattro reparti per poter imparare i diversi mestieri: limare, segare, usare la fresa, il tornio, molare le punte dei trapani, etc. Abbiamo iniziato a lavorare. Anzi, noi lavoravamo per imparare a lavorare e diventare operai specializzati. Ricordo che un medico italiano che si trovava nel nostro campo venne mandato a lavorare presso una casa di cura privata. Lì la fame è scomparsa, mangiavamo a tavola, mentre prima ad Hammerstein non avevamo nella baracca nemmeno quella. Si mangiava bene, pastasciutta con zucchero e garofano dentro. […] L’alloggio era pulito e ordinato. Ci avevano dato una tuta per il lavoro, ci permettevano di fare una doccia tutti i giorni quando rientravamo dalla fabbrica e ci lavavano anche la biancheria. C’era un guardiano che ci controllava e non ci lasciava uscire in tuta, dovevamo rimetterci le nostre uniformi. Potevate uscire? Sì. Noi avevamo un permesso che ci permetteva di uscire dal campo e dalla fabbrica solo per poter girare per le strade dalle 18 alle 21. Dovevamo però uscire in divisa, ma non tutti l’avevano. Allora ci si metteva
144
G. PROCACCI (a cura di)
d’accordo e ci si prestavano a vicenda pantaloni, scarpe, giacca e in questa maniera si poteva andar fuori vestiti decorosamente. Io portavo la bustina di R. mentre lui se ne era fatta una, assolutamente non regolamentare, utilizzando quanto avevamo ancora di quella stoffa che avevamo preso in caserma a Padova. […] Più avanti, fuori ci siamo accorti che a Stettino c’era un distaccamento di ufficiali italiani che avevano optato o per la Repubblica sociale italiana o per l’esercito tedesco. Contatti con loro non ne abbiamo mai avuti. Li vedevamo girare in tram e poi entrare in tutti i locali e soprattutto nelle gasthaus e nei gasthof dove ti davano una birra, una zuppa, quattro patate e un’aringa. Avevamo anche notato che quando entravano se c’erano delle SS facevano il saluto heil Hitler! Visto ce n’erano di quelli che avevano ancora i gradi sul polso, decidemmo di approfittare della confusione per intrufolarci. Noi andavamo dentro nei locali e heil Hitler! Ci sedevamo e mangiavamo perché avevamo un po’ di soldi per pagare. […] Mi può parlare del suo lavoro? Lavoravamo per imparare. Ci insegnavano dei vecchi tedeschi esperti. Il mio reparto era il reparto di schlosser, aggiustatore meccanico, imparavamo ad usare lima, sega, trapano, etc. C’era un’atmosfera di serenità. Lì ci hanno sempre trattati bene. Avevamo anche quattro ore alla settimana di lezioni di tedesco. Veniva ad insegnarci un professore che come immagine sembrava un angelo: lui ci insegnava il tedesco in latino perché voleva imparare l’italiano. […] Lì si mangiava bene. Avevamo dei cuochi tedeschi nella cucina molto bravi, ma prima della liberazione ne cambiammo però tre perché vennero scoperti a rubare della roba che spettava a noi. Ci dissero che erano stati tutti e tre spediti dietro le linee del fronte russo a scavar trincee. La lavanderia era mandata avanti da marito e moglie russi che ci lavavano e stiravano i vestiti. Restammo in quella fabbrica-scuola là tre mesi. Stettino era già stata bombardata più volte; la zona industriale e il porto erano stati quasi completamente distrutti, ma dove eravamo noi non era ancora caduta una bomba. In una notte di agosto suonò l’allarme e noi ci rifugiammo in un riparo che ci eravamo costruito nei giorni precedenti. Bombardarono da noi e fu tremendo: sembravano 3.000 apparecchi. […] Usciti dal rifugio e vista la distruzione tutt’intorno decidemmo di scappare lungo la strada. Tutte le case bruciavano, i binari dei tram erano divelti e i tram erano rovesciati, sulla destra, sulla riva dell’Oder dove c’erano caffè e locali di intrattenimento per le truppe tedesche tutto bruciava. Dall’altra parte dell’Oder c’era un porto dove venivano caricate delle munizioni per la Finlandia: tutto bruciava. Improvvisamente ci saltò davanti un tedesco con una rivoltella in mano che ci condusse alla sua casa che stava bruciando, voleva che spegnessimo l’incendio. Ma, fatto per entrare lo spingemmo contro la porta e fuggimmo. Dopo due ore ci siamo trovati a sei-sette km dalla periferia di Frauendorf e da lì abbiamo iniziato a vagare tra i profughi. Più di una volta abbiamo rischiato di farci fucilare perché quando trovavamo un posto di ristoro facevamo la fila più volte mentre si poteva andarci solo una volta. Per non farci scoprire ci scambiavamo le gavette e le giacche delle divise. […] Lì a Stettino facevano dei motori di aereo e ci sono stato dai primi di settembre fino a quando i russi sono arrivati vicino a Stettino e noi siamo scappati ad Arnswalde, e lì è stata l’ultima volta che ho mandato una
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
145
lettera a casa. Ricordo questo particolare, siamo scappati in un gruppo, perché ormai la fabbrica era chiusa a causa dei bombardamenti. […] […] Andavamo verso Amburgo da soli, ci avevano detto di andare di là. Finché ne avevamo abbiamo mangiato della roba nostra, poi finché eravamo in zona di bombardamenti c’erano dei punti di ristoro per i tedeschi, noi eravamo vestiti con abiti civili, cercavano di parlare il meno possibile. Abbiamo attraversato una strada controllata dalle SS e quelli che erano con me sono stati zitti e lasciavano parlare me, comunque ci hanno lasciato passare. […] Comunque dopo tre giorni che non mangiavamo siamo arrivati in un paesino verso le otto del mattino siamo andati a cercare un posto dove potere dormire. Abbiamo trovato una donna altoatesina che parlava italiano, ci ha offerto di dormire nella stalla, purché ce ne andassimo entro le sei, orario in cui il marito sarebbe rientrato. Abbiamo dormito nonostante le esalazioni. Da mangiare non ce ne ha dato. Da lì abbiamo continuato, fino ad un posto di raccolta e siamo arrivati a 15 km dall’Elba dove c’era la linea degli americani. Lì un ciccione alsaziano ci ha ritirato il documento che ci avrebbe permesso di continuare. In quel posto ci hanno dato da mangiare. Il mattino dopo ci hanno messo in fila e ci ha fatto rifare la strada e ci ha portato in una cittadina che si chiamava Neuruppin e ci ha portato all’ufficio di collocamento. Lì ci hanno messo a lavorare in un garage. Eravamo in cinque o sei. […] Sapevamo che i russi erano vicini però non abbiamo mai pensato di andare verso di loro. […] Comunque, a Neuruppin il lavoro non era così pesante. Ci portavano i trattori da aggiustare. Quel francese che lavorava con me lì riportava anche indietro, e verso la fine, si vede che si era preparato la fuga, riportando un trattore non è più tornato, ma ormai c’era lo sfacelo evidente. Lì poi quando siamo stati a Neuruppin la domenica, siccome ci avevano detto che c’erano di civili italiani in zona, siamo andati a fare un giro. Abbiamo trovato la fattoria dove lavoravano questi italiani. […] I tedeschi non avevano più contraerea per cui bombardavano di giorno, vedevamo le bombe venire giù lucide e fiammanti. Da noi non sono mai venute. Lì avevamo conosciuto un soldato di Mantova che era finito a lavorare in una trattoria, quindi aveva sempre da mangiare. L’ultimo bombardamento che hanno fatto hanno colpito il campo di aviazione, poi c’era una strada e la gasthof sarà stata lontana 700-800 metri da dove bombardavano. Lui era andato nel rifugio, una bomba lo ha colpito ed è morto. Io mi rammarico di non aver mai saputo come si chiamava, perché mi aveva detto: “Tenente, io vado in rifugio perché ho moglie e una bambina a casa”. L’ultimo bombardamento. Dopo quel bombardamento ho lasciato il gruppo che era con me e sono andato con i civili italiani che erano nella fattoria. Loro avevano scavato un rifugio. C’erano anche dei deportati russi, anche dei bambini, c’era lo chef che era un ferrarese ed aveva la sua donna che era la capo di questi russi qua. La fattoria era grossa, era di un ambasciatore, ma non l’abbiamo mai visto. Noi eravamo a lavorare in campagna a piantare patate con un sistema che se pioveva prima delle otto si stava a casa altrimenti si restava a lavorare anche sotto la pioggia. […] Durante la notte le pattuglie delle SS e poi le pattuglie dei russi passavano proprio di lì. Io mi ero coperto con dei giornali e con della terra
146
G. PROCACCI (a cura di)
sopra e una vanga in mano, mi aveva aiutato un vecchio russo che poi verso la mattina mi è venuto a chiamare perché i russi erano arrivati. Allora siamo andati a vedere, io mi sono trovato davanti un soggetto alto 2 metri con due spalle così e con un mitra in mano e dito sul grilletto che parlava con il russo. Ad un certo momento gli ha chiesto se ero karasciò che vuole dire buono, allora mi sono lasciato andare e ho cominciato ad abbracciarlo. […] I russi ci mandavano verso la loro zona, non potevamo andare verso gli americani. Io ero lì l’unico militare. Avevamo preso un carro con due buoi, un qualche sacco di farina e siamo partiti, abbiamo fatto 150 km a piedi. Un bue lo abbiamo ucciso e uno poi lo abbiamo venduto. Andavamo a dormire nelle case disabitate. Una volta tornando ho trovato nel mio letto una zebra, cioè un deportato che veniva da Bernau, dove c’era un campo di sterminio. Perché le zebre erano i deportati politici. Un ragazzo che avrà avuto 16 anni, era un francese, e quando lo abbiamo trovato non aveva neanche la forza di parlare. […] Io non ne avevo mai visti, sembrava un cadavere. Lo abbiamo caricato su di un carretto e lo abbiamo portato in un ospedale civile e dopo 2 o 3 giorni si stava riprendendo. In ospedale lo hanno accettato. Lui non era in condizione di poter parlare. Poi abbiamo proseguito e strada facendo abbiamo trovato degli altri gruppi, noi avevamo un cavallo che avevamo ottenuto in cambio dell’ultimo bue. C’era un ponte e c’era una colonna di russi che veniva in un senso e una dell’esercito polacco che veniva nell’altro e hanno cominciato a spararsi addosso perché nessuno voleva cedere il passo agli altri, e i russi si sono ritirati. L’odio era dovuto a quando i russi si erano spartiti la Polonia con i nazisti. Non so come sia successo, fatto sta che pian piano io sono diventato il capo di questa crescente colonna di uomini, che era diventata di 250 uomini. La cosa strana è che sono stato costretto a salire su di un loro mezzo che fosse tirato o da uomini o da muli, comunque hanno voluto che ci salissi sopra, non so perché. Erano tutti soldati italiani, io ero l’unico ufficiale. Con tutta la propaganda tedesca contro gli ufficiali italiani… Quando siamo arrivati a Bukow avevano un gruppo omogeneo con una sua gerarchia liberamente accettata, con tre sottufficiali ed il sottoscritto. Bukow era un paese come Salsomaggiore, dopo lì eravamo in 17.000, in questa cittadina stupenda. Tutto pieno di italiani che suonavano il piano perché lì ogni casa aveva il piano. Prima di entrare nel paese la colonna si è fermata e noi 4 siamo andati al comando dove abbiamo trovato un sottufficiale che comandava il campo, secondo me di origine jugoslava, allora gli ho chiesto se ci fosse un altro ufficiale. C’era un tenente effettivo ma era in cattive condizioni di salute. Allora sono tornato dal sottufficiale e gli ho detto che avrei preso io il comando. Ci hanno assegnato una strada per sistemare la colonna. Tutti 4 siamo andati a vedere, perché dormivamo nelle case, dei tedeschi non c‘era neanche l’ombra. […] ALBERTINO GHIRARDELLI - 1923 - Ravenna - Soldato Dove si trovava l’8 settembre e con quali mansioni? Mi trovavo in Grecia. Soldato?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
147
Si, soldato. Hanno sempre voluto darmi i gradi ma io non li ho mai voluti. Perché? Perché sì. Per libertà. Ero autiere a Nauplia nel Peloponneso, autista del generale Caracciolo. […] Come viene informato dell’armistizio dell’8 settembre 1943? Dalla radio la sera stessa dell’8 settembre 1943. Le sue reazioni? Mah, stavo mangiando un grappolo d’uva… Cosa accadde? Ci organizzammo e facemmo prigionieri tutti i tedeschi. Noi italiani avevamo dalla nostra la sorpresa e il fatto di avere l’artiglieria che dominava la città. […] I tedeschi erano più di noi ma la sera dell’8 settembre erano quasi tutti al cinema e così alle 10 erano tutti disarmati e prigionieri. […] C’è però un fatto: a mezzanotte eravamo prigionieri noi. Sono arrivati dei rinforzi tedeschi da fuori e ci hanno fatti prigionieri. […] La nostra artiglieria dominava la strada da cui arrivavano i rinforzi e poteva spazzarli via tutti, il capitano della batteria voleva sparare, ma alla fine non hanno sparato e così ci hanno catturati. Dopo averci fatti prigionieri siamo rimasti ancora a Nauplia una decina di giorni poi ci hanno mandati ad Atene dove siamo rimasti ancora quattro-cinque giorni prima di essere caricati su una tradotta. I tedeschi nel frattempo ci avevano ritirato un fracco di capi di vestiario e gran parte del corredo. Ad Atene c’erano anche gli italiani di Cefalonia. Erano su un tetto di una specie di palazzetto. Nessuno poteva avvicinarli, avevano fame e sete e noi gli passavamo viveri con delle corde che loro calavano con legate le loro gavette. Come vi trattano i tedeschi dopo la cattura? Bene. I tedeschi ci davano da mangiare. Quando ci hanno caricati sulla tradotta ci dicevano che ci avrebbero mandati in Italia. […] Dove vi hanno portati con la tradotta? Attraverso Albania e Jugoslavia ci hanno portati fino a Vienna dove però hanno chiuso i vagoni piombati. Fino ad allora eravamo stati “liberi”: passavamo dalle città serbe dove i serbi ci vendevano polli e roba da mangiare in cambio dei nostri indumenti. Ci invitavano poi ad andare con loro probabilmente per andare a fare i partigiani. C’era solo una guardia tedesca per vagone e stava sopra il tetto. Nessuno di noi cercò di scappare anche perché credevamo di essere diretti in Italia. Dopo Vienna invece ci hanno portati ad Hammerstein. […] Ci mettono dentro delle baracche con dei letti a castello. Il primo giorno ci hanno sistemati. Il secondo giorno ci danno da mangiare una brodaglia di rape, io non so come abbia fatto ma sono riuscito a prendere due volte il rancio poi avevo anche da mangiare con me perché mi ero portato dietro un grosso filone di pane che durante una sosta in una stazione avevo barattato in cambio di calzini. In quel campo sono riuscito sempre a prendere da mangiare, anche due volte, perché i tedeschi vogliono sempre l’ordine e noi italiani siamo un po’… Io avevo deciso di essere sempre l’ultimo della fila però alla fine ero sempre il primo perché i tedeschi quando vedevano che davanti c’era confusione ordinavano il dietro-front e allora io mi ritrovavo primo della fila. […] La mattina ci alzavamo presto e andavamo a caricare i morti lungo la strada. Erano morti russi. Li caricavamo su un carretto e andavamo a seppellirli. Poi ci hanno fatto la foto e ci hanno dato il numero di matri-
148
G. PROCACCI (a cura di)
cola. Dopo 15 giorni iniziano a chiedere chi faceva il contadino. Io capii che era un modo per lasciare il campo e dissi di essere contadino, naturalmente per ultimo. Eravamo in 40, io ero il quarantesimo. Ci portarono a Stralsund, venti in una prima fattoria e venti in una seconda. I primi venti finirono quasi subito in Norvegia a lavorare in miniera, gli altri, tra cui io, finirono a lavorare in campagna e a fare le bonifiche lungo la costa. […] Nella fattoria raccoglievamo barbabietole dal mattino alla sera. Dormivamo in baracche riscaldate. Mangiavamo carne. Subito la carne spariva, non la vedevamo proprio, ma dopo la sostituzione della guardia c’era sempre. Di fianco c’erano i russi e la sera ci ritrovavamo spesso tutti assieme. Era aperto e loro venivano nella nostra baracca e noi andavamo nella loro. Nonostante la lingua riuscivamo a comunicare a gesti. C’erano anche francesi, belgi e polacchi. Loro ricevevano i pacchi e noi e i russi niente, niente, niente. I francesi e i belgi poi non erano neanche disposti a darci nulla. I più cattivi erano i francesi. Fortunatamente il cibo che ci davano i tedeschi ci bastava: carne, pane, margarina. E si continuava a raccogliere barbabietole dal mattino alla sera, era dura. Di notte le mani facevano male e si faticava a dormire. Eravamo in baracche da venti. Noi eravamo gli unici italiani e lavoravamo alle barbabietole da soli. Ogni gruppo di diversa nazionalità aveva un proprio lavoro. Come si svolgeva la vostra giornata? Ci alzavamo alle sette, andavamo al campo a lavorare poi a mezzogiorno tornavamo a casa a mangiare. Ci portavano dei pentoloni di minestra e c’era sempre un pezzettino di carne per ciascuno. Dopo si tornava al lavoro per tornare la sera verso le otto. In generale per quel che riguarda il mangiare, una volta alla settimana ci davano a testa una razione di margarina, pane e una specie di salame che noi poi dovevamo ripartire giorno per giorno. La sera e la mattina c’era l’appello. La guardia veniva a contarci e ci conosceva bene ormai. […] Finita la stagione delle barbabietole ci mandarono a lavorare alle bonifiche sul Baltico ad Altagen [sic], vicino a Stettino. La draghe buttava acqua, terriccio e sabbia, noi facevamo i rialzi. I terreni così si alzavano e si strappava terra al mare. Una semplice bonifica, nessuna opera militare. Appena arrivato a Stettino avevo un po’ di fame ed allora offrii la mia bella penna stilografica ad un polacco in cambio di mezzo sacco di patate. Ma quando fu il momento di caricarmelo sulle spalle per portarmelo via non andavo più, mi aiutò lui. […] Durante la settimana lavoravamo alla bonifica mentre la domenica e qualche volta il sabato andavamo a casa dei civili a spaccare la legna e a fare lavori di fatica. Loro ci davano in cambio patate, latte, uova. […] C’era una guardia sola ed era buona. […] Nessuno di noi soffrì la fame, uno però ebbe la meningite e morì. Si mangiava e si bevevano anche liquori. Il giorno di Pasqua del ‘44 eravamo tutti brilli: liquore francese tre stelle. Lì c’era la villa del prefetto e la cantina era piena di liquori. Sono venuti dei soldati a caricare delle casse di bottiglie e l’operazione di carico ce l’hanno fatta fare a noi. Ma noi pian piano nascondevamo delle bottiglie e ce le siamo bevute dopo: almeno due-tre bottiglie a testa. I tedeschi non se ne sono accorti. Andò invece male la volta dopo. Venne un colonnello e sceso in cantina riempì una carriola di bottiglie, uscito lasciò la carriola per pochi minuti e tornato la trovò senza più neanche una bottiglia. Lì avevamo esagerato. Ci
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
149
diede cinque minuti per restituirle altrimenti ci faceva fucilare. Le bottiglie saltarono fuori, ma non tutte e il colonnello non le aveva contate. […] Appena arrivati a Stettino, tra aprile e maggio 1944, vennero due-tre soldati tedeschi e un civile italiano. Questo ci chiede se vogliamo aderire alla Repubblica sociale che è nata in Italia. Noi lì sapevamo un po’ cosa succedeva in Italia perché ci arrivava un giornale italiano. Nessuno aderì. Andare in Italia significava andare a fare ancora la guerra. L’avevamo scampata e ora dovevamo offrirci per tornare in guerra per una cosa che non esisteva più? […] Come era la sua vita ad Altagen? Stavamo bene. Tutte le settimane ci pagavano con soldi e ad un certo punto, risparmiato abbastanza, davamo il denaro al nostro capo che ci dirigeva nel lavoro alla bonifica. In questo modo potevamo evitare il lavoro alla bonifica ed andavamo a lavorare a casa dei civili. I rapporti con i civili erano ottimi. Ormai in paese facevamo tutto noi. Avevamo birra e patate a volontà. Stavamo meglio dei civili e delle guardie, almeno di quelle che abbiamo avuto fino alla primavera del 1944 quando ci hanno demilitarizzati passandoci a civili; dopo non abbiamo più avuto guardie intorno a noi. Tanto per noi non cambiava niente, il trattamento era sempre lo stesso: eravamo sempre prigionieri e vestivamo sempre le stesse divise che avevamo alla cattura. I tedeschi non ci hanno mai dato vestiti nuovi. […] I vestiti erano sempre quelli che avevo in Grecia alla cattura. Anche le scarpe erano le stesse. Per fortuna però avevamo salvato i cappotti pesanti, tanto noi soldati italiani sia in estate sia in inverno avevano sempre la stessa divisa. Se avevamo bisogno di qualcosa potevamo comprarlo in paese. Poi avevamo con noi un sarto che ci faceva delle camicie bellissime e anche cravatte e fazzoletti utilizzando la stoffa dei paracadute che si trovavano ogni tanto in giro intorno al paese. In questo modo eravamo sempre ben vestiti quando uscivamo. […] I soldi ci venivano dalla paga per il lavoro in bonifica, anche i civili a volte per i lavoretti ci davano soldi. […] Leggendo i giornali e parlando con la popolazione sapevamo che i russi stavano arrivando. Poi iniziammo a sentire anche le cannonate quando i russi cercarono di passare l’Oder a Stettino. […] Sentivamo il fronte avvicinarsi. […] Una notte il cannoneggiamento fu tremendo e il giorno dopo io e F., delle Marche, andammo in paese per vedere come era la situazione. Arrivati in paese non troviamo neanche un tedesco. Poi vediamo dei soldati con la divisa color cachi. Guardiamo bene e vediamo che hanno una stella rossa: erano i russi. Dopo pochi istanti arrivò una colonna di macchine e blindati, era il generale Zukov. I russi ci vedono e ci prendono, pensano che siamo dei collaborazionisti, ma una volta che ci siamo spiegati un ufficiale viene avanti e ci dà la mano, aveva il petto coperto di medaglie. Alti ufficiali russi ci riempiono di sigarette e visto che io ero l’unico che non fumava, quando raggiunsi gli altri alla baracca le cambiai tutte con burro. Dopo qualche giorno vennero alla baracca e ci interrogarono tutti. Ci avviarono a piedi verso sud dicendo che ci mandavano ad Odessa. Partiamo a piedi e camminiamo per qualche giorno. Lungo la strada era pieno di mezzi e carri armati tedeschi abbandonati. I russi li lasciavano stare ma noi italiani quando passavamo eravamo curiosi e qualcuno ci saliva sempre sopra e così spesso moriva saltando per aria. I tedeschi infatti spesso li avevano minati prima di lasciarli.
150
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Ci portano oltre l’Oder. Dicono sempre di portarci ad Odessa ma c’è una confusione completa. I russi sono molto disorganizzati, ognuno dice una cosa diversa e i soldati sembrano comandare più degli ufficiali, è il primo che arriva che dà ordini, non il più alto in grado. Io decido allora di andarmene e tornare indietro. Con tre italiani, tre belgi e tre francesi lasciamo la colonna che si era formata e torniamo indietro. Abbiamo fatto quasi 40 km in un giorno. Ripassato l’Oder i russi ci hanno ripresi e ci hanno fatto girare nella zona per quattro mesi da un paese all’altro. Andavamo a zonzo senza meta: ci eravamo uniti ad altri italiani e cercavamo sempre da mangiare. I tedeschi erano scappati e avevano lasciato le case, però sapevamo che nascondevano la roba da mangiare che non si potevano portare dietro sotto terra. Così noi avevamo preso dei ferri e delle pale e scavavamo nei giardini. Trovavamo di tutto: barattoli di marmellata, pietanze sott’olio, scatolette, biancheria e vestiti. Più tardi incontriamo degli americani, ci presentiamo a loro ma non ci vogliono e ci rimandano indietro dai russi. […] Verso la fine di agosto i russi ci hanno portato verso un campo degli americani. Gli americani ci hanno fatto la disinfestazione con il Ddt, ci hanno dato da mangiare e ci hanno caricati su un treno dicendo che tornavamo in Italia. […] Ha raccontato a casa, a parenti ed amici, la sua vicenda? Si. Ma non interessava niente a nessuno. […] A qualcuno l’ho raccontata ma mai tutta intera. Lei ha sofferto in quei due anni? Devo dire la verità? No. Poi non ci pensavo neanche. Avevo da mangiare, da bere, da dormire, da scaldarmi e quant’altro… Anche se ci pensa adesso? È diverso perché noi allora non sapevamo cosa succedeva. Stavamo bene e quello era tutto. Diverso è invece stato per quei nostri compagni che andarono in Norvegia a lavorare in miniera. Abbiamo poi saputo che per la fame loro andavano a cercare da mangiare anche nei bidoni della spazzatura tra gli avanzi. A volte da noi in paese venivano prigionieri da oltre 10 km per mangiare anche un solo piatto di minestra. Durante la prigionia io cercavo di restare più allegro possibile. Avevo notizie da casa e mi arrivavano pacchi. […] BENITO GIBERTI - 1924 - Polinago (Mo) - Soldato Quando sono arrivati i tedeschi ero di guardia, eravamo accantonati dentro a delle case civili, hanno rinforzato la guardia, ero dietro un pozzo, avevo una bomba a mano ed un fucile del 38; sono arrivati i tedeschi verso le 8 di sera: “Bruit bruit bruit”, e chi ci capiva, ci hanno disarmati. La bomba l’ho gettata nel pozzo ed ho tolto l’otturatore del fucile; potevo arrendermi o farmi ammazzare, avevano i fucili mitragliatori e così il tedesco mi ha dato una strapazzata con le parole. […] Da lì ci hanno preso la sera, eravamo in 24-25, si dormiva in terra con la paglia, ci hanno portato dentro alla chiesa di Tunes e ci hanno messi dentro. Fino al mattino del giorno 9 Settembre e poi verso le 10, io non avevo niente, né zaino, né coperte né niente. Siamo stati lì tutta la notte, scortati fino a fare i bisogni. Alle 9 verso Innsbruck. Abbiamo viag-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
151
giato tutto il 9, poi abbiamo dormito in un bosco, ci abbiamo messo circa due giorni sempre a piedi. Non avevamo ordini perché gli ufficiali non li abbiamo più visti. Degli ordini non ne sono arrivati. Avevamo solo 3 cannoncini anticarro e poche munizioni. A Innsbruck ci hanno messo dentro al campo di aviazione, tutti circondati dalle mitragliatrici, senza mangiare, senza tende, senza niente. […] Abbiamo viaggiato due giorni dentro dei vagoni bestiame, eravamo in 42, chiusi, bollati dalla parte esterna, come le bestie, uguale. Ci hanno dato una pagnotta di pane sui due kg ed un poco di speck per tutti; abbiamo fatto 42 parti; dormivamo incrociati uno per un verso ed uno per un altro. Quando siamo smontati dal treno già non ci conoscevamo più uno dall’altro. Ci hanno dato da mangiare barbabietole tagliate, bollite, che non si mangiavano […] Eravamo allo staglager IB. Erano lunghe baracche di legno, era grande, molto grande. C’erano tutte le barriere di filo spinato. Non c’era da azzardarsi a tentare di scappare, c’era la barriera di filo spinato alta, filo arrotolato ed ancora barriere, e filo arrotolato e barriere ancora. Non potevamo scappare, ma non tentavamo neanche perché se tornavi in mano ai tedeschi, se andavi contro le SS specialmente non scherzavano, ti uccidevano sul posto. […] Eravamo arrivati da poco e ci hanno chiesto di aderire a Salò; la nostra paura era di andare contro i russi, e fossi stato sicuro di andare in Italia saremmo andati, avremmo tentato di scappare; c’era gente che ti poteva aiutare, era quella lì la nostra situazione, ma se si va in Russia c’era il caso di andarsi a fare ammazzare. […] All’inizio noi della baracca siamo andati a lavorare in pineta, nel nostro gruppo di 30 circa. Si cominciava alle otto e si faceva otto ore di lavoro. Si tagliava questi pini, eravamo sempre sorvegliati con la guardia dietro e la baionetta in canna. Lì non c’era mica da scherzare. C’era la tormenta, la neve era poca ma il tempo era assassino. Il freddo si sentiva subito con i vestiti che avevamo noi. Per i primi tempi avevamo i nostri vestiti militari ma poi, portali, portali si sono frustrati. Il mangiare era poco, patate cotte con una brodicchia di semolino etc. In ottobre sono già andato a lavorare. Ci hanno preso in dodici, siamo andati alla fabbrica dello zucchero, scaricare vagoni di barbabietole da 200 quintali. tutte attaccate assieme dal gelo. Prima di arrivare in fondo al carro, ce n’erano montagne che erano alte più di me, che fatica che si faceva. Ho lavorato molto fuori, ma dentro lo stabilimento si poteva mangiare. La cosa più cattiva da mangiare cruda è la patata, ho mangiato le ortiche, ho mangiato di tutto, erbe etc., ma la patata non si mangia, ti rompe lo stomaco. […] Ho sempre fatto il bravo, ero lì al mulino a fare i sacchi da 60 kg. Potevo mangiare zucchero finché volevo ma portarne fuori no. Il rancio era acqua con sapore di patate, io ci mettevo lo zucchero, facevo la zuppa di zucchero. Ero diventato molto grasso. […] I tedeschi a volte picchiavano. Una sera eravamo a lavorare dentro allo stabilimento delle barbabietole, dovevi produrre una certa quantità, poi ti riposavi. Una sera è arrivato un civile vestito di giallo, con un pezzo di gomma; noi avevamo già fatto il nostro lavoro, quindi eravamo fermi. Questo civile ci ha iniziato a frustare con il pezzo di gomma su per la testa, su per il collo finché non abbiamo riiniziato a lavorare.
152
G. PROCACCI (a cura di)
[…] I miei amici hanno incominciato a portare via le patate per tutta la baracca. Però nelle cucine se ne sono accorti e così li hanno presi, uno di Brescia, uno di Bergamo, li hanno picchiati poi li hanno fatti marciare con lo zaino affardellato di sassi. […] Eravamo ad Hangeburg [sic] quando è successo. […] Alla domenica, perché la domenica non si lavorava, arrivavano i civili, venivano a cercare un qualcheduno da far lavorare a casa loro. Io sono stato fortunato che mi avevano scelto due donne, la mamma e la figlia e le domeniche venivano a prendermi per portarmi a casa. Mi davano da mangiare, bene, e a tavola con loro. […] Non c’era da andare alla messa, ce n’era uno come siamo arrivati al campo di concentramento che ci ha riunito e ci fece la confessione in massa, saremo stati in 2.000, poi aveva delle particole e ce ne diede. Dopo non si è più visto nessuno. All’inizio la paura era che avrebbero potuto ammazzarci. Se ci fosse stato una persona a guidarci, sarebbe stato diverso, nessuno che ci avesse insegnato il modo di ribellarci. Andavamo avanti noi di buona volontà. […] Quando qualcuno si ammalava, lo portavano in ospedale, dopo però non tornava più e non sapevamo dove lo portavano. […] Di pacchi da casa ne hanno spedito tre o quattro e non sono mai arrivati. […] La generazione più cattiva erano le SS, quelli che portavano la croce uncinata, a quelli lì se facevi qualcosa che non andava prendevi delle botte a bestia. Gli altri soldati erano più che altro soldati invalidi, anziani, che erano stati feriti, e per quello facevano servizio interno ed erano severi ma buoni. […] Quando siamo passati civili c’era un caposquadra buono, una persona buonissima. Ci hanno detto che passavamo lavoratori civili per legge. Ci hanno detto: siete liberi siete civili. Ci hanno portato a lavorare. […] Dopo è arrivato lo sbandamento. […] Ci hanno preso e ci hanno portato sui laghi, ci facevano tagliare il ghiaccio, fare delle fosse di tre metri, serviva per evitare che apparecchi atterrassero su questi laghi. Si facevano dei buchi quadri, poi con dei ramponi si tirava su il pezzo del ghiaccio, poi si metteva in piedi, come lo mettevi in piedi era già attaccato, non lo muovevi più, immagina le mani, avevamo solo dei guanti di lana, che si bagnavano subito. […] Sono stato liberato dai russi il 25 marzo del 1945. Eravamo proprio sul fronte, eravamo appena dietro il fronte, eravamo sbandati, non c’era più comando né niente. […] Non si vedeva più soldati, non si vedeva più armi. Avevamo sempre paura perché se ci trovavano, le SS ci avrebbero ucciso. Eravamo in 12. C’era un paese e noi eravamo circa a due km. Si sentivano mitragliate, cannonate, poi nella mattinata si calmò. Noi giravamo perché avevamo fame. C’era una locomotiva che si muoveva ed arrivava con un solo vagone. […] Questa locomotiva era un vagone di sussistenza ed abbiamo fatto in un attimo a rubarlo. Quando hai fame, non hai paura neanche delle pallottole, hai un coraggio che tu non lo credi perché la fame te lo fa venire il coraggio, ti senti anche forte se sei debole, la fame, la rabbia della fame. Dopo due o tre giorni sono iniziati i bombardamenti cattivi in paese. […] Al mattino sono arrivati, erano soldatesse russe.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
153
[…] Anche i russi ci hanno portato a piedi fino in Lituania. Ci facevano lavorare ma ci trattavano abbastanza bene. Si mangiava quello che si poteva. Eravamo andati a finire dentro una cittadina ed ognuno si arrangiava, eravamo liberi. […] I russi ci hanno portato fino a Berlino. Lì eravamo liberi e giravamo come le pecore. Siamo arrivati in stazione ed in una fontana ci siamo lavati. Poi da Berlino, ci hanno portato ad Halle, in Austria, in mano agli americani. Questi ci fecero tutti la disinfezione, ci davano i panni che quando uscivano, non si tenevano in mano. […] Dopo siamo arrivati al Brennero, gli italiani della Croce rossa ci hanno dato da mangiare, da bere e da fumare. Sono arrivato in treno fino quasi a Verona, da lì ci hanno caricato su dei camion americani, ci caricarono e ci portavano verso Modena. Sono arrivato il 13 sera a Modena. ORAZIO GIOVENZANA - 1916 - Camposanto (Mo) - Ufficiale Dove si trovava l’8 settembre e come venne a conoscenza dell’armistizio? Ero partito il 6 settembre 1943 da Pristina, dove mi trovavo con il 4° reggimento cacciatori d’Albania, per una licenza di 15 giorni che mi spettava dopo 9 mesi di servizio in Albania. La tradotta su cui mi trovavo era la numero 17.665 partita il 2 settembre da Atene e diretta attraverso i Balcani a Mestre. La sera del giorno 8 settembre ‘43, mentre già percorrevamo il territorio croato, dai tedeschi ci fu imposto di retrocedere sino a Semlino in Croazia. Ci fermammo alla stazione e sentimmo del comunicato di Badoglio. [...] Senza ordini, pensammo subito di tagliare la corda se fosse stato possibile. […] Un tenente di cavalleria, mi pare il marchese A. di Pesaro, che sapeva bene il tedesco, prese contatto con i tedeschi e chiese come ci dovevamo comportare. Loro dissero che era una faccenda molto breve… e che successivamente ci avrebbero lasciato proseguire per l’Italia: intanto ci ordinarono di deporre le armi. […] L’ordine di consegnare le armi era dei tedeschi, ma lo ricevemmo tramite il tenente. Alcuni, tra cui io stesso, gettarono le armi in un fiume, io buttai via la mia pistola, non la consegnai, altri invece le consegnarono ai tedeschi. Ci affidarono ad un plotone di ustascia croati comandati da un giovane tenente. Noi avevamo paura di quel ragazzino ustascia e chiedemmo tramite una raccomandazione da parte dei tedeschi, ma le nostre paure si rivelarono infondate perché quel ragazzo si dimostrò molto buono e in grado di capire la nostra condizione. Ci disse subito: “Guardate, io ho questi ordini… il primo che scappa noi gli spariamo quindi non fate pazzie, state tranquilli, noi vi portiamo a destinazione”. [...] Dislocò i suoi soldati perché noi non scappassimo, poi venne a sedere con noi e ci disse: “Io vado in Italia, se voi avete qualcosa di scritto da mandare ai vostri parenti e genitori, se vi fidate, io vi garantisco che glielo farò avere”. Ed infatti mantenne la parola. Andavamo verso la Germania quando a Tarvisio il capo macchinista tagliò la corda, vennero altri macchinisti che staccarono la nostra locomotiva per sostituirla con un’altra. Poi iniziammo il nostro cammino che ci portò subito a Monaco ove incappammo in un disastro ferroviario. Come entravamo in stazione i tedeschi ci mettevano in binari morti per far passare i loro convogli... Accadde però che il nostro macchinista ricevette l’ordine di invertire la marcia perché un altro
154
G. PROCACCI (a cura di)
treno era davanti a noi, ma non lo fece e così allo scontro diversi vagoni uscirono o si incastrarono tra loro. Avemmo lì diversi morti e molti feriti. Ricordo bene che mi salvai per caso. […] Poi i morti e i feriti li raccogliemmo tutti lungo i binari. […] Viaggiava con la truppa o con gli altri ufficiali? Avevano messo gli ufficiali da una parte e la truppa dall’altra. […] Erano ancora i vagoni malandati della tradotta dei Balcani. Dopo Monaco invece ci hanno sempre trasportato su vagoni bestiame in una cinquantina circa per vagone. […] Tornando all’incidente di Monaco, cosa accadde dopo? Fatti sparire i morti e portati via i feriti, ci hanno raccolti e ci hanno portati a Fullen, al campo VIC, era il giorno 17 settembre. Siamo poi ripartiti per il secondo campo di concentramento, Alexidorf, il 21. Diciamo che i primi due campi, Fullen e Alexidorf erano campi di passaggio, mentre i veri campi di concentramento sono venuti dopo: Przemysl, dal 2 ottobre ‘43 al 13 gennaio ‘44, Hammerstein, dal 16 gennaio ‘44 al 8 ottobre ‘44, Norimberga, dal 12 ottobre ‘44 al 3 febbraio ‘45 e Gross Hesepe, dal 6 febbraio ‘45 al 4 settembre ‘45. Come venite trattati nei primi due campi, da lei chiamati di passaggio? Lì ci smistavano. […] Vi siamo rimasti per periodi brevi. Ricordo che all’ospedale di Fullen c’erano i prigionieri malati terminali, quelli proprio che non ce l’avrebbero fatta più. Nello stalag 327N, Przemysl, in Polonia, siamo stati poi immatricolati per la prima volta. Io sono stato subito immatricolato con il numero 1.280 e da lì cominciarono i grandi campi di concentramento. […] A Przemysl siamo stati dal 2 ottobre ‘43 al 13 gennaio ‘44. Lì ci trattarono direi quasi da ufficiali. Entrammo in baracche che erano tenute abbastanza bene: c’erano i letti e ci hanno dato perfino delle lenzuola, la ciotola per mangiare etc. Il campo era formato da baracche in cemento, le baracche baracche vennero dopo. Qui non ci mancò un granché, perché ci trattarono bene: quasi come persone umane. […] Mi ricordo che entrando nel campo c’era la sentinella che sapeva parlare italiano. Non so se fosse uno dei nostri altoatesini. Noi gli chiedemmo come mai ci trovavamo lì prigionieri e che cosa stesse succedendo, lui ci rispose: “Andatelo a chiedere a Vittorio Emanuele III”. […] Lì eravamo solo ufficiali: ufficiali superiori e ufficiali inferiori tutti insieme. […] I tedeschi vi proposero di aderire? No, non subito a Przemysl, ma dopo, a Hammerstein nel ‘44. Vennero i tedeschi e anche degli italiani. Questi erano delle persone della Repubblica. I repubblichini, dicendo che saremmo stati trattati meglio, ci venivano ad invitare o ad andare a lavorare per i tedeschi oppure a rientrare in Italia a combattere. Allora per farci decidere, cedere, i tedeschi ci davano un giro di vite e si mangiava un po’ meno [sarcastico: “Perché infatti già si mangiava pochissimo”, aggiunge poi a registratore spento]. Alcuni per fame, altri per cattiva salute accettavano. Ma quando sono arrivati da noi, noi abbiamo detto tutti di no, convinti di fare bene. Alcuni nel campo accettarono ed alla fine anche fra di noi, nel gruppo della mia baracca venne un po’ di malumore e di contrasto tra chi voleva aderire e chi no. […] Dopo Przemysl?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
155
Stalag IIB, ad Hammerstein dal 16 gennaio ‘44 al 8 ottobre ‘44. Restammo lì parecchio tempo. È lì dove ci chiesero di aderire. Hammerstein è anche il campo dove venne ucciso un nostro tenente da una sentinella. Lui stava andando a chiamare il sacerdote per le confessioni. Era un sabato, mi pare. È andato verso la sentinella all’entrata del campo davanti a un cavallo di frisia e le ha mostrato il permesso che aveva per andare a chiamare il sacerdote. La guardia ha fatto un po’ di problemi. Noi guardavamo intanto fuori dalla finestrina della baracca ed abbiamo visto tutta la scena. Il tenente dopo aver parlato con la sentinella un po’ animatamente ha fatto per rientrare nel nostro recito e quello là ha puntato il fucile e gli ha sparato alla schiena. La pallottola avrà colpito un suo osso o qualcosa di duro che aveva indosso perché è poi venuta a colpire all’altezza del nostro finestrino della baracca e si è andata a conficcare quasi contro i piedi di uno che era sopra al terzo piano dei letti a castello. Quel ragazzo lì era uno della Gioventù cattolica italiana, un ragazzo molto religioso. Si dedicava ad aiutare i cappellani militari nell’assistenza ai prigionieri. […] Io fui nel gruppo dell’Azione cattolica. Sono stato ricevuto in mezzo a questi giovani e ho potuto constatare quanto fossero altruisti. […] Nei trasferimenti da un campo all’altro, arrivati alla stazione e scesi dai vagoni, raggiungevamo il nuovo campo a piedi per i chilometri che rimanevano. Specialmente nel caso di quei tratti fatti a piedi ho visto gente debole e stanca buttare lungo la strada tutto quello che aveva perché non riusciva più a portarselo dietro. Se i prigionieri cadevano le sentinelle li uccidevano. Ed allora quei giovani se li caricavano sulle spalle e li trascinavano. Ci sono stati momenti piuttosto toccanti. […] Noi di scappare, e qualcuno l’ha fatto ma poi l’hanno ripreso, non se ne parlava neanche: eravamo senza forze e troppo debilitati per la fame. Ricordo che durante l’ultimo tragitto di trasferimento a piedi verso Gross Hesepe tre o quattro tentarono di fuggire ma trovarono allagato e furono ripresi e puniti pesantemente. […] Quando non c’erano i capi, le vecchie sentinelle, residuati bellici, venivano in mezzo a noi. […] C’erano sentinelle che addirittura in certi momenti piangevano. Ma quando tornavano i superiori tornava tutto come prima. […] Nei campi era diverso, specialmente ad Hammerstein, Norimberga e Gross Hesepe, lì ci trattavano proprio duramente. Nei campi c’erano settori con prigionieri russi e guai ad avere contatti diretti con loro perché se ci vedevano ci sparavano proprio. Allora andavamo ai gabinetti e lì riuscivamo a contattarli. I russi fumavano proprio tanto. Fumavano le papiroska che erano mezzo cartone e mezzo sembrava segatura di pioppo: le chiamavano sigarette... Le sigarette i tedeschi le passavano anche a noi, ma a me, come a tanti altri, piaceva mangiare. Allora andavamo ai gabinetti e lì facevamo lo scambio con i russi. Loro ci davano il pane e noi gli davamo le sigarette. […] Fummo anche a contatto, penso a Norimberga, ma non ricordo di preciso, con prigionieri americani. Ma quelli avevano un trattamento diverso. La Croce rossa andava da loro a vedere come erano trattati e in più gli arrivavano i pacchi. […] Come erano trattai i russi rispetto a voi? Peggio, molto peggio. […] Quando andavamo alla disinfestazione noi passavamo piano piano ai bagni e ci si poteva mettere mezza giornata,
156
G. PROCACCI (a cura di)
una giornata, dipende perché eravamo in tanti. Gli ultimi che facevano la fila spesso non riuscivano a mangiare perché ci voleva troppo tempo. Finito tutto tornavamo alle baracche. Stando fuori vedevamo bene il settore dei russi. I russi giravano trainando a braccia una grossa carretta che usavano sia per distribuire il pane, sia per caricare i bidoni pieni delle latrine da svuotare, sia per caricare i morti. Eravamo controllatissimi. Anche durante le sacre funzioni controllavano sempre che il sacerdote dicesse le parole giuste e nulla altro. Le sentinelle sapevano l’italiano. […] Ricordo che tutti in tutti i trasferimenti che facevamo ci portavamo dietro i nostri stracci e poi appena arrivati: rivista. Ci spogliavano ancora di tutto quello che avevamo, ci controllavano e ci portavano via quello che poteva loro tornare utile. Ricordo una volta dovetti consegnare la mia cassetta con dentro poche cose e un poco di sapone, roba da poco ma là tanto preziosa. Allora dissi ad un nostro ufficiale che ci trasmetteva poveretto gli ordini dei tedeschi: “Tenente! Mi toglie anche quelle cose che sono…” E mi ha risposto: “È la guerra”. […] Ci prendevano tutto quello che potevano portarci via: saponette, orologi, etc. Ricordo che diedi via il mio orologio e così riuscii a sfamarmi per un mese perché mi diedero alcune pagnotte di pane. Fui fortunato perché in quel periodo non vi furono ispezioni, altrimenti me le avrebbero portate via tutte. […] La fedeltà al re era profonda. Agli inizi facendo l’adunata per il genetliaco del re e altre manifestazioni mostravamo l’attaccamento dell’esercito a casa Savoia. Mi ricordo che agli inizi vi erano dei giovani ufficiali dell’Accademia di Modena che non avevano ancora giurato e il colonnello italiano comandante del campo gli fece fare il giuramento. Vennero colti in flagrante da alcune guardie e il colonnello venne prima messo dentro una specie di gabbia, un piccolo recinto isolato, come fosse un animale e poi trasferito; di lui non si seppe più niente, mentre gli ufficiali vennero puniti. Vi chiesero di andare a lavorare? Si. Ma noi abbiamo risposto che gli ufficiali secondo la Convenzione di Ginevra non devono lavorare. Loro poi non hanno più insistito. Però hanno cercato comunque di piegare la vostra volontà… Ad ogni nostro rifiuto, seguiva sempre un trattamento peggiore da parte dei tedeschi. Qualcuno tra voi ufficiali accettò di lavorare? Si. Furono rari. Ad esempio un mio compagno andò a fare il postino. Cosa accadeva una volta accettato il lavoro? Venivano tolti da noi, andavano in altre baracche oppure lasciavano il campo per andare a lavorare altrove. Noi non vivevamo con loro: eravamo nello stesso campo, ma in baracche separate. Nel campo in settori diversi coesistevano un gruppo di irriducibili, ufficiali, che conducevano una vita da prigionieri e degli internati che avevano accettato di lavorare, i quali lasciavano il campo per andare al lavoro, per esempio nei campi, e poi tornavano. […] Perché lei non andò a lavorare? Le dirò la verità. Prima di tutto io ci tenevo ad essere ufficiale del re. Anche quando sono tornato a casa e c’è stato il referendum tra monarchia o repubblica, io ho votato monarchia. Ero profondamente fedele al giuramento fatto al re. Mi sentivo così. Ecco io avevo questa convinzione. Poi anche perché secondo la Convenzione di Ginevra noi ufficiali non dove-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
157
vamo lavorare. È stato sostanzialmente per queste due cose, non per eroismo o per voler stare con gli altri, che non ho accettato il lavoro. Alla fedeltà al re forse si aggiungeva anche il sentimento di repulsione per tedeschi e fascisti. […] I russi stavano peggio di noi. Non avevano niente, per carità. Quando poteva anche solo nascere il sospetto che nel settore dei russi vi fosse il tifo petecchiale, bandiere gialle dappertutto, sezione chiusa e non andavano neanche dentro a portargli da mangiare, ma glielo buttavano dal di fuori. Chi aveva la forza di andare a raccogliere per terra un pezzo di pane si salvava, quegli altri poverini morivano. Li abbiamo visti, noi, gonfi per la fame. Mi sembravano dei palloni gonfiati poverini con la pelle che aspettava solo di scoppiare […]. E non andavano, non andavano assolutamente. Poi con la disinfezione era peggio perché bruciava e ti rovinava la pelle. Ricordo che a noi ci davano delle pennellate che ci facevano saltare. Quando morivano li portavano via dentro sacchi di tela. […] Avevamo contatto con il cappellano quando ci veniva a celebrare la messa o a tenere riunioni con i ragazzi dell’Azione cattolica. Si discuteva di letteratura, di religione, non di politica o comunque molto raramente. Quando alla fine della giornata si andava a letto si parlava prima di addormentarsi delle fantasie sui bei pranzi che si sarebbero fatti in sogno. Era un tormento. Il nostro passatempo era trovarci a parlare. Talora si parlava anche di notizie che venivano da fuori il campo, ma era raro. Durante la prigionia non facevamo niente. Si moriva d’inerzia. Molti ufficiali si cimentavano nella costruzione di bilancine per misurare il pane al momento della divisione. Ne costruivano di quelle di una precisione unica. Quando un pezzettino di pane veniva tagliato, ognuno aveva la sua bilancina per controllarne il peso. Poi si faceva la conta per assegnare la fetta: “Questo a chi… questo a chi… questo a chi… questo a chi?”. Per così dire non avere il rimorso di aver dato il pezzo migliore ad uno invece di un altro. Si giocava a carte. Ma come veniva buio bisognava spegnere le luci, star zitti, etc. In certi campi siamo arrivati al punto che non si poteva nemmeno uscire di notte per andare al bagno. […] Sentivate i bombardamenti? A Norimberga sì. Mi ricordo che eravamo a 12 km dalla città e ai primi di febbraio vi fu un bombardamento tremendo. Passarono sopra il campo e scaricarono tanti bengala che nel campo si vedeva come fosse giorno, dopo cominciarono a passare su Norimberga. La sentinella stessa che si era scavata una specie di trincea ci obbligava ad aprire tutte la baracche perché con lo spostamento d’aria partiva tutto. E così salvavamo il salvabile. Si vedeva il fuoco delle esplosioni nella città. Un tuono assordante. Fu un bombardamento molto molto grosso. Noi capivamo che per i tedeschi doveva essere ormai la fine. Quando da Norimberga ci trasferirono a Gross Hesepe, vicino a Meppen, lì facemmo un tragitto lungo dalla stazione al campo e vedemmo tutta la zona vicino al campo allagata: avevano rotto le dighe. Tantissimi aerei alleati passavano di continuo. […] A Gross Hesepe tra i tedeschi cominciava ad esserci un po’ di disorganizzazione. […] Eravamo solo italiani, ufficiali e truppa. […] Come si svolse la vostra liberazione? Arrivarono prima di tutto dei carri armati canadesi. Presero dei nostri soldati e ufficiali e li fecero spogliare per vedere in che condizioni si trovavano. Allora subito ci distribuirono pane bianco, sembravano dei panet-
158
G. PROCACCI (a cura di)
toni, cioccolato, caffè. Ci dissero subito però di stare attenti a non mangiare troppo ed infatti… perdemmo un tenente che morì per indigestione. Presero il comando loro con il nostro comando italiano. Vivemmo per diversi mesi in attesa di rientro. […] Potevamo uscire dal campo e andavamo in un paesino vicino a prendere il latte. Lì dalla popolazione tedesca siamo stati trattati bene. Quando andavamo a prendere il latte ce lo davano volentieri, naturalmente si pagava con quel poco che avevamo ancora. […] Siamo stati accettati molto bene, quando andavamo in casa da loro ci offrivano sempre qualcosa. La domenica andavamo a messa con i tedeschi. I nostri sacerdoti concelebravano con quelli tedeschi. […] Come si svolge il suo rimpatrio? Ci dicevano che dovevamo aspettare perché alle frontiere c’erano migliaia di soldati che volevano rientrare. Ma prima dovevano essere sottoposti alla disinfestazione e a controlli. In settembre arrivano dei camion della missione pontificia e ci dicono che dobbiamo usare quelli perché non ci sono più altri mezzi disponibili. […] Liberato il 5 aprile ‘45, parto da Gross Hesepe il 4 settembre ‘45. […] Arrivati a Braunschweig lì gli americani ci fanno la disinfestazione e partiamo il 5 settembre mattina. L’8 settembre siamo a Mittenwald. Lo stesso giorno partimmo per arrivare a Pescantina il 10 settembre. Cosa accadde a Pescantina? Qualcuno le fece delle domande al suo rientro? No, nessuno mi chiese niente. A Pescantina ci hanno solo radunati e indirizzati verso casa. […] Solo a novembre, quando ero già a casa da un po’, mi chiamarono per chiedermi una relazione sulla mia prigionia. Lì già pronti c’erano dei camion che ci avrebbero portati a casa. Chiesi a un camionista che strada avrebbe fatto e lui mi rispose che passava per Verona, Bologna e Modena. “Ma allora è sulla mia strada!”. Salii con lui. Arrivato verso sera a Cavezzo mi sono fatto scaricare. Lì terminavo la mia trasferta. […] Come venne accolto da amici e conoscenti al rientro? Un gran ricevimento. Solo che c’era la faccenda politica. Venendo a casa, a cominciare da Mirandola, cominciai a vedere contro gli olmi cartelli funebri in memoria di impiccati e fucilati. “Porca miseria. Cosa succede qui?”, mi dico. Lungo la strada mi informo e mi parlano dei partigiani e dei topini, quelli delle brigate nere. Arrivato a casa vedo tre impiccati agli alberi della piazzetta di fronte a noi. Erano dei piccoli apostoli di don Zeno, ragazzini che don Zeno raccoglieva, sfamava, educava e faceva lavorare, puniti perché spie. Quando hanno capito che io e i miei fratelli non eravamo dell’idea comunista ci siamo subito trovati davanti dei muri. Il momento era un po’ difficile. […] Esiste la solidarietà in prigionia? Esiste solo tra amici o tra tutti? Esiste. C’erano gruppi di persone che vivevano proprio con lo scopo di essere d’aiuto agli altri sia sul piano morale che materiale. Altri invece rimanevano più staccati. In generale dalla prigionia vengono fuori cose che hanno cambiato in me completamente il modo di pensare e di agire. Io prima vedevo molte cose solo da un mio lato egoistico, con la prigionia ho capito invece quanto sia necessario pensare anche agli altri. È stata una scuola umana molto forte e importante per me come formazione. C’era sicuramente uno stato di miseria anche morale. Ad un certo punto si perdeva anche la dignità. Ci si lasciava un po’ andare perché non ce la facevi più e si era allo stremo delle forze, prostrato quando camminavi nei trasferimenti, ti aspettavi solo un colpo di fucile alle reni. Però, nono-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
159
stante tutto c’era sempre quella speranza che veniva da quelle persone che sapevano superare anche quelle difficoltà e ti davano la forza di poter agire e sperare anche tu. Così superavi quei momenti di disperazione, che io personalmente non ho provato ma che ho visto subire da altri. […] EMILIO GIULIANI - 1922 - Pistoia - Ufficiale […] L’8 settembre 1943 mi trovavo nel centro logistico di Brignoles, in Francia. Avevo 21 anni ed ero sottotenente amministratore dell’ospedale da campo. La sera dell’8 settembre tornarono sei soldati che erano stati in libera uscita ed iniziarono a dirci: “C’è l’armistizio. Non te l’ha detto il Comando, qualcuno…?”. Immediatamente il mio direttore dell’ospedale che era un chirurgo cercò di informarsi e telefonò a Bélier [sic] dove stavano i comandi ma lì non c’era più nessuno. Non c’erano ordini. Dal comando presidio di Brignoles arriva la notizia che si sta formando una autocolonna per il rientro in Italia. Tutti subito cerchiamo di organizzare la partenza con i mezzi a disposizione abbandonando tutti i materiali dell’ospedale. Mancava il tempo per organizzare il trasferimento. Nel frattempo, mentre preparavamo le ambulanze e i carri per il viaggio, alcuni francesi venivano e cominciavano a buttare gli occhi sul materiale e i viveri che di lì a poco avremmo abbandonato. Io in qualità di amministratore e in accordo con il mio comandante decisi di far sparire tutti i soldi della cassa dell’ospedale distribuendo a tutti anticipazioni degli stipendi. Finalmente partimmo. […] Salii su un camion, lì c’erano mitragliatrici, vestiti e caramelle. Non era una vera autocolonna militare in trasferimento, era piuttosto una colonna disordinata di mezzi anche di fortuna in fuga. C’era di tutto tra i mezzi e sui mezzi. La mattina a Draguignan i tedeschi ci danno l’alt. Questi con gentilezza fermarono la nostra colonna. Io, amministratore, avevo la pistola nella fondina al mio fianco, ma non sapevo cosa fare. Guardavo gli altri e aspettavo. Io allora non sapevo che i tedeschi uccidessero gli ebrei. Io sapevo solo che c’era un esercito nostro alleato, quello tedesco. Noi ufficiali ci raggruppammo e i tedeschi ci vennero a dire che facevano un controllo e che poi ci avrebbero lasciato ripartire. Addirittura andammo a pranzo con loro. Finito ciò ci accompagnarono in una caserma e qui ci dissero: “Siete prigionieri. Consegnate le armi”. E così ci siamo trovati prigionieri. […] Qui inizia il mio dramma personale: un giorno ci chiesero se volevamo o collaborare o combattere o la prigionia. Scegliere mi tenne occupato per tutto il mese che passai in Francia. Per me il dramma umano era dover decidere da solo senza avere elementi per scegliere. Io ero un ragazzo leale, non fascista ma idealista e intriso di italianità, io venivo dalle colonie dove c’era vero patriottismo e non senso di occupazione; allora a 21 anni ero però anche ingenuo, e mi sembrava strano dover cambiare. Poi ero stato educato e formato per ubbidire ed eseguire gli ordini ed ora quali erano gli ordini? Dovevo decidere da solo. Che strada dovevo prendere? In un primo tempo ero titubante, volevo essere collaboratore e ciò voleva dire andare a lavorare. Poi per il senso di lealtà… Che fare? In un secondo tempo mi sono deciso per la prigionia. Questa per me è stata una scelta salomonica che non urtava né una parte né l’altra. Non andavo contro quelli che erano stati il nostro alleato e non andavo contro il mio
160
G. PROCACCI (a cura di)
giuramento di ufficiale. Non fu una scelta per mettermi al sicuro. Nel dubbio, non sapendo più cosa stesse accadendo in Italia e quale fosse il mio dovere scelsi la prigionia. Poi pian piano durante la prigionia il senso di rivalsa contro i tedeschi e le loro angherie mi ha determinato maggiormente nella mia scelta. […] A Leopoli è cominciata la vera prigionia. Lì io ho trovato mio cugino Peppino, ufficiale di complemento di artiglieria, che veniva dalla Grecia e ci siamo messi insieme. Abbiamo passato un mese in una ex-caserma della cavalleria polacca, eravamo solo ufficiali. Lì vi sono state delle belle testimonianze di simpatia da parte dei polacchi verso noi italiani. A Natale [1943], ad esempio, i polacchi ci volevano portare dei pacchi ma i tedeschi non glielo permisero. Tra noi italiani c’era già chi trafficava per avere roba da mangiare: corrompendo le guardie, riuscivano ad uscire e a fare scambi con mercanti polacchi. Ricordo che proprio a Leopoli a Natale per avere del pane e della cioccolata diedi la mia catenina d’oro ad un ufficiale italiano che faceva questo lavoro. […] Lì siamo stati bene perché eravamo ancora in salute, il mangiare era buono e se ci mancava qualcosa, avendo ancora tutto il corredo e dei soldi potevamo averlo in cambio. […] Sono rimasto un mese a Leopoli e dopo mi hanno portato a Wietzendorf. Come ufficiale di amministrazione ho subito una sorte diversa da quella degli altri ufficiali in servizio attivo catturati con me. Per i tedeschi l’amministratore era un civile. Da Leopoli molti effettivi andarono a Deblin io invece finii nella scia degli ufficiali di complemento. Quando lasciammo la caserma dovemmo attraversare quasi tutta la città. C’erano ali di popolo a destra e a sinistra che cercavano di darci pane e altro da mangiare. I tedeschi li respingevano con il calcio dei fucili. Un camioncino con il retro pieno di pagnotte incrociò la nostra colonna e noi allungando le mani riuscimmo a prendere del pane ancora caldo. Arrivati in stazione ci fecero entrare dentro carri bestiame. Non tutti riuscivano a sedersi, non c’era abbastanza spazio, al centro un mastello per i nostri bisogni. Il pane che avevamo raccolto procurò molte diarree e così dentro i vagoni si creò una situazione igienica insopportabile. Noi chiedevamo di aprire le porte, ma loro niente. Ogni tanto, quando c’erano delle soste, aprivano le porte per darci del pane e dell’acqua e per lasciarci fare i nostri bisogni. Durante quel viaggio ricordo che proprio nel mio vagone alcuni ad una sosta scapparono alzando le traversine del vagone. Però dopo li abbiamo ritrovati nel campo. Uno non conosce la lingua, è in mezzo ai tedeschi, non conosce il paese, cosa fa? Dove va se non ha immediatamente un appoggio, dei punti di riferimento? Dopo 10 giorni siamo arrivati a oflag 83. C’erano molti dei nostri che erano già stati prigionieri nella prima guerra mondiale e qualcuno aveva ritrovato la baracca dell’altra guerra, così si trovò prigioniero per la seconda volta nella stessa baracca. A Wietzendorf c’erano già dei russi ed era pieno di loro fosse comuni perché c’era stato il tifo petecchiale. Vedevamo i russi arrivare trainando il carro usato per svuotare le latrine, sotto quello nascondevano il pane che scambiavano con le nostre sigarette. Ci davano le pagnotte con mani sporche di merda. Comandava il campo il tenente colonnello Testa. Avevamo una chiesa e una biblioteca organizzata da noi. I crucchi erano sempre più cattivi. Quando suonavano gli allarmi aerei ci facevano rientrare nelle baracche e se non eravamo ancora
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
161
riusciti a prendere da mangiare allora non ce la facevamo più e dovevamo aspettare la sera o il giorno dopo. […] A Wietzendorf due sono morti uccisi dalle sentinelle perché ad un allarme aereo erano rimasti fuori dalle loro baracche per guardare gli aerei. Un altro l’ho visto morire a Sandbostel. Ai margini di questo campo c’era prima un filo spinato poi un fossato profondo due-tre metri e dopo c’era una rete di filo spinato alta due metri, era impossibile passare. Vicino al filo interno c’era una fontana dove i nostri ufficiali andavano a lavarsi. Io ero lì vicino a prendere il sole. Uno aveva appoggiato l’asciugamano sul primo filo spinato che era a due metri dalla fontana. Il tedesco ha aspettato dalla sua garitta che quello andasse a prendere l’asciugamano e così in pieno giorno col sole splendente da 200 metri l’ha freddato. L’ho visto subito cadere con la camicia che indossava tutta gonfia e sporca di sangue che colava. Questi sono gli esempi della cattiveria tedesca. A Wietzendorf è iniziata pian piano la fame. Da lì fui trasferito senza mio cugino a Sandbostel. C’era Guareschi nella mia baracca. I prigionieri lì si erano organizzati. Sono rimasto in quel campo 6 mesi durante i quali la razione di cibo calò sempre di più e ci fecero stringere la cintura di molto. […] A Sandbostel ricordo però l’epidemia di tifo petecchiale. I tedeschi chiusero la nostra sezione di campo. Ci portavano il mangiare lasciandocelo all’entrata del nostro campo e senza entrare. Ci diedero un po’ di sapone per pulirci dai pidocchi. I nostri medici non avevano niente per curarci. Questa fu tutta la provvidenza dei tedeschi contro il pericolo del tifo petecchiale. Noi ci organizzammo per isolare all’interno del campo i malati e grazie a Dio l’epidemia non si diffuse. A Sandbostel facevamo degli spettacoli teatrali con uomini che si vestivano da donne e cantavano. In questi spettacoli si cercava di diffondere le novità della guerra un po’ mascherate da battute. Cantavano sempre questa aria: “Forse è una balla, ma forse chissà, potrebbe anche esser la verità…”. E giù: “Gli americani sono qua e vanno là…”. Finito il tifo petecchiale sono tornato a Wietzendorf dove ho vissuto gli ultimi mesi di prigionia. Lì la situazione era peggio di prima. Ritrovai mio cugino, ma tre mesi prima della liberazione lui mi disse: “Io non ce la faccio più. Sono di complemento, non sono un effettivo!”. Accettò di lavorare ed uscì dal campo. Lo mandarono a lavorare in Olanda presso una filanda dove trovò una donna e una casa. A Wietzendorf usarono anche la forza per mandarci a lavorare. A volte venivano dei contadini che avevano bisogno di manodopera e sceglievano i prigionieri guardando se erano robusti e se avevano buone dentature. Era come scegliere dei cavalli. Questo lo facevano con i soldati, li prelevavano e li portavano fuori, ma non potevano farlo con noi ufficiali che non volevamo aderire. I tedeschi avevano allora messo una cassettina come quelle delle lettere dove chi voleva poteva mettere un biglietto con il proprio nome e richiedere così di andare a lavorare. I tedeschi poi andavano a prendere chi aveva lasciato il biglietto e lo portavano via. Gli ultimi mesi non avevamo quasi niente da mangiare, ma tra gli italiani c’era sempre chi riusciva a fare commercio di roba da mangiare contro catenine ed orologi. […] Ci davano una pagnotta per baracca, fatta di pane umido che si tagliava bene e che riuscivamo, mettendoci molto tempo, a tagliare anche in 40 fette, un po’ di marmellata e di margarina e una minestra di rape
162
G. PROCACCI (a cura di)
fatta quasi solo d’acqua. Le fette di pane le mangiavamo come fossero ostie. Mano a mano che i tedeschi sgomberavano i campi ad est arrivavano nuovi prigionieri da noi e così arrivarono anche 4.000-5.000 [sic] ufficiali francesi ancora in perfetta uniforme. Loro erano protetti dalla Croce rossa, noi invece eravamo internati militari e non eravamo soggetti alla sua protezione. […] All’interno delle baracche dove dormivamo si formava il ghiaccio. Nei castelli non avevamo lenzuola, ma un pagliericcio con una sola coperta e stavamo sempre vestiti. Non abbiamo mai cambiato i nostri vestiti. Ogni tanto riuscivamo a lavare qualcosa ma di rado. Il problema del riscaldamento era forte. A Sandbostel i tedeschi ci avevano offerto la legna. Cioè dovevamo dare la nostra parola d’onore di non fuggire e andare a prenderla nel bosco fuori dal campo. Ma quello per l’ufficiale italiano rappresentava un problema perché era suo dovere tentare la fuga alla prima occasione. C’era però chi ci andava. Chi non ci andava si metteva in un angolino della baracca per ripararsi dal freddo. Le disinfestazioni le facevamo in 10 sotto la stessa colonnina della doccia passandoci uno a uno un pezzo di sapone. Alla fine ci buttavano addosso una specie di calce e c’era un russo che ci diceva: “Aprire pacche con dito”. Noi allora mostravamo i genitali e il sedere e lui con un pennello ci metteva sopra una specie di calce che bruciava. Dopo entravamo in una stanzetta per asciugarci ma non avevamo nulla per farlo perché i vestiti li avevamo lasciati fuori dalla baracca per la disinfestazione e i tedeschi non ci davano niente. Lì c’era freddo e la piccola stufetta in angolo non serviva a niente, per scaldarci saltavamo come indiani. Poi uscivamo a prendere in nostri panni che erano stati buttati per terra dai tedeschi dopo che li avevano disinfestati. Facevamo così anche d’inverno ma allora c’era anche la neve! […] Un giorno molti tedeschi sparirono e poco dopo arrivò una camionetta di inglesi che ci dissero che eravamo liberi. Dopo arrivarono due camion della Croce rossa e un tedesco che era rimasto disse di mandarne uno dai francesi che erano nel nostro stesso campo ma separati, e l’altro da noi italiani. Ma i francesi si opposero: “No il camion è francese e deve venire da noi”. Se lo ripresero così noi non avemmo nulla. Gli unici sostegni che abbiamo avuto sono venuti una volta dal Vaticano, un libretto di preghiere, un taccuino, gallette e zucchero, e una volta dalla Repubblica sociale. I francesi presero il comando del campo. Ma dopo una settimana tornarono le SS che ci volevano far fuori perché avevamo preso le scorte dei magazzini del campo. Tornammo prigionieri. Uccisero in quel periodo quel capitano tedesco che ci aveva dato di più da mangiare perché dicevano che così facendo aveva tradito la popolazione. I tedeschi, vedendo che non potevano combattere intorno al campo e provvedere al nostro sostentamento, proposero una tregua e ci portarono loro stessi dagli inglesi. Si formò una lunga colonna di francesi e italiani con davanti la bandiera della Croce rossa e loro ci accompagnarono fino alle linee degli Alleati. Mano a mano che ci avvicinavamo c’erano dei camion che venivano a caricare gli ultimi della colonna per portarli a Bergen, un grosso paese tutto sgomberato dagli Alleati in pochissime ore. Io avevo fatto quella marcia di 15 km tutta a piedi perché essendo in testa non avevo fatto in tempo ad essere caricato dai camion alleati. Arrivati lì ci assegnarono delle case e da parte nostra vi fu un vero arrembaggio, en-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
163
trando trovammo pentole e roba da mangiare ancora sul fuoco e nelle dispense. Le cantine erano piene di roba da mangiare. Nei giardini i tedeschi avevano seppellito casse piene di cibo e vestiti… e noi a scavare. […] In quella casa c’era anche una biblioteca con tanti libri che noi usavamo per il fuoco. Io mi ammalai, avevo la febbre e mandavo il mio amico in cerca di latte e medicine. Lui trovò una vacca ma gli italiani che l’avevano già presa non vollero che la mungesse. Accadeva lo stesso nei depositi: molti erano ancora pieni di roba ma quelli che li avevano occupati non volevano dare niente agli altri. “Questo è mio, lo tengo io!” Questa era la psicosi che avevano prodotto tanti mesi di prigionia e privazioni. C’era gente che dormiva tenendo abbracciati pacchi e pacchi di sigarette. Gente che uccideva maiali con chiodi e cucinava tutta la notte. Tutto era ormai stato messo sottosopra. […] Tra noi che rientravamo dalla Germania vi furono degli accertamenti e vi fu una discriminazione a seconda che avevamo collaborato o no. Io fui assegnato alla “prima categoria”, cioè tra quelli che non avevano collaborato. Infatti il tenente colonnello Pietro Testa, comandante militare italiano del campo oflag 83 di Wietzendorf, prima del nostro rimpatrio aveva rilasciato a noi che eravamo rimasti lì fino all’ultimo un certificato di non collaborazione con la Germania e con la Repubblica sociale. In seguito, dopo poco tempo rientrai in servizio permanente attivo. […] Non ne ho parlato con mio figlio. Io ne parlerei volentieri più che altro con altri che hanno subito la stessa sorte, ma oggi non interessa a nessuno, nemmeno ai figli interessano queste cose, quello che abbiamo passato noi nei campi. […] Anche noi che siamo stati nei campi abbiamo fatto la nostra Resistenza. […] Io allora ero nei migliori anni della mia giovinezza. Il mio è un ricordo triste. Si vedeva l’uomo umiliato. Si vedevano colonnelli che grattavano la marmitta della minestra, oppure presi a calci da un tedesco durante un trasferimento. Ci vedevamo tutti luridi nelle nostre divise da straccioni, non era bello. A Wietzendorf come a Sandbostel una corvée ufficiali andava a prendere il rancio e lo portava alla baracca e qui si faceva la divisione tra gli occupanti. Una pagnotta era in sette-otto persone e bisognava tagliarla. Noi avevamo creato le nostre bilancine di legno o cartone e spago. Però non ci accontentavamo di pesarle e a garanzia di imparzialità era incaricato della distribuzione “l’achiquestiere”, come lo chiamava Guareschi. Uno di noi si girava e allora quello che aveva tagliato la fetta diceva: “Questa a chi?”. Quello che era girato, senza aver idea di come fosse la fetta, pronunciava allora il nome di uno e a quello andava la fetta. […] Quando ci portavano la sbobba, uno la girava perché nulla restasse sul fondo in modo che la distribuzione fosse eguale, altrimenti c’era chi prendeva solo acqua, i primi, e chi prendeva le patate, gli ultimi. Sono scene che a ricordare umiliano l’uomo. Non mi ci sento bene a ricordare che dopo aver pesato la razione c’è un pezzettino di pane anche piccolo piccolo che per fare il peso giusto metti con la fetta sul lettino di quello che in quel momento non c’è, poi vedi un bel capitano di cavalleria anzianotto che si frega quel pezzettino e se lo mangia, sono cose che… Mi ha aiutato moltissimo la fede. Avevo il mio rosario e pregavo. Quando potevo andavo sempre nella cappellina. Anche la vicinanza di mio cugino fu per me importante.
164
G. PROCACCI (a cura di)
ENZO GOZZI - 1920 - Modena - Ufficiale Anzitutto vorrei sapere quando ha cominciato a fare il militare. Dunque, il 1° gennaio del 1940... sì ho fatto il corso di allievi ufficiali a Palermo e sono rientrato alla fine di settembre; poi dopo la prima nomina sono rientrato in Sicilia e ho avuto la fortuna che era un momento buono perché erano andati tutti in guerra e io con la enterocolite anemica... […] Me ne sono andato alla divisione “Trento”. […] Mi hanno preso su e mi hanno mandato subito alla stalag 307 a sud di Danzica là... Danzica che è lassù sul mar Baltico. Come andò l’8 settembre? Niente, mi ricordo che io ero di servizio ero distaccato... ho visto arrivare 2 carri armati tedeschi che mi hanno intimato la resa e mi hanno chiesto ... io non avevo nessuna notizia, nessun ordine, c’era poco da fare: o farti bombardare dai carri armati, tutti quelli che eravamo perché avevo anche una ventina di soldati e allora non potevo mica decidere le cose così. Cioè lei era distaccato con una ventina di uomini? Sì. Ero distaccato con una ventina di uomini in questo deposito e non ho avuto nessun ordine, nessuno si è fatto vedere. Non ho sentito nessun superiore, niente di niente; le dico mi hanno chiesto: la resa e di consegnare le armi, di consegnare quello che avevamo, io avevo la pistola d’ordinanza; mi hanno preso e dopo due giorni, subito in treno mi hanno mandato là in alto. […] Il viaggio è stato... ci hanno messo in vagoni non passeggeri, in 50 per vagone, vagoni bestiame, buttati là dentro, messi là dentro in modo orrendo, orrendo. […] Ah! Avremo impiegato una settimana, una settimana con le fermate e poi sempre via, non ci hanno mai lasciati uscire. Dentro, sempre dentro, quello che era di più lo buttavi fuori dal finestrino, e tutto lì. Due mesi li ho passati in quello stalag, poi il tifo petecchiale ha fatto fuori tutti, tutti i russi nel giro di due giorni sono morti ma decine di migliaia di russi e allora ci spostarono e ci hanno mandato a Deblin Irena, a Deblin Irena è stato il posto dove siamo rimasti parecchio, un anno circa. Il primo dove siete rimasti lì 2 mesi era... Era lo stalag 307 di... adesso non mi ricordo, ma comunque era proprio sotto Danzica, poi siamo venuti a Deblin Irena e qui ci siamo rimasti circa un anno e poi dopo a Deblin Irena anche qui sempre la solita vita. Era tremenda perché c’era un freddo boia, e quelle due volte che uscivamo per la conta era sempre necessario stare in movimento perché altrimenti ti gelavi i piedi. Da mangiare poco e poi il resto lo sa anche lei. Quand’è che vi hanno fatto i primi inviti ad aderire alla Repubblica sociale? Oh! Nel primo campo, quello di Danzica, no. Ce li hanno fatti a Deblin Irena. Qui a Deblin ci hanno cominciato a dire: “Se volete aderire alla Repubblica sociale vi facciamo rientrare in Italia”. Erano degli italiani, dei fascisti questi che venivano a farvi la propaganda? O erano tedeschi? No. Erano tedeschi, sempre tedeschi. Gli italiani cercavano di rimanere nascosti, davanti c’erano sempre i tedeschi, la colpa era sempre dei tedeschi.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
165
Vi hanno proposto di tornare... Sì ci hanno offerto di tornare in Italia, qualcuno ci sarà anche rientrato ma poca gente. Pochi perché molte mancanze non le abbiamo viste noi, qualcuno sarà anche andato, ma la maggior parte non ha aderito a questo e neanche a quello del lavoro. […] Il trattamento dei tedeschi nei nostri confronti, dire pessimo no, pessimo no perché ci hanno lasciato campare. Mangiavamo quello che ci davano, senza reagire, senza fare e allora ci tenevano così... ma se qualcuno avesse voluto ti eliminavano subito. Ecco, ti eliminavano subito. Cosa vi davano da mangiare? Ecco da mangiare davano un filoncino di pane che sarà stato mezzo chilo diviso in nove o in undici a seconda, delle volte era per nove delle volte per undici perché delle volte non ne avevano, e poi rape perché patate non ne abbiamo mai avute, erano rape: rape crude, rape cotte. Era tutto lì. E poi un po’ di margarina, magari erano capaci di darti un po’ di margarina. In ogni modo la situazione fisica era tremenda. […] Mi ricordo che siamo passati per Bergen-Belsen per esempio e Bergen-Belsen era un campo di annientamento e lì per fortuna ci siamo fermati solo nell’anti-campo dove ci hanno disinfestato, siamo rimasti lì una decina di giorni poi via subito perché non eravamo né prigionieri politici né ebrei e allora ci portarono via e ci mandarono a Wietzendorf, Oberlangen, a Sandbostel erano tutti campi vicino alla Ungheria. […] Una notte abbiamo cercato di andare a portare via qualche chilo di patate per mangiare perché anche allora si mangiava come si poteva... siamo andati dentro al ritorno con i fari ci hanno fermato e lì era un guaio perché o ti mettevano fuori oppure ti mandavano nei campi di lavoro negli arbeitslager dove dopo dieci giorni uno moriva perché ti facevano lavorare senza darti da mangiare, ci hanno presi noi due e ci hanno portati dal sergente, c’era un sergente e lui per cominciare ci ha chiesto: “Perché siete andati a rubare?”, e noi: “Perché avevamo fame. Questo è il motivo!”, lui ci ha guardati e poi ha detto: “Va bene, fuori dalla porta”, e poi hanno chiuso: era tutta una macerie perché Amburgo era stata bombardata. Ci siamo guardati in viso e poi via per le macerie e abbiamo avuto la fortuna di scappare in questo modo, cioè la fortuna perché loro non hanno voluto, il motivo è stato quello. Corri, corri, corri per mezz’ora in mezzo alle macerie ci siamo trovati dentro al giardino zoologico, allo zoo e abbiamo campato gli ultimi giorni allo zoo, nascosti. […] Ci hanno raccolti in un campo di prigionia tedesco, e poi lì, con loro, giocavamo a football con loro, partite con loro. Ah dopo è stato bello, perché avevo anche dei documenti perché io poi là avendo giocato anche avevo organizzato una squadra di football da giocare contro di loro. Una volta abbiamo fatto una partita e abbiamo vinto 5 a 0. […] Fra di noi si creavano dei rapporti di gruppo... infatti noi eravamo in sei-sette modenesi c’eravamo messi tutti assieme... Per il morale questo è servito? No, il morale vede allora era un’età abbastanza buona, il morale c’era, si pensava sempre di poter superare, finita la guerra di poter rientrare. Molti sono rimasti là, molti sono rimasti perché insomma la salute non è che abbia servito tutti in quel momento. Io ricordo che al momento della liberazione io ero sui 47 chili. […] Torniamo un attimo indietro sui tentativi di farvi aderire alla Repubblica sociale...
166
G. PROCACCI (a cura di)
No, no. Hanno tentato e anche più volte, molte volte. Secondo lei perché c’è stata questa non adesione? Perché noi pensavamo sempre al doppio gioco. E che fosse non vero quello che dicevano e che ci mandassero... e poi aderire alla Repubblica sociale era una cosa che almeno per me e per quelli che conoscevo, una cosa controproducente. Senza avere notizie di quello che stavano facendo, perché io poi certe notizie le ho imparate quando sono rientrato, quello che hanno fatto lì. Noi non avevamo notizie, avevamo informazioni da casa ma ti lasciavano, perché le aprivano tutte eh le lettere da casa e quindi quello che non andava bene a loro veniva tutto annerito, ti oscuravano tutto. E invece tentativi di far aderire al lavoro volontario? Quello sì. Quello lo hanno fatto ma senza... noi ad esempio lo hanno fatto d’autorità. […] Ma adesioni al lavoro ce ne sono state? Sì adesioni al lavoro qualcuna ce n’è stata. I motivi fondamentalmente quali erano? Motivi di salute. Per avere un trattamento migliore, cioè: “Lavoriamo e abbiamo un trattamento alimentare migliore”, più che altro. […] Negli ultimi campi eravate riusciti ad organizzare anche attività di tipo culturale? No. Ci trovavamo ma più che altro per parlare o meno perché allora la situazione fisica era tale che non ti permetteva... insomma non era un vivere, era proprio un vegetare. È stato proprio come essere una pianta per quel periodo lì. […] Ci dissero subito che noi saremmo stati gli ultimi a essere... a rientrare perché eravamo i perdenti, infatti è stato così. […] GIANFRANCO GOZZI - 1921 - Modena - Ufficiale […] L’8 settembre del ’43 io mi trovavo come ufficiale di artiglieria di complemento, nell’isola di Rodi, nel Dodecanneso. Ero dislocato presso una batteria di artiglieria contraerea che era stata dislocata a difesa di un aeroporto militare, circa a metà altezza dell’isola di Rodi. […] Io ero sottotenente perché ero uscito dalla Scuola allievi ufficiali alla fine del ’42; avevo iniziato il periodo di prima nomina agli inizi del ’43; ero stato in Italia fino al marzo del ’43, e poi ero stato trasferito nel Dodecanneso. […] Io ero uscito dal liceo classico e mi ero iscritto alla facoltà di ingegneria. Mi iscrivo alla fine di ottobre, non ricordo più quale era il termine, e un mese dopo sono richiamato; i primi di dicembre del ’41 stavolta. E faccio tutta la trafila del corso allievi ufficiali; allora la sequenza era questa: si facevano circa sei mesi di corso per allievi sottufficiali, si veniva nominati sergenti, e, come sergenti, si veniva poi introdotti nella Scuola allievi ufficiali di complemento facendo in pratica altri sei mesi. In totale il periodo di addestramento, di corso, per diventare ufficiali, si traduceva in circa 12 mesi complessivi. E allora partito nel dicembre del ’41, alla fine di dicembre del ’42, sono stato nominato sottotenente di complemento. […] Insieme a dei nostri amici commilitoni, scegliemmo, con un altro modenese, che anche lui era stato classificato tra i primi, scegliemmo la
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
167
divisione “Acqui”. E come tali fummo mandati prima al deposito a Merano, poi la successione regolare sarebbe stata l’invio nostro presso il reggimento vero e proprio, che era in zona d’occupazione in Grecia. È stata una scelta così, di opportunità; in quei tempi c’erano… io non mi sono mai sentito un eroe… in quei tempi c’erano il nostro esercito in Russia che era in ritirata. Il nostro esercito e le nostre truppe nel Nord Africa erano in estrema difficoltà. L’unica zona tranquilla cui un militare che non si sentiva eroe, era quella di scegliere un reggimento che fosse dislocato in una zona di occupazione. Questo è, detto in soldoni, il motivo per cui io scelsi quella destinazione. Dopo circa tre mesi di servizio di prima nomina a Merano presso la divisione “Acqui”, però, ci fu un cambio di programma nel senso che io fui assegnato di forza ad un reparto di artiglieria contraerea che era, diciamo, in corso di formazione, e doveva poi essere assegnato sempre in Grecia. […] Allora noi ci trasferimmo, trasferimmo i nostri reparti ad Atene, via terra, con queste tradotte militari, attraverso tutta la Jugoslavia... molta attenzione durante il percorso perché c’erano agguati partigiani possibili, in quelle zone. Arrivati ad Atene, dopo qualche giorno, fummo imbarcati per essere poi dopo portati fino all’isola di Rodi. […] Era un aeroporto italiano dove c’erano diverse batterie costiere e batterie contraeree italiane, e fra le altre, ce n’era anche una tedesca coi pezzi da 88. […] Tutti gli uomini del reparto iniziarono il corso di addestramento proprio da quel momento in poi, presso la batteria tedesca. Cioè, in pratica, ogni servente italiano si affiancava al servente tedesco cercando di imparare il funzionamento, i meccanismi, le armi, i sistemi di tiro, eccetera. Noi, per fare questo, naturalmente, la batteria tedesca era attendata nei pressi dei cannoni, diciamo così, no? Perché lì non esistevano delle caserme. Tutti i reparti erano attendati; sia i tedeschi che noi. Anche noi ci attendammo, il nostro reparto, ci attendammo metta a circa 600-700 metri dal reparto tedesco. Tutte le mattine i nostri uomini si trasferivano a piedi, perché erano 6-700 metri, presso la batteria tedesca; iniziavano, diciamo così, l’addestramento, la conoscenza dei pezzi, sempre con qualche interprete… […] I rapporti erano abbastanza, diciamo, amichevoli. Non c’erano problemi di sorta. […] Il 25 luglio cosa succede fra i soldati italiani, come è accolta la notizia? La notizia arriva naturalmente con plauso direi generale. La caduta del fascismo viene soprattutto interpretata come fine della guerra. Questo è lo spirito: caduto il fascismo… tutti contenti, felici e beati. E i tedeschi? I tedeschi sono più prudenti. Certo è che da un clima di cordialità, da un clima di cameratismo che si era stabilito, si passa invece ad un periodo di rapporti un po’ più freddi. […] L’8 settembre, quando arriva l’annuncio dell’armistizio scoppia addirittura il plauso generale. […] I soldati specialmente si lasciano prendere dall’entusiasmo, colpi di fucile sparati in aria, addirittura. E si pensa tutti, tutti quanti più o meno che la guerra è finita. […] Io comincio a sentire un po’ di imbarazzo e di preoccupazione. Insomma, dopo la lettura del proclama di Badoglio noi ci rendiamo in pratica conto che è un proclama veramente sibillino e restiamo proprio perplessi. In quel momento natu-
168
G. PROCACCI (a cura di)
ralmente il disegno dei tedeschi che sono lì è quello di disarmare l’esercito italiano. Subito. E l’esercito italiano con questi ordini dall’alto, perché il proclama stesso di Badoglio lascia nella più grossa incertezza; si ha l’ordine di resistere a delle provocazioni. In pratica di sparare solo se provocati. In pratica si dice non cedete le armi, però non difendetevi neanche se ve le vengono a prendere; questa è la sostanza del programma di Badoglio. […] Gli ufficiali superiori… Il nostro colonnello non si fa trovare. Probabilmente nemmeno loro erano in condizioni di poter dare disposizioni, perché mancava pure a loro il suggerimento o la direttiva da parte dei superiori loro, diciamo così. Il nostro colonnello del gruppo aspettava gli ordini dal suo generale che era a Rodi, per esempio. Quindi comincia il marasma… Non si capisce niente; ognuno interpreta secondo la propria coscienza, secondo la propria convenienza. Il giorno dopo, ripeto, o nelle tarde ore del giorno 8 settembre stesso, ci accorgiamo che i tedeschi occupano senza colpo ferire il nostro comando di gruppo. Cioè soldati armati tedeschi entrano nel nostro comando di gruppo, disarmano i soldati italiani e si insediano. […] A un certo punto gli uomini del reparto tedesco, della batteria da 88, cioè gli uomini con cui fino al giorno prima avevamo fatto l’addestramento, ci chiamavamo per nome, con un certo rapporto d’amicizia… eh, armati, si presentano nel nostro attendamento e ci fanno prigionieri. Nessuno spara. Cosa succede? Ad un certo punto succede che ci troviamo sia noi prigionieri, il nostro reparto almeno, sia i tedeschi che ci hanno fatto prigionieri, sotto un fuoco di artiglieria […] ci sono i proiettili che scoppiano in aria… Ma chi è che spara? Chi è che spara? Sono dei reparti italiani. Sono dei reparti italiani a circa quattro-cinque-sei chilometri dall’aeroporto, i quali interpretano il proclama Badoglio in un certo modo. […] Per una buona mezzora c’è stato questo scambio di colpi fra la batteria tedesca e una nostra batteria italiana, quella che non aveva voluto cedere le armi, alla quale si associano presto altri reparti italiani nelle vicinanze. Quindi ci fu un intenso fuoco di artiglieria proprio concentrato sulla batteria tedesca; purtroppo noi eravamo lì nei pressi. Ci furono molte perdite fra di voi? I tedeschi non so cosa abbiano perduto. Noi abbiamo mi pare tre morti e qualche ferito. Fra questi feriti, così per cronaca, ci fu anche l’allora tenente Natta, il futuro segretario del Partito comunista, che appunto serviva in una batteria italiana lì intorno. Ho vissuto con lui in quei quattro o cinque mesi. […] A un certo punto naturalmente il fuoco finì. Quando finì il fuoco, dato che c’era stato un fuggi fuggi generale, è ovvio, i tedeschi avevano abbandonato la custodia di questi prigionieri italiani, e noi ci siamo allontanati e siamo andati verso il retroterra, verso le montagne del retroterra perché a quel punto lì eravamo sulla riva del mare. […] Ad un certo punto il fuoco si era fermato, nessuno più sparava; allora qualcuno è andato a vedere cosa succedeva. Abbiamo saputo allora che in quel momento alcuni reparti italiani, quelli che avevano reagito contro i tedeschi, avevano ricevuto l’ordine vero e proprio di cedere le armi dai loro comandi
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
169
superiori, che quindi le cose erano finite, nel senso che tutti noi eravamo prigionieri di questi tedeschi. Siamo scesi dalle montagne, e lì si presentava in realtà una situazione curiosa, in questo senso; la prevalenza delle forze militari nell’isola di Rodi era di gran lunga a favore degli italiani. Mi pare di ricordare che noi avessimo nell’isola dai 25 ai 30.000 uomini complessivamente. Mentre i tedeschi avevano una sola divisione; era una divisione, diciamo, motorizzata, corazzata, molto meglio delle nostre, però avevano mi pare solo 5.000 uomini. E quindi, diciamo così, pur essendo i padroni della situazione i tedeschi, pur avendo disarmato in pratica tutte le forze militari italiane, si trovavano proprio in una situazione di inferiorità numerica nei confronti degli italiani; in quei momenti noi italiani commentavamo così: se ognuno di noi italiani prendesse un sasso in mano, e lo tirasse contro i tedeschi, avremmo già ribaltato la situazione. Tuttavia non ci fu reazione ulteriore in pratica, perché specialmente da parte della truppa non c’era nessuna intenzione di menare le mani. […] C’è stato nel periodo che ci fu dal 10 settembre... perché ci furono due-tre giorni di questi contrasti, di queste sparatorie, non solo nella nostra zona, ma anche in altre zone dell’isola... diciamo che dopo questi tre o quattro giorni si stabilì un periodo di aspettativa per cui c’era uno strano comportamento; gli italiani erano raggruppati nei campi di raccolta per le normali esigenze. Doveva funzionare la mensa, doveva... ’sta gente si doveva nutrire, insomma. Facevamo capo ai nostri centri di sussistenza, quelli che avevamo prima. Noi per esempio eravamo liberi, nessuno ci... Io come ufficiale ricordo benissimo che nei giorni successivi, dal 10 metta, dall’11 di settembre in poi, andavo molto spesso, diciamo, un giorno sì e un giorno no, andavo a Rodi facendo l’autostop a delle vetture tedesche... e andavo a Rodi. […] Continuavo ad avere la pistola, anzi, ce ne avevo due. L’unica cosa che ci fu in questo periodo così, di interregno, di sbandamento, fu intanto che i nostri soldati, non i tedeschi, razziarono tutto quello che c’era da razziare. Dove? Nel campo stesso. Io persi in quei giorni lì tutto il mio vestiario; ero rimasto solo... avevo un paio di scarponcini... sono stati i soldati del mio reparto e degli altri reparti a portarmi via tutto. Sono rimasto con quello che avevo addosso; una giacca militare, un paio di pantaloni e un paio di scarponcini coi calzettoni, perché non avevo neanche... gli stivaloni me li avevano portati via; ma è stata una razzia fatta da noi italiani, non certamente dai tedeschi e neanche dalla popolazione locale che in pratica, c’era pochissima gente lì in giro di greci, più che altro erano nell’interno. […] Questi 2-3 giorni vanno avanti parecchio, cominciano le voci, cosa succede, cosa non succede, adesso verremo rimpatriati, rimarranno solo i tedeschi a presidiare le isole, le notizie sono poche; in quei 15 o 20 giorni c’è la fantasia; più che altro la notizia a cui si vuole... alla quale si crede più volentieri è quella che ad un certo punto manderanno tutti in Italia; è questa un po’ la cosa. Comunque, diciamo che dal 10 fin verso la fine del mese, almeno per 15 giorni, la situazione è quella. Ci sono voci, l’ammiraglio... c’era un ammiraglio che era il governatore dell’isola, si dice che l’ammiraglio sia stato fatto prigioniero, che sia stato addirittura fucilato dai tedeschi... sa, ci sono tante voci incontrollate. Verso il 25-26 settembre, nella mia zona, almeno circa un 20-25 ufficiali, tra i quali io,
170
G. PROCACCI (a cura di)
veniamo imbarcati su un aereo tedesco. Ci si dice andrete a casa. Vi portiamo ad Atene per il rimpatrio. Ci siamo imbarcati su uno Junkers 88, i famosi aerei da trasporto, quelli fatti col lamierino ondulato, e viaggiamo di notte, passando su una delle isole del Dodecanneso, siamo fatti bersaglio di un tiro di contraerea; evidentemente era un’isola presidiata da reparti italiani che erano ancora in piena efficienza e che sparavano contro un aereo tedesco. Sbarchiamo di notte da quest’aereo, ad Atene. Anche ad Atene siamo radunati in un campo di raccolta. Lei ha ancora la sua pistola? No, la pistola poco prima di salire in aereo, ci hanno detto le pistole non le potete portare. Quindi la mia pistola l’ho consegnata ad uno del mio reparto, a un soldato del mio reparto dicendo... I nostri uomini, diciamo così, vedendo che gli ufficiali vanno via, che partono, chiedono consiglio, ci chiedono consiglio: voi andate via, dove andate? Ma non lo sappiamo. Ci portano, dicono che ci portano in Italia, ci rimpatriano. Ma noi cosa dobbiamo fare? Circola in quei momenti, comincia la propaganda. Invitano il personale militare ad aderire alla Repubblica sociale. […] Però non so se questa operazione di propaganda per persuadere le forze italiane ad aderire alla Repubblica di Mussolini, sia iniziata... secondo me è già iniziata quando eravamo ancora a Rodi. […] Ad Atene ci sono abbondanti possibilità di acquartieramento per delle truppe e quindi anche per noi, e restiamo lì circa una settimana; anche lì liberi, […] andiamo, usciamo... il nostro campo di raccolta è periferico alla città, noi andiamo in città, andiamo al caffè. Lì la vita si svolge normalmente. Andiamo al mercato, comperiamo, vediamo, parliamo con la gente locale. […] In quei giorni parliamo con degli ufficiali, dei graduati italiani che appunto cercano di convincerci ad aderire alla Repubblica sociale, promettendo un rientro immediato in Italia. […] Non accettiamo prima di tutto per motivo ideale, perché non ho mai condiviso quella impostazione della guerra e soprattutto l’impostazione fascista; e poi anche proprio per convenienza. I discorsi che facevamo spesso tra i colleghi erano: “Adesso la nostra situazione è quella di un prigioniero militare”. […] Diciamo che il 3-4 di ottobre cominciamo... andiamo con una tradotta militare. Tradotta militare formata da soli carri merci aperti completamente. […] Noi viaggiamo... cioè, questi treni erano costituiti da solo carri merci, basta. Su un carro metta ci sono due o tre soldati tedeschi, e sugli altri 10-15 vagoni aperti ci sono tutti i prigionieri italiani. Diciamo 30 persone per carro circa, 35 persone. […] Alle stazioni ogni tanto ci fermiamo, prendiamo acqua, uno scende, prende l’acqua alla fontana. Prima di partire ci viene distribuita una pagnottona metta da un chilo, due chili, qualche scatoletta, cioè il solito pasto freddo, quello che serve per il militare che è in trasferta, per gli spostamenti. Niente ci fa pensare a questo. E cominciamo a viaggiare: nord, Bulgaria, attraversiamo la Bulgaria. Ancora nord, attraversiamo la Romania, sempre con le stesse modalità. Ci fermiamo ogni... che so io, 100-200 chilometri... stazioni, tutto offerto. Chi scende, magari va alla toeletta; magari ci informiamo... il treno sta fermo mezz’ora, un’ora, magari per aspettare una coincidenza... uno va alla toeletta, uno va a prendere acqua.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
171
[…] Due o tre persone del mio vagone a una fermata di una stazione ungherese scendono per prendere acqua o per andare a gabinetto, non so che cosa. Informati male sul tempo di attesa del convoglio, perdono il convoglio. Il convoglio parte senza di loro. Restano in Ungheria. Il capostazione ungherese si accorge di questo e offre loro di nasconderli, farli contattare con la Resistenza, anche lì c’è Resistenza, come in tutti i paesi occupati dai tedeschi, e offre loro di nasconderli, di... Questi rifiutano, prendono il treno utile successivo e raggiungono di nuovo la tradotta, raggiungono di nuovo i loro amici, i loro reparti, raggiungono lo stesso treno che hanno perduto. […] Perché... perché un po’ la convinzione di tornare in Italia, un po’ il rifiuto di correre un’avventura che loro ritenevano che non fosse da correre. Perché devo fermarmi in Ungheria in mezzo a questi contrasti, cosa faccio... sono qui alla mercé di tutti. […] Arriviamo nei pressi di Vienna, mi pare, dove ancora noi vogliamo credere che ci fanno rientrare in Italia. Siamo fermi in una stazione di fianco a un treno viaggiatori, civile, dove c’è del personale dell’ambasciata italiana a Tirana o giù di lì, che rientra in Italia, familiari, donne, mogli, bambini... che così scambiamo... dove andate? Eh, rientriamo in Italia. Anche noi speriamo di rientrare in Italia. C’è questa atmosfera fra di noi. Verso sera partiamo da Vienna diretti in Italia, si dice. Sempre vagoni aperti. Quei due o tre soldati tedeschi armati metta nel primo e nell’ultimo vagone. Il treno comincia a viaggiare e in piena notte, diciamo intorno all’una, in mezzo al buio, mentre il treno cammina, naturalmente è freddo di notte, si socchiudono i portelloni, qualcuno si sveglia e guarda fuori dai finestrini, non dal portellone perché vien dentro aria fredda. Guardando fuori dal finestrino, c’è uno che lancia l’allarme e dice: “Abbiam passato una stazione dove c’è scritto Passau. Passau non è sull’itinerario che da Vienna conduce in Italia, insomma!”. […] Continua per almeno sette-otto giorni questo viaggio fino a che arriviamo, il mio reparto il mio treno, arriva in Polonia nei pressi di Varsavia, circa, metta 20-30-40 chilometri verso est, sul parallelo di Varsavia, circa; in un paese che si chiama Siedlce. E lì ci fanno scendere, coi nostri miseri bagagli, che eran costituiti in pratica da uno zaino con dentro poche cose, perché io avevo questo cappotto per fortuna, militare e con seisette-otto chilometri a piedi scortati da soldati tedeschi armati, ci portano in un campo di concentramento, quelli classici tedeschi. Torrette, baracche di legno, reticolati, doppi reticolati, zona di sicurezza, il classico tipo di campo di concentramento. […] Noi siamo lì, ripeto, non siamo costretti, restiamo lì da mattina a sera, difficile anche passare il tempo in un certo senso. Ci si organizza, diciamo così... appello naturalmente al mattino, adunata appello generale, e poi dopo libertà fino a distribuzione dei viveri, pane, un pochino di burro, due patate, quello che sia, qualche brodaglia e poi, niente, ci si organizza noi, che so io, a fare delle conferenze. […] Come erano i vostri rapporti con le guardie tedesche? Era un rapporto normale. I soldati che erano addetti a questi campi di concentramento erano una truppa di età elevata. Erano dei territoriali molto anziani. Con noi i rapporti erano normali. C’era sì qualcuno che un po’ ce l’aveva con noi ma in generale i rapporti erano normali. Non subivate maltrattamenti?
172
G. PROCACCI (a cura di)
No, direi proprio di no. […] Ovvio invece che se qualcuno avesse mostrato piena ostilità con azioni contro qualcosa del campo come baracca o reticolati allora scatenava l’ira dei tedeschi. Se loro vedevano in qualcuno di noi uno che o facesse ammutinamento o che sobillasse gli altri facendo atti veramente ostili a loro è chiaro che loro rispondevano a dovere. Il gratuito atto di maltrattamento nei nostri confronti direi di no. […] Qualche ufficiale italiano arriva lì, evidentemente dall’Italia o dalla Germania, si qualifica e ci invita ad aderire… Qualcuno aderisce? Non mi risulta. Perché nessuno aderisce? In fondo siete provati e vi si offrono condizioni migliori. In quel momento, noi forti della nostra posizione di prigionieri con le garanzie della Convenzione di Ginevra cui ci appelliamo, siamo convinti: nessuno ha voglia di tornare in lizza. Andare ad aderire vuol dire ancora andare a far parte di un esercito che è affiancato ai tedeschi e combatte contro gli inglesi e gli americani. Si rischia ancora la pelle. […] Il secondo campo infatti si trova tra Brema ed Amburgo, si chiama Sandbostel. Vi sono lì concentrati 5-6.000 ufficiali italiani. Ritrovo ancora altri commilitoni di Modena e dei corsi fatti. Anche lì la solita vita. Si passa la giornata dopo l’appello con ginnastica, conferenze, qualche recita, dei concertini. Qualcuno organizza addirittura un teatro. Oltre che docenti universitari vi sono degli artisti. Lì restiamo fino al settembre ‘44. […] L’unica cosa che ci disturba è un po’ la dieta. In base alle nostre conoscenze in Germania esistevano 6-7 diversi livelli di dieta a calorie crescenti; si partiva da 1.100-1.200 calorie e si arrivava a 5-6.000 calorie al giorno ed erano le diete previste per le varie attività. A noi prigionieri che non eravamo costretti a lavorare e che stavamo lì dalla mattina alla sera a non far niente era riservata quella minima, 1.100-1.200 calorie, che probabilmente per uno con metabolismo normale poteva anche andare ma con qualcuno che avesse qualche disturbo era un po’ risicata. […] Verso la fine dell’anno, novembre-dicembre ‘44, ci hanno trasferiti ancora ed io ho fatto così il mio terzo ed ultimo campo, Wietzendorf. […] Nei tre mesi che passiamo a Wietzendorf non è che ci chiedono di lavorare ma ce lo impongono. Noi, io e il mio amico, veniamo obbligati ad uscire dal campo per il lavoro. Nel corso del 1944 la nostra posizione giuridica unilateralmente era stata trasformata da prigionieri di guerra ad internato militare. La Repubblica sociale italiana, d’accordo con i tedeschi, ci aveva cambiato lo status. Questo era un modo di eludere quelle che erano le norme della convenzione. Al momento di necessità hanno potuto costringere alcuni ufficiali, ma non tutti, a lavorare. Il mio amico ed io fummo avviati ad una piccola fabbrica situata a Lerhte, circa 15 km a nord di Hannover. Era una vecchia fabbrica di laterizi riorganizzata per la costruzione di sonde per la ricerca petrolifera e per la ricerca di acqua, si lavoravano le tubazioni e le strutture per le trivellazioni. […] Io fui affiancato come garzone ad un operaio metalmeccanico tedesco. […] Come la trattava l’operaio tedesco cui era stato affiancato? Bene, bene. Era un buon rapporto. Il trattamento era sempre la conseguenza dell’essere considerati un essere inferiore. L’operaio non considerava l’operaio italiano come invece considerava in generale inglesi e americani per esempio.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
173
[…] Siamo dei lavoratori liberi, tra virgolette, abbiamo la libertà di circolare nel circondario. Abbiamo un documento e andiamo in giro, andiamo al bar, al ristorante, quello che c’era allora. Andiamo per esempio sempre dove viene servito per tutti come piatto principale un certo piatto che si chiama stamlager [sic]. Una brodaglia a base di patate con un po’ di verdura e scarsissima pasta. Un minestrone molto, molto, molto diluito. È l’unico piatto libero che viene servito perché tutto il resto è sotto razionamento. In più noi già come operai abbiamo diritto ad un tipo di dieta superiore a quello che avevamo prima. Ci danno qualcosa in modo da mettere 1.800 calorie in vece delle 1.100-1.200 di prima. […] Quando mangiavate fuori, con cosa pagavate? Pagavamo con il salario che percepivamo lavorando. […] Ad un certo punto non si vedono più militari tedeschi in giro. Ci sono tre giorni di interregno, la popolazione civile tedesca non esce di casa. Si vedono solo gli stranieri: olandesi, francesi, inglesi, italiani, turchi, jugoslavi, polacchi che si trovano lì a lavorare. Solo loro girano e iniziano a razziare. Sono tre giorni in cui anch’io personalmente vado alla stazione e con altri rompo i portelloni dei vagoni ferroviari e razziamo le masserizie della popolazione tedesca orientale che era stata evacuata di fronte all’avanzata delle truppe russe. Tutte le popolazioni della Pomerania erano fuggite con le loro cose. Noi andiamo a razziare gli abiti, vettovaglie, tutto quello che si può prendere, sacchi di fagioli, di fave, tutto. Sono tre giorni di interregno. Gli Alleati non si vedono ancora. Poi finalmente compaiono gli americani. Si vede qualche jeep in avanscoperta, poi arriva qualche carro armato… Sono i famosi liberatori. Dopo un giorno o due riprendono l’avanzata all’inseguimento delle truppe tedesche che fuggono e subentrano agli americani le truppe inglesi che prendono possesso della zona. […] Come vi trattano gli inglesi? Loro ci trattano un po’ duramente. Anche lì c’è proprio il disprezzo nei nostri confronti. Questa è una sensazione datami dai loro atteggiamenti verso di noi. […] Forse perché non ci stimavano come esercito. Non ci stimavano come popolo. Aspettiamo che organizzino il nostro rimpatrio. Non ce la sentiamo di partire a piedi o di rubare una bicicletta o di prendere un treno che non sappiamo dove va. Aspettiamo che ci sia un’organizzazione. Passano due mesi da aprile a giugno e visto che nessuno si muove prendiamo noi l’iniziativa. Sempre con quel mio amico decidiamo di portarci a 50 km da Lehrte a Braunschweig dove c’era una sede dell’Unra, l’organizzazione delle Nazioni unite che si occupava delle gente che era lì, etc. Ci troviamo di fronte ad una commissione formata da inglesi e americani, gli diciamo il nostro stato, ci fanno l’interrogatorio e poi organizzano il nostro rimpatrio. A metà luglio una tradotta da là ci porta fino in Italia. […] Il ricordo dell’internamento è un ricordo pesante per lei? No, assolutamente. Forse perché è andato tutto bene. […] Quei periodi lì non li ho vissuti come dei periodi che bisogna dimenticare. […] D’altra parte quello che mi ha aiutato molto è stato anche il fatto di essere molto giovane e inesperto, cioè di non avere già il carattere ben formato e corazzato di modo che una piccola variante possa incidere. Ero più malleabile, più duttile in certe cose. Certo che quando prendi un cin-
174
G. PROCACCI (a cura di)
quantenne o un sessantenne e lo costringi a star lì e a fare quello che facevamo noi, allora... UGO GUALDI - 1920 - Carpi (Mo) - Sottufficiale […] Il mio grado? Sottocapo cannoniere armarolo, cioè, addetto alle armi. Il corpo di appartenenza era... La marina militare […] han fatto l’esame e mi hanno classificato cannoniere armarolo, allievo cannoniere armarolo. Dunque, data 15 gennaio 1940. Sì. Ed eravate di stanza a La Spezia? A La Spezia perché era il corpo allora chiamato Deposito Crem, Corpo reale equipaggio marittimo, a La Spezia. Però, diciamo, io rimasi lì un po’, e dopo fui avviato per l’arruolamento e prima di essere destinato, ho fatto un corso all’arsenale di La Spezia; cioè di tutte le armi. […] Difatti feci il corso, fui promosso e destinato alla III Batteria 76-40 con destinazione Grecia. […] Il 17 di ottobre sbarcammo a Patrasso. Da Patrasso fummo avviati verso la destinazione definitiva nella baia di Navarino, e lì venne formata la Batteria 76-40 e piano piano, per entrare in Batteria ed essere attivi. […] E lì a Navarino l’8 settembre, noi apprendemmo la notizia dell’armistizio, nel pomeriggio dell’8 settembre, nel pomeriggio. Il comandante, che era un romano, ci disse che Badoglio aveva firmato l’armistizio, insomma, che l’Italia non si considerava più belligerante; però ci dovevamo considerare, adesso coi tedeschi; noi avevamo le batterie anticarro sopra alle nostre teste, cosa facciamo? E fu presa la decisione di non combattere perché col modello 91 non si combatte. E anche se noi avessimo sparato con i pezzi d’artiglieria del 76-40, ai tedeschi non succedeva niente, perché loro, al primo colpo, ce ne scaricavano che veniva finito. E poi... Quindi i comandi decisero di non combattere... Decisero di non combattere. Allora, sì, si pensò di minare il deposito munizioni, perché i partigiani cominciavano, diciamo, naturalmente, a sorvegliare noi; e allora prendemmo gli accordi con persone che noi non abbiamo mai né visto né conosciuto per minare il deposito munizioni, che però sarebbe dovuto saltare quando noi eravamo via, perché sennò ci facevano... dopo non so quello che è successo. Fatto sta che, dunque, l’8 settembre, nel pomeriggio, venne comunicato questo; il 12 settembre, nel pomeriggio, si presentò la SS con il comandante in prima. […] Venne lui ad accompagnare questi tedeschi. Dicendo di trasferirvi poi a Pilos. Là a Pilos, su nel castello di Navarino. E difatti fu così. […] Fummo portati lì, nel castello di Navarino, poi il giorno 13 da lì ci han portato a Calamata, che è un paesino, diciamo paesino, io non l’ho mai visto, comunque abbastanza grande. Da Calamata prima di uscire dal castello di Navarino siamo stati spogliati. […] Quando capimmo che venivamo spogliati ancora d’altra roba, io indossai due maglioni blu, due corpetti bianchi, una divisa di macchina in più, il paltò, sa quello blu; di conseguenza, cercammo di rifornirci di quel materiale che poteva. […]
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
175
Ma quando viene trasferito al castello di Navarino, vi avevano già disarmato? Sì, sì, già disarmati; perciò quello che io avevo era dentro in un bauletto, che mi aveva fatto un falegname, dove c’eran sigarette, l’olio, la pistola Beretta calibro 9, le munizioni; erano lì dentro. Quando venne il tedesco, aprì questa valigetta e controllò tutto, l’arma, le pallottole... l’olio era andato disperso per terra e, di conseguenza, dopo questa rivista generale, che noi non capivamo poi niente perché i tedeschi non avevano mai avuto rapporti con noi, e noi nemmeno con loro. […] Ci hanno imbarcato lì sopra e siamo arrivati ad Atene. […] Ad Atene fummo, diciamo, portati in una caserma. […] Da questa caserma, sporgendomi da una finestra, vidi dei corpi coperti con lenzuola bianche tutte sporche di sangue. Ci dissero che erano militari fucilati, che erano della divisione “Acqui”, a Cefalonia, che erano stati catturati a Cefalonia. Di lì, fummo imbarcati sul treno e, piano piano... oh, senza mangiare, eh! […] Ci siamo arrangiati noi, o i greci che ci portavano qualcosa, perché noi li avevamo aiutati; i greci ci portavano, allora c’era anguria, c’era melone, del pane. […] Da Atene, con varie peripezie, dunque, siamo arrivati a Skopje, in Bulgaria. A Skopje, notammo... siamo scesi dal treno e, là in fondo, c’era un treno, diciamo, come, non... erano degli ebrei, secondo noi. Ebrei, con tutti i finestrini con le grate di filo spinato, quella roba lì; chiedevano, poverini, da bere, e noi da bere non ne avevamo. E di conseguenza, cosa potevamo fare? Niente, non avevam niente per aiutarli, poi c’erano tutte le guardie tedesche che controllavano quello che noi facevamo e guai se uno si fosse avvicinato, c’era il fucile mitragliatore che partiva. […] Da Skopje, poi avete proseguito per Belgrado. Sì, per Belgrado, arrivammo a una stazione periferica di Belgrado, e, ci fecero scendere dal treno e il nostro comandante venne avvicinato da tedeschi e da un traduttore, il quale ci chiedeva quali intenzioni erano le nostre: o internati, o Repubblica sociale italiana o collaboratori. Quindi i vostri comandanti erano rimasti con voi? Sì, sì. I nostri ufficiali erano rimasti con noi. Il comandante disse: “Io non vi posso dir niente. Da questo momento io non sono più il vostro comandante perché le responsabilità ve le prendete voi. Allora, un passo avanti collaboratori, un passo indietro Repubblica sociale italiana e, quelli che... internati militari, state fermi”. E io fui tra quelli che rimasero fermi; gli altri non so dove siano andati, gli altri, non li ho mai più visti. […] Ma foste in molti a rimaner fermi, o ci furono parecchi che aderirono, lì a Belgrado? Ma, noi... io parlo della marina militare, del nostro gruppo che erano circa una settantina, perché ce n’erano di quelli che erano in licenza che non sono potuti rientrare, io... fummo in sette, su settanta e qualcosa; perché poi non so quello che è successo dopo, io non ho visto più nessuno. […] A Vienna, siamo stati messi sul carro bestiame, com’eravamo sul carro bestiame da Atene a Belgrado, e lì arrivammo a Norimberga; non Norimberga città, in un campo di smistamento. […] Allora, dopo qualche giorno, fummo, diciamo, chiamati in fila e ci fecero le domande di rito, e cioè, se noi, dovevamo aderire ai lavori specializzati, come meccanici e compagnia bella, o se, quello che noi facevamo in rapporto al grado che avevamo... […] Allora, quando capimmo che loro ci volevano mandare in fabbrica, io strappai i gradi e la qualifica, e quando arrivai sotto: “Was ist dein arbeit?”, ho capito subito quelle tre parole lì, allora io gli dissi che io facevo il mu-
176
G. PROCACCI (a cura di)
ratore. E difatti fui mandato allo stammlager XIIID, di Norimberga, dove c’era, diciamo, questo campo di raccolta e, diciamo che, di lì poi, era il mese di ottobre, ottobre del ‘43, di lì siamo andati in questo campo di smistamento, al XIIID di Norimberga, e lì, tutte le mattine, venivamo avviati per i lavori. […] Quando invece siamo arrivati allo stammlager XIIID, allora lì, naturalmente ci fecero una ramanzina, per arruolarci perché eravamo traditori, perché non pensavamo alle nostre famiglie, alle fidanzate, alle sorelle e ai papà e alla mamma... e che in Italia era nata la Repubblica sociale, e che noi dovevamo aderire. […] La vita del campo purtroppo, era misera. Eravate in baracche? Eran tre baracche. C’era il campo che era tutto segnato col filo spinato; poi c’eran le torrette, che di notte, quando era uno di guardia, se c’era qualche evasione, diciamo che... veniva, sì, colpito, eccetera. […] Nel campo di Norimberga, le sentinelle erano giovani tedeschi o erano territoriali? No, c’erano in prevalenza delle persone che rientravano dal fronte, e con noi erano molto, diciamo, comprensive, perché avevano combattuto, però, quando in Italia c’era la faccenda di questi partigiani che commettevano degli assalti, eccetera, eccetera, allora si riversavano su di noi. Però, in generale erano gli Hitlerjugend, i giovani, i giovani che erano fetenti. […] Dunque, lì, quando fui trasferito lì in Diesburgestrasse, dai fratelli Kolp, lì, insomma, cominciai a mangiare decentemente; ecco, veramente, dal campo di concentramento a lì... mi davano qualche volta la marmellata, le patate eran patate, qualche volta c’era il würstel. […] Noi abbiamo visto una volta, quando mi trovavo lì in Diesburgestrasse, i... quelli che erano in campo di concentramento a Langensalz, che era... quello era un campo di eliminazione. E quello è stato un colpo... perché, noi ce ne siamo accorti che quelli venivano da un campo di eliminazione dove erano arrivati gli americani e, per non farli vedere li avevano trasferiti in un altro posto. Beh, sembrava di vedere la divisa che camminava, sembrava che non ci fosse niente, era una cosa... non avevo mai visto un lavoro del genere. […] Io avevo un santino, lei lo ha visto. E questi santini, dico la verità, per me, diciamo, tutti i giorni mi raccomandavo a Nostro Signore, perché potessi rientrare in Italia e riabbracciare la mia famiglia, quello sì. […] La spinta di rimanere sulle mie posizioni è stata il giuramento fatto alla marina militare; questo l’ho detto, lo manterrò sempre. […] I bombardamenti, noi li avevamo perché su Norimberga venivano, venivano i “Liberator”, chiamati, che venivano dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Italia. E allora su Norimberga venivano fatte le discese di questi proiettili che erano bestiali; si sentivano le esplosioni che erano un lavoro, guardi... e poi la contraerea tedesca che... Quella era contraerea. Non quella che avevamo noi a Navarino. Quella là era veramente contraerea, cioè che andava su a 12.000-13.000 metri, 14.000, che noi a malapena arrivavamo a 3.000 metri, per dire. […] Gli americani, quando sono arrivati, perché noi, siamo stati liberati quel giorno lì, il 17 aprile del ‘45, quando gli americani sono arrivati ci han detto: “Ci raccomandiamo solo una cosa, di non commettere azioni ostili contro la popolazione, ci pensiamo noi. Voi avete avuto la vostra liberazione ma non dovete commettere degli omicidi e compagnia bella”. […] Dissero: “Se volete rubare, rubate, da mangiare, rubate del vestiario”,
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
177
cosa che ho fatto, del mangiare perché avevam fame. Poi, quando sono arrivati gli americani, tutto il giorno ci davano un pacchetto, un pacchetto dove c’era di tutto. Perciò... c’eran perfino il chewing gum, quello che usavano loro; c’eran le sigarette, c’erano i biscotti, c’erano scatole di carne, fagioli, tutta roba in scatola, comunque, si mangiava. […] Poi dopo il 16 giugno, senza che nessuno mi dicesse niente, mi son preso la mia roba, le mie povere cose, assieme a uno di Quistello e a uno di Macerata, con un carrettino, ci siamo avviati alla stazione di Norimberga, che era poi non era la stazione, era come un deposito di treni, e siam capitati lì che c’era una sentinella americana, e allora gli abbiam chiesto, gli abbiam fatto vedere il documento col lasciapassare, e allora, ci disse: “Andate qui sopra, che va a Monaco però, non toccate niente”. Perché eran tutti viveri, e allora, lungo la strada, una volta partito il treno, abbiamo aperto gli scatoloni, c’era tutta la roba... diciamo, marmellate, frutta sciroppata... e noi abbiam mangiato, non avevam niente. […] Poi siamo arrivati ad Innsbruck, ed a Innsbruck, c’era la Pontificia commissione di assistenza, allora, che raccoglieva tutti gli internati militari, e, di lì, ci han portato a Pescantina, perché era il luogo in cui veniva fatto lo smistamento; poi da Pescantina, c’era un mezzo, sempre civile, dell’Opera di assistenza dell’epoca, che ci ha portato, diciamo, verso Modena. […] VITTORINO LOTTI - 1921 - Polinago (Mo) - Soldato L’8 settembre ero a Prato. Facevo servizio con i carabinieri a sorvegliare gli stabilimenti perché portavano via tutto. Eravamo un carabiniere e due soldati, io ero al 4° autocentro di Firenze. Il 9 settembre siamo rientrati a Firenze a Fortezza da Basso, l’11 sono arrivati i tedeschi e lì fermi tutti e portare le armi in cortile. Siamo stati lì fino al 19 settembre quando siamo partiti per la Germania: 40 per ogni vagone bestiame. […] Siamo arrivati in Germania il giorno dopo. Quando siamo arrivati lì […] ci hanno messi tutti sotto un tendone. La notte è venuta la neve ed è caduto tutto. Il giorno dopo eravamo tutti immersi nella melma ed arrotolati dentro il telone sporco. Siamo stati lì una quindicina di giorni, poi una mattina ci hanno portato dai contadini al mercato. Loro ci prendevano in base al bisogno che avevano a fare la campagna delle patate, chi quattro chi cinque. Saranno stati mille i contadini. Lì si stava abbastanza bene. […] Ci davano da mangiare cinque volte al giorno: tre volte in campagna e due a casa. La famiglia mi trattava benissimo. […] La padrona ci diceva sempre: adesso quando andate in fabrik, quando finisce la campagna delle patate a fine ottobre. E aveva ragione. Lì cominciano i guai. Sono andato a finire in una fabbrica di carburo a Burghausen a otto km da Monaco. Se ne facevano 2.000 quintali al giorno, tre forni ad un calore tale che dove stavamo coi piedi, gli zoccoli di legno che ci avevano dato facevano il carbone. La pelle saltava via dalla faccia, a quattro metri dai forni si doveva stare attenti a non mettere la schiena contro il muro. Ci davano durante le otto ore due litri di birra, poi tenevamo il rubinetto dell’acqua sempre aperto, se no bolliva. […] Eh, lì dentro c’erano i buoni e i cattivi. Si subivano delle umiliazioni tremende. Era proibito anche agli operai tedeschi di darci da mangiare e
178
G. PROCACCI (a cura di)
loro piangevano per noi perché durante la pausa, e si faceva mezz’ora di lavoro al forno e mezz’ora di pausa altrimenti non si resisteva, mangiavano pancetta affumicata, dicevano che si doveva mangiare del grasso per resistere al calore, e ci vedevano guardarli. C’erano degli operai con cui lavoravamo assieme e quando si passava loro vicino ti davano uno spintone o ti sgambettavano per attaccare lite sempre. Ho visto due o tre casi dove eravamo solo lì ad aspettare la fucilazione. […] Quando hanno bombardato Monaco siamo andati anche noi, che eravamo a otto km di distanza, ad aiutare a sgomberare le macerie. Fatalità mi avevano messo a spalare un vagone carico di zucchero che si era sparso dappertutto. Lì a leccarlo su in terra e a metterlo in tasca con polvere sabbia e quello che c’era. […] Lì in terra con la lingua a leccarlo su perché si mangiava anche la roba che era dentro ai bidoni. […] Dopo che siamo passati ad internati civili allora ci si poteva allontanare tre-quattro km. La fuga era ammessa ma ne son venuti a casa pochi. Molti hanno provato a scappare ma le guardie li fucilavano subito. […] Ho cominciato a negoziare le sigarette. Eravamo in 40 in baracca e ci davano due Nazionali italiane a testa al giorno, i tedeschi andavano matti per le nostre sigarette e con quelle lì si trovava anche del pane. Per un pacchetto di sigarette ti davano anche tre chili di pane. Ti davano la tessera e con quella si andava a ritirarlo allo spaccio. Per ogni pacchetto di sigarette mi rimaneva anche mezzo chilo di pane per me. Coi soldi niente da fare. Si spendevano allora anche 100 marchi per un chilo di pane. Un contadino vendeva una mucca per 70 marchi. Invece con le sigarette si andava bene. […] Quando termina la sua permanenza nella fabbrica? Quando sono arrivati gli americani è allora arrivata la pacchia. Se non posso ringraziare l’America non posso ringraziare nessun altro. L’Italia non la ringrazio per niente. Ci hanno abbandonati tutti. Non ci hanno dato niente a noi. Eravamo in 17 nazioni lì dentro a tutti ci arrivava della roba, solo noi italiani non eravamo assistiti da nessuno. […] Quando sono arrivati gli americani […] arriva una colonna immensa e un carro armato si ferma all’entrata del nostro campo. Sono venuti dentro e noi tutti a gridare e festeggiare. Hanno cominciato subito a buttare all’aria delle caramelle, ma ne avevano dei sacchi, e ci hanno dato da mangiare, facevano così ed era come dare da mangiare alle galline. Offrivano sigarette e tutti accorrevano. Ci hanno dato ordine di rompere le porte dei magazzini. Erano pieni di roba. C’erano delle botti di cognac, c’era il rubinetto ah, ma caro mio, eravamo in tanti e allora con il mitra tiravano e facevano una fila di buchi che veniva fuori del cognac francese da tutte le parti. Abbiamo riempito tutti i barattoli, sporchi, puliti, come erano e tutti i bidoni che si trovava. Ed ogni ben di dio: farina, olio, tutta roba che hanno portato via da tutte le nazioni. […] Un giorno finalmente parto con altri, ci fermiamo in una città e arrivano dall’Italia dei camion mandati dal Vaticano e dalle parrocchie. Io ho trovato quelli di Reggio. […] [subentra a raccontare la moglie] I prigionieri che rientravano non erano ben visti dai partigiani del posto gli davan dietro tutte le brutte parole. Gli davano la colpa perché ci andava bene andarci in Germania […] per loro erano come delle mosche mor-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
179
te. I prigionieri non li trattavano bene. E ce n’era tanti nel nostro paese a Gombola. […] C’erano sempre discussioni. […] GUIDO LUCCHI - 1921 - Modena - Ufficiale […] Sottotenente, dal ’42 inviato in Albania, nel Kossovo. […] Facevamo delle operazioni di rastrellamento, e tenevamo soprattutto la calma fra gli albanesi e i bulgari; che i bulgari avevano dalla loro... a est avevano occupato una parte... la Macedonia, l’avevano occupata i bulgari, Skopje. […] Bulgari e albanesi si sparavano fra di loro e succedevano dei guai; oppure gli albanesi che prima erano stati angheriati dai serbi, si vendicavano sui serbi, uccidendoli; e noi cercavamo di tenere un po’... Oppure la nostra... era antipartigiana, praticamente. […] Dal marzo ’42 al settembre ‘43, alla data dell’armistizio, guerra antipartigiana, tenere la calma fra le fazioni che avevo detto io: fra musulmani e serbi, fra serbi e bulgari e compagnia bella. […] L’8 settembre, ci ha, praticamente, ci ha sorpreso l’armistizio come ha sorpreso tutti i comandi italiani, perché i comandi italiani purtroppo, quelli di Roma, per paura delle rappresaglie tedesche avevan tenuto il segreto; quindi noi siamo stati presi alla sprovvista proprio. Purtroppo in quella zona lì, eravamo tutti... non c’erano raggruppamenti forti. Per esempio, eran tutte compagnie distribuite qua e là per far, per tenere, nei paesi, per tenere la calma... E allora, quindi non avevamo neanche un’organizzazione organica, diciamo, per poter eventualmente combattere una formazione piuttosto consistente tedesca. Noi siamo stati sorpresi dall’armistizio, e il giorno stesso dopo, circondati da dei carri armati che erano dei Tiger. […] Ci hanno catturato senza sparare un colpo, perché se avessimo sparato un colpo ci avrebbero massacrato. Allora il comandante del nostro battaglione, che era in zona ha detto: “Deponete le armi, e basta!”. Poco glorioso ma è stato così. […] L’abbiamo imparato lì, il proclama di Badoglio che fece, mi pare, l’8 settembre alla sera. Quindi, sorpresissimi, sa, anche lì un po’ di sconcerto, perché il giorno prima eravamo coi tedeschi a fare i rastrellamenti, il giorno dopo dovevamo sparare contro i tedeschi. […] Loro erano sul chi vive, invece noi eravamo completamente all’oscuro anche perché, ripeto, eravamo tutti frazionati. […] Il comandante della divisione stava cercando di scappare, il generale D., ma si trovò la strada sbarrata dai partigiani e ritornò indietro e si fece catturare. […] Io non l’ho visto di persona, correva voce che era stato fatto questo. Quindi resistenza nulla, da parte nostra, lì, in quella parte lì. […] Allora i tedeschi ci fecero andare in colonna, scortati anche da loro, alla prima stazione ferroviaria, […] poi ci misero sui vagoni, dicendo che ci avrebbero portato in Italia. E questo lo disse purtroppo anche il nostro colonnello che comandava il reggimento il quale, anche a lui i tedeschi han detto una balla. E difatti noi finché eravamo lì, eravamo in vagoni aperti.
180
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Prima di partire, quando ci fecero arrivare alla ferrovia, dissero che se qualcuno era scappato via, fosse scappato via, fucilavano il comandante del plotone e dieci soldati. […] Quando arrivammo presso il confine, adesso non ricordo quando, dove, in una stazione arrivarono... chiusero i vagoni e sbarcammo a Ziegenhain. […] E lì cominciò l’odissea. Ci tennero lì fin quando ci mandarono in Polonia, perché tutti i prigionieri li mandavano ad est, in Polonia. […] Quando di notte arrivammo a Ziegenhain, una bolgia dantesca ‘sto campo, coi reticolati, era di notte, le torrette coi fari... faccia conto di andare all’inferno, un girone dantesco; si alzò una voce, che lo ricordo sempre, disse, in francese, perché c’erano i francesi dentro: “Tu l’a pris dans le cul, sal macaroni!”. […] Ecco, prima voce che ho sentito. […] Era un campo dove ce n’era di tutte le nazionalità. […] È stato il primo dove ci hanno immatricolato. […] La seconda è Przemysl, in Polonia. […] Lì han fatto le prime perquisizioni; ci han sequestrato denaro, se ne avevi, documenti, carte geografiche... tutto quello che secondo loro. […] Ci sono stati inviti a passare nelle fila dei nazifascisti fin da questo campo? Ecco. No, da Przemysl. Nell’autunno-inverno, diciamo ‘44, a cavallo ’43. […] Qui a Przemysl cominciarono ad arrivare delle delegazioni della Repubblica sociale, con degli ufficiali italiani e con i tedeschi. Chiesero chi voleva aderire; alcuni aderirono, direi che in totale a occhio e croce, fra soldati e ufficiali che aderirono, dei seicentomila e passa, alla Repubblica sociale ci andò un 10%, io dico. Il 10-12, adesso... direi. Lì, alcuni aderirono. E allora, naturalmente li tolsero da noi, li misero in un campo contiguo al nostro, separati da un reticolato; e a loro gli davano le razioni del soldato tedesco, quindi loro mangiavano molto di più. Quindi per voi era visibile questa situazione? Perbacco! Purtroppo qualcuno veniva anche lì, diceva: “Cosa fate?...”, e ci mangiava la roba in faccia. […] Il nostro anziano del campo era il famoso colonnello Carloni, glielo devo avere accennato, che era comandante di un reggimento di bersaglieri, non ricordo più se il 3° o il 6°, il quale aveva anche una decorazione tedesca; e allora lui ci disse: “Non aderite...”. Dopo qualche tempo, non so 8-10 giorni, vennero a prelevarlo e lo portarono in Italia; ritornò, non le so dire adesso quanto tempo dopo, dicendo: “Aderite, torniamo in Italia, combattiamo!”. E m’han detto che l’avevan promosso generale e, addirittura poi, mi pare che diventasse ministro della Repubblica sociale. […] Che noi rimanemmo di merda. Perché la prima volta, quando i tedeschi ci invitarono ad aderire alla Repubblica, si tolse la decorazione tedesca e la sbatté per terra. Quindici giorni o venti dopo, tornò per fare propaganda di adesione alla Repubblica. E lui era praticamente il comandante del campo? Era il nostro ufficiale che comandava il campo italiano, era il più elevato in grado, e poi era... sì, aveva le decorazioni, era un uomo di valore, nastrini. […] Quando Carloni ritornò, alcuni, per il prestigio di ‘sto cacchio di ufficiale, aderirono ancora. Ma ripeto, fu una minoranza, una minoranza. Questo sempre in Polonia, eh! […] Il cibo cominciava ad essere una mezza tragedia, però a Przemysl […] arrivava la possibilità, non molto, di commerciare coi polacchi. Allo-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
181
ra noi avevamo ancora della roba: non so, anelli, orologi, stivaloni, indumenti. Coi polacchi, che venivano, facevano il servizio interno al campo, per esempio, portavano via il pattume, venivano a portargli cibo, facevano i servizi, allora lì si poteva commerciare, e si mangiava ancora, non eccessivamente, ma si mangiava ancora. […] Le razioni erano miserrime. Una fettina così di pane, quello tedesco nero, non so di che cos’era fatto, un pochino di margarina, un pochino di marmellata, chiamiamola, un pochino così, marmellata, che sarà... non so di cos’era fatta. Comunque, per dare un’idea delle razioni, le dirò che io avevo con me, il sego. Il sego era... un cubetto di sego, che si dava nelle scarpe per impedire l’umidità, me lo sono mangiato; avevo con me una scatola di vaselina borica, quella che si dà sulle labbra, me la son mangiata... quindi può immaginare che cominciava la fame. Fame, che divenne atroce poi negli altri campi. Qui ancora, ripeto, si poteva commerciare, si poteva insomma mangiar qualcosa. Il campo com’era strutturato? Baracche anche lì, col solito filo spinato doppio, non so se li ha mai visti; i fili esterni, e c’eravamo solo noi qui italiani, era solo per noi, a Pikulice, solo ufficiali e qualche soldato italiano. Tutto intorno c’era un reticolato alto 4 metri, poi c’era un groviglio di filo spinato, largo 2 metri, 2 metri e mezzo; poi c’era un altro reticolato alto come il primo, in modo che non potevi... Poi, all’interno del campo, alla distanza del reticolato interno, c’era un reticolato alto così, un metro, che era un reticolato di avvertimento; cioè, tu non potevi andare oltre quello lì per avvicinarti al reticolato esterno, perché dalla torretta ti sparavan senza preavviso. Infatti, ci furon dei morti. Quella era la struttura, poi c’eran baracche, fatte di legno. Ci furono dei morti in questo campo? No, a Sandbostel, per la faccenda del reticolato di avvertimento. Lì a Pikulice non mi risulta che ci fossero dei morti. I tedeschi anche lì, li vedevamo soltanto: loro erano al di fuori, noi al di dentro, o sulle torrette. Venivano quando facevano propaganda per l’adesione alla Repubblica, poi una volta che noi... Lì ancora non si parlava di lavoro, eh, si parlava di adesione militare alla Repubblica fascista, insomma. Poi, da Pikulice... Da Pikulice andammo a Küstrin. […] A Küstrin, cominciarono ad arrivare i pacchi; allora lì... e poi a Küstrin, ripeto è sull’Oder, 80-100 chilometri a est di Berlino, lì il campo era sorvegliato da dei vecchi territoriali, e si respirava... sempre per quel campo di concentramento. Ma lì non erano come quegli altri; Sandbostel e Wietzendorf sono stati i peggiori, perché c’era la Gestapo; si respirava ancora a Küstrin, al 3C, e poi, potevamo... c’erano a Küstrin, mi pare anche degli altri militari, prigionieri, mi pare anche francesi, e quindi avevamo notizie... Ah, ripeto, poi avevamo la radio clandestina, noi, che riuscivamo a montare, smontare, portarci con noi. […] A Küstrin c’era la radio, la chiamavano la Carolina, o Caterina, non mi ricordo più. […] Dunque, a Küstrin, ripeto, cominciavano i pacchi e poi avevamo contatti con gli altri e si poteva commerciare ancora. […] Noi avevamo libertà di girare, fuori, avanti, indietro; ad un certo momento, il 20 luglio cominciarono questi tedeschi a diventare matti, coi cani lupo... ripeto, loro eran fuori coi cani lupo per aizzarli contro i prigionieri, e noi dicevamo: “Ma cosa succede?”... con le baionette innesta-
182
G. PROCACCI (a cura di)
te... “Cosa succede?”. Imparammo poi da radio lager, che era l’attentato ad Hitler, il 20 luglio del ‘44. […] I tedeschi non ci consideravano prigionieri di guerra, quindi non avevamo la protezione della Croce rossa; eravamo militari internati italiani, cioè, I.M.I., internati militari italiani, quindi non avendo la convenzione della Croce rossa, non avendo la protezione della Convenzione dell’Aia, noi eravamo in balìa del comandante del campo. […] La Croce rossa internazionale aveva cercato di aiutarci, ma la Croce rossa della Repubblica sociale pretese dalla Cri che cancellasse le diciture. […] Allora, la Cri disse: “A questo punto, non mandiamo niente”; e allora lì la gente morì di fame. […] E a Sandbostel? Lì è stato forse il campo più duro, con Wietzendorf. Wietzendorf e Sandbostel si equivalgono. […] E lì ci furono anche vittime. […] Il capitano T., che con una scusa una sentinella... lui aveva un cronometro da commerciare, una sentinella tedesca al di là del reticolato, fuori, lo fece avvicinare; […] il capitano T. era un trentino, altoatesino, parlava il tedesco, e allora,... naturalmente gli fece osservare: “Se io passo il filo di avvertimento, tu mi puoi sparare!”, e quello disse: “No!”; gli fece passare il filo, come passò il filo gli sparò. […] Questo successe a Sandbostel poco prima che arrivassi io, quindi direi nell’agosto. […] Poi, a Sandbostel, quell’altro tenente di artiglieria, un calabrese, il nome purtroppo non lo ricordo. Dunque, a Sandbostel c’era una pompa, una pompa di acqua non potabile, da bere ti davano quel tiglio bollito; e per lavarti dovevi andare a quella pompa lì. Intanto premetto, Sandbostel in tedesco vuol dire banco di sabbia, quindi era una brughiera, e c’era in mezzo una torbiera, uno scavo per la torbiera, dove si raccoglieva l’acqua piovana; e c’era una sola pompa, nell’angolo, sotto una torretta, per non so quante migliaia di ufficiali, penso che fossimo 7.000-7.500. Lei capisce che per andare a prendere una gavetta d’acqua, bisognava mettersi in fila, e stare in fila una giornata. Ci fu un tenente d’artiglieria, un calabrese, il nome purtroppo non lo ricordo più, il quale, per poter avere le mani libere per pompare, aveva l’asciugamano al collo, lo posò su quel filo che ho detto, d’avvertimento, che era proprio di fianco alla fontana. La sentinella dalla torretta che incombeva lì sopra, che lo braccava, come ha posato l’asciugamano sul filo di avvertimento, gli sparò. Lui disse: “Mamma, mamma mia!”, e cadde; non morì subito, allora noi cercammo di accorrere lì per aiutarlo, ma dalla torretta, con la mitragliatrice, ci costrinse a star lontani. E quello fu soccorso dopo un po’ di tempo, che probabilmente, non lo so se fosse stato soccorso subito se si sarebbe salvato, questo non lo posso dire, però morì dopo poco. Ma non basta. Questo è un episodio tra i tanti. La pallottola che colpì questo tenente picchiò su una pietra e poi di rimbalzo bucò una baracca e andò a finire fra una coperta ripiegata in tre quattro parti, che serviva da guanciale all’ingegner S. di Modena che era l’ingegnere capo del comune di Modena, e andò a finire lì a poco, proprio dietro la sua testa, la pallottola; l’ingegner S., che purtroppo è morto, sennò potrebbe testimoniarlo anche lui. Questo fu un episodio di Sandbostel. Sandbostel, ripeto, era un campo molto duro. […] Perquisizioni alla notte, perché cercavano quella famosa radio galena, che ripeto, non ricordo se si chiamava Caterina o Carolina, uno dei
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
183
due nomi. Gli davano una caccia spietata, lo sapevano che c’era, però non la riuscivano... perché ogni giorno cambiava posto, la nascondevano in una baracca, in un’altra... Solo il comandante del campo, che era il tenente colonnello Pietro Testa e due o tre ufficiali addetti all’ascolto, sapevano dov’era; e la smontavano, un pezzo qui un pezzo là, di modo che i tedeschi non potevano mai sapere dov’era, anche se c’eran le spie purtroppo, come ho detto, in mezzo a noi, perché c’erano altoatesini. E allora lì, c’erano perquisizioni notturne anche; arrivavan di notte: “Fuori tutti!”, poi buttavan fuori tutto quello che c’era nella baracca. Le baracche erano sollevate un 60-70 centimetri da terra, e allora guardavan sopra, sotto, sfasciavano i castelli. […] Punizioni sì... io non ho mai visto personalmente picchiare, però, certi ufficiali che, non so, qualche... secondo loro, sabotaggio; per esempio noi, quando ricevevamo i pacchi, con che cosa cucinavamo la pasta, la... allora bisognava trovare il combustibile, dov’era il combustibile? Non c’era mica, Sandbostel, banco di sabbia; allora, cosa facevamo; noi cercavamo di tagliare nelle asticelle che ci servivano da giaciglio, portavamo via tre-quattro fustelle di legno in una e poi in un’altra, in un’altra... i tedeschi per loro era sabotaggio quello lì. E poi con quello lì cercavamo di fare fuoco, perché avevano costruito dei fornelletti a intercapedine che tiravano molto meglio delle stufe che avevamo. C’erano dei geni in mezzo a noi, e avevano costruito questi fornelletti coi quali si cuocevano la minestra, la pasta che ci mandavano da casa, nei pacchi; ma per alimentare il fuoco non avevamo combustibile ed allora bisognava bruciare quel che potevi, e quelli, se trovavano qualcuno che tagliava... lo mettevano in carcere, che poi differiva dalle nostre baracche... soltanto che era un carcere, forse gli davano meno da mangiare, questo non lo so perché io non ci sono mai andato. […] Il cibo calava sempre, con l’aggravante che i pacchi ad un certo punto non son più arrivati. […] Lì cominciarono, fin da Küstrin anzi, le richieste del lavoro. […] Da quel momento lì i tedeschi per amore, ed anche per forza cercarono di far... i soldati tutti, li mandarono fuori a lavorare, e gli ufficiali in un primo tempo chiesero dei volontari. Molti, ormai ridotti alla fame, aderirono; altri invece furono costretti con la forza. Se non obbedivano, delle volte li hanno anche picchiati, e poi li mandavano nei campi di punizione, loro. Credo che si chiamassero straflager, ma non son sicuro; li mandavano... alcuni furono portati lì. E quindi, molti aderirono; per la fame. […] Sì, certamente miglioravi forse la condizione vitto, però eri sottoposto ai bombardamenti, eri sottoposto a fatiche fisiche, perché mica tutti ti mandavano in campagna a lavorare e quindi a mangiare; ti potevano mandare anche in miniera, ti potevano mandare in fabbrica. C’era il pro e il contro; certo che, com’era il campo, un miglioramento ci sarà stato certamente, non lo so. Ad un certo punto uno non aveva aderito alla Repubblica, noi, la maggioranza di noi non ne voleva sapere, e non abbiamo aderito neanche al lavoro, insomma, siamo rimasti lì. […] Nel settembre del ‘44, a Sandbostel, scoppiò un’epidemia di tifo petecchiale. Allora, anche quei pochi tedeschi che si vedevano nel campo, immediatamente sparirono. Ci chiusero dentro, loro giravano solo intorno al campo coi cani lupo, c’erano le sentinelle fuori dalle torrette, ma per quaranta giorni, credo, non si videro tedeschi nel campo. E allora per
184
G. PROCACCI (a cura di)
poterci dar da mangiare, il problema era questo: come le ho detto, c’era un doppio filo spinato, ad un certo punto c’erano i cancelli, un cancello spinato... allora, loro, aprivano il cancello esterno, facevano venire i soldati italiani che erano fuori che portavano le marmitte, diciamo così, fra i due reticolati, fra i due cancelli, perché uno era interno e uno esterno, mettevano le marmitte lì, noi riaprivamo il cancello interno, prendevamo le marmitte, le portavamo dentro, loro intanto avevano chiuso quello esterno, eh; e poi distribuivamo il cibo, riportavamo fuori... aprivamo il cancello interno, mettevamo le marmitte fra i due cancelli, vuote, chiudevamo il nostro, sempre sotto la sorveglianza dei tedeschi, loro aprivano il cancello esterno, i nostri soldati che facevano il servizio di corvé, diciamo, prendevano... e portavano via. Ma nessun tedesco per quaranta giorni ha messo piede lì. E lì ci fu la corsa ai pidocchi; lei sa che il tifo petecchiale si prende con i pidocchi, pidocchi che venivano dal campo russo che era contiguo al nostro. Allora, tutti gli ufficiali medici istituirono delle corvé... e facemmo dei gran falò nel campo per bollire i nostri abiti, per uccidere i pidocchi; e questo andò avanti per quaranta giorni. […] Da noi ci furono alcuni morti, sì. Adesso non le so dire la cifra ma ci furono alcuni morti... e un gran spavento perché se l’epidemia si diffondeva, noi eravamo lì dentro, i tedeschi ci lasciavano morire lì, eh! […] Nei campi, cominciando da Sandbostel, si organizzavano biblioteche, conferenze, studi,... aspetti, che cosa ancora... Io mi ricordo a Sandbostel, un giorno della settimana, non ricordo quale, c’era Guareschi che faceva spettacoli, ci intratteneva, con cose umoristiche, che però era un umorismo che si veniva via sempre con le lacrime agli occhi, pazienza. E quindi c’erano... poi c’erano i cappellani. […] Cappellani, adesso non so quanti erano, comunque c’erano, a Sandbostel, a Wietzendorf, c’era, adesso il nome non me lo ricordo, i quali facevano le funzioni religiose, sempre naturalmente sotto sorveglianza dei tedeschi. E mi ricordo anche, adesso non ricordo la data esatta, che il nunzio apostolico, che si chiamava monsignor Orsenigo, venne da Berlino, a trovarci, credo che fossimo a Sandbostel, e ci portò qualcosa; un libricino da messa certamente. Ci portò anche qualcosa da mangiare, non ricordo se era zucchero o gallette... arrivò qualcosa, poca roba però per la fame che c’era. L’attività religiosa, c’era, c’era. […] Gli appelli, sì; naturalmente in mezzo al campo, al freddo, all’acqua, alla neve, al gelo, a quello che c’era... se i conti non tornavano oppure se loro volevano punirti, diciamo, ti facevano durare l’appello un’ora, due, tre, a seconda di quello che gli girava. Il fatto è che si sbagliavano spesso, apposta, non lo so; comunque, gli appelli erano sempre terribili. […] Poi da Sandbostel […] sono stato trasferito a Wietzendorf. Io parlo sempre di me, eh... alcuni sono stati mandati a Fallingbostel, insomma in altri campi. Il mio gruppo andò a Wietzendorf, mi pare nel gennaio del ‘45, mi pare, sì, adesso, il giorno non lo ricordo. […] E poi a Wietzendorf è stata la crisi finale perché lì eravamo in baracche che risalivano alla prima guerra mondiale, baracconi scuri, affumicati... affumicati, per modo di dire; c’era uno stufone dentro, ma non avevamo combustibile, allora facevano delle corvé per andar nel bosco a raccogliere legna, ma erano più faticose le corvé... perché ormai lo stato di debolezza era tale per cui solo i più robusti ci andavano.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
185
[…] A Sandbostel erano baracche di legno... lì invece erano fatte di mattoni strani, color cemento, grigio scuri, stanzoni enormi, bui, con la latrina vicina ai castelli; quindi erano anche... non sto a parlare di poco confortevoli perché sarebbe un complimento, erano proprio orribili, insomma; freddi, gelati, con il tetto spiovente, a contatto si può dire quasi con l’esterno, c’era un freddo boia. Infatti si teneva sempre addosso anche a dormire cappotti, vestiti, perché… però, naturalmente i pidocchi lì erano di casa. Mangiare pochissimo, razioni sempre meno, pacchi non se ne parlava più... […] Non ci hanno mai dato indumenti i tedeschi. Li avevamo... chi aveva qualche cambio, adoperava quello lì, ma molti purtroppo, come me, si erano sbarazzati quando eravamo in Polonia, per mangiare, li davamo ai polacchi che venivan dentro; c’era rimasto ben poco. I tedeschi davano soltanto la lametta da barba, quella non è mai mancata. E mi pare anche un pezzo di sapone che sembrava pietra pomice... basta. […] Le sentinelle erano delle SS? No, non SS. Forse erano, direi forse della gendarmeria, Gestapo; anche a Sandbostel, io ho detto SS ma è un errore. Le SS operavano sui fronti; erano a Sandbostel e Wietzendorf, non so se la Gestapo, la Gestapo son civili, insomma, era personale scelto, direi quasi... a differenza di Küstrin dove c’erano i territoriali anziani, austriaci, insomma, era un po’ meglio. Lì erano personale, diciamo... erano vestiti con la divisa della Wehrmacht, ma era personale scelto per essere severo, ecco. Naturalmente, i soliti cani, pastori, i cani coi quali giravano intorno al reticolato, qualche volta venivan dentro, cani addestrati, se venivano aizzati, a... Ad attaccare. A noi non l’han mai fatto, io non l’ho mai visto, ma ai russi lo facevano, anche per divertimento delle volte; aizzavano il cane. Da noi non direi. […] Si eran formati anche dei gruppi della stessa città. Per esempio lì a Wietzendorf noi modenesi, adesso, ne ricordo alcuni, ci trovavamo lì... ma sa, per far due chiacchiere, per farci un po’ coraggio, per sentire... perché negli ultimi mesi non arrivava più la posta, quindi anche se qualcuno aveva qualche notizia, per questo; poi insomma, eravamo concittadini... per fare tutti i progetti nuovi per il ritorno. Naturalmente, mi pare che l’80% delle discussioni fossero del cibo. Ognuno aveva le sue ricette, diventava anche una tortura! […] A Sandbostel, non so chi di Modena, catturò un topo. Catturò un topo, lo scuoiarono, lo misero nella gavetta a bollire e poi lo spartirono fra di noi modenesi; a me toccò una coscetta, mi ricordo, ma nonostante la fame, come la mettevo alla bocca mi veniva da rigettare e non sono stato capace di mangiarla, nonostante la fame; questo a Sandbostel, eh. C’è invece chi l’ha mangiato e che ha preso anche la mia razione. […] Chi voleva andare a lavorare, loro lo facevano lavorare. Naturalmente, mica uno poteva scegliere il lavoro, eh! Ti mandavano poi dove volevano i tedeschi, dove avevano bisogno. Poi quando cessò anche il volontariato, ci fu anche chi... i tedeschi obbligarono... li venivano a prendere, li portavano. […] A proposito dell’adesione al lavoro volontario, nella prima fase erano molte le adesioni? Sì, direi di sì, abbastanza. Chiedevano poi i tedeschi, molte volte, chiedevano degli specialisti; per esempio geometri, ingegneri... più che lavoro manuale perché lì avevano i soldati per fare i lavori manuali; e gli ufficiali
186
G. PROCACCI (a cura di)
in un primo tempo, questo fin da Küstrin, cioè il IIIC, chiedevano gli specialisti. Mi ricordo una volta che chiesero dei geometri; c’era da fare, mi dissero i miei colleghi che erano andati fuori, che poi tornavano dentro la sera, che gli facevano copiare su delle carte lucide, dei pezzi, non so poi di che cosa... forse pezzi di armi, forse... non lo so. Li retribuivano con... quelli però tornavano dentro la sera, quelli a Küstrin; altri invece non tornavano più, li portavano via e poi andavano nei campi di lavoro... […] Io ad un certo punto ho detto basta, io con questi qui non ne voglio più. Prima ho rifiutato la Repubblica perché non mi andava il regime, diciamo; e poi perché ormai, insomma, non voglio muovere un dito per questi. Perché andare a lavorare per loro significava dare anche un piccolo aiuto. Ho detto no, basta. […] Quindi tra di voi non si crearono divisioni tra chi lavorava... No, chi è andato a lavorar fuori non li abbiamo più visti. E quelli che tornavano... Quelli che a Küstrin tornavano... no, eravamo indifferenti... non c’è stato neanche rimproveri, non credo, almeno io non ricordo a più di cinquant’anni di distanza, ma non direi, perché poi è durato poco, qualche giorno penso; quelli di Küstrin, eh, perché gli altri, ripeto, una volta usciti non si vedevano più. […] Non è mai stato spinto dal rispetto, dalla fedeltà per il giuramento che aveva fatto in quanto ufficiale? Direi che quello lì non c’entrava; non c’entrava, insomma, non credo che fosse quello. Era entrato uno stato d’animo, posso dire. Il giuramento, cosa vuole, vista la figura che han fatto i nostri governanti, alludo ai Savoia, non tanto Vittorio Emanuele III che forse rappresentava la continuità dello Stato, intendo suo figlio, Umberto II, che se non sbaglio nel ‘43, non lo voglio giurare perché io non c’ero allora, però mi pare che lui fosse un comandante d’Armata; quindi se lui abbandona i suoi soldati e segue, non so, la madre, il padre, non so. Posso anche capire che forse avrà ricevuto un ordine da suo padre, ma lui era un generale comandante d’Armata, e ha abbandonato i suoi soldati davanti al nemico che in quel caso lì erano i tedeschi. Come dobbiamo giudicarlo? Quindi, non è certo stato per fedeltà alla Corona, o il giuramento fatto alla Corona, tanto è vero che io non ho votato per la Repubblica, perché ero fuori, quel 2 giugno ero ancora in Svezia, però avrei votato repubblica, non certo monarchia. […] Lì, dov’ero io, non ho mai visto percuotere degli ufficiali perché si sono rifiutati di andare al lavoro; forse se l’han fatto, l’han fatto fuori, nei campi o sui posti di lavoro quando vedevano che non si impegnavano, questo non lo so; di quello che non ho visto non posso dir niente. […] Allora anche a Wietzendorf, nei mesi precedenti, ci fu una pressione fortissima per farli andar fuori, alla quale si oppose naturalmente il tenente colonnello Testa che comandava; era il tenente colonnello effettivo che comandava, era l’ufficiale più... cioè era il rappresentante degli italiani coi tedeschi, comandava gli italiani, diciamo. Si è opposto tante volte lui, ma prima che ci arrivassi io, i mesi precedenti, quando io ero a Sandbostel e Küstrin, il campo di Wietzendorf c’era già, c’eran già gli ufficiali italiani lì. E lì hanno avuto tutte le pressioni che abbiamo avuto noi negli altri campi; ma dal gennaio del ’45 direi che ormai era troppo tardi... anche perché la guerra stava terminando eh!
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
187
[…] I bombardamenti, lì, su di noi, sul campo di concentramento non bombardavano, nonostante ci sia stata una volta a Sandbostel una mitragliata, ma è stato un duello aereo. Sentivamo i bombardamenti che si svolgevano nei dintorni; noi eravamo nel triangolo Brema-HannoverAmburgo e quindi erano tutti i giorni, tutti i giorni sopra, uno sopra l’altro, siccome erano centinaia e centinaia d’apparecchi, noi sentivamo la terra che tremava, si vedevano i bagliori; sì, sapevamo dei bombardamenti. […] Dunque, all’alba del 16 aprile 1945 si sparge un grido: “Non ci sono più i tedeschi!”, cioè, il personale di guardia, non c’era più. Allora, premetto, pochi giorni prima erano arrivati a Wietzendorf altri 4.500 o 5.000 soldati, no, erano ufficiali francesi, portati da non so quale campo; ma loro erano tutti in forma, mangiavano, mi pare che il loro comandante si chiamasse colonnello Duluc, Duluc, non vorrei giurare ma mi pare; e qua naturalmente quando ha visto che le sentinelle tedesche non c’eran più, ha preso in mano le redini del campo. Cos’ha fatto, ha disarmato quei pochi territoriali che non erano scappati, le guardie tedesche, li ha fatti chiudere in una baracca, e poi ha dato in mano agli ufficiali suoi i fucili, ne ha messi uno o due sulla torretta a vedere, e mi pare anche che abbia issato il tricolore francese su una torretta, direi di sì. E poi è arrivata una macchina civile, parlo il 16 aprile, con un ufficiale inglese sopra, con un soldato che faceva da autista, macchina civile, il quale ci ha detto che le avanguardie inglesi stavano arrivando; contemporaneamente, ne ho già parlato, un tenente colonnello delle SS tedesco, gliel’ho già detto, aveva piazzato in un bosco dietro le nostre baracche l’artiglieria sua e quella specie di katiuscia, cioè, quei mortai a sei canne che i tedeschi mi pare li chiamassero nebelwerfer, un nome così; e lui, sparava al di sopra delle baracche impedendo agli inglesi di venire avanti. Quando l’ufficiale inglese ha visto che non c’erano più le sentinelle, però i tedeschi erano lì a 50 metri dietro alle baracche, in mezzo al bosco, ha tagliato la corda. Naturalmente, dal 16 aprile il cibo è sparito, non c’era più niente. Allora, gli ufficiali francesi mangiavano, ma noi no. Chi ci dava più da mangiare? Allora c’è stata la corsa a dissotterrare le patate che i tedeschi seppellivano nel pre-campo, facendo delle specie di lunghi argini, alti 70-80 centimetri, e lì ci seppellivano le patate per tenere, per conservarle per l’inverno; naturalmente, eravamo quasi 5.000, credo noi, sono sparite in una giornata. Avevamo fame, ma chi si fidava ad andar fuori dal campo? Perché c’erano, ripeto, le SS. Cosa è successo? Che, si vede che quelle SS di quel colonnello lì, che facevan ancora resistenza, nonostante che le armate alleate le avessero già sorpassate, a nord erano già ad Amburgo, a sud le avevano già sorpassate, ma lui resisteva ‘sto boia. Ha mandato dentro alcune SS, con quelle tute fatte a pelle di leopardo, tute mimetiche; sono arrivate, hanno ordinato all’ufficiale lì, francese Duluc, di tirare giù la bandiera, di far venire giù gli ufficiali là, armati, hanno ripreso le armi, hanno preso a calci nel sedere quei pochi soldati che avevano ceduto le armi ai francesi, li han portati via... Il capitano Lors che mi pare fosse stato quello che i tedeschi avevano lasciato lì per dare le consegne agli alleati, il comandante del campo era scappato e gli ufficiali scappati, e i sorveglianti scappati, avevan lasciato questi piccoli soldati lì, che erano anche questi territoriali... col capitano Lors, con l’incarico di consegnare agli alleati il campo. Quando sono arrivati quella sera, l’hanno pre-
188
G. PROCACCI (a cura di)
so e abbiamo imparato, l’ho letto anche sul libro del colonnello Testa, che l’hanno impiccato, perché non aveva, diciamo così, resistito, ma aveva consegnato le armi agli ufficiali francesi, basta. Questo è successo il 16 aprile e nei giorni successivi. Questo accidenti di colonnello non lasciava venire avanti gli inglesi perché ripeto, sparava al di sopra, e gli inglesi non potevano fare la controbatteria perché avrebbero colpito le nostre baracche, eravamo più di 10.000 fra noi e i francesi lì dentro... Quindi lui era riparato dal campo, in pratica. Si capisce, lui usava il campo nostro finché… e questi sei giorni sono stati terribili, della gente è morta anche perché alcuni sono morti d’inedia perché non si mangiava più. Il 22 aprile mattina è venuta avanti una camionetta inglese credo, con la bandiera bianca, e sono andati a parlamentare coll’ufficiale tedesco; se legge il libro del colonnello Testa, c’è anche il nome di quel colonnello lì, tenente colonnello, delle SS. Hanno fatto un armistizio; hanno detto, il 22 aprile dalle 8 di mattina alle 2 del pomeriggio, sono state sei ore, dalle 6 di mattina... o otto ore, questo non lo ricordo. Insomma, c’è stato un armistizio di alcune ore per sgomberare tutto il campo, non si spara più, ed infatti la mattina del 22, zaino in spalla chi era capace, a piedi, ci hanno indirizzato verso il villaggio di Bergen, dove c’era quel famoso campo... Bergen Belsen era il campo di prigionia dove sono stati trovati migliaia di morti dagli alleati. Il villaggio si chiamava Bergen, un villaggio tedesco; hanno dato un certo... un po’ di tempo alla popolazione di sgombrare, e noi ci hanno portato nelle case dei civili, che avevano sgomberato. […] Lì ci siamo stati dal 22 aprile, e lì abbiamo imparato della liberazione di Modena. […] Alcuni giorni siamo rimasti... saremo stati lì io direi cinque-sei giorni. Che poi, per prima cosa gli inglesi hanno preso i russi, sbandati, li hanno tutti presi e portati nella zona russa; poi han cominciato a riordinare gli ex prigionieri per il ritorno, i francesi prima di tutto, che anche loro, anche i francesi li avevan portati nei villaggi vicini. […] Lì, in quei giorni lì, mangiando... io ho sentito la febbre, che prima non la sentivo più tanto ero debole, ho sentito la febbre; e lì, mi hanno trovato ammalato. […] Io e gli altri ufficiali ammalati con me, ci han portato a Celle, che deve essere una cittadina qua vicino, Celle, a una scuola trasformata in ospedale, ma mancando, ripeto, mancando tutte le cure, mancando tutto, lì sono morti alcuni ufficiali. […] Non avevano medicine, per farci andare giù la febbre ci avvolgevano, eravamo già nel giugno del ‘45, luglio anzi, giugno-luglio... sì, giugno-luglio, adesso non ricordo... quindi era estate, ci avvolgevano in lenzuola bagnate, umide, per farci dare una gran sudata perché calasse la febbre, era un palliativo. E lì i medici della Croce rossa ci han detto: “[…] Noi abbiamo l’opportunità di mandarvi in Svezia dove non c’è stata guerra, dove la Croce rossa internazionale e l’Unrra”. […] Allora noi, a malincuore, dopo tanti anni che volevamo venire a casa, per non morire, siamo andati in Svezia. […] Comunque io sono rimpatriato a fine agosto del ’46. […] Com’è stato l’impatto al suo ritorno in Italia? […] Erano increduli; se non avessi presentato le cartoline prestampate tedesche che distribuivano ai prigionieri nei lager, non mi credevano... La commissione, come si chiamava, la commissione d’epurazione, quelli facevano un interrogatorio... forse temevano che fossi stato con la Re-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
189
pubblica sociale, che avessi aderito al fascismo, che ne so io. Non credevano che io fossi reduce dai lager, cioè reduce dalla Svezia per colpa della mia malattia, non ci credevano. […] Comunque l’impatto non è stato felice, certamente. Dopo no, quando si sono convinti, che poi c’era il capitano […] in amministrazione, il quale addirittura mi ha pagato degli arretrati; perché a noi ufficiali, diciamo, conservavano lo stipendio, e una parte lo davano ai genitori. […] GIUSEPPE MAMMEI - 1922 - Polinago (Mo) - Soldato […] Eravamo in montagna. Poi ci hanno fatto venire giù, a Risano. […] La sera dell’8 settembre venne uno della mia compagnia […] e venne a dire: “Ragazzi, armistizio ed allarmi, prendete tutta la roba e venite tutti in caserma. […] Io pensavo che fosse una rivolta di partigiani, ed ormai non avevamo più tanta paura di loro, da come eravamo organizzati. Noi eravamo abituati a combatterli da mesi. Non pensavamo mai più che venisse una situazione così. La guerra è cominciata allora.…Siamo andati in caserma. I nostri compagni erano già tutti in cortile, i nostri compagni, inquadrati, preparati per andare ad accerchiare i tedeschi, a Gruda. I nostri ufficiali ci avevano dato ordine di andare ad accerchiare i tedeschi. Siamo andati a questo Gruda perché c’è il campo di aviazione slavo. Lì c’erano stati degli altri militari che avevano fatto delle buche anticarro, delle buche da nascondersi, avevano tagliato dei pini da coprire le buche, per non essere visti perché c’erano gli apparecchi che venivano a bassa quota e ci avrebbero mitragliati. Siamo stati lì una settimana. Non si sapeva né se attaccare i tedeschi, né se non attaccare, non si sapeva più niente, non arrivava più ordini. Dopo un pomeriggio viene l’ordine di ritirarsi. C’era i tedeschi che venivano avanti con i carri armati, le autoblinde. Noi chi ha ripiegato verso il mare, chi ha ripiegato verso il monte. Io avevo un capitano piemontese che era stato negli alpini, era molto bravo, ci ha fatto fare un bel ripiegamento, e siamo sopravvissuti tutti. Siamo tornati a Castelnuovo e siamo stati lì altri quattro o cinque giorni. Le pattuglie alla sera erano formate da 12 militari. C’erano anche le pattuglie tedesche. Loro non dicevano niente a noi, noi non dicevamo niente a loro. Prima della serata la 1° la 2° compagnia e la 3° dovevano rimanere lì ed andare a prendere il fortino Mammola. Fortino che dominava il mare e le Bocche di Cattaro e che doveva servire a non fare passare le navi tedesche ed affondarle. Siamo andati là il 14 settembre, di sera. Alle 4 è iniziato il fuoco, solo che gli italiani non avevano più comandi esatti, qualche ufficiale si vendeva ai fascisti ed era tutto un guazzabuglio che non si capiva niente. I cannoni, dalle Bocche di Cattaro, ci sparavano addosso a noi. Il mio capitano è morto a sette metri da me. Diceva: “Avanti, avanti,” andava avanti e sparava col moschetto ma gli è arrivato un colpo che ha iniziato a dire: “Aiuto sono ferito, aiuto sono ferito”, ma in quel momento è arrivato un colpo di mortaio e non ha detto più niente. Io mi sono salvato perché ero accantonato dietro ad una roccia. Ai tedeschi era arrivato del rinforzo da Dubrovnick, mentre a noi le nostre divisioni erano tutte vendute. Poi ci siamo ritirati a Castelnuovo. Intanto sono arrivati dei soldati italiani dall’Albania ed erano in mutande perché gli albanesi li avevano
190
G. PROCACCI (a cura di)
spogliati. Arrivavano sempre degli assalti tedeschi. C’era uno di Piacenza che si chiamava M., mi ha detto: “Cosa fai qui Mammei, cosa fai qui, butta giù dal burrone la cassetta di munizioni che hai e scappa, questo è un tradimento!”. Era vero. Ci hanno fatto combattere per poter scappare gli ufficiali grossi e quel porco del generale B. È scappato, è andato a Bari da Badoglio e ci ha abbandonato là. Ci avevano detto che il nostro esercito era ancora forte ed invece oramai era tutto sbandato. Allora siamo scappati. C’era da passare un ponte che abbiamo fatto tutto come i gatti, senza gambe, per non essere mitragliati. Dopo siamo andati ad un comando lì in un paesino, non sapevamo come fare, non si poteva essere traditore noi eravamo fedeli alla patria perché eravamo militari ed il nostro dovere era quello. Volevamo salvare anche noi la pelle, ma fare il nostro dovere. Lì al comando abbiamo chiesto come andava la battaglia. Ci hanno detto: “A Gruda sono stati eliminati i tedeschi”, invece i tedeschi erano venuti avanti abbastanza forte, avevano quasi preso tutto il presidio. C’erano solo le Bocche di Cattaro libere. Allora siamo tornati indietro e chi ha preso verso il mare è salito su due navi che hanno azzardato, di notte, per andare al sud. Una nave non era molto piena e composta da ufficiali. Un’altra era carica di soldati. Il mare era cattivo ed allora molti soldati sono rimasti schiacciati tra la nave e la banchina. Tenevano l’ombra della costa per non essere visti dai tedeschi ma sono rimasti arenati. Hanno dovuto buttare via tutta la roba pesante tanto da alleggerire la nave. Al mattino, con l’alta marea, sono riusciti a raggiungere Bari. Noi eravamo rimasti in montagna. Siamo rimasti lì una settimana mangiando solo due patate e carne di mulo; non c’era altro. Dormivamo per terra nei fortini che avevamo costruito. […] I partigiani avevano detto: “Se volete venire con noi, potete venire perché ormai siamo alleati, però non vi assicuriamo di potervi dare dei viveri e dei vestiti perché siamo in piena miseria. Allora se potete salvarvi in altre maniere è meglio”. […] Vedevamo i tedeschi che venivano con la perforatrice a far saltare il ponte che veniva su da noi. Una mattina ci hanno attaccato. Gli aerei si sarebbero quasi toccati con un bastone lungo. Buttavano giù dei manifestini con scritto “Italiani arrendetevi, qui c’è freddo, patite freddo, venite con noi, sarete trattati bene…”. Abbiamo preso un asciugamano bianco su un bastone e ci siamo arresi. Il nostro tenente ha detto: “Io seguo il mio destino e vado via”. Era il 6 di ottobre. […] C’era un ufficiale con me che lo hanno fucilato. Mi è dispiaciuto, era un padovano, un bravo ufficiale, un sottotenente, faceva l’aiutante maggiore. […] Noi ci siamo arresi e ci hanno preso. Ci hanno fatto ammucchiare le armi e ci hanno portato a Risano in un paesino. Ci hanno fatto dormire due notti fuori senza niente, con solo la camicia ed i pantaloni che avevamo perché avevamo perso tutto in battaglia. Ci hanno fatto stare due giorni senza mangiare. Al mattino avevamo tutta la camicia bagnata di rugiada. Ci hanno poi rimandato a Cattaro, a piedi. Erano sgarbati come maiali ma non ci picchiavano molto. Facevano la adunata alle 5. Uno era senza scarpe e non sapeva come fare ad andare a lavorare. Gli hanno dato due calci nel sedere e lo hanno mandato a lavorare lo stesso. […] Le SS a Cattaro la sveglia la facevano con la rivoltella. Sparavano sulle baracche per svegliarci.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
191
[…] Io ho lavorato in una stalla da cavalli. C’era della gente buona, dei vecchi e ci trattavano abbastanza bene. Non c’erano guardie, erano solo all’esterno del loro accampamento. Tenevamo bene i cavalli ed i tedeschi erano contenti… […] A noi non hanno mai chiesto di aderire a Salò, ci hanno fatto lavorare e basta. Se avessi avuto la possibilità di tornare in Italia avrei aderito; quando c’è la guerra, alla patria ed alla bandiera ci si tiene molto. […] Io riuscivo a stare in contatto con i civili del posto che erano informati dalla radio e dai partigiani. C’era un polacco con noi, mi ha chiamato per dirmi che venivamo mandati contro i russi. Io sapevo che a Podgora i partigiani li aspettavano lassù per attaccarli. Allora decisi di andarmene, assieme ad un milanese. Gli slavi hanno invitato i tedeschi a bere in casa e noi abbiamo fatto finta di fare una passeggiata lì attorno. Abbiamo attraversato un campo di granoturco e siamo scappati in montagna. Era il mese di agosto. Abbiamo chiesto a dei borghesi di ospitarci e darci da lavorare. Un pastore ci ha preso con lui. […] Ci siamo stati 6 mesi. Ci hanno trattato bene, come loro. […] La guerra è finita del 1945, noi siamo tornati il 5 maggio del 1946 ci hanno chiamato a Belgrado e siamo andati a casa. […] ALDO MAZZONI - 1919 - Modena - Ufficiale I tedeschi sono arrivati da noi, a Spalato, solamente il 26 Settembre e ci hanno portati a Solona: noi non abbiamo fatto resistenza, non avevamo le armi: un giorno infatti erano arrivati i partigiani ed avevano preso tutte le armi della nostra batteria. Ci era stato dato ordine di resistere a qualsiasi attacco senza spargimento di sangue, ma come sarebbe stato possibile? Solona era distante quattro-cinque km da Spalato, poi da Solona [sic] i tedeschi ci hanno riportato a Spalato in camion, e da lì a Simia in autocarro. Eravamo l’unica batteria presente, 45 uomini, con quattro ufficiali, un capitano, un tenente e due sergenti. Subito ci divisero ufficiali da militari, ed io ero solo con gli ufficiali italiani di Spalato. Ci hanno messo in un locale che sembrava una caserma o scuola, poi in un cortile recintato ad un’altezza di 3 metri, ci hanno chiamato uno per uno chiedendoci chi eravamo, in che reparto operavamo, se volevamo collaborare o combattere con loro. Io ho detto che ero in artiglieria contraerea. Ho detto no quando mi chiesero se volevo collaborare e combattere con loro, quindi l’interrogatorio finì lì, fu una cosa abbastanza veloce. Finito di interrogare tutti, ci hanno riunito tutti insieme, con gli altri prigionieri; eravamo circa 450. […] Ad un certo momento, i tedeschi hanno preso in base all’interrogatorio 45 persone sulle 450 che eravamo e li hanno caricati su un camion. Erano tutti i comandanti di compagnia, maggiori, colonnelli… Hanno poi preso anche altri 17 estratti a sorte tra quelli che avevano risposto no al collaborare. […] Li portarono via, ci dissero che li avrebbe giudicati il tribunale italiano. A noi invece hanno fatto attraversare tutta Spalato a piedi, 45 km da Simia. Non è una cosa da poco, per fortuna ero abituato a camminare, e camminavo con scarpe da montagna, comode, anche se non regolamentari. Eravamo denutriti… qualcuno era caduto, i militari tedeschi li hanno denudati ma poi li hanno abbandonati li, forse è stata la loro fortuna. Quelli che avevano aderito a collaborare con i tedeschi
192
G. PROCACCI (a cura di)
erano circa un decimo, ma i tedeschi li chiamarono traditori, perché dicevano che si erano arresi senza combattere: questi collaborazionisti furono rimescolati con noi in un secondo momento, a Sarajevo. Il mio gruppo, arrivato a Spalato, è stato messo su un piroscafetto: siamo sbarcati a Netkovich, al confine con il Montenegro, poi da Netkovich a Mostar in treno. Dopo diverse tappe, arriviamo a Sarajevo, dove siamo stati riuniti con i “collaborazionisti”: da questi impariamo che i 45 portati via a Simia erano in realtà stati fucilati. […] Quali erano i rapporti tra di voi con quelli che avevano aderito? Non c’era assolutamente astio, ognuno aveva fatto ciò che riteneva più opportuno. Da Sarajevo ci hanno portato in Germania sui carri bestiame, dopo varie tappe. […] Il 14 ottobre arrivammo a Wietzendorf, al primo campo di concentramento: lì c’era già la Repubblica sociale, che faceva propaganda per farci rientrare in Italia, allora ci dissero che se avessimo aderito saremmo tornati in Italia a far parte dell’esercito italiano. […] Ricordo un certo P. di Modena che disse: “Io aderisco, quando sono in Italia io scappo”. Lui era stato una camicia nera, e si trovava in prigionia perché era a militare in quel periodo. Allora ha aderito. Dopo la guerra l’ho incontrato e mi ha raccontato che lo hanno messo nell’esercito tedesco e che gli facevano fare delle esercitazioni che… altro che quelle del corso ufficiali dell’esercito, ci facevano saltare sulle baionette… delle cose inumane…, ed è rimasto in Germania quanto me. […] Non era più una scelta ideologica quanto di sopravvivenza. Io, facendo parte dell’esercito italiano, ho ritenuto di fare altre scelte. Lei aveva già fatto il giuramento? Si sentiva vincolato al re? Direi che era un giuramento generale, con la Repubblica sociale non abbiamo mai avuto a che fare. […] Dopo esser stato in Polonia il primo inverno, ci hanno riportati in Germania poiché arrivarono i russi, ed eravamo nel campo di Sandbostel e lì siamo stati tutte le estati. […] Fame tanta, con noi c’era anche Giovanni Guareschi, e quando eravamo in Polonia veniva a volte nelle baracche ad intrattenere; scriveva qualche raccontino. Io per esempio ero specializzato in supervisione di pagnotte, poiché davano una pagnotta per undici persone, una pagnotta era 1,2 kg quindi veniva un etto e cento a testa grosso modo, per dividerla in parti uguali avevamo fatto delle bilancine con un pezzo di legno e delle corde, si metteva un pezzo di pane da una parte un pezzo di pane dall’altra per vedere se erano uguali. Perché anche 10 grammi, 20 grammi era qualcosa. Anche con le patate facevamo la suddivisione e anche per questione di grammi non ci si fidava si diventa egoisti, è una specie di sopravvivenza. Allora avevamo creato il “achiquestiere”. Era quello che diceva “A chi questo?”. E diceva: “ Al capitano tal dei tali, a chi questo? Al tenente tal dei tali?”. Così se c’era una differenza non era per preferenze. La solidarietà esisteva fra tutti e fra nessuno. Uno pensava per sé, c’era dell’egoismo. Infatti arrivava un pacco di solito se lo teneva ognuno per sé e non se ne parlava più. Era un’autodifesa. […] Si passava tanto tempo a leggere, c’era qualcuno con dei libri e li passava agli altri. Questo accadeva quando eravamo in Polonia. Mentre invece quando siamo andati a Düsseldorf eravamo già in primavera, eravamo ben organizzati, c’era un comandante italiano che era medaglia
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
193
d’oro italiana e Croce di guerra tedesca e quindi anche dai tedeschi era considerato importante. Avevano istituito una specie di biblioteca con chi aveva qualcosa. Io e M. avevamo trovato un testo di meccanica razionale ma c’erano solo gli esercizi, facevamo quelli senza la teoria e ci riuscivamo a farceli perché avevamo tutto il tempo. Quando ritornai in Italia e frequentai l’università di Modena, il professore mi chiese proprio i solidi di rotazione, io gli dissi: “Se mi chiede i solidi di rotazione ha trovato la persona giusta”, infatti mi diede 24. Da notare che i 15 prima di me erano stati tutti rimandati sui solidi di rotazione. […] […] Avevamo una radio nel campo di Düsseldorf, la famosa Caterina, cercavano la Caterina, ma l’avevamo messa sotto il pavimento di legno, quando abbiamo cambiato campo ci hanno fatto una visita che non si faceva neanche a... ci hanno fatto spogliare completamente nudi per cui dopo ci facevano chinare e aprire le natiche per vedere se avevamo, non so, una valvola chiusa attraverso le fessure. Ma non è saltata fuori... e la Caterina passò nel nuovo campo, merito dei “turkestani” perché erano al confine del nord della Russia, avevano gli occhi a mandorla, erano prigionieri ma avevano aderito ai tedeschi e ci facevano da guardia nei campi e nei trasferimenti. Per far passare la Caterina si faceva una specie di baratto: in cambio di un orologio d’oro la radio veniva portata da un turchestano nell’altro campo, ma per evitare che il militare facesse il furbo gli si dava solo un pezzo di orologio, il resto alla consegna della radio. Vi dissero che l’esercito italiano non esisteva più e che, sebbene ufficiali, dovevate andare a lavorare? Per quanto riguarda il lavoro era una cosa positiva. Sono uscito il 12 di febbraio per fare un corso di meccanica ad Amburgo e là eravamo completamente liberi. Siamo partiti in otto, arrivammo alla sera e la città era completamente rasa al suolo. Era un corso di 15 settimane per imparare ad aggiustare parti meccaniche. Ad Amburgo si mangiava bene e anche la gente era ben educata e ci trattava bene. […] Dopo essere stato liberato dagli inglesi, sono rientrato in Italia nel settembre ’45. Un altro mio amico morì semplicemente perché appoggiò l’asciugamano con cui si lavava ogni mattina sul reticolato del campo. Questo gli cadde nella parte proibita, nel momento stesso che si chinò per recuperare l’asciugamano, sulla torretta c’era una sentinella che lo aveva già preso di mira, sparò un colpo ferendolo a morte.[…] GIUSEPPE MESCHIARI - 1923 - Modena - Soldato Dove si trovava l’8 settembre ‘43? A Missolungi in Grecia. In che corpo era? Genio telegrafista, era il 15° genio di Chiavari che mi hanno mandato militare a Chiavari, ho fatto due mesi di istruzione alle armi e poi mi hanno mandato in Grecia e naturalmente sono andato in Grecia in aprile. Come telegrafista non facevo niente proprio, era zona di... era una compagnia mista, la mia era una compagnia mista Trt, io dovevo fare il telegrafista, naturalmente, però non mi hanno mai dato l’occasione perché magari c’erano dei più anziani di me; io non sapevo naturalmente telegrafa-
194
G. PROCACCI (a cura di)
re, allora c’erano dei più anziani di me, a me non mi hanno mai fatto fare il lavoro, di conseguenza non ho mai telegrafato. […] C’erano dei tedeschi con voi? Pochissimi, pochissimi. Noi se volevamo, se i nostri ufficiali volevano disfarsi dei tedeschi era una cosa da ridere, eravamo dieci contro due. […] L’8 settembre addirittura i tedeschi venivano a congratularsi con i nostri ufficiali, anzi hanno banchettato, bevuto, fatto festini insieme, e sembrava che loro fossero d’accordo. L’8 settembre e ancora il 9 eravamo proprio liberi, noi facevamo festa: “Adesso andiamo a casa”, i tedeschi d’accordo con noi, sono stati al gioco, poi un bel momento sono arrivate le truppe di rinforzo, ci hanno fatto prigionieri noi: anziché farli prigionieri noi loro, sono stati loro che hanno fatto prigionieri noi. […] Il 10 allora i tedeschi hanno messo fuori degli avvisi per il paese e dicevano: “Italiani non andate con i partigiani”, perché noi avevamo i partigiani naturalmente, era una zona partigiana molto, e allora i tedeschi avevano la paura, la sua paura, i tedeschi, era che noi dessimo le armi ai partigiani e allora dicevano: “Italiani non date le armi ai partigiani, date a noi le armi che noi vi portiamo a casa”. […] I greci stessi dicevano: “Non vi fidate, vi mandano in Germania prigionieri”, noi non ci credevamo, e allora siccome in Grecia non c’era allora una linea ferroviaria, allora da Missolungi abbiamo fatto 18 giorni di strada a piedi, attraversare tutta la Grecia a piedi. Diciotto giorni di strada a piedi... con delle sentinelle tedesche? No, no... liberi, liberi, i tedeschi ci hanno detto tramite avvisi per la strada: “Italiani andate a prendere la ferrovia ad Atene oppure a Lamia che lì c’è il treno che vi aspetta e vi portano in Italia”. I vostri ufficiali? Loro d’accordo. Anche loro d’accordo... e voi avete reso le armi? Sì, noi abbiamo reso le armi ai tedeschi. […] La popolazione civile vi aiutò durante quel viaggio, in quei 18 giorni a piedi? Non ci ha aiutato ma non ci hanno neanche fatto del male... potevano farci del male. Noi abbiamo attraversato la Grecia, delle montagne addirittura che c’erano dei partigiani, dei nuclei partigiani là a sedere che ci guardavano passare, magari qualcuno si alzava su e diceva: “Vieni tu qua”, e si faceva dare le scarpe perché aveva visto che magari aveva le scarpe buone e lui gli dava le sue che erano vecchie e noi, anche tanti di noi che volevano andare con i partigiani, non ci accettavano perché loro di militari ne avevano anche troppo e di personale, a loro mancavano armi, scarpe, indumenti, ecco più che altro. […] Ci hanno messi in 40 in un vagone bestiame in modo che in 20 si dormiva di giorno e 20 di notte perché sdraiati tutti non potevamo stare in 40, allora... sdraiati per modo di dire, a sedere poi eravamo perché 20 in piedi, 20 a sedere per riposare, capito’, e allora, già che eravamo liberi perché i vagoni erano aperti, potevamo scappare finché volevamo, ma noi avevamo la speranza di tornare a casa. Gli ufficiali erano con voi nei vagoni o erano in vagoni separati? Con noi. Dentro lo stesso vagone? Il tenente, il capitano erano insieme ai soldati nello stesso vagone...? Sì, sì...
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
195
Non c’era un vagone per gli ufficiali? Si son tolti i gradi perché avevano paura che i tedeschi la prendessero con loro, allora si sono sgraduati, e allora noi eravamo liberi nei vagoni, potevamo scendere quando volevamo, abbiamo attraversato tutta la Jugoslavia, l’Ungheria, la Bulgaria, l’Austria... no, l’Austria no, un momento... prima di arrivare in Ungheria, i nostri ufficiali avevano la carta geografica, topografica, hanno detto: “Quando arriviamo a questo bivio, se il treno gira a destra allora ci portano in Austria, se invece va a sinistra andiamo a Trieste”, prima di arrivare a questa stazione, abbiamo trovato una piccola frazione, una piccola stazione piccolissima, c’erano una compagnia di soldati tedeschi che facevano istruzione, secondo noi, invece con un fischietto hanno fatto un fischio, hanno fatto il giro intorno alla tradotta, ci hanno assediati, allora hanno detto: “Adesso tutti sui carri, tutti sui carri”, allora siamo andati sui carri, allora ci hanno chiuso dentro, poi via, il treno è partito. […] Abbiamo attraversato tutta l’Austria e la Germania, perché sono andato a finire al confine dell’Olanda, a Meppen. […] Ci hanno fermato una volta in Austria, ci hanno dato una zuppa di farina gialla, non so, sembrava una polenta molto tenera... ma addirittura in quegli 8 giorni lì, perché prima ci siamo arrangiati noi, ma dopo quegli 8 giorni lì non so se ci hanno fermato una volta sola per darci da mangiare... siamo scesi a Meppen che non eravamo neanche più capaci di camminare […] e i tedeschi ci davano dei calci, con il fucile ci davano sulla schiena perché pensavano che noi facessimo i lavativi invece proprio non eravamo capaci di camminare tanto eravamo bloccati, poi la fame stessa, avevamo una fame, c’erano i ragazzi lì in stazione che ci sputavano addosso, “Badoglio, Mussolini”. […] Ci hanno fatto spogliare, ci hanno preso orologi, anelli, portafoglio, tutto quello che avevamo, ci hanno fatto spogliare lì, poi ci hanno detto: “Adesso vi portate tutti sulla destra”, abbiamo lasciato tutti i nostri vestiti lì e noi ci hanno spostati, sono venuti dei russi, che erano prigionieri anche loro, con un carro agricolo, hanno caricato tutta la nostra merce, stoffe, scarpe, quello che c’era, e poi lo hanno portato alla disinfezione, perché veramente avevamo dei pidocchi, eravamo veramente pieni di pidocchi, allora ci hanno portato alla disinfezione, ci hanno fatto stare nudi una giornata intera, camminare lungo il campo di concentramento così, a battere i piedi, c’era un freddo cane. […] Ma che cappotti... niente, niente... perché in Grecia avevamo fatto 18 giorni di marcia a piedi e ci siamo spogliati di tutto quello che avevamo perché c’era un caldo cane là, avevamo attraversato tutte le montagne della Grecia perché da Missolungi andare a Lamia, che è sulla linea che va ad Atene, abbiamo attraversato tutta la Grecia, proprio le montagne, addirittura. […] Avevamo delle baracche di legno, ci siamo stati due giorni, tre, non mi ricordo, due o tre giorni, e poi siamo stati destinati... hanno detto: “Cinquanta militari qua, cinquanta là”, poi in cinquanta ci hanno mandati, io ero sempre con M. e con C. di Modena, ci hanno messo su un vagone e siamo partiti, per dove... non sapevamo niente, comunque siamo arrivati a Dortmund, mi ricordo che c’era un bombardamento tremendo, eravamo in stazione a Dortmund e c’era il vagone che faceva così... balla-
196
G. PROCACCI (a cura di)
va proprio, ballava, delle bombe, per fortuna non hanno centrato la stazione. […] Noi la pagnotta tedesca, avevamo la bilancia in tasca... sa cos’è la bilancia? La bilancia è questa qua... uno stecco di legno... se lei mette come una cordicella… noi avevamo un bastoncino con una cordicella legata qui e poi quando si facevano le fettine di pane... si tagliava il pane, nove fettine, perché in miniera me la davano in sette la pagnotta invece lì ce la davano in nove, allora noi quando la fettina di pane era tagliata, si puntava una qua e una qua, poi si sollevava, se stava così allora si prendeva via una briciola di qua e si metteva di là... quella era la nostra bilancia […] a mezzogiorno e alla sera, sempre zuppa di verdura, patate non le ho mai viste io, soltanto ho parlato con tanti miei amici, anche dopo la liberazione ci siamo trovati in campo di concentramento, chi ha mangiato anche delle patate, ma io, nel mio campo di concentramento, non ho mai... anzi il giorno di Natale, il giorno di Natale ci han dato un pranzo speciale dopo aver pulito il campo, pulito tutte le baracche, i vetri, ci hanno fatto fare la barba, ci hanno fatto cantare gli inni di Mussolini che nessuno voleva cantare, allora loro ci hanno minacciato: “Se non cantate oggi non mangiate”; “Allora ragazzi facciamoci coraggio, cantiamo, facciamo contento il maresciallo del campo di concentramento”; allora abbiamo cantato un po’ di più, allora loro hanno fatto così con la testa come per dire: “Beh, insomma, non c’è male”, allora oggi rancio speciale... sa cosa ci hanno dato? Non dico tre per dire tre o quattro, tre patate cotte con la buccia, naturalmente, lessate, tre patate lessate, quello è stato il rancio di Natale […] in treno siamo andati a Iserlohn che lì c’era un campo di concentramento enorme, lì c’erano polacchi, russi, lì erano di tante razze, adesso non mi ricordo, olandesi anche, molti olandesi... […] A Iserlohn è venuto un ufficiale fascista dall’Italia e ci ha fatto un discorso da un balcone, sembrava Mussolini, là tutti radunati, eravamo in tanti, in molti, non so in quanti eravamo ma lì eravamo più di mille, e allora ci ha fatto un discorso, ha detto che Badoglio ha tradito i tedeschi, i tedeschi non meritavano questo, noi siamo dei militari e dobbiamo continuare la guerra e così e colà e ci ha chiesto di collaborare con i tedeschi, quelli che collaborano si mettono da una parte, quella parte là, a sinistra, vanno là quelli che vogliono collaborare, quegli altri che non vogliono collaborare rimarranno in Germania come prigionieri di guerra... allora è successo che qualcuno naturalmente, è successo che hanno collaborato, loro ci hanno sfilato davanti a noi con una bella pagnotta da un chilo sotto il braccio così per dimostrare che stavano meglio, che li trattavano bene, e noi li abbiamo fischiati, gli abbiamo detto dei traditori, abbiamo detto un po’ di tutto e poi in fin dei conti avevano ragione loro e non noi... perché guardi, io non ho collaborato con loro sa perché? Perché ho detto: “Questi qua sai cosa mi fanno? Mi mettono una divisa tedesca e mi mandano sul fronte russo, capito, in prima linea”... quelli lì che hanno collaborato poi ho saputo, finita la guerra, che sono venuti in Italia, sono andati a fare servizio nella Repubblica di Salò, poi al momento buono sono scappati, ha capito? […] Avevamo una fame che si crollava proprio dalla fame e allora quelli che non hanno resistito, hanno ceduto e han detto: “Facciano quello che vogliono, io vado con loro almeno mi danno da mangiare per il momento e poi vedremo”... infatti sono scappati in Italia, sono scappati tutti, chi
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
197
nei partigiani, chi a casa... […] noi eravamo più di mille senz’altro, avranno collaborato in 50-60... pochi... si erano arrabbiati i tedeschi, se si erano arrabbiati. […] Poi siamo stati smistati e siamo andati a Hessen nella miniera […] facevamo un tratto di strada in campagna, c’era un piccolo sentiero che ci portava alla miniera... ho sempre fatto la notte, siamo stati destinati alla notte, io e i miei amici. […] Io sono stato fortunato perché a scegliere il turno di notte io avevo il compito di fare questo trasporto, portarlo là, eravamo diventati talmente specializzati che il lavoro di sette ore come dovevamo fare noi, noi in cinque ore e mezzo, sei al massimo avevamo già fatto […] arrivava il tedesco che era il capo che veniva giù con la lampada spenta, veniva, tac, ci metteva la luce davanti e noi facevamo finta di... ma si sentiva che arrivava... quando vedeva che il trasporto era tutto a posto, diceva: “Avete fatto tutto, a posto”, controllava, diceva: “Gut, gut”, bravi, adesso schlafen, dormite, dormite, allora ci lasciava stare, allora riuscivamo a dormire quell’ora lì a sedere, così per noi era già tanto. […] Un bel giorno non mi reggevo più in piedi, avevo la febbre, allora quando hanno detto: “Fuori dalle baracche” per andare a lavorare, per andare all’adunata per andare a lavorare, io sono rimasto nel letto, allora il tedesco è venuto: “Cos’hai?”, “Non lo so, non sto bene”, allora mi ha provato la febbre, l’avevo a 39, e poi non mi reggevo in piedi, e allora dice: “Fuori, fuori lo stesso, via, fuori”, perché loro con la febbre a 39 ti mandavano a lavorare, oltre i 39 ti facevano stare in baracca a riposare almeno un giorno... mi hanno mandato fuori, quando sono stato fuori sono caduto, un po’ la paura, l’emozione, la febbre, così, sono caduto, allora mi ha preso per gli stracci che ero 42 kg, mi ha messo contro la baracca, mi ha gettato forte contro la baracca, e poi mi ha detto: “Adesso prova a cadere che te lo dò io”, allora mi ha messo contro la baracca e sono caduto, allora mi ha dato un calcio qui... mi ha dato un calcio che per avere il fiato per un mese facevo così... allora quando mi ha dato il calcio, è andato via e mi ha detto... che sono di merda, allora mi hanno portato nel campo di concentramento di Iserlohn dove Le ho detto prima, sono ritornato a Iserlohn. Mi hanno portato là a Iserlohn perché mi hanno detto che mi mandavano all’ospedale invece l’ospedale era poi una baracca di legno, era una baracca di legno con la paglia un po’ qua un po’ là come una stalla, poi ti mettevano lì sdraiato; se riuscivi a campare, bene, se non riuscivi a rialzarti ti mandavano via e non so poi dove, dicevano che mandavano nei campi di sterminio quando uno non riusciva a lavorare... “In Germania noi gente che non lavora non la manteniamo a far niente”. […] Lì c’era il dottore che era poi tenente medico […] mi ha detto: “Ah, sei di Modena?”, “Io sono di Bologna” e abbiamo fatto amicizia, una brava persona, allora lui era medico però non aveva niente, neanche una pastiglia, non aveva niente, proprio niente. […] Nella mia baracca eravamo circa 60, circa 60 persone, tutti malati, allora se uno moriva, lo prendevano per i piedi, lo mettevano lì nella corsia di modo che anche lì passavano i russi, passavano con un carrello, caricavano i morti e li portavano fuori, dove fuori c’era il carro con la calce, ribaltabile, caricavano i morti. […] C’era il tedesco che dopo un bombardamento, noi poi andavamo a prendere fuori i morti dalle macerie e con il picco e pala, e allora diceva il
198
G. PROCACCI (a cura di)
tedesco che ci sorvegliava: “Cattivo, cattivo”, anche qualche botta dava, solo che avesse visto arrivare uno in bicicletta anche a distanza lui diventava una belva, cattivo, perché era un militare un po’ anziano, erano addetti ai servizi interni più che altro, quando non vedeva nessuno diceva: “Riposatevi”, e allora lui stava attento, sembrava spaventato, perché quando arrivava qualcuno, cattivo come una bestia per dimostrare. […] Poi da lì mi hanno mandato a Kassel, sono stato a Kassel, a Kassel mi hanno mandato in una cava di pietre a lavorare, siccome che ero molto fragile, molto debole, mingherlino, ero 42 kg, non riuscivo a fare quel lavoro lì, allora mi hanno ritornato a portare a Meppen e poi dopo lì è avvenuta la liberazione, perché eravamo ormai agli ultimi giorni. […] Noi i primi tre mesi, la prima cosa sono andati giù, proprio giù fisicamente sono stati quelli che non hanno mai lavorato, come studenti, barbieri, gente che non ha mai lavorato, che non avevano i calli nella mano, come io che lavoravo fin da bambino, cioè a sopportare la miseria che avevo a casa mia, sopportavo tutto, mi mettevo le calza bagnate, eravamo un po’ temprati, noi, i primi tre mesi i primi sono andati giù fisicamente quelli che non hanno mai lavorato, come uno studente, un barbiere che c’hanno le mani... quelli sono stati i primi ad andare giù fisicamente e poi dopo gli altri tre mesi un’altra selezione, sono stati la gente robusta, alta e grossa, gente che con quella fettina di pane che mangiavo io non si nutrivano e non resistevano, quelli sono andati giù fisicamente subito, abbiamo avuto i primi sei mesi una decimazione nel campo che è stata grandissima, poi dopo sono rimasti quelli più robusti, più sani. Abbiamo resistito alla miniera, alla fame, perché la fame era tremenda, la fame... quando pensi che una fettina di pane da... non so se poteva essere 100-120 grammi di pane te la davano alle 11, la mangiavi subito e poi dovevi andare al giorno dopo lavorando tutta notte... alla sera ti davano un’altra tazza di verdura cotta, era verdura cotta, e mangiavi quella lì e basta perché il pane lo avevi già mangiato a mezzogiorno, cioè dovevi mangiare quella zuppa di verdura lì alla sera alle 5, alle 6, non so quando, e poi dovevi lavorare tutta notte e aspettare il giorno dopo alle 11 che ti davano quella fettina di pane e l’altra zuppa di verdura, ha capito? […] Guardi che là arrivava qualche volta nel campo un pacco dall’Italia, arrivava qualche pacco, anche a me è arrivato una volta un pacco, c’era dentro un po’ di pane secco, abbrustolito, c’era dentro un po’ di tabacco, una scatoletta di carne Simmenthal... quando a uno arrivava un pacco che si aveva un po’ di pane, per me quello era diventato come una scimmia, si andava a mangiare il pane là nascosto come un cane quando ha un osso... C’è qualcuno che quando riceveva dei pacchi li divideva con gli altri? No, no, non succedeva mica... un momento, ad esempio, ad un mio amico di Pavullo, quando è arrivato il pacco a lui, m’ha dato qualcosa anche a me da mangiare. Lei quanti pacchi ha ricevuto? Uno, uno. [parla la moglie di Giuseppe Meschiari] C’erano delle voci che dicevano che questi pacchi non arrivavano ai prigionieri, e allora anche mia suocera, allora io ero ancora fidanzata, mi sono sposata dopo la guerra, ma ero sempre a casa dai suoi, non voleva mandarli: “Intanto vanno persi, chissà chi li mangia, non arrivano ai no-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
199
stri prigionieri” e allora, una volta, io e sua cognata abbiamo insistito di fare ‘sto pacco, ed è arrivato. […] Non potevate mandare delle cartoline? Si scrivevano ma guai a dire che “Ho fame”, gliele bruciavano se mandavano... e allora non potevano mica dire: “Mandatemi un pacco che ho fame”, gliele strappavano... [parla Giuseppe Meschiari] Allora è successo che un russo, un ragazzo, un giovane, un biondo, me lo ricorderò sempre, aveva sui 17-18 anni, è venuto con un soldato delle SS in campo di concentramento da noi […] il soldato delle SS ha detto con il capo campo: “Faccia adunata di tutti”, allora ha fatto adunata di tutti, e aveva questo ragazzo sempre di fianco, lui fumava una sigaretta e il russo lo aveva lì: “Ci siete tutti?”, “Sì”, “Allora va bene, allora volevo dire questo, che questo soldato qua, questo russo ha approfittato del fatto che gli americani hanno bombardato, che hanno ammazzato tanta gente qua...”, la solita polemica, dice: “Se ne è approfittato, ha preso delle patate da una casa bombardata, magari da gente che è morta sotto le macerie, e lui ne ha approfittato, ha preso delle patate, noi in Germania non tolleriamo questo perché quando uno ruba in Germania non facciamo altro che far così”, ha preso la rivoltella e ha fatto pum, gli ha sparato un colpo lì e lo ha ammazzato lì, lo ha ammazzato, un ragazzo che aveva 17-18 anni, io ero in prima fila, mi ha detto: “Te, te e te” in quattro persone, mi ha detto: “Prendete picco e pala e venite con me”, allora prendiamo il picco e pala e allora in due prendiamo il ragazzo dai piedi e dalle mani e lo portiamo fuori dal campo di concentramento, fuori lì avanti 50 metri c’era una pineta, c’erano quei pini piccolini, non so, forse un allevamento di pini, è venuto fuori di lì, ha detto: “Appoggiamo il morto lì”, il tedesco ha fatto un segno così, ha detto: “Adesso scavate lì”, noi cominciamo a scavare, facciamo la buca, quando la buca è stata fatta ha detto: “Dentro il morto”, prendiamo il morto, lo mettiamo dentro nella buca e allora a me non so guardi perché l’ho fatto, non lo so neanch’io, perché... non so... ho preso un ramo del pino e l’ho messo in faccia al russo, porca miseria, non lo avessi mai fatto, m’ha dato una spinta, mi ha gettato in terra e mi ha detto della roba: “Tu non sai i russi cosa hanno fatto a voi, perché se lo sapessi tu un rispetto così a un russo non lo portavi”, era in tedesco, poi, che io capivo quello che capivo, io ho capito solo che mi ha detto: “Sei molto giovane te, non puoi capire quello che han fatto loro a noi, sei fortunato che sei giovane se no ti mettevo nella buca con lui, adesso fai presto, metti su la terra e fai presto”, allora ho... allora ha cominciato a farmi un’altra scenata, io tremavo come una foglia, pallido in viso, mi hanno detto i miei amici che ormai cadevo anch’io, e mi sono salvato a quel modo lì, perché mi ha detto che sono molto giovane, avevo 19 anni, ne dimostravo 16 perché i tedeschi mi chiedevano tutti se ero volontario, non credevano che ero prigioniero militare. […] Alla mattina ci siamo svegliati, per modo di dire perché tra le cannonate e gli apparecchi non si dormiva, ci siamo accorti che non avevamo più le sentinelle, eravamo liberi, non abbiamo più militari, chi ci comanda qua? Allora chi andava di qua, chi andava di là, siamo liberi, allora ce ne siamo accorti che le sentinelle sono scappate sa perché? Perché gli americani avevano fatto un lancio di paracadutisti, avevano insaccato perché la Germania l’hanno occupata a forza di sacche, le truppe avanza-
200
G. PROCACCI (a cura di)
vano e i paracadutisti accerchiavano di modo che siamo rimasti accerchiati e quindi eravamo liberi, però in mezzo alle cannonate tra tedeschi e americani, e allora io sono andato a finire, siccome era una zona di collina, c’era un fossato, c’era un canalino piccolino, ma era secco perché eravamo in marzo, non c’era pioggia, allora c’era già una buca abbastanza profonda, profonda poco, allora io... mi sono fatto un rifugio da solo, lì, e sono rimasto lì, ad alzare su la testa arrivavano delle mitragliate, fucilate, non avevo il coraggio di alzare su la testa, cosa faccio, qua bisogna che un bel momento vado fuori, venivo fuori la notte a strappare un po’ di erba perché era un’erba molto corta perché eravamo in marzo, da poter mangiare qualcosa, sono rimasto lì due giorni e due notti, ha capito? Finché ho visto un carro armato venire avanti, stavo per uscire quando il carro armato è ritornato indietro alla mattina presto, si vede che era venuto a fare un giro di perlustrazione, me non mi ha visto, quando stavo per uscire per dire: “Sono italiano” lui è ritornato indietro, allora io sono rimasto ancora lì, poi il giorno dopo c’erano dei tedeschi in divisa e venivano avanti disarmati e facevano delle urla, chissà perché, l’ho poi imparato dopo, perché c’erano i ragazzi della Hitlerjugend che li caricavano su un camion, con un panzer e una pala, li caricavano su un camion, ogni 50 metri scaricavano un ragazzo, la Hitlerjugend... con la pala ci facevano una buca, ci andavano dentro con il panzer. E aspettavano il carro armato, quando arrivava il carro armato facevano saltare il carro armato così... qualche carro armato sono riusciti a farlo fuori, però dopo gli americani quando se ne sono accorti, qua adesso bisogna prendere dei provvedimenti, allora sa cosa facevano? I prigionieri tedeschi che facevano li mandavano davanti, disarmati naturalmente, davanti 50-60-70 metri dal carro armato, e li mandavano avanti loro a piedi, e allora dicevano con i ragazzi della Hitlerjugend: “Ragazzi venite fuori, siamo noi”, li facevano uscire dalle buche, perché andavano in pericolo anche loro, per evitare che gettassero i panzer. E allora io, quando sono venuti avanti i tedeschi che dicevano : “Fuori, fuori, fuori”, allora io sono venuto fuori ma ho detto: “Io sono italiano”, allora hanno detto: “Via, via, via”, mi hanno fatto andate dietro ai carri armati, tuttora che ero dietro al carro armato americano dopo ero libero... Come è stato il suo contatto con gli americani? Come l’hanno trattata gli americani? Benissimo, benissimo, ci hanno dato da mangiare, mi hanno visitato, mi hanno pesato, ci hanno dato da mangiare e... sigarette, proprio benissimo... […] Gli americani sono venuti a fare un discorso una volta, ci hanno radunato noi italiani, poi hanno detto: “Guardati ragazzi, adesso non è possibile mandarvi a casa perché manca la ferrovia, manca la strada, in attesa che si aggiusta la ferrovia, se volete venire a lavorare con noi che abbiamo bisogno, noi vi paghiamo con dollari, invece di star qui a far niente, potete star qui un mese o due senza far niente, se volete venire a lavorare con noi vi paghiamo, almeno andate a casa con un po’ di soldi da poter comprarvi qualcosa, io sono stato uno di quelli ignoranti che ho beccato subito, beh, star qui a far niente quando mi danno la possibilità di guadagnare qualcosa io vado a casa con un po’ di soldi... È tornato in miniera?
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
201
No, no, ad asfaltare le strade, ad aggiustare le strade […] dopo un periodo hanno detto: “Adesso le strade sono riattivate, chi vuole andare a casa il treno c’è il giorno 10, ad esempio, c’è una tradotta che parte per l’Italia, ma ci mancherebbe altro, allora a casa, allora siamo andati al comando americano a riscuotere la paga perché se dobbiamo andare a casa, dice il comando americano: “Guarda che noi i soldi non li abbiamo noi, dobbiamo farli arrivare, voi ci date l’indirizzo della vostra casa, se dovete partire, partite pure regolarmente che noi abbiamo l’indirizzo vostro di casa e ve li mandiamo a casa noi”... mai visti. […] Una volta al mese ci facevano radunare in un piazzale grandissimo e neve, pioggia, gelo, non aveva importanza, quel giorno lì si doveva, si doveva andare a ritirare lo stipendio, allora in fila ti mettevi lì, c’era al pianterreno una finestra e c’era l’ufficiale pagatore che ti pagava, in base al tuo numero ti davano i marchi da campo, da campo, non erano marchi normali, marchi da campo, che li potevi spendere solo in campo di concentramento, se il campo di concentramento non c’era allora non compravi niente, ma noi non ci andavamo mica ma ci obbligavano ad andare a prenderli. Ma voi che cosa ci facevate con questi marchi? Li bruciavamo, al massimo qualcuno, siccome non avevamo carta, nella miniera c’erano i legni che sostengono qualche volta... c’erano di metallo, qualche volta sono anche di legno, allora c’è la corteccia che si sbriciolava, la facevamo sbriciolare e poi con il marco, li mettevamo dentro al marco e poi facevamo così, e poi, quando si riusciva a trovare un tedesco che accendeva, mica in miniera, che non si poteva, ma nel campo di concentramento, allora riuscivi a dare qualche boccata di sigaretta. […] Lo sa che per 15 anni non dormivo e mi sognavo, quel po’ che dormivo, mi sognavo che ero prigioniero, allora quando mi svegliavo, dicevo: “Non è mica vero”... per tanti anni, tanti anni.. e quando io racconto queste cose qua, poi mi agito, mi agito in una maniera tremenda e quando parlo con degli altri, ho sempre paura che... Ti credono esagerato. Perché quello che abbiamo visto noi in Germania è una cosa talmente grossa che non possono credere a quello che abbiamo visto noi, io ho visto arrivare delle tradotte dalla Russia, dalla Polonia, ho visto donne, bambini, vecchi a fare delle urla giù per questo treno, i tedeschi a botte li facevano scendere dal treno e poi mettevano i vecchi da una parte, le donne dall’altra, i ragazzi da un’altra, con delle urla, i bambini che cercavano la madre, la donna cercava suo marito, il vecchio… i vecchi da una parte, uomini dall’altra, donne e bambini... con delle urla che è una cosa che... e poi li dividevano, li mettevano sul treno, i bambini li mettevano su un treno, i vecchi li mettevano su un treno, li dividevano, ho visto delle donne con dei bambini in fasce, addirittura, li mettevano a spalare la neve sulla ferrovia, delle ragazze con dei bambini piccolini. […] Ho visto delle donne, io, a fare la buca, delle donne russe, la buca nella neve, facevano una buca, mettevano dentro il bambino e poi andavano avanti a spalare la neve per la ferrovia, facevano 10-20 metri e poi tornavano indietro a prendere il bambino e facevano una buca là, mettevano dentro il bambino per evitare l’aria, così, dei bambini in fasce... […] Da noi, quando uno non riusciva più a lavorare, che era in condizioni disperate, lo mandavano poi in quei campi lì, dicevano loro che li man-
202
G. PROCACCI (a cura di)
davano all’ospedale, non è riuscito mai nessuno a tornare a casa dall’ospedale. […] SEVERINO MISELLI - 1921 - Castelfranco Emilia (Mo) - Soldato […] L’8 settembre è stata una cosa... Ero in Albania io. […] Eravamo vicino a Trapani. E allora diedero l’ordine… come siamo andati là alla mattina sono andato fuori, sono arrivato all’aeroporto, siamo andati a vedere le baracche, così… poi, sono tornato fuori perché m’avevan detto che andavamo in Italia; dovevamo venire in Italia. […] Rientriamo alle 10-10,30, c’è un carro armato davanti alla porta, e un carro armato in mezzo alla pista. Solo un Cr-42 è riuscito a decollare. […] E a noi ci han fatto prigionieri. […] Ci hanno portato in Germania. […] Eh, da mangiare ci davano loro in treno... una scatoletta 8 giorni. Mi sono mangiato la cinghia dei pantaloni. Una cosa… sì, sì, la cinghia dei pantaloni, quando ci hanno preso, in treno… ma mica solo io, eh! Ci siamo succhiati le cinghie dei pantaloni. Ci avevano dato una scatoletta così, di pesce, bianca, fatta a forma ovale, così; e poi per 8 giorni chiusi dentro, con i reticolati nei finestrini che non si poteva neanche muoverti e far tutto lì, eh! […] I russi, peggio di noi. I russi quando siamo arrivati al campo, arriviamo dentro, c’era una scritta sopra, in tedesco, gefangen; andiamo dentro, entriamo dentro, vediamo che c’è da una parte, neanche un filo d’erba, proprio alla nostra destra, come si entrava, c’era tutto un piano, sembrava un pavimento di terra. Ci fermiamo, andiamo dentro, c’eravamo in 180-200, se mi ricordo bene. Quando chiudono il cancello ci fan fermare, chiudono il cancello. Vediamo venir su della gente da questo terreno; erano i russi che erano lì avevano fatto dei tombini, giù, e poi dopo andar giù in quel tombino, andavi giù dritto così e poi c’erano tante nicchie, proprio lì dove dormivano, peggio di noi. […] A settembre non era ancora freddo. Invece poi in Cecoslovacchia, ragazzi, quando si andava a casa dalla miniera, perché gli italiani li conoscevi subito, non avevano neanche un cappello; tutti gli altri avevano i cappelli, il paraorecchie, sai, c’erano perfino di quelli che avevano il paranaso; un affare così che veniva davanti al naso, il paraorecchie… io mai niente, sempre coi capelli così, niente in testa. […] E anche quando andavamo in baracca stavamo bene perché c’era una stufa che avevamo fatto noi con un bidone da benzina. Sai quei bidoni, e lì abbiamo imparato a fare le patatine fritte contro la stufa; la stufa diventava rossa, però non ci davano il carbone; allora cosa facevamo? Quando venivamo fuori, tutti avevano in tasca tre o quattro pezzi di carbone, lo mettevi dappertutto; dentro le braghe, i pantaloni alla zuava. […] E a dormire con le cimici. Sai cosa facevamo? Con i fogli di carta facevamo dei cosi così, dei pirulini così, perché si dormiva su un’ascia. C’era una baracca, in baracca 18-19, tutto in legno, allora qua ci mettevamo a dormire e qui puntavamo tutte quelle cose di carta, che ci davamo fuoco perché sennò non ti lasciavano dormire. Era un lavoro… […] È stata una tragedia la liberazione. Perché prima sono venuti avanti i russi, senti bene.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
203
[…] Liberano ‘sto paesino, ti puoi immaginare la festa, tutti fuori al bar, dove c’era la birra; anche i prigionieri, non si conosceva più niente; perché ormai avevamo una relazione anche con la gente del paese, perché alle 10 noi andavamo dentro, ma prima eravamo fuori, potevamo girare; non potevi prendere niente perché non ci avevi niente... se non c’era qualcuno che ti offriva qualcosa. Alla notte i russi si ritirano e ritornano i tedeschi. Hanno impiccato la gente nei giardini, lungo le strade, quelli che avevano dato ospitalità, sai c’erano le spie. Io ero andato a finire in una casa che c’erano delle pecore; le pecore erano sopra delle asce, il pavimento era fatto di asce con la cosa… ero andato a muovere le asce, eravamo in due ed eravamo andati lì dentro, che a momenti crepavamo dall’odore, che non si respirava. Poi alla mattina tornano i russi. […] Sono tornati i russi, ci han dato un biglietto, un foglietto […] un lasciapassare, ma era un biglietto comune, perché non eravamo mica in tanti lì, 180-200, per venire verso casa, perché le ferrovie le avevano tutte tagliate. […] Allora avevamo trovato un cavallo, cioè non so come fosse venuto, abbiamo trovato un cavallo che dopo l’abbiam mangiato poi; lo abbiamo tenuto otto giorni, poverino, e poi dopo lo abbiamo macellato e lo abbiamo mangiato. Arriviamo alla frontiera, diciamo così, tra americani, inglesi e, sì quelli della liberazione, arriviamo in Austria, da quelle parti lì. […] Sì, al ritorno, sì, lì ho preso la malaria. […] Poi sono arrivato, dove sono arrivato qui a San Felice, qui dove arriva la ferrovia, sempre nel vagone letto; poi siamo andati dal prete, la prima volta che ho bevuto un po’ di lambrusco. A Verona sono morte un sacco di persone, perché gli americani gli davano quelle scatolette di pasta, maccheroncini, scatolette alte così… ci sarà stato un chilo di roba. E molti sono morti. […] Ma quando sei arrivato là, all’inizio i repubblichini non hanno cercato di farvi ritornare in Italia? […] Allora mangiavano in una panca, con i maccheroni, e noi, con una fame da dio. Per cercare di convincerci ad arruolarci, ma noi sapevamo già che quelli lì che convincevano, sai dove li mandavano? Al fronte russo. E non ritornava più neanche uno. Allora niente; attaccati alla rete così a vedere quegli altri mangiare, ma distante come lì... con la panca, con un piatto di maccheroni proprio: “Se venite…”, allora, diciamo, qualcuno è andato, e poi dopo andavano diretti, non è che venissero, dicevano che venivano in Italia, ma sapevamo già che andavano al fronte. […] Ma, peggio di noi erano trattati i russi, eh! Eran trattati, ti dico, loro erano in questo campo che non c’era neanche un filo d’erba… beh, un filo d’erba veramente non c’era neanche da noi, perché quella che c’era la mangiavamo. […] La mangiavamo. Io mi ricordo che andavamo a rischiare che c’era la riga bianca, il reticolato con la corrente elettrica, le sentinelle; c’era una riga, se passavi quella riga lì… fino alla riga non c’era neanche un filo d’erba. E di notte, di notte andare al macero dove buttavano le… […] Le mense dei tedeschi… che fumava, puzzava… di notte andar là a prendere gli avanzi dei cavoli. Poi li lavavamo, e caro mio, andavamo a nozze; si rischiava la vita per andare a mangiare dei… […] I rifiuti... buttavano tutti i rifiuti della mensa, ma caro mio, sai loro avevano la possibilità; il ca-
204
G. PROCACCI (a cura di)
volo, mangiavano solo il centro, e tutto il resto... e noi invece, caro mio, a turno, per notte, si sgusciava, mi ricordo, dentro. […] Poi sai com’era là, non è che facessi molta amicizia, perché, ti alzavi alla mattina presto, alle 5 uscivi in mezzo alla neve e facevi […] l’appello. Andavi a lavorare; c’eran circa sei-sette chilometri di strada, sai con la neve... poi ti mettevano su quella torre lì, andavi giù, non era che mettessero degli italiani con gli italiani... Un borghese e un italiano; poi era proibito parlare, eh! […] Non si conosceva veramente nessuno. Alla mattina, per esempio, tutte le mattine, non credo di ricordare che ci sia stata una mattina che non ci sia stato un morto; cioè che rimaneva in baracca, coperto dalla coperta... quelle coperte militari, una specie delle nostre; se ne accorgevano quando facevano l’appello, perché quando veniva dentro che suonava il campanone, dovevi saltare giù. Sì, non è che dovessi lavarti i denti, metterti le scarpe e compagnia bella. Eri già pronto, saltavi giù e correvi; e ce ne accorgevamo all’appello che uno mancava, uno o due, a seconda... Ma tutte le mattine. E allora, il capo andava a guardare… morto. Ma tutte le mattine ce n’era uno. Eravamo 200-250, ma tutte le mattine... Insomma, fatto sta che in due mesi, siamo rimasti in 75; in due mesi siamo rimasti in 75. I più sono morti giù, in miniera; come ti dico, era un pericolo perché loro avevano il casco e compagnia bella, ma le cose grandi così… quelle basse erano terribili perché sai, dovevi andare dentro. […] Infilarti dentro delle volte appena appena passavi, ma quelle alte così erano più pericolose, perché saltavano via delle schegge così, con niente in testa. […] GAETANO MONTANARI - 1924 - Reggio Emilia - Soldato Io mi trovavo a San Giovanni in Persiceto, a 20 km da Bologna, ero stato chiamato alle armi il 5 di luglio dello stesso anno, di leva, allora poi la leva consisteva in 18 mesi non in 10 mesi, il militare si faceva sul serio, e poi di lì fummo catturati dai tedeschi la notte del 9 di settembre. […] Ci caricarono sopra dei vagoni bestiame, nel nostro ci trovammo in 56 […], dopo un 60-80 km mi venne voglia di scrivere due righe, avevo ancora lo zaino con tutto il mio corredo, corredo ancora in buone condizioni, integro, integrissimo, perché eravamo ben forniti, presi un foglio di carta da lettere e una busta, scrissi poche righe, gettai dal finestrino, passando accanto ad una strada, e quando tornai mia madre aveva ricevuto da una signora che l’aveva raccolto in strada questo biglietto con l’indirizzo. […] Quanto durò il viaggio? Tre giorni. In quei giorni non vi diedero niente? No, a noi no perché, ripeto, lì non ci aprivano nemmeno per le necessità fisiologiche, dovevamo arrangiarci noi. […] Ci hanno aperto due giorni dopo, ci hanno fermato in aperta campagna, faceva freddo. […] Non so dove fossimo, forse eravamo già in Germania perché la traversata... l’Austria è un paese piccolino. Ci aprirono in mezzo a questa foresta, alberi, umidità, faceva freddo, e lì ci servirono delle scatolette che provenivano da un’industria di Bari, era una crema di pesce gialla, molto salata, molto sapida.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
205
[…] Potemmo bere finalmente, ricordo che io bevetti... non avevamo le gavette, avevamo i gamellini... bevvi un gamellino di acqua e poi proseguimmo e di lì arrivammo a Fallingbostel. […] Sempre a Fallingbostel, e lì siamo rimasti per parecchi giorni. Lei consideri che erano baracche dove c’era uno spazio entrando con un tavolo e poi dei secchi per i bisogni notturni, o dei bidoni, poi le... chiamiamole cuccette... erano degli alveari, erano serie di... erano [descrive a gesti i letti a castello] quattro piani più sopra, un quinto piano sopra, quello sopra era aperto, io andai sopra perché mi sentivo più libero, e lì siamo rimasti una decina di giorni. […] Ogni giorno al mattino c’era la sveglia alle sei, dovevamo uscire, ci mettevamo in un cortile, in fila, lì ce n’era sempre per due ore, in piedi, contavano, ricontavano, contavano, non so mica cosa avessero, evidentemente anche questi militari tedeschi non avevano molto da fare, e lì piano, piano, un colpettino oggi, un colpettino domani, ogni tanto ci toglievano qualcosa, e così al pomeriggio... […] Lì cominciarono subito a chiedere se qualcuno voleva aderire, se si voleva aderire. […] Vennero, promettevano mari e monti, la libertà, il ritorno a casa, e i primi tempi davvero accadde, noi lo abbiamo poi saputo dopo, ho degli amici che hanno aderito, sono tornati in patria. Fecero leva anche su un miglioramento del vitto? Certo, un miglioramento generale, a livello di rancio, di tutto, di condizioni di vita. L’atteggiamento della maggioranza quale fu? Negativo, negativo... perché sa, noi avevamo anche la speranza che la guerra fosse ormai al termine, però fu negativo, 5%... mentre invece mi diceva un mio amico, il tenente P., che è qui di Reggio, lui però è di una classe più vecchia di me, lui ha 81 anni, diceva che i suoi colleghi aderirono in una percentuale intorno al 50%... “Ma no, P., non ricordi bene”... lo diceva anche sabato scorso... da noi ha aderito il 5% nel nostro campo. Eravate tutti soldati o c’erano anche degli ufficiali? Eravamo soldati, reclute e sottufficiali. Quali furono le ragioni della non collaborazione? Soltanto la speranza che la guerra stesse per finire? No, no, c’era un fatto: noi avevamo fatto un giuramento, noi avevamo giurato alla monarchia. […] In primo luogo il fatto di non voler collaborare con i tedeschi, il fatto numero uno era questo, la situazione numero due poi variava. […] Io mi sentivo legato ad un giuramento, io ed anche altri, gli ufficiali più di noi erano... ma non tutti. […] Per sottufficiali e truppe il lavoro era obbligatorio secondo i piani, era obbligatorio. Poi restammo lì a Fallingbostel, questo immenso campo che aveva tra l’altro anche delle attrezzature sportive, c’era un campo di football dove giocavamo, dove giocavamo. Io non giocavo, ricordo che c’era l’intera squadra dell’Ambrosiana prigioniera, si facevano dei campionati, delle partite a livello internazionale, Italia contro Francia, Francia contro Belgio, c’era un’intera squadra del Belgio, gli italiani... c’erano 5 o 6 dell’Ambrosiana. […] Noi non eravamo più uomini, dopo Lei ci classifichi come vuole o come può... non eravamo nemmeno degli animali: eravamo degli schiavi. Ma questa poi è la sorte che spetta a tutti i prigionieri di guerra, penso... da
206
G. PROCACCI (a cura di)
sempre. Lì siamo rimasti a Fallingbostel ancora per altri quindici giorni e poi cominciarono a raccogliere della manodopera che destinavano a lavori nei campi, negli zuccherifici, perché alla fine di settembre — primi di ottobre in Germania inizia la campagna saccarifera […] io fui condotto a Grossbaden [sic], un piccolo paesino di poche case dove c’era uno zuccherificio, e lì siamo rimasti per due mesi, per tutta la durata della campagna saccarifera, si lavorava dodici ore al […] lì come rancio non si stava male. […] Terminata la campagna saccarifera, avemmo la fortuna di restare in una trentina, fissi, a restare lì […] si stava bene perché allora poi si lavorava solo di giorno e otto ore al giorno […] solo che porca miseria c’era un nostro amico, che tra l’altro era una recluta come me, un modenese, un certo […] che forse vive ancora, il quale non contento, che so, di rapinare, di andare alla ricerca di patate, addirittura mise in pericolo la scorta di patate del direttore dello stabilimento, ne portava via sacchi, chiamarono le SS e di lì fummo trasferiti. […] Vi punirono per questo furto? E lì ci mandarono agli altiforni 12 ore di notte, sempre e solo di notte, all’aperto a raccogliere del... come si possono definire? Erano dei pezzi di... delle benne che le trasferivano su... […] Qui le cose erano cambiate moltissimo, ma siamo appena arrivati qui, questo era il lager 8, ci trovavamo in un arbeitskommando 60-68 di Allendorf, un altro piccolo paese... questa zona industriale immensa, immensa, di lì usciva di tutto. Fatto è che lì si stava molto male perché la razione era di un mestolo al giorno di acqua mista ad ortiche, non so che cosa, proprio inconsistente una volta al giorno, quando si tornava alla sera, no prima di partire alla sera perché noi partivamo alle 5, sempre 12 ore, avevamo un’ora di marcia, un’ora per andare e un’ora per tornare, quindi erano 14 ore che eravamo fuori noi, 14 ore al giorno, sotto la pioggia, la neve, il freddo. […] Pensi, stavamo dicendo che quando si arrivò lì, la razione era di un mestolo al giorno, al giorno, una fetta di pane, una puntina di margarina e il mercoledì pomeriggio avevamo un supplemento, un cucchiaio di zucchero, un momento... un cucchiaio di zucchero, ha presente di quelli da zuppa, e una puntina di marmellata, quindi lei pensi, dovevamo, avevamo un’ora di strada all’andata, al ritorno poi in un’ora non si faceva, eravamo stanchi morti, morti di sonno, morti di fame, morti di freddo... […] Poi avevamo i bombardamenti, gli alleati non scherzavano... […] Poi avevamo dei grossi altri problemi, l’igiene, i pidocchi... io dai primi del novembre del ’43 sino al rimpatrio io ero coperto di pidocchi […] e di notte le cimici... […] C’erano medici italiani, ufficiali medici italiani, c’era l’infermeria, ma erano sprovviste di tutto. Lei si figuri che per bendare una ferita usavano i rotoli di carta igienica, non c’era altro, avevano forse qualche compressa di aspirina... […] Il morale, si immagini... a pezzi, provi lei a convivere una settimana con i pidocchi, provi solo una settimana.[…] C’erano perquisizioni? Sì, succedeva questo, succedeva, ma non molto spesso, le cose più gravi, le cose più gravi erano la fame e i pidocchi e poi il fatto della mancanza di notizie delle famiglie, perché noi del nord, noi siamo riusciti ad avere un collegamento per qualche mese ma quelli del sud erano completa-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
207
mente tagliati fuori, loro non hanno mai avuto notizie delle famiglie, mai... poi, tutto quello che erano perquisizioni, controlli, si facevano... Per lei era la parte minore del quadro? Era tutto compreso nel menù. […] Io, ripeto, quelli che ho avuto lì nello zuccherificio erano tutte brave persone, persone di una certa età; non ho mai avuto storie però, sa, eravamo loro prigionieri, loro prigionieri... eravamo prigionieri del Reich, del terzo Reich... sa veramente io non ho avuto molti rapporti con i tedeschi, non ne ho avuti perché ero rinchiuso, quando si usciva per andare al lavoro e poi stop. C’è da dire, invece, che gli altri prigionieri, i polacchi soprattutto, per me erano ignobili, invece i nostri italiani dei campi di prigionia polacchi hanno avuto aiuti, però per me i polacchi erano ignobili, tra i peggiori... I russi: quando siamo arrivati a Fallingbostel ci sistemarono in una baracca e poi ci spostavano il giorno dopo, ad un certo punto siamo arrivati in una baracca al confine; al confine c’era un campo di prigionieri russi, non ricordo se fossero prigionieri di guerra o civili, c’erano molti civili, ma probabilmente erano prigionieri, i quali si radunarono, si avvicinarono in gruppo, in massa, al reticolato e intonarono dei canti russi, popolari, al che ricordo che tra le nostre reclute c’era un cantante di varietà, un certo Bruni, cantante, cantava anche alla radio allora, anche lui cantò, rispose, si avvicinarono, una massa, e intonarono dei canti russi che però, sa, io il russo... […] Con l’avanzata dei russi, i tedeschi allontanavano dalle zone più verso il fronte, spostavano i prigionieri di guerra. […] Ci misero in una baracca dove c’erano dei civili russi, tutti insieme, era una baracca enorme, con tutti i castelli, c’erano bambini, donne, un pasticcio. E poi dopo di lì ci portarono a Wietzendorf che è a sei km. […] Questo avvenne nel gennaio del ’45. […] Quando vi passarono a lavoratori civili? […] Un bel giorno sparirono le sentinelle ma non cambiò niente, sia ben chiaro, per noi non cambiò niente, non ci siamo accorti di questo. […] Al momento della liberazione non è accaduto niente di importante, anche lì ci siamo trovati un bel giorno, all’alba, mi pare, con la sorveglianza che non esisteva più, noi siamo stati liberati dagli americani, dalle truppe americane, era zona di occupazione inglese però lì arrivarono prima le truppe americane degli inglesi... per 10-15 giorni siamo stati soggetti lì alle truppe americane, non c’era male, dopo poi vennero gli inglesi, ovviamente, con gli accordi tra di loro... con gli inglesi non è che si stesse bene. […] Da Wietzendorf tornai a Braunschweig, lì a Mittenwald c’era il campo di disinfestazione e lì finalmente mi liberai dei pidocchi, una volta per sempre, una volta per tutte mi liberai dei pidocchi, gli alleati avevano organizzato un campo, delle tende, dovevamo andare una volta al giorno, per tre giorni di seguito, ci irroravano di Ddt in polvere con delle pistole. […] C’era una commissione di guerra alleata, c’era un campo, facevano anche delle serate danzanti, ma si figuri chi aveva voglia di danzare, c’era gente che aveva otto-nove-dieci anni di naja sulle spalle... poi non si vedeva l’ora di rientrare […] Qui da noi la Resistenza non ci ha mai riconosciuti, si è sempre parlato solo di Resistenza, per l’amor del cielo, io contro la Resistenza non ho niente […] qui si parlava sempre e solo di Resistenza, di partigiani, in
208
G. PROCACCI (a cura di)
effetti molti hanno fatto il loro dovere, nessuno lo nasconde, io lo riconosco per primo. Voi internati? Dimenticati, dimenticati... noi con i tedeschi non ce l’abbiamo, però, un momento, noi perdoniamo ma non dimentichiamo. TRENTO MONTANINI - 1915 - Pavullo (Mo) - Sottufficiale […] Io ero nel battaglione genio della divisione alpina “Tridentina” e quindi ho fatto un po’ avanti e indietro, abbiamo cominciato sul Monte Bianco e poi l’Ungheria. Ma io in Russia non ci sono andato per la differenza di due giorni. […] Su 710 del mio battaglione, medaglia d’argento ce ne sono rimasti 510 là. Sono venuti a casa in 200. […] Dopo sono venuto a Bolzano, a Bolzano ho trappolato un po’, a Bolzano sono rimasto un po’, ero vice capo servizi, vice capo al laboratorio reggimentale, e qui c’era sempre il rischio di essere imbarcato, di essere spedito su qualche fronte di guerra... […] Sono andato alla Commissione di controllo a Bronzolo nel settembre del ‘43. […] Allora poi ho telefonato alle 11 dell’8 settembre al Comando del corpo d’armata... il capo di stato maggiore il generale G., si chiamava il comandante: “Guardi che qui i tedeschi stanno girando. Si muovono. Dobbiamo bloccarli?”, perché noi eravamo in una trentina e più di uomini... e lui: “Stai fermo. Non sarete mica matti. Abbiamo 3.000 bersaglieri a Laives... abbiamo una caserma di bersaglieri a Laives... state fermi!”, invece abbiamo fatto un po’ di... intanto io ho detto: “Ragazzi non ci fidiamo qui. Facciamo servizio di guardia”. […] Chi vi comandava? Niente. Nessuno. Eravamo accantonati lì, eravamo un ventina di sottufficiali che si dormiva lì dentro con un piantone, G. P. si chiamava, che poi è rimasto ferito. Gli ufficiali erano fuori con le famiglie, un po’ in una casa, un po’ in un’altra. Dove avete sentito a notizia dell’armistizio? L’abbiamo sentito la sera prima alla radio e poi dopo il servizio ha cominciato a muoversi subito, anzi ho telefonato su perché all’una dopo mezzanotte arrivava un treno, una tradotta sulla quale facevamo servizio noi fino al Brennero per controllare che i tedeschi non portassero la roba fuori dall’Italia. […] Allora noi abbiamo cominciato a spararci con questi tedeschi. […] Ci siamo sparati fino a quando io avevo 10 pallottole. […] Da Innsbruck fino in Russia orientale perché poi noi non siamo mai scesi dal treno... cioè siamo scesi a Innsbruck che ci hanno portati dentro al campo di aviazione e poi saliti sopra un altro treno. […] Arriviamo a Olobin [sic], adesso è Polonia, dentro a questo campo c’era un maresciallo, un delinquente come comandante del campo ci mancava un braccio, eravamo novantamila. Era un campo di smistamento. Dopo a mangiare non si mangiava. So che avevo trovato un barattolo da conserva perché non avevo gavetta, non avevo niente io: un barattolo e andavo a cercare del cibo. In novantamila ci davano da mangiare a tutti
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
209
in mezz’ora. Facevano in fretta perché non c’era da mangiare. Ci mettevano in fila e da dentro a un pentolone tiravano su con un mestolo dell’acqua perché poi quella lì era proprio acqua schietta con delle rape, qualche volta e ogni tanto delle bucce di patate, però c’era molta terra, molta sabbia dentro perché il pentolone lo tenevano per terra. Ecco questa era la nostra alimentazione. […] Ci mettevamo in fila e chi diceva: “Dai dammi ancora un po’ di acqua sporca, eccetera...”; c’era il tedesco con la cinghia in mano che ti dava una gran cinghiata e via! […] Speravo che lavorando in campagna avrei mangiato un po’ di più e così infatti è stato. E allora lavoravamo in campagna, e allora era il periodo che raccoglievano le patate erano i primi di ottobre. […] Una sera alle nove tutti fuori allarme, adunata... e cominciano a chiederci di aderire alla Repubblica sociale. E va bene. E dicono: “Chi accetta faccia un passo avanti”. Eravamo novantamila sono andati fuori in sedici. Sedici e fra questi sedici c’era un mio amico che è venuto a fare il sarto a Modena, un sergente maggiore che era capobaracca alla 40, non faccio il nome perché tanto non serve, perché tanto non ci sarà neanche più, non lo so. Io non l’ho mai più salutato. Lui ha aderito alla Repubblica sociale perché suo fratello poi era uno squadrista, aveva fatto la marcia su Roma. […] Alle undici di sera, nudi, con quell’aria che ci tira in Germania, in un gran stanzone ci fecero una puntura antitetanica, cioè ci fecero una puntura e una buona parte cadevano per terra, so che poi ci tosavano... la macchina da tosare era quella che adoperavano a tosare i cavalli: era a manovella si girava così e la macchina tagliava lì però giravamo noi, ma quelli lì che tosavano erano belli robusti, giravano un po’ svelto. […] Noi eravamo 25-26 sottufficiali. Abbiamo detto: “Per diritto internazionale noi non lavoriamo!”, e siamo andati là verso il 30-31 ottobre fino al 10 novembre i ragazzi andavano a lavorare in fabbrica, sistemavano un po’ lì intorno, e noi invece rimanevamo... si accendeva un fuoco e si stava lì. Solo che a un bel momento, il giorno 10 ci chiama il direttore della fabbrica, il direttore ci dice: “Guardate io devo darvi da mangiare e ho bisogno di farvi lavorare, quindi io ho chiesto un numero tot di internati militari, ex militari italiani e voi siete 25-26 che vi devo dare da mangiare e non lavorate. Capisco che voi per il diritto internazionale avete il diritto di non lavorare però a un bel momento anche io…”. Insomma ha parlato bene, abbastanza. E ci fa: “Da domattina chi lavora mangia altrimenti io non gliene dò mica da mangiare!”. […] Andavamo a raccogliere le bucce di patate che i tedeschi ne mangiavano tante nei bidoni del pattume, del “rusco”... che poi più che pattume erano i resti, gli avanzi dei tedeschi, le lavavamo nei lavandini e poi a farle arrostire sui tubi delle stufe. Ho avuto la fortuna che c’era una fabbrica vicino e si scavalcava, era una fabbrica dove c’era il carbone e infatti il carbone non ci è mai venuto meno. […] Abbiamo cominciato a lavorare il 10 novembre; prima abbiamo fatto una specie di sciopero, così perché noi per diritto internazionale non volevamo lavorare, invece poi abbiamo dovuto per forza, siamo stati costretti. O mangiare quella minestra o saltare quella finestra. […] La mia attività: mi avevano messo a una macchina... a una fresatrice, 12 ore al giorno: dalle 6 della mattina alle 6 alla sera, sempre in piedi e io non ce la facevo. Allora ho detto: “Ma io sono un tecnico, sono un elettri-
210
G. PROCACCI (a cura di)
cista!” e allora loro mi hanno messo nel reparto degli elettricisti. Era infatti... facevo... era il mio mestiere quindi andavo bene; infatti ho bruciato tanti di quei motori. Con un certo Bonnar, un francese di Saint Etienne che lui faceva la notte ci davo delle valvole da bloccare, che non bruciassero, da 80 ampère e inchiodavano il tornio e il motore: erano dei Siemens a due velocità, che erano dei motori che erano una meraviglia. […] Tre pacchi... li faceva fuori un bolognese che ha preso tante di quelle botte... perché i pacchi arrivavano e poi al campo della distribuzione lui li faceva fuori, a me ne hanno spediti da casa dieci o dodici e io ne ho ricevuti tre. Il pane aveva la muffa dentro, ma niente di male perché noi lo mettevamo sotto i rubinetti finchè la muffa non era saltata via e poi lo mangiavamo lo stesso. In fabbrica a me mi hanno sempre rispettato, io rispettavo abbastanza anche io. Il mio capo era un commissario di fabbrica e abitava a 12-13 chilometri di distanza. Ne avevano paura tutti ma io no. Un giorno mi cominciò a urlare dietro che io avevo sabotato e io gli dico: “Te... la tua testa è ammalata amico. Io non ho sabotato niente.”. Infatti anche la notte avevamo fatto bruciare degli altri motori che poi io li mettevo sotto ventilazione in modo da farli raffreddare un pochino. […] Ci fermano in una ex caserma tedesca, eravamo in 17-18.000..., stiamo due giorni con gli americani. Gli americani cucinano, da mangiare, c’erano delle botti di latte in polvere, delle botti... e poi gli americani devono lasciare questa città e andare oltre il fiume nella zona loro. Arrivano i russi, un pomeriggio vediamo arrivare i camion russi, alla mattina, noi con gli americani mangiavamo di tutto, anche la pasta, fatta alla loro maniera ma mangiavamo, perdio, i russi alla mattina ci presentano delle rape. Delle rape con qualche patata dentro. Come si mangiava da prigionieri. Allora è scoppiata una rivoluzione, un casino dall’ostia. […] Sono venuto a Modena e a Modena mi è successo un lavoro… In treno è morto uno, un certo L. di Saliceta, Saliceta San Giuliano. Vado all’Anpi che era lì vicino a Porta S. Francesco dove adesso c’è la polizia stradale... e lì mi è capitato uno scherzo che mi è piaciuto poco: io volevo informare questo ente, cioè volevo che questo ente informasse la famiglia che questo ragazzo, aveva 21 anni, ed era tubercoloso... allora vado lì e c’è un ragazzo lì a sedere e gli dico: “Voi altri siete un ente qui io avrei bisogno se potete di dare un’informazione alla famiglia...”, e lui mi fa: “Da dove vieni te?”, e io: “Vengo dalla Germania!”, e lui: “State attenti a non venire mica qui a fare i furbi perché altrimenti vi sistemiamo poi noi!”, e allora io gli ho detto: “Eh no! Dio c… eh!” e l’ho tirato su per il davanti, “Io ho tre figli a casa che mi aspettano, sono due anni che sono via. Ma con una frase così non vado mica via... mi devi spiegare che cosa abbiamo fatto. Quindi stai attento a quello che dici perché io ti pianto un dito in un occhio che te lo faccio saltare fuori dall’altra parte se torni ad aprire bocca”. Ecco questa cosa qui mi ha fatto proprio male. Ce ne sono stati anche altri, ma non sono cose che mi fa piacere ricordare. FERNANDO MORSIANI - 1921 - Casalgrande (Re) - Ufficiale L’8 settembre io ero ufficiale sottotenente al Pireo […] . Io avevo fatto un corso in Germania di contraerea, in una centrale di tiro tedesca. Quindi andavo in giro per le varie batterie a ispezionare e insegnare. Erano bat-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
211
terie tedesche che dovevano essere cedute a noi in quanto i soldati tedeschi, che vi erano addetti, erano destinati in Russia o da qualche altra parte. Noi italiani dovevamo rilevare il personale di queste batterie, per cui avevamo un collegamento continuo. […] Poi è venuto l’8 settembre. Ero al comando di gruppo con il maggiore e gli altri, avevamo la sentinella davanti alla palazzina, arriva un drappello di 12 tedeschi, passano vicino alla guardia, gli prendono il fucile e glielo portano via. Era solo e noi non potevamo dire niente, poi era già arrivato l’ordine di consegnare le armi. Noi eravamo lì pronti per la difesa e arrivava l’ordine di difendere, ma eravamo pochi, c’erano solo 60 soldati lì al comando, mentre c’erano un sacco di tedeschi che erano arrivati. Così abbiamo dovuto subire. Dopo averci catturati, ci hanno portati tutti ad Atene, in un grandissimo campo all’aperto, in attesa di essere imbarcati sul treno per essere mandati a casa. Un giorno hanno fatto una tradotta e ci hanno caricati. […] Agli ufficiali avevano lasciato la pistola, mentre i soldati erano stati disarmati, e non avevamo neanche tante sentinelle. Perché con l’illusione che ci avevano dato di portarci a casa non scappavamo, anche perché eravamo in una terra ostile, la Jugoslavia di Tito faceva fuori tutti gli ufficiali italiani, perché la guerra è guerra. Siamo arrivati a Vienna e lì ci hanno accolto in stazione con mitragliatrici da tutte le parti. Allora sono saliti sul treno degli ufficiali tedeschi e ci hanno detto: “Gli ufficiali consegnino le armi, quando arriverete al Tarvisio ve le ridaremo”. E il bello è che ci fecero anche la ricevuta dell’avvenuta consegna. A questo punto l’accoglienza a Vienna è stata brutta. C’era la Hitlerjugend, che faceva le sfilatine solite, ed erano terribili quelli perché erano stati abituati così. Quando hanno visto che la tradotta era di prigionieri italiani hanno cominciato a fare sberleffi ad insultarci… beh pazienza. Siamo arrivati a Vienna, siamo rimasti in stazione lì fermi fino alla notte poi siamo ripartiti. […] Viaggiamo tutta la notte e arriviamo in Lituania, a Grajewo. Eravamo ancora assieme agli ufficiali superiori, siamo smontati e ci hanno fatto entrare in un campo di concentramento a Grajewo. Eravamo in molti, tutti ufficiali, superiori e inferiori. Lì ho dovuto assistere a certe scene: anche i generali si dovevano lavare le gavette, perché ci davano da mangiare in una gavetta e poi dovevamo andare a lavarla. Io mi ricordo che c’era un generale anziano, sono andato a lavargliela io, cosa vuoi mi ha fatto pena. Poi hanno fatto la divisione. Hanno messo gli ufficiali superiori da una parte e li hanno mandati verso Monaco o non so dove, non l’ho mai saputo di preciso. Noi altri invece ci hanno imbarcati su di una tradotta e ci hanno portati in Polonia a Benjaminowo dove c’era un grande campo di concentramento, con i reticolati. All’esterno c’era un cimitero e ci hanno detto subito, che lì c’erano sepolti degli ebrei che erano già morti lì. […] A Benjaminowo, alla prima adunata, ci mettono nelle baracche. Premetto che ero insieme ai miei compagni, quelli con cui ero in Grecia, i due tenenti ed il sottotenente medico, mentre del maggiore non sapevamo più niente perché era stato portato via come ufficiale superiore. Lì ci hanno assegnato le brandine, insomma degli scaffali, letti a castello con della paglia, etc. Poi ci hanno fatto fare l’adunata fuori e l’appello. Si ricorda in quanti eravate per baracca?
212
G. PROCACCI (a cura di)
In quella dove ero io, eravamo circa in 150. Era grande, c’erano due stufe in tutto, che poi non c’era mai legna quindi l’andavamo a cercare noi. Siamo usciti, ci hanno fatto l’appello, era settembre ci andava ancora bene. […] Lì poi abbiamo trovato altra gente, come Guareschi, l’attore Enrico Tedeschi, che declamava le poesie di D’Annunzio. Era più vecchio di noi, noi eravamo pivelli. Abbiamo fatto vita comune lì. La vita consisteva nell’aspettare un po’ di cibo, ce lo davano a mezzogiorno e dovevano conservarne anche per la sera. Un cubetto di pane nero, una fetta di margarina, un po’ di patate ed una sbobba che quando era buona, alla festa, era d’orzo, altrimenti erano rape bollite nell’acqua con un pezzettino di carne. Con la fame che avevamo noi, a vent’anni, quella roba lì la finivamo a mezzogiorno, alla sera, invece, tiravamo la cinghia. Si passava il tempo chiacchierando e passeggiando davanti alla baracca. Guareschi aveva organizzato anche un teatrino in cui faceva le commediole, prendendo in giro i tedeschi che erano sempre seduti in prima fila, compreso il comandante del campo, e loro si spanciavano dal ridere perché non capivano le battute. Momenti tragici non ce ne sono stati tanti. I tedeschi si divertivano a farci star male dal freddo, chiamavamo la piazza dell’appello la “piazza polmonite”. D’inverno stavamo in piedi in mezzo alla neve, loro contavano per cinque, e non tornavano mai i conti per cui stavamo tutti i giorni lì fuori anche due ore. Con dei ragazzi che mi sono caduti di fianco perché erano denutriti e avevano il fisico indebolito. E questo era il loro divertimento, perché non c’era motivo di farci stare là fuori così tanto tempo, al freddo, intirizziti. Una volta perché avevamo protestato per la scarsità del cibo minacciarono di mitragliarci se avessimo protestato di nuovo. Per fortuna il comandante non era un SS ma era un vecchio ufficiale. Siamo stati lì tutto l’inverno, fino a marzo, se ben mi ricordo. Poi sono venuti i fascisti, un generale mi sembra. Hanno fatto una riunione in cui ci hanno detto che dovevamo aderire alla Repubblica perché se fossimo rimasti saremmo morti tutti. Questo per spaventarci. Io non ho rifiutato per coraggio ma perché ero incerto. Ho pensato che non sapevo dove mi avrebbero mandato, per cui era meglio rimanere lì. Molti hanno aderito, sono andati via in un bel numero, mi pare 300, più o meno. […] Io ero insieme agli ufficiali più anziani, Guareschi e gli altri, e loro hanno deciso di non andare, quindi anche noi non abbiamo aderito. Non è che abbiamo fatto fronda contro i tedeschi, semplicemente ci siamo rifiutati di andare alla riunione e di sottoscrivere la carta secondo cui noi accettavamo di andare con loro. […] Forse per il giuramento che avevate fatto? Forse, soprattutto però eravamo stanchi della guerra fascista, di come era stata condotta. Era stata condotta in modo orribile, non avevamo niente, usavamo ancora dei cannoni della prima guerra mondiale. Io ho trovato dei cannoni belli quando ho fatto il corso, gli 88/55 da contraerea, ma erano tedeschi, noi non avevamo niente. Dove ha fatto il corso? Vicino a Stettino, che è sul Mar Baltico. Eravamo a 100 metri dal Mar Baltico. Era proprio una scuola della Flak, l’artiglieria contraerea, con vie intestate del tipo: Goeringstrasse, etc. […] Dopo il rifiuto di aderire cosa è successo? Abbiamo continuato a fare la stessa vita nel campo di concentramento, fame, freddo. Andavamo a cercare i rimasugli di carbone per scaldarci. Quando
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
213
riuscivamo ad avere una patata la mettevamo sul fuoco e ce la mangiavamo. I polacchi, perché lì eravamo in Polonia, ci hanno aiutato. C’erano degli ufficiali che avevano della sterline e grazie a quelle ci portavano da mangiare. C’erano i carri botte, i famosi carri M, che entravano dentro per svuotare le latrine con sette-otto russi, i russi erano trattati da cani, attaccati al timone del carro che lo trainavano fino attraverso i campi là fuori, noi li chiamavamo volga-volga, e là aprivano i rubinetti per annaffiare con questo letame i campi. Venivano dentro a riempire i carri, insieme ai russi anche dei polacchi. Loro delle volte quando glielo chiedevamo, e avevamo i soldi per pagare, ci portavano del cibo. Una volta per Natale hanno messo dentro al carro-botte un mezzo maiale crudo, avvolto. I tedeschi in Polonia erano diversi da quelli di Sandbostel in Germania, erano più larghi, in Polonia non ti sparavano addosso se ti avvicinavi al reticolato. Comunque quella volta i tedeschi hanno aperto il carro, hanno trovato il maiale e lo hanno sequestrato, e che noi lo avevamo già pagato. Un’altra volta invece, i polacchi avevano quel pane rotondo fatto con della paglia, e ci avvertivano di andare di notte in un angolo del campo, loro da fuori ce lo mandavano dentro tirandocelo. Una sera ci sono andato anch’io, e come arriva il pane la sentinella ci illumina tutto con la fotoelettrica: un fuggi fuggi. Dopo siamo tornati lì, la sentinella non aveva detto niente, l’aveva fatto perché voleva farci trovare il pane, infatti dopo l’abbiamo preso. Questi polacchi erano prigionieri? No, no erano liberi. Loro potevano venire fino a lì perché avevano i campi coltivati subito dopo i reticolati. Venivano fino 20-30 metri. […] Lì poi c’era il mercato, nei cessi si lasciavano dei biglietti per esempio: cambio zampironi, che erano le sigarette che ci davano, con due patate, cambio stivali per del lardo. Li stivali li ho venduti ai polacchi, l’orologio ai russi, perché loro andavano a lavorare fuori e magari venivano dentro con della roba da mangiare. Loro ce la davano, ma poi volevano la contropartita. Io ho perso l’orologio e gli stivali, d’altra parte era molto meglio avere qualcosa da mangiare che degli stivali, quelli non potevo cuocerli. Poi c’è stata l’avanzata russa del ‘44. Quindi ci hanno spostato attraverso tutta la Germania da est ad ovest fino a Brema, stammlager XB. Una cosa enorme, eravamo ottomila, con reticolato e fossato enorme. La sera che siamo arrivati, un capitano va a fare un giro e si era avvicinato al reticolato: gli hanno sparato. Noi eravamo abituati in Polonia che se anche ti avvicinavi al reticolato non ti sparavano, quindi ci siamo messi sull’attenti. […] Le voglio raccontare del tenente Romeo. Era un tenente più anziano di noi. Eravamo in agosto e c’era caldo, con un po’ d’acqua noi ci lavavamo nel piazzale. Lui ha preso la bacinella ed era andato, a torso nudo vicino al reticolato piccolo, prima del fossato, vicino alla sentinella ed aveva cominciato lavarsi. Non credo proprio che volesse scappare. Aveva appoggiato l’asciugamano sul reticolato, la sentinella lo ha guardato mentre si lavava, poi come ha fatto per prendere l’asciugamano, gli ha sparato a bruciapelo trapassandogli il torace. Ancora più grave è il fatto che ci ha impedito di avvicinarci a lui finché non è morto dissanguato. Una cosa tremenda. Questo tenente è morto come un cane. Anche altri sono morti uccisi nei reticolati. C’era un certo commercio, c’erano alcuni ufficiali che avevano delle catenine d’oro etc. Uno di loro le raccoglieva e poi andava di notte vicino al reticolato, d’accordo con i tedeschi. Uno
214
G. PROCACCI (a cura di)
una volta è andato in mezzo al reticolato con le catenine perché quando era lì gli davano da mangiare, solo che gli hanno sparato ed è rimasto lì. Gli ha sparato uno di quelli che gli dovevano portare la roba, tanto poi disse che l’italiano aveva cercato di scappare, ma noi sapevamo che non era così. Per il resto non ci sono stati altri casi tragici, a parte il tifo petecchiale. Noi abbiamo tre casi di tifo petecchiale, uno era un medico. Penso ci sia stato un morto. Quando abbiamo avvertito i tedeschi loro hanno chiuso i reticolati e per 40 giorni una nostra delegazione andava al cancello a prendere il cibo. Così per un po’ ci hanno lasciato in pace e si stava proprio bene. Tanto è vero che finita la quarantena abbiamo provato a dir loro che c’era un altro caso di tifo ma non ci sono cascati. Guareschi faceva degli spettacoli anche a Sandbostel? Sì, lui faceva delle commedie, lui è rimasto fino alla fine non lo hanno mandato a lavorare. Come eravate organizzati fra di voi? C’era un comando italiano? Sì c’era un comando italiano, medici italiani, che ci dirigevano un po’. Loro al limite andavano a reclamare al comando del campo se c’era qualche cosa che non andava. Il comando italiano faceva un controllo su di voi? Vi furono dei casi di punizione fra italiani? No, no perché poi ci comportavamo bene. Almeno che sappia io, eravamo in ottomila, eravamo affiatati ed ognuno si faceva i fatti suoi e badava a portare a casa la valigia della pelle con le ossa. Come era il vostro morale? Io non ho mai avuto momenti di smarrimento o di depressione, perché quando si ha 20 anni… La prendevamo un po’ sportivamente. L’unica paura erano le SS, perché quelli ci odiavano. Eravamo la terza categoria: ebrei, russi ed italiani deportati. Temevamo che ci uccidessero tutti alla fine della guerra, saremmo stati lì per quasi due anni per farci uccidere alla fine. Altrimenti c’era solo il problema della fame. Ogni tanto arrivava qualche pacco da casa. […] Se il pacco riusciva ad attraversare la frontiera arrivava, magari messo male però ci chiamavano e ce lo davano come era. Il problema è che in Italia i fascisti li predavano. […] Eravamo organizzati, avevamo radio clandestine che eravamo riusciti a portarle dentro. Io non so come facessero, perché quando arrivavamo in un campo ci spogliavano nudi come vermi e controllavano i vestiti e tutto, però le radio passavano lo stesso. Noi avevamo la radio che ci informava, infatti noi abbiamo saputo subito sia dello sbarco in Normandia che dell’attentato ad Hitler. Facevano perquisizioni, ne hanno sequestrate delle radio. Una volta eravamo lì ad ascoltare una radiolina vicino alla stufa, era inverno, e arriva un sergente tedesco e si mette dietro ad ascoltare. Ci siamo girati: “Oddio, un tedesco!”; “Italiani, voi avete una radio”; “Eh cosa vuole, qui non passa mai il tempo e allora ascoltavamo un po’ di musica!”; “Io ora devo fare denuncia”; “Ma no, no, guardi le piace questo orologio?” Così ha preso l’orologio e se ne è andato senza denunciarci. Era nella sua baracca la radio? No, in quella di fianco, dove mi sembra che ci fosse Guareschi. Una di quelle radio era stata fatta da noi. Avevano fatto i condensatori con l’urina. Avevamo sfruttato tutto, era una radio fatta in famiglia. C’era qualcuno bravo in radiotecnica e l’aveva fatta. Era la famosa Caterina.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
215
Quando si venne a sapere dello sbarco e dell’attentato ci furono esplosioni di gioia. Poi c’erano i bombardieri che passavano regolarmente per andare su Brema ed Amburgo. Una volta hanno bombardato a mezzogiorno è venuto così tanto fumo che sembrava notte ed è rimasto per tutto il giorno ed anche parte del giorno seguente. Avevate dei giornali italiani? C’era solo qualcosa di propaganda, per il resto non entrava niente. Le notizie, sulla situazione del fronte ce le dava un qualche tedesco più bendisposto degli altri. Era raro però. Così abbiamo passato tutta l’estate del ’44. Verso la fine dell’anno, più o meno in novembre, hanno fatto l’adunata di tutti gli studenti in ingegneria e degli eventuali ingegneri, se c’erano. Eravamo in 60-70 nella baracca teatro dove ci hanno detto che saremmo trasferiti a Wietzendorf, in baracche in muratura. Ci caricano, ci portano là. Poi non ci hanno dato, nell’intruglio che ci davano al mattino per colazione, lo zucchero per molto tempo perché non c’era. Lì bisogna riconoscere l’onestà dei tedeschi. Quando siamo arrivati a Wietzendorf ci hanno messo in baracche molto fredde. Il letto era fatto con della paglia e una copertina da 30 grammi, io dormivo vestito tutto raggomitolato. C’erano 20 gradi sotto zero in baracca, non c’era quasi riscaldamento. Sicuramente il mese e mezzo più duro che ho passato in prigionia, ed erano baracche in muratura. C’erano i ghiaccioli che pendevano dentro, io pensavo che sarei morto dal freddo. Due o tre giorni dopo che siamo arrivati ci arrivano dei sacchi di zucchero e hanno distribuito 4 o 5 chili di zucchero a testa. Io ne ho mangiato due chili e ho preso la balla, perché nello zucchero c’è l’alcool. Cosa avete fatto in quel mese e mezzo? Stavamo lì al freddo e basta, giravamo per scaldarci, ma non facevamo niente... C’erano anche prigionieri di altre nazionalità? C’erano dei russi, dei francesi, inglesi no. Gli inglesi li trattavano sempre bene. […] I russi erano trattati malissimo. Lì a Wietzendorf un giorno ci dicono che sarebbe arrivato un caporeparto della Messerschmidt di Lipsia con cui saremmo dovuti andare. Il giorno dopo, siamo andati in stazione, come se non fossimo prigionieri, non è che ci abbiano fatto firmare o qualcosa del genere. A Lipsia ci alloggiano in un albergo diroccato, era stato bombardato. Restava un solo piano, era un bel posto. Eravamo circa in 80. C’era un lagerfürher, che non era un militare, ma un anziano che ci controllava quando rientravamo e basta perché eravamo praticamente liberi. Potevamo andare dove volevamo. Io mi sono divertito da matti a girare per Lipsia, sono andato a vedere dei monumenti… Andavamo a lavorare alla mattina alle sette e uscivamo alle sette di sera. Non c’era un soldato che vi accompagnava a lavorare? No, no, prendevamo il tram in centro e si andava in periferia dove c’era la fabbrica. L’unico che controllava era il lagerfürher quando entravamo o uscivamo. Voi ufficiali non faceste una resistenza all’idea di andare a lavorare? Ma cosa vuole noi eravamo in pochi. Se uno minaccia di spararti, allora vai lavorare. Stavate meglio? Si capisce, almeno mangiavamo qualcosa, ci davano una sbobba a mezzogiorno abbastanza buona. Avevamo il vantaggio alla sera, quando usci-
216
G. PROCACCI (a cura di)
vamo dal lavoro alle sette, prendevamo di corsa il tram che ci portava in una zona del centro dove c’erano dei ristorantini che accettavano i soldi che ci davano loro per il lavoro. […] C’erano anche dei tedeschi in quell’osteria? Sì, ma non c’erano problemi, l’importante era non incontrare la Hitlerjugend. Io quando andavo a girare stavo sempre molto attento a tutto e a tutti. Giravi in mezzo a loro e non succedeva niente. Ma se vedevo arrivare la Hitlerjugend voltavo la schiena e me ne andavo subito. […] Dopo qualche giorno siamo partiti per Erfurt, da Lipsia ad Erfurt c’è un bel po’ di strada perché è vicino a Francoforte. Ci mettono a lavorare sempre alla Messerschmidt, sulle ali e non più sui timoni, sempre a piantare i ribattini. Ci sistemano in un campo di concentramento vuoto con delle baracche aperte e quello era il nostro alloggio. Non avevamo problemi, era vicino alla fabbrica 3 o 400 metri, andavamo in città a vedere se trovavamo qualcosa da mangiare. Ci davano da mangiare a mezzogiorno e basta. A un certo momento gli americani sono a 40 km da lì. Non venivano mai avanti, lo sapevamo che erano lì. Venivano i cacciabombardieri, suonava l’allarme, noi uscivamo con i tedeschi e loro mitragliavano. Non sapevano che eravamo prigionieri e comunque non andavano tanto per il sottile. Andiamo ancora a lavorare due o tre giorni e dopo non ci sono più tedeschi. Spariti tutti. Quindi abbiamo pensato di non andarci più neanche noi a lavorare. E così per due giorni dormiamo nelle baracche tranquilli e beati. Errore grave, perché per loro è sabotaggio. Il terzo giorno infatti sentiamo dei comandi in tedesco e rumore di armi. Io e un altro guardiamo fuori e vediamo che c’era un soldato davanti ad ogni baracca ed in centro al campo c’era l’ufficiale, il direttore della fabbrica. Quello era un polacco venduto, era terribile. Aveva fatto delle cose in quella fabbrica, dava delle botte specialmente ai russi ma anche a noi. Ci avviciniamo e si sente che lui diceva che avevamo sabotato la fabbrica e proponeva che fossimo fucilati 20 alla volta nella cava. Eravamo mezzi morti dalla paura. Allora il tenente tedesco ci ha chiesto se avevamo qualcosa da dire, quindi ho cominciato a spiegargli la faccenda dei bombardamenti che non c’erano più i tedeschi, ma noi eravamo disposti a tornare. Il polacco invece voleva comunque ucciderci tutti perché era sabotaggio. Il tenente, che per fortuna non era delle SS, ci disse che ci obbligava a tornare in fabbrica. Il tenente allora ha detto con il polacco che insisteva: “Guardi io li posso far tornare in fabbrica, ma non di più perché non sono un macellaio”. Il polacco insisteva che ci dovevano fucilare. E l’ufficiale gli ha detto: “ Vede questi soldati? Sono 12 e sono quello che rimane della compagnia, noi siamo in ritirata, abbiamo combattuto fino ad ora e lei vuole che uccida ancora? Se continua ad insistere al muro ci metto lei”. Gli ha detto proprio così, ed era giovane. Il polacco se ne è andato arrabbiatissimo. Io allora ho ringraziato l’ufficiale, ci ha salutato, noi lo abbiamo salutato, e poi abbiamo fatto l’adunata e siamo andati a dormire due giorni in montagna. Siamo andati con dei tedeschi ad assaltare dei magazzini militari perché ormai si era alla fine. I primi due giorni li abbiamo passati sulle colline poi siamo tornati nelle baracche. A quel punto noi vivevamo un po’ nelle grotte, e andavamo in città dove c’era un magazzino già svaligiato dai tedeschi e siamo riusciti a prendere una decina di scatole di marmellata. Da mangiare non ce ne davano più, ovviamente. Il secondo giorno dopo che era andato via l’ufficiale tedesco, arri-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
217
vano delle truppe tedesche, il più giovane era il sergente che li comandava che aveva 59 anni. Cominciano a scavare dei buchi dappertutto nella collina. Allora io sono andato da loro a chiedere perché scavavano, mi dissero che stavano per arrivare gli americani e loro preparavano le buche per la difesa. Il giorno dopo è successo che io dormivo in baracca, mi sveglia il sergente e mi dice che ci sono gli americani. Io non ci credevo, perché non arrivavano mai. Andiamo fuori e vediamo una fila di soldati in controluce che non si muovevano, saranno stati 300. Io ho pensato che fossero tedeschi in ritirata, ma lui era convinto e così decise, approfittando della assenza dell’ufficiale, di andare via con i suoi 60 soldati. Solo che quando sono a metà discesa incontrano l’ufficiale, li ha fatti tornare indietro e li ha piazzati sulla collina con i panzerfaust e le mitragliatrici. Passa il tempo e non succede niente, intanto noi eravamo dentro le grotte al sicuro. A un certo momento dalla montagna è partita una raffica di mitragliatrice di un tedesco che si era innervosito. La reazione era prevedibile, quelli là avranno consumato due miliardi di pallottole sparando mentre avanzavano pian piano, poi sono arrivati i caccia bombardieri che hanno cominciato a bombardare tutta la zona e a mitragliare. Poi con i mortai centravano anche la cava. Noi eravamo lì e vedevamo, meno male che eravamo nella grotta sono andati avanti un quarto d’ora venti minuti e poi un silenzio di tomba. Noi eravamo lì e ci chiedevamo se fuori fossero tutti morti. Mi ricordo che c’erano i russi, i francesi, poi c’eravamo noi, allora dissi provo a mettere la testa fuori. C’era un soldato con il mitra in mano era americano. Mi sono messo a piangere, perché era un incubo che finiva. […] Chi ci ha liberato è stata la terza armata del generale Patton, che poi è andato fino a Lipsia. Vicino a noi, a una decina di km, c’era il campo di concentramento di Buchenwald. Di notte sono rimasto sveglio a guardare la sfilata della terza armata. Una cosa impressionante, sono andati avanti due ore, i più sfortunati erano otto su di un camion, tutti gli altri erano in tre su ogni jeep con i piedi sul vetro, cannoni, mortai, carri armati. Dopo due o tre giorni gli americani arrivano e ci caricano tutti su un camion per spostarci più lontano dal fronte, verso ovest. […] Ci hanno portato in un posto chiamato Amsfeld; siamo rimasti lì due giorni, sempre a cercare da mangiare, e poi dopo ci hanno portato ancora più indietro ad Holzeim [sic], vuole dire casa di legno, un paesino bellissimo, un paesino da fata. Lì ci hanno assegnato ognuno ad una famiglia tedesca fino a che non fossimo rientrati a casa. In quel paese c’erano solo delle donne, ragazze e uomini anziani perché gli uomini erano tutti soldati. Mi hanno messo presso una famiglia dove c’erano marito e moglie, frau Emilie ed herr Karl, e i nonni. Avevano un figlio il quale era venuto a casa dalla Russia, dove aveva combattuto, e quando è scaduta la licenza e doveva ritornarci, si è annegato, si è suicidato. Io andavo con lei ogni settimana a portare dei fiori sulla tomba. […] Poi è venuto il mio momento di scappare. Noi non avevamo coprifuoco, andavamo sempre fuori parlavamo con le ragazze, non c’erano problemi. Ero diventato il beniamino del paese, perché ero l’unico che parlava il tedesco, parlavo con loro, ero molto affabile, aiutavo nei campi… […] Insomma con gli americani lì non potevo più fare quello che volevo, non mi sentivo più libero e per questo ho deciso di partire. Il giorno dopo l’ho detto alla signora, che non voleva che andassi via. Ho parlato con
218
G. PROCACCI (a cura di)
un mio amico che anche lui voleva partire e ci siamo messi d’accordo per salire sul camion del latte. Al mattino dopo pianti, regali e saluti siamo partiti. […] Volendo fare un riassunto finale sulla prigionia, devo dire che non ho trovato altro a parte la fame e qualche sporadico caso di maltrattamento. Siamo stati fortunati che non abbiamo mai trovato le SS, mi hanno detto che a 20 km da dove eravamo noi, le SS avevano ucciso quasi tutti quelli che c’erano nel campo di prigionia. Erano terribili. Così siamo rientrati e c’era anche l’università da continuare. […] RICCARDO NAVA - 1917 - Rigolato (Ud) - Soldato In che anno aveva iniziato a fare il soldato? Dunque, nel ’39. […] E fino, fino a Badoglio, sono stato a Parma, perché mi tenevano... mi voleva bene il colonnello e poi avevo la fortuna di avere un caseificio io, e allora portavo il burro al colonnello, me lo pagava poi sempre, normale, ma mi mandava sempre all’Accademia a portare dei fonogrammi, delle cose, per potere... e venivo a casa, stavo a casa. […] L’8 settembre, ero a Parma. […] C’era il comando, ma il comando era lui, del presidio di Parma, il colonnello nostro, per tutti, tutto Parma. Quando la resa, che han fatto a Parma, ha dovuto il nostro colonnello arrendersi, e, fino quasi al mattino, noi eravam sempre davanti, perché noi sparavamo ma non... […] Sì, abbiam resistito sino al mattino. […] Ma caro mio, non c’era niente da fare; buttavan dentro... noi con dei fucili, dalla finestra, non si concludeva niente, e difatti, al mattino abbiamo dovuto cedere le armi. […] Quando mi son visto così, son saltato nel Parma, c’è un fiume che passa proprio lì vicino alla scuola Applicazione. […] E allora sono sceso di lì, per scappare a casa; dato che ero a Parma, 30-50 km ero bello e a casa. […] Ero io e due, tre, ma non siamo riusciti. Ci hanno preso così, e poi ci han messo sopra una carretta, e ci han gettato sopra che c’eran tutte le bombe a mano, tutte quelle cose lì, come degli stracci. E un mio amico, che si chiama M., che abita qua, dice: “Nino, ormai ci portano in campagna, e dopo ci ammazzano”. […] E invece no. Ci han messo dentro un mulino e poi ci han portato dove c’erano tutti gli altri. Poi da lì... […] E poi siamo stati lì qualche giorno, due o tre giorni, e poi siamo partiti. Ci han messo tutti in fila, e siamo andati alla stazione, che siamo andati a Mantova. […] A Mantova c’era un centro di smistamento. C’era di tutto, di tutte le razze ce n’era. Insomma, tutti, da tutte le parti; erano tutti a Mantova. E lì a Mantova, non c’era mica da bere. […] Al mattino, me andavo a leccare l’erba per la rugiada, per bere. Una sete, una sete cane. Vabbè. E c’era dell’altra gente che, andavano nei fossati e c’era il pantano, e c’erano quei vermi rossi, e allora filtravano l’acqua in un fazzoletto, e poi bevevano quella lì. […] Dopo […] son venuti dentro con le autobotti; che pensi, per prendere una gavetta di... mi son messo in fila di sera, saran state le sei e mezza, le sette, l’ho presa alla mattina, sempre in piedi, per prendere una gavetta d’acqua. […] Il più male che son stato nella mia vita è stato Mantova. Tanto male perché c’eran dei pozzetti con le lapidi di cemento, molti avevan capito, perché Mantova è... c’è molta acqua, allora le a-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
219
vevano alzate e poi sono andati su per il canale e son scappati. […] E allora ci sono andati e dopo, ho sentito dirlo, io non ho visto niente, però ho visto che sopra la lapide avevan messo tutto il cemento, tutto chiuso, e avevano chiuso anche si vede lo sfogo dove andava il canale. Li han chiusi dentro, così ho sentito dire, non so se è vero, che son morti tutti lì. Hanno sofferto l’inferno. […] E allora, dopo sono venuti, ci hanno caricato e ci han portato, in 40 dentro in un vagone, e siamo partiti. Arriva ad Innsbruck, no, a Bolzano: “Ho sete, ho sete...”. Eravamo dentro, in quaranta, dentro lì. […] Chiusi, chiusi; solo il finestrino che c’è, quello lì in alto. Facevan così: prendevano l’acqua... non sarà mica di quelle parti lì, di Bolzano? No, no. E poi la buttavano in terra e se ne andavano. […] Erano italiani. Italiani della zona. […] Davanti alla stazione, domandavamo che avevamo sete, e prendevano l’acqua e la buttavano così. […] Dopo, siam passati di là. Gli austriaci, dopo un 30-40 chilometri che siamo dentro i vagoni, vengono e ci han portato un pezzo di formaggio, da bere... dico, guarda, ci ho fatto caso, gli italiani mi han fatto così, qui che siamo ormai in Germania, che siamo in Austria, ci danno da mangiare e da bere. […] Dopo siamo andati avanti, e siamo andati in un campo di smistamento; che lì c’eran poi ebrei, italiani, tutte le razze, lì c’eran tutte le razze. […] Era dopo Monaco, un bel po’, più giù, ma non mi ricordo il nome di quel campo lì. A parte questo, allora, lì smistavano, e dovevamo andare a lavorare. I russi, no, i russi, gli italiani, gli ebrei, eran quelli che eran messi male; li prendevano e poi, alè, te vai alla miniera, te vai di qua, te vai di là. Li caricavano e poi dovevamo lavorare. […] Invece gli americani, gli inglesi, i francesi, quella gente lì, arrivava il pacco di Ginevra, che era sul contratto di far così, e gli davano le sigarette, gli davano la cioccolata, gli davano tutto. E noialtri non avevamo niente. Tanto basta che quando siamo arrivati là, noi ci siamo levati via tutto quello che... gli orologi, tutto quello che avevamo di personale, glielo abbiamo dato per mangiare una gavetta di sbobba, di quella che davano... perché davano la sbobba anche a loro, però era poca, e allora loro, avendo questo pacco, loro ci han... “Te, questo, io do la gavetta...”. […] E lì hanno incominciato a smistare. Un giorno ci chiamano, 1, 2, 3, 4... 40... via; perché noi eravamo un numero là, non eravamo mica persone. Allora sento dire: “Ma dove ci portano?”, dice: “Io ho capito che ci portano alle miniere, a lavorare”. […] E allora cosa ho fatto, vado indietro, mi ritiro, mi ritiro, mi ritiro... sono arrivato all’ultimo; quando ho visto il momento buono, sono scappato, e sono andato in mezzo agli altri che se ne dovevano andare. […] Sono andato alla fortuna e sono andato a finire a Monaco di Baviera. […] Quindi siete arrivati a Monaco di Baviera, in stazione, alla Posta. […] Noi eravamo fuori di Monaco, un po’ fuori, le baracche eran fuori, e andavamo a finire a Monaco, in centro, proprio in piazza, dove c’era la stazione. E lì, insomma, abbiamo incominciato a lavorare, e, allora capirà, lì, quando c’era nei vagoni, ne mettevano due sopra il carrello, che veniva il carrello dalla stazione, montavano sul carrello, e poi ci passava-
220
G. PROCACCI (a cura di)
no quello, quell’altro lo mettevano da una parte, quell’altro da un’altra... i pacchi. […] E poi di lì, loro vedevano che gli italiani avevano solo del pane abbrustolito, perché noi... ci andava male qui, non c’era niente; ci mandavano, i nostri familiari, quando erano a posto, ci mandavano della roba, ci mandavano solo del pane secco, abbrustolito, per loro era tutto perché non avevano neanche la farina da far da mangiare loro. […] Gli americani, gli inglesi, specialmente gli inglesi, e quella gente lì... dico adesso ci penso io. Loro fumano le Lucky Strike, e quei poveri disgraziati lì... per noi facevamo pure, perché io mettevo una bottiglia di grappa dentro lì, poi la portavo in bagno e poi man mano, facevamo a giro, e bevevamo tutti insieme. E quando trovavo che si poteva spaccare un pacco di quelli lì, mettergli dentro i salami, le Lucky Strike, le Chesterfield […] le mettevamo e tiravamo via il pane abbrustolito... sa quando si è là, si sente la cosa dell’Italia. […] Eravamo andati in un posto che, smistamento pacchi, avevamo... anche, anche troppo, perché siamo arrivati al punto che delle volte portavamo via anche un orologio, delle cose che potevamo anche evitare... solo mangiare, bere e fumo, ma c’erano in mezzo ‘ste cose qui e, sa... […] Lei è rimasto sempre a Monaco in questo periodo. Sempre a Monaco. E allora, ci passano civili, che, avevamo degli amici, come quello che sta... se ci va... glielo dirà anche lui che m’ha visto, a portarci qualche sigaretta, perché lui era al bitume, non aveva né sigarette né niente, e allora noi quando avevamo un pacchetto di sigarette in più, che noi ne avevamo in abbondanza, glieli davamo a loro. Con le sigarette, si comprava tutto, si faceva tutto. Tanto basta che noi, che eravamo in un posto così, privilegiato diciamo, andavamo a mangiare, quando siamo passati civili, dovevamo andare... andavamo a mangiare anche nelle osterie perché ci davano i soldi, un marco, o i pfennig, tutti in carta; non erano... erano validi solo per quello lì, che dopo quello dell’albergo li cambiava. […] E allora un bel giorno, questo S., ecco, incomincia qua la storia, eravamo io e S., dormivamo nella stessa... lui sotto, io sopra, siam sempre stati insieme, un bel giorno viene a casa e dice: “Son stato di turno, sai cosa ho fatto questa sera? Ho nascosto tre pacchi di sigarette americane”. […] Caro mio, si vede che se ne erano accorti che c’erano i pacchi, e sotto la neve, sotto i vagoni, ci aspettavano, erano nascosti; aspettavano che noi andassimo a vedere per prenderci. […] Salto le ferrovie, e loro dietro, e poi sparavano... e salta dì là... non riuscivo più... e correvo per Monaco […], mi sembrava sempre d’averli dietro e che mi prendevano e quando mi son fermato avevo il cuore che mi sembrava di crepare. […] Vado davanti alla baracca, mi dice: “Sono venuti subito qui. Nava, va via, stai nascosto perché ti portano a Dachau. Il «cinno», l’han portato a Dachau, ha dovuto palesare il mio nome, son venuti qui, sono andati sopra alla tua branda, al tuo castello, han portato via tutta la roba personale che avevi, tutta la roba personale te l’han portata via tutta. Son venuti e son andati a vedere perfino nella spazzatura, se eri lì dentro. Sta lontano dalla baracca, per l’amore del mondo, che ti prendono”. […] Il primo giorno sono andato a dormire; c’erano dei pilastri e delle asce, tante asce... sono andato là sopra, a dormire, col cappotto, che c’era un freddo… […] La divisa è andata via, abbiam trovato qualcosa, si
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
221
trovava una camicia, un maglione cianfrusaglie, però, non più militari, via. Almeno, noi siamo riusciti a far così. […] Dopo, di giornata, andavo nei boschi, lontano da Monaco e giravo là tra i boschi […] e andavo molto in chiesa; che non venivano, la Gestapo, quella gente lì non venivan mica. E allora stavo sempre in chiesa; quando trovavo una chiesa, andavo dentro, stavo lì, era il posto più... allora andavo in chiesa, così. […] E allora, dopo non sapevo più dove andare. Tiro su una lapide di ferro, rotonda, che ci sono degli scalini da fare così, si va giù cinque-sei metri di profondità, e c’era una fogna. Però, c’era un posto largo come questo che si girava fino a Monaco. Quando bombardavano Monaco, che ero lì sotto, sembrava che mi bombardassero sopra la testa, perché il rombo era grande anche, sembrava una stanza, quasi; c’era solo il cemento sopra, il cemento, ma era nascosto. E lì, lo sapevano. Allora i miei amici, che ero vicino alla baracca, venivano a trovarmi alla sera, e prendevano anche dell’alcol denaturato, quello rosso, per disinfettare, e poi ci mettevano dentro un po’ di caffè, qualcosa del genere, e lo lavoravano un po’, e poi me ne davano una bottiglia; quello lì faceva come il liquore, rappresentava per me... stavo caldo, stavo... […] Poi un bel giorno mi han detto, quelli lì delle baracche, i miei compagni: “Nava, stanno sfollando da Stoccarda, da quei posti lì, perché avanza il fronte e allora sembra che gli italiani li mandano col fucile in Italia perché qui è ancora presidiata dai tedeschi, e vanno in Italia. Prova a metterti in mezzo a loro e cerca di andare giù, di andare via con loro”. Vado nella stazione piccola, mica Monaco, nella stazione che passavan loro, e, vado là, c’era tutta ‘sta gente che partiva: “Ma dove andate?”, “Ah, abbiamo i documenti da andare in Italia”; “Ma veramente?”, dico: “Ma prendetene uno a me, che son qui che ho paura a stare a Monaco...”; non gli ho mica raccontato che avevo... tutte le cose, gli ho detto: “Ho paura dei bombardamenti, ce ne son stati tanti anche di recente qui, che ho avuto paura di morire, prendetemi!”... Allora facciamo una ventina di chilometri in treno... e arrivammo ad Innsbruck; arrivammo ad Innsbruck e dicono, ci chiamano, c’era un posto che c’erano tutti i repubblicani. I repubblicani sa cos’erano, i fascisti. […] C’interrogano, e dicono: “Come ti chiami?”, ”Caporale di Mario”, “Tuo padre?”, “Caporale di Giuseppe”, “Tua madre?”, “Mazzoli Maria. Sfollato, da Stoccarda”, mi dice: “E perché non hai lo ausweis?”, lo ausweis vuol dire i documenti, che han quegli altri, di sfollamento, gli ho detto: “Quando sono arrivato a Monaco, son partito da Stoccarda, son arrivato a Monaco, è venuto un bombardamento, io son saltato giù dal camion e poi ho lasciato la giacca sopra al coso... e la giacca è rimasta là”. “Ah beh, ti arrangi poi quando arrivi al Brennero; quando arrivi al Brennero, là c’è la Gestapo, ti arrangi poi là”, mi ha detto questo fascista. Vabbè. Allora son montato sul treno, partiamo, andiamo al Brennero, arriviamo al Brennero... Smontiamo, in un cortile... allora tutti andavano dentro, davano la tessera del pane, perché allora si mangiava con la tessera, e allora davano la tessera del pane, davano tutte queste cose e poi... […] Invece al Brennero, sono andato là, e là dovevano alzar la sbarra quelli che eran buoni, sennò... ma lì eran tutti buoni, c’ero solo io, penso. E allora, niente, sono arrivato là, arriva, arriva... vanno dentro, e vedo che vengono fuori tutti contenti, che passano la sbarra, ma io avevo una paura, perché di sopra c’eran tutti i cani, con... perché, sbarrato, c’erano i cani e non pote-
222
G. PROCACCI (a cura di)
vo mica scappare, perché scappare, andavo in braccia a loro; e allora ho dovuto andar dentro e... l’avevo studiata sotto... alla fogna, perché nell’emergenza, dicevo, solo che capiti qualcosa, io son pronto con un falso nome, via! […] Allora vado dentro, c’era la Gestapo, c’era un colonnello, non mi guardava neanche, mi dice: “Ausweis!”, “Nicht”, “Warum?”, “Perché, perché, insomma, mi è capitato così e così...”, e riracconto la storia che ho raccontato a quel fascista. “Come ti chiami tu?”, “Caporale di Mario”, “Tuo padre?”, “Caporale di Giuseppe”, “Tua madre?”, “Mazzoli Maria. Sfollato, Stoccarda”, “Residente?”, mi ha domandato anche la residenza, gli ho detto: “Udine”, perché se risiedo a Modena, sto a Modena. E via! E arriva Pippo, lei non lo sa chi è Pippo. Quell’aeroplano... incomincia a passar Pippo... “Dai, dai... la tessera...”. Ho pianto. Quando mi hanno aperto la sbarra per passare in Italia, piangevo. […] Sì, io i primi di aprile, alla fine di marzo o ai primi di aprile ero già a Modena. […] Quando sono arrivato al Po, ormai siamo a casa, abbiam finito, arrivo al Po, c’è un ragazzo, e una ragazza, con una macchinina piccola, tipo Topolino, quelle macchine che c’era allora, e mi dice: “Io vado a Bologna, tu...”, dico io: “Volevo andare a Mirandola, quando sono a Mirandola dopo vado a Modena. Se tu vai a Bologna, se passi per Mirandola, mi scarica a Mirandola, poi dopo vado a casa...”. Mi dice: “Facciamo così, però di là vedi ci sono tutti repubblicani...”, di là dall’altra sponda, si vedeva che c’eran tutti repubblicani. […] Erano fascisti o tedeschi? Fascisti. L’han trattenuta. Io... dopo noi ci han lasciato andare, “Voi potete andare”, e han trattenuto la signorina, non so poi perché, c’era qualcosa che non funzionava, non lo so perché, quello non l’ho mai saputo e non lo so neanche ancora. E poi siamo andati, siamo arrivati a Mirandola. […] Sono rimasto nascosto, dove potevo, a casa; ma non è mai venuto nessuno però. Sono stato nascosto e così… la storia è finita lì. […] ENRICO PRADELLA - 1921 - Modena - Ufficiale […] Io dovevo essere esente dal militare come figlio unico di madre vedova e, invece, con la guerra tutti questi benefici decadevano ed io sono stato arruolato regolarmente nel ‘42 come soldato di leva e spedito a Senigallia nel 93° reggimento fanteria dove ho fatto alcuni mesi. Poi come studente, con la licenza liceale mi hanno mandato a Sassuolo a fare il corso da allievo sergente. Fortuna mia perché il battaglione mio era in partenza per la Russia e non è tornato nessuno di quel battaglione lì dalla Russia. A Sassuolo ho fatto il corso da caporale, caporalmaggiore, sergente e poi di lì mi hanno mandato al corso allievi ufficiali a Casagiove di Caserta. Lì ho fatto sette mesi di corso allievo ufficiale e poi sono stato nominato sottotenente, proprio la mia nomina a sottotenente è firmata dal maresciallo Badoglio. Perché è venuto il, insomma è stato il 25 di luglio, quando cadde Mussolini, noi siamo stati nominati sottotenenti in quel periodo lì. Sono venuto a Modena, in attesa di destinazione. Destinazione mia Zara in Jugoslavia, in Dalmazia, al 291° reggimento fanteria. Mi hanno mandato a Monteferro che era un caposaldo della cinta di-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
223
fensiva di Zara. E lì ci hanno catturato i tedeschi perché l’ordine nostro, del generale Viale che comandava la divisione, era quello di arrendersi. Tanto più che non si poteva resistere perché eravamo con le munizioni e le armi limitatissime e le truppe tedesche erano forti, numerose. […] A Zara siamo stati in una caserma in attesa di partire per l’Italia, perché i tedeschi ci hanno imbrogliato anche in quel momento lì. Quindi siamo partiti in carrozze di seconda classe, noi ufficiali. Quando siamo arrivati a Bruck il treno si è fermato e ci hanno dato un ultimatum, avevamo ancora la pistola. Ci hanno detto: “Qui sono tre le strade: o aderire all’esercito tedesco, e quindi fascista; o collaborare con le famose organizzazioni Todt oppure campo di concentramento”. Lì c’era mezz’ora di tempo per decidere ed io decisi per il campo di concentramento, come hanno fatto in tanti. Chi non se la sentiva, comunque pensavamo che la guerra finisse presto mentre purtroppo per noi era l’inizio. Di lì siamo, naturalmente in carri bestiame immediatamente, siamo partiti in serata quindi abbiamo viaggiato tutta notte e siamo andati a finire in Olanda. Abbiamo passato tutta l’Austria... […] Quindi tutta una traversata della Germania del nord, chiamiamola così. Un viaggio disastroso perché c’era anche molto freddo. Lì ci siamo stati fino al 28 marzo quando con l’avanzata dei russi, che ormai erano alle porte, ci hanno portato via in massima urgenza e siamo andati a Lapen [sic] il 28 marzo. Poi da Lathen il 14 giugno a Bonn allo stalag 6. Di lì, siccome io sono uno di quelli, quei sottotenenti che la stampa li ha classificati i “sottotenenti del no”, abbiamo sempre detto di no a tutte le proposte che ci facevano i tedeschi. Lì si sono incavolati, io ero sempre in mezzo ai più giovani purtroppo, in quel caso lì era una disgrazia. Un giorno sono venuti e ci hanno detto qui o volenti o nolenti 100, il primo gruppo eravamo 100 o poco più di 100. Baionette alla schiena e ci hanno spinto fuori dal campo e ci hanno portato a Colonia, allo straflager di Colonia che era un campo di punizione. Il 15 agosto del ‘44. Senza motivo apparente? Niente, eravamo puniti perché dicevamo sempre di no. Perché vi eravate rifiutati di lavorare? Beh, intanto c’era una Convenzione di Ginevra che gli ufficiali non... Loro ci hanno sempre detto che della Convenzione di Ginevra se ne fregavano altamente. Voi vi eravate appellati alla Convenzione di Ginevra? Sì, eccome. La Croce rossa italiana assente in tutti i sensi. Quando eravamo a Bonn venne la commissione della Croce rossa, a visitare i prigionieri, c’erano degli inglesi degli americani, era un campo internazionale. Nel piazzale di fronte abbiamo visto tutti questi personaggi della Croce rossa, abbiamo detto meno male che sono qui. Il nostro capo campo ha attraversato il palazzo e gli detto: “Guardate che di là ci siamo anche noi, gli italiani”, “Ah, ci dispiace ma il comando tedesco vi ha escluso dalla Convenzione di Ginevra.” Non sono neanche venuti a chiederci se stavamo bene o male, la Croce rossa. E di lì è incominciata la nostra tragedia perché in campo di punizione, lo straflager, eravamo in mano a un sergente senza una gamba, un pregiudicato che ce ne ha fatte di tutti i colori. Perché dopo abbiamo visto dal carteggio che, loro si sono dimenticati lì al campo, che eravamo destinati alla soluzione finale.
224
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Ci hanno portato a Hemer il 18 settembre del ‘44. Un campo che era in mano ai russi, erano quasi tutti soldati russi. Dei quali noi abbiamo un ricordo stupendo, a parte che erano sporchi, sì l’igiene non era molto…, però come ci hanno accolto, come ci hanno offerto persino le loro baracche. Erano ufficiali russi? No tutti soldati. Che noi le abbiamo rifiutate queste baracche perché un cappellano militare ci disse che erano piene di animaletti molto affezionati all’epidermide umana. Però il buon cuore l’avevano. E addirittura lì abbiamo visto una prova di grande civiltà da parte degli italiani, che io ho conosciuto anche tanti altri militari di altre nazioni e posso dire tranquillamente che siamo i migliori. Perché a parte il vestiario che era quello che era perché non avevamo assistenza, come bontà, come umanità. In quel campo lì di Hemer c’era, fuori dal reticolato su una collinetta, c’era recintata una baracca. E questo cappellano, c’erano sempre dei cappellani militari da tutte le parti fortunatamente, perché ci davano le notizie loro, c’erano dei prigionieri russi colpiti da Tbc in fase terminale che li mettevano lassù perché morissero. Allora questo cappellano militare passava tutte le mattine nei reparti dove c’erano gli italiani con una coperta a sacco e tutti ci buttavamo dentro un pezzetto di pagnotta quello che si poteva risparmiare da quel poco che ci davano. E molta di questa povera gente è stata salvata, perché dopo quando arrivarono i russi a liberarli erano già in fase, ma allora c’erano già dei mezzi, credo che ci fosse già anche la penicillina, molti ne hanno salvati. Per dire la bontà degli italiani. Ecco poi di lì siamo andati a Wietzendorf, dove ero assieme a Guareschi, tra l’altro. Wietzendorf è stato quasi l’ultimo campo, perché lì nel novembre del ‘44 andò, ebbe effetto l’accordo Hitler-Mussolini. Cioè avevano detto quei due bravi ragazzi: gli ufficiali italiani volenti o nolenti basta d’ora innanzi chi vuole mangiare deve lavorare. Allora una mattina abbiamo sentito delle esplosioni nel recinto e avevano messo dei candelotti sotto i reticolati, li facevano saltare per farci vedere che noi eravamo. Allora cosa abbiamo dovuto fare? Ci siamo organizzati in un gruppo di 150, sempre tutti giovani, siamo andati in questa baracca che era l’ufficio collocamento e..., se si deve mangiare. Ci hanno mandato a Veddel, è il campo dove poi siamo stati liberati, ma la località, ad Amburgo, era Nimdorf [sic], si chiamava questo paese, dove c’era una fabbrica di falegnameria. Abbiamo inchiodato delle casse da morto, siamo andati qua e là, sempre con una sentinella, a fare i falegnami, che non lo sapevamo fare, comunque si accontentavano. E lì ci siamo stati fino al 3 maggio quando ci hanno liberato gli inglesi. Fortunatamente sostituiti dopo pochi giorni da un reparto dell’ottava armata americana, perché sotto gli inglesi stavamo peggio che sotto i tedeschi. Come mai? Perché ci hanno liberato e poi ci hanno lasciato lì. Abbiamo dovuto arrangiarci, abbiamo dovuto anche rubare, rubare del bestiame per mangiare. Noi fessi, però riuscivamo anche a mettere assieme qualche moneta per pagarla sta roba. Non so un maiale, un vitello. Finalmente sono arrivati gli americani, un tenente colonnello […] venne a vederci un giorno al nostro campo, quando ha visto in che condizioni eravamo al pomeriggio ci ha mandato un camion, pieno di vestiario, di tutte le misure per vestirci un po’ meglio. E una camionetta piena di tutto quello che uno desidera, viveri, barili di burro, sigarette, tante stecche di sigarette e da quel momento lì
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
225
siamo stati bene. Naturalmente liberi. Si veniva in città, Nimdorf per venire ad Amburgo c’erano, era una frazione della città, Amburgo era 50 km di diametro ti puoi immaginare, era tutta bombardata. Avete subito bombardamenti? Moltissimi, specialmente quando eravamo lì a Nimdorf la vigilia di pasqua del ‘45, gettarono dei manifesti da aerei prima del bombardamento. Io ho qui, ho rischiato anche la vita a raccoglierli, guardi, questo è un manifestino che ho raccolto nel marzo del ‘44. E vennero a buttare questi insieme ad altri per noi prigionieri, perché c’eravamo di tutte le razze, in cui c’era scritto di stare il più possibile lontano dai centri abitati perché venivano a fare gli auguri di buona pasqua ai tedeschi. […] Sì, c’era scritto così. Sono venuti, con tutto il rispetto che ho, però quei bombardamenti così incivili non sono neanche da... Insomma sono stati sulla città tre ore, di continuo con ondate delle famose bombe al fosforo, che erano tremende, perché l’aviazione tedesca non esisteva più, contraerea, qualche postazione c’era ma loro volavano più alti del tiro. Hanno avuto la possibilità di centrare strada per strada. Insomma hanno detto, io non li ho contati, che ci sono stati più di 300.000 morti, in quella giornata. Amburgo è una città che c’erano sette-otto milioni di abitanti anche allora. E un’altra volta durante uno spostamento, proprio mentre venimmo via da Deblin Irena, in una stazione, adesso non ricordo la località, il treno fu bloccato da un bombardamento tremendo e i tedeschi ci hanno chiuso nei carri e loro sono corsi via a mettersi al riparo. Fortunatamente le bombe hanno sfiorato il nostro. […] Così, ci hanno liberato il 3 di maggio e siamo stati in attesa di rimpatriare. Un mese prima del rimpatrio, ci hanno portato a Veddel, che era un campo contumaciale, dove c’erano altri ufficiali. C’erano anche delle donne, delle studentesse lettoni che erano state deportate anche loro. Lì abbiamo fatto il periodo contumaciale, ci hanno fatto un sacco di visite, vaccinazioni. Finalmente il 28 di agosto del ‘45 siamo partiti e siamo arrivati a Modena il 29. […] Vi chiesero di aderire solo al momento della cattura, o anche dopo? Sempre, continuamente. Erano tedeschi o italiani? Tedeschi, anzi quando poi ci mandarono fuori con la baionetta alla schiena c’era un funzionario tedesco tutto vestito di nero, con bombetta, delle SS proprio, che ci fece la paternale dicendoci della roba da chiodi. Fra l’altro che noi eravamo sempre processabili e punibili da qualsiasi cittadino tedesco, se noi avessimo toccato una donna, invece dopo si è ricreduto pensando, va beh perché noi non vogliamo sporcare il nostro sangue con il vostro. Proprio frasi dispregiative. Quindi noi quel periodo che abbiamo lavorato come falegnami che è durato ben poco, avevamo una tuta blu con dietro la schiena scritto, con una vernice che non si poteva cancellare, IMI, che voleva dire Internati militari italiani. Noi non siamo mai stati riconosciuti prigionieri di guerra per comodità di soldi perché così il comando tedesco non aveva nessun... a me quando sono tornato qui in Italia la liquidazione che ci hanno dato dello stipendio a me diedero 128.000 lire. A mia madre in Italia le davano il mio stipendio, le davano un sussidio insomma. […] L’atteggiamento dei tedeschi nei vostri confronti era comunque molto duro?
226
G. PROCACCI (a cura di)
Si, con noi, con tutti, però con noi i famosi del no sono stati proprio disumani. Il nostro capogruppo era l’onorevole Desana, che è morto poco tempo fa, e nel giornalino [“Noi del lager”] ha scritto delle cose che riguardavano quegli episodi lì, e dice quello che succedeva lì al campo di Colonia. […] I russi, povera gente, e jugoslavi erano i più maltrattati, hanno fatto loro della roba da chiodi. Il giorno della liberazione che noi eravamo in giro per Amburgo, gli americani hanno dovuto rinchiudere di nuovo i russi perché tutti i tedeschi che trovavano li facevano fuori. Per quanto riguarda i rapporti con i prigionieri di altre nazionalità, oltre ai russi? Abbiamo trovato dei nemici, proprio nei francesi perché logicamente, noi poi non avevamo nessuna colpa, ci accusavano di quella vigliaccata che avevamo fatto partecipando alla guerra contro di loro, quando Mussolini disse che aveva bisogno di un migliaio di morti per sedersi al tavolo della pace. Loro non ce lo perdonavano, al punto che pieni di viveri, perché avevano la Croce rossa francese, la Croce rossa internazionale, i pacchi che gli arrivavano da casa, cosa che a noi ne sono arrivati ben pochi perché ce li fregavano i tedeschi i nostri pacchi. Quindi loro il rancio che passavano i tedeschi non lo consideravano neanche, e venivano, io mi ricordo, davanti al reticolato che ci divideva da loro, a Bonn, al campo di Bonn, e c’era un piccolo fosso che divideva noi da loro col reticolato, con i piatti pieni di mangiare, lo buttavano nel fosso e ci dicevano piuttosto che darlo a voi lo buttiamo. Era una cattiveria, perché quando si è dentro un reticolato si è tutti uguali. Abbiamo invece trovato una grande umanità nei polacchi. In Polonia a Deblin Irena abbiamo visto delle manifestazioni. C’era un binario che entrava nella fortezza di Deblin Irena, che era proprio una fortezza, c’erano in 23.000 ufficiali lì dentro non in due, entrava questo binario per i rifornimenti. Io ero nella camerata al piano rialzato, c’erano i macchinisti polacchi, poveretti che ci facevano sempre dei segni. Abbiamo capito e una mattina abbiamo lasciato aperto la finestra e loro quando passavano con la macchina proprio sotto alla finestra ci buttavano due badilate di carbone dentro. Così potevamo scaldarci, perché i tedeschi ci davano un pezzetto di torba e basta. Quindi bisognava stare tutto il giorno a letto coperti per il freddo che c’era. Come era la vita nel campo prima che vi mandassero a lavorare? Alla mattina c’era la sveglia a ci davano il tiglio, una brodaglia, si beveva tanto era calda. Alle otto c’era il primo appello, cioè tutti giù nel piazzale, inquadrati e venivamo contati. Poi si tornava in camerata in attesa del pranzo, chiamiamolo così. Al pomeriggio alle tre un altro appello, sempre per vedere se qualcuno mancava. Poi dopo basta, si tornava in camerata e alle dieci, nove e mezza, dieci toglievano la luce quindi non si poteva più, non so se uno voleva leggere, e così si aspettava il giorno dopo. […] Per la distribuzione del cibo c’erano dei problemi? C’erano delle corvé fatte sempre da noi, si andava a ritirare questo pentolone e poi ci davano i viveri a secco, cioè il pane. Ci davano una fetta di due etti di pane al giorno, erano poi due etti di pane umido, c’era anche della segatura dentro. Poi davano un pezzettino di margarina e un cucchiaio di zucchero. Dentro a questa brodaglia c’erano delle rape, qualche volta delle patate ed era il nostro vitto, alla sera lo stesso. Poi cominciarono ad arrivare i pacchi di mia madre. […] Si, ne sono arrivati, mia ma-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
227
dre, poveretta, me ne ha mandati tanti, me ne sono arrivati sei o sette. Perché ogni tanto il comando tedesco diceva che il treno era kaputt, dicevano, con le bombe. Invece abbiamo saputo che li tenevano loro, aprivano i nostri pacchi pieni di buone cose, perché da casa cercavano di fare dei sacrifici. Invece con gli altri prigionieri andavano piano perché erano assistiti dalla Croce rossa. I russi poi, povera gente, lavoravano nelle miniere, lavoravano dappertutto, ne sono morti. Noi fortunatamente, insomma 40.000 morti ci sono stati anche fra i nostri 600.000, ma i russi erano considerati proprio degli animali. […] Non li perdonerò mai, perché hanno fatto delle cose. Vede se fossi un giudice scuserei, fra virgolette, più uno che uccide in un momento di... un avversario perché ha dei motivi, anche se di fronte alla legge non sono plausibili, ma condannerei la vigliaccheria. Io quando vedevo questi delinquenti che picchiavano della gente inerme che non poteva fare niente, quel sergente S. lì quando eravamo a Colonia che era, per me era pazzo, comunque faceva il filosofo. Se vedeva in mezzo a noi, con il nostro curriculum vitae, un qualche filosofo, un qualche studente in storia, filosofia o robe del genere lo chiamava in ufficio e cominciava a discutere con lui. Se le idee di questo disgraziato non collimavano con le sue, cioè se non diceva di essere un fascista, erano botte da orbi, lo faceva legare a due anelle poi botte da orbi con un bastone. Io non sono mai stato... non ho mai pensato di ammazzare nessuno, però se avessi incontrato quel signore lì l’avrei fatto fuori. A me personalmente delle botte non me ne ha date, però si vedeva, ci facevano camminare dentro un camminamento coi fili dell’alta tensione. Solo la nostra testa, un pochino più evoluta di certi altri militari, poveretti che non avevano delle nozioni che avevamo noi. Cioè si sono visti dei suicidi della gente che si è lanciata contro i reticolati, mica fra noi, fra dei soldati, perché effettivamente era così. Lì in questa fabbrica dove lavoravamo costruivano dei paracadute. In una vasca tipo ruscello scorreva sempre dell’acido bollente, non so che acido fosse. In questo acido passava un cordone grosso così, in questa seta, che voleva stretta, voleva tirata, sempre a mani nude, in questo acido. Lì quello che era deleterio, naturalmente, erano le esalazioni. […] A Wietzendorf ho trovato Guareschi, lui era un amico veramente. Quando è stato messo in galera a Parma, io ero studente in veterinaria a Parma e lo andavo a trovare in carcere. [...] Io avevo 22 anni, mi dico delle volte, pensare che in quel momento lì ero prontissimo anche a farmi ammazzare, allora ero proprio un matto, perché si sono viste delle volte quello S. delle mattine era capace di tirare fuori tre ufficiali li metteva contro un muro con il plotone di esecuzione davanti. Non li uccideva, lo faceva per intimorirci, per farci poi aderire così, proprio un delinquente. [...] I tedeschi di Guareschi avevano paura, perché lui faceva delle robe che se le avesse fatte uno di noi, di lui avevano paura. Una volta al primo appello del mattino il comandante del campo ci disse, tramite un maresciallo ci fece dire che chi aveva dei mezzi illuminanti li doveva consegnare, pile quelle robe lì. Perché secondo loro di notte facevamo le segnalazioni agli aerei. Allora al pomeriggio, lo stesso giorno di pomeriggio alle tre, c’era un gran tavolo di casermaggio davanti a tutti noi schierati e lui ha detto: “Come annunciato stamattina chi ha dei mezzi illuminanti li deve consegnare”. Nessuno si è mosso naturalmente, a un certo momen-
228
G. PROCACCI (a cura di)
to si è sentita una voce tremolante, fatta apposta: “Permesso, permesso”. Era Guareschi che usciva dalle file con un pezzetto di candela così acceso. Proprio a dispregio, roba che se l’avessi fatto io mi ammazzavano subito. Tutti a ridere come i matti, lui è arrivato davanti a questo tenente tedesco, l’ha posata sul tavolo poi ha salutato, l’ha presa in ridere anche lui. Caro mio si è trovato di fronte a centinaia di ufficiali che ridevano come i matti quindi l’ha presa in ridere e buona notte. Ma era simpatico perché, c’era una baracca isolata e avevamo... sempre i cappellani militari, erano molto solerti dappertutto, ed erano riusciti ad ottenere il permesso di usare questa baracca per le ore di svago per non diventare stupidi completamente. Allora la mettemmo a posto, come mettemmo a posto la chiesa, c’era una chiesetta bellissima fatta tutta con delle scatolette di carne. In questa baracca che avevamo allestita noi la sera, qualche sera, c’erano delle conferenze fatte da qualcuno di noi. Perché c’erano degli ingegneri, c’era il direttore della Banca d’Italia di Roma, un tenente colonnello, e facevano delle conferenze sulla loro professione. Guareschi era sempre in prima fila, ma con degli argomenti che facevano scappare da ridere, c’era sempre un interprete lì che ci controllava, ma lui andava anche a briglia sciolta e diceva della roba anche contro Mussolini e non gli hanno mai fatto niente. […] Cosa succedeva a quelli che aderivano, venivano mandati in Italia? Subito, c’era una palazzina, che la chiamavamo la casa bianca, sempre lì a Deblin, perché era il campo più grande che esistesse in Germania per gli italiani. Aderivano, passavano di là, vitto come i soldati tedeschi e nel giro di una settimana al massimo venivano in Italia. Però avevano aderito e venivano qui nei reparti a fianco dei tedeschi. Cantavano tutti i vari inni fascisti, purtroppo si sono visti anche degli ufficiali che non avrebbero dovuto aderire, tipo, non so, quelli dei carabinieri. Comunque noi addirittura per dimostrare ai tedeschi il nostro pensiero dal fregio del nostro berretto avevamo tolto la corona reale per fargli capire che... e allora con le forbici l’avevamo tagliato per fargli sapere cosa pensavamo. C’è stata gente che ha fatto così, addirittura si poteva venire anche a Modena, perché un mio collega ha preso l’occasione. […] Lui era anche ebreo, era un misto, si chiama Castelfranco, quando ha saputo che qui in Italia gli ebrei erano perseguitati, tramite un prete […]. C’è stata una richiesta del comandante tedesco del campo: cercavano un ufficiale veterinario da spedire in Italia per radunare 150 cavalli che erano stati rastrellati in Italia, e portarli in Germania per l’esercito. Allora lui ha preso l’occasione, oltretutto la destinazione era Reggio Emilia. Lui è venuto da noi, noi amici e ci ha detto: “Guardate bene che io aderisco perché devo mettere in salvo mia moglie e le mie bambine”. Allora abbiamo detto: “Va bene, per l’amor del cielo”. Infatti lui è venuto in Italia. Proprio a Reggio, con un altro ufficiale veterinario preso da un altro campo e poi, il giorno che si dovevano, loro hanno visitato questi cavalli, li hanno messi come volevano messi, il giorno che si dovevano ritrovare per rientrare in Germania, lui, caro mio, si era messo d’accordo, aiutato dai partigiani, è riuscito ad andare in Svizzera. In Svizzera poi ha fatto il cuoco, in attesa, le ha fatte tutte con la moglie e le due bambine. […] Quindi voi aderendo avevate la possibilità di tornare a casa? Subito, nel giro di una settimana, era un invito molto allettante. Io cosa vuole ero giovane non avevo... avevo mia madre d’accordo ma sapevo che
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
229
era autosufficiente, che era circondata da delle amicizie. Avevo con me, per esempio, uno che aveva la sposa in Italia e c’era nata una bambina che lui non l’aveva neanche vista, era una tentazione grossa eppure lui ha tenuto duro. Cos’era che vi spingeva a resistere? L’amore della patria, praticamente era quello. Adesso c’è da vergognarsi a dirlo, eppure allora c’era quel sentimento lì, c’era poco da fare. Guardi, quando mi hanno catturato, sono stato nominato il 25 di luglio sottotenente, sono arrivato a Zara l’8 settembre, non ho fatto neanche il giuramento. Quando sono stato a Deblin in quel castello dove c’erano rinchiusi quei generali lì, c’era un generale che si chiamava B., era un generale degli alpini, che parlando un giorno con un mio amico, l’avvocato M.P., gli chiese: “In mezzo ai tuoi amici c’è qualche ufficiale che non ha giurato?”, “Credo di sì”, pensando a me. Io andai da lui, di domenica perché aprivano i cancelli, si poteva camminare nel viale centrale, perché era una fortezza, era una cittadella, e andai da questo generale. E lui mi ha detto: “Guarda che se tu non hai giurato e i tedeschi se ne accorgono per loro diventi un soldato semplice e ti mandano a lavorare subito”, “ E allora cosa devo fare?”, “Adesso ci penso io”. Mi ricordo che è stata una cosa molto commovente, un pomeriggio, di fronte a lui e ad altri due generali feci il giuramento alla bandiera, e da quel momento lì non mi poteva dire più niente nessuno. Perché c’era quel rischio lì, e voleva dire andare in miniera, perché lì c’erano delle miniere dove i nostri soldati, poveretti, hanno visto un bel mondo. Quando vi hanno mandato a lavorare, vi hanno praticamente obbligato; ma prima vi proponevano di andare a lavorare? Sì. Chi aderiva lì com’era trattato? Chi aderiva. Ci ho avuto io degli amici che hanno aderito, naturalmente non prevedendo l’umiliazione che venivano portati al centro della piazza di questo paese e poi messi alla scelta dei vari datori di lavoro, che erano quasi sempre dei contadini e venivano lì e toccavano le spalle: “Sì, questo è robusto, va bene”. Come facevano in America coi negri, ecco questo era il primo impatto coi tedeschi civili, era questo. Poi andavano nelle aziende dove in generale, sai, gli italiani siamo dei bonaccioni, in generale riuscivano a farsi benvolere. Io ci avevo un amico, proprio, che è stato bene praticamente, oltretutto aveva le due ragazze figlie della donna che gestiva l’azienda che lo colmavano di tutte le gentilezze, tutte, dalla prima. E così lui è stato bene. Ma rimanevano nel vostro campo? No, no. Loro andavano là quando è finita la guerra, passava un camion con gli indirizzi forniti dal nostro campo, un camion a prendere tutti ‘sti soldati. Rimanevano nelle fattorie anche a dormire? Si, si, loro restavano lì, liberi eh, potevano andarsene, se volevano andare in paese, erano liberi. Lavoratori che avevano aderito, naturalmente avevano aderito alle organizzazioni tedesche, con la famosa Todt, invece, in questi casi qui erano dei datori di lavoro privati. Generalmente erano dei lavori in campo oppure in certe fabbriche, per esempio, c’era addirittura della gente che è andata a lavorare in fabbriche dove fabbricavano delle
230
G. PROCACCI (a cura di)
armi, dei proiettili, e lì, sai, c’è anche il rischio di bombardamenti. Invece, in campagna stavano bene, perché il mangiare non mancava e così... Come era visto l’aderire al lavoro? Come un tradimento? Ah beh noi non li vedevamo mica ben volentieri. Per l’amor del cielo. Perché faceva comodo a tutti dire: “Ma lì si mangia, lì la pelle”. La pelle l’avevamo tutti da salvare, ma allora è tolto lo scopo. […] Quando vi mandarono a lavorare, lei mi ha detto che nel campo c’era gente anche preparata, con delle qualifiche; tennero conto di queste qualifiche? Se uno voleva sì. Se lei era ingegnere e diceva: “Io collaboro come ingegnere”, allora sì. Però doveva firmare. Invece, così, andava a fare quello che... […] ‘Sto disgraziato di ‘sto maresciallo tedesco che era addetto al personale, all’amministrazione, aveva tirato fuori, sollecitato da quel capitano lì, eh, aveva fatto una revisione su tutti gli ufficiali del campo che erano sfuggiti al censimento degli ebrei. Avevano tirato fuori tutti i nomi così: Pradella, Ossola, Puglia, Castelfranco se l’è schivato perché lui era già venuto via, non so Brambilla, Pavia, tutti i nomi che finivano in “a”, per loro erano degli ebrei. Allora, caro mio, io ho detto: “Ma dio, fa scappar da ridere”, “Ah”, dice il cappellano militare, “non ridere mica, perché siete in partenza per Belsen”. E guarda che Belsen era un campo di lavoro, non sapevano ancora che era di sterminio. Allora cosa è successo? L’ufficiale medico del campo, prima di fare questo spostamento ci ha visitato, la circoncisione. Naturalmente nessuno di noi era circonciso, è tutto rientrato, ma se disgraziatamente ci fosse stato uno circonciso per motivi fisiologici, diciamo, quello partiva e lo eliminavano, perché per loro quando un cognome, va beh lui forse sarebbe stato in grado di dimostrare prima di essere eliminato che non era. Questo capitano militare ci ha cominciato a dire: “Ma se sono ufficiali italiani così giovani, come fanno ad essere ebrei che la prima, una delle clausole di esclusione dai corsi allievi ufficiali era quella lì, la prima cosa volevano ariani, ariani, ariani. Ma vi rendete conto?”. Se no quel... ci metteva sulla prima tranvetta diretta in quelle zone lì e io non sarei neanche qui. Per dirle la nostra vita a che cosa era sempre appesa da un giorno all’altro. [...] Una cosa a favore dei tedeschi, pensi mo’ cosa arrivo a dire, era questa, che se qualche ufficiale scappava dal campo, a parte il fatto che c’era una taglia di non so quanti marchi per la popolazione che rintracciava e catturava questo evaso, comunque se lei scappava e veniva ripreso non è che lo perseguitassero, faceva un periodo in cella di rigore a pane ed acqua e poi tornava. Ed è successo? Sì, sì. È successo un paio di volte. Dunque, all’inizio una volta lì è successo a due ufficiali di artiglieria alpina, due torinesi, erano simpaticissimi, erano colleghi di Guareschi, nello stesso reggimento. Loro, intanto, sapevano parlare benissimo il tedesco, cosa indispensabile, perché appunto c’era la popolazione che era mobilitata in quel ramo lì, cioè se catturavi un prigioniero ti davano 10.000 lire, non so, allora erano soldi, 10.000 lire nel valore del marco. Questi qui erano alpini e avevano progettato da tempo la fuga, quindi nei pacchi che venivano da casa si facevano mandare delle scatole di grasso per gli scarponi: “Sai qui c’è freddo”, scrivevano. Perché tutte le lettere, adesso quando le ho trovate gliele faccio vedere, erano censurate con le strisce di inchiostro nero dove non
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
231
andava bene quel che c’era scritto. E del grasso per gli scarponi, insomma, e del latte condensato, adesso non so se esiste ancora, latte condensato, dello zucchero. Allora non dicevano niente a nessuno, solo che all’ultimo momento, non erano nel mio block, all’ultimo momento han dovuto dirlo ai loro colleghi. Era una notte, mi ricordo, con tanta neve e erano riusciti ad avere dai... perché i polacchi se lei scappava dal campo, sol che potesse andare in una casa polacca lei era al sicuro che non la trovavano mai più, perché erano gente veramente eroica. Riuscivano a nascondere il prigioniero che i tedeschi non lo trovavano mai più. E così è stato per questi due. Questi due, quella notte lì, si sono preparati, hanno preso tutti i loro vestiari, li han portati giù nella fossa biologica e li hanno spinti lì. La fossa biologica era una fossa con delle assi sopra, dentro una capanna. Li hanno spinti giù, in modo che perdessero ogni... perché c’erano i cani poliziotti, erano quelli che spaventavano. Poi col grasso hanno unto tutto il loro letto, tutto dappertutto per evitare che i cani fiutassero. Si sono unti scarponi, tutto quanto e poi son partiti. Han preso con sé la fodera del materasso, avevamo il materasso con della paglia dentro, e poi avevano le pinze per tagliare il reticolato. Perché sopra al terrapieno c’erano le sentinelle con le garitte e in un punto del muro c’era un cuneo così, per un bombardamento subito, tutto pieno di cavalli di Frisia, lo avevano chiuso così i tedeschi. Allora questi qui avevano calcolato quello, col le pinze, di notte, siccome c’erano spente le luci, hanno tagliato i fili, ci hanno steso sopra il fodero dei materassi, e pensi, sono riusciti a passare di là, la sentinella che era dentro al garitta, perché c’era un freddo boia, ci sono arrivati di dietro e l’hanno legato come un salame, imbavagliato, e poi si son buttati giù dall’altra parte del muro, dove c’era la Vistola, hanno attraversato il fiume, indubbiamente, perché non potevano... e sono arrivati in questa casa di contadini polacchi, che li hanno accolti. Insomma 40 giorni dopo la loro fuga hanno mandato una cartolina da Torino al comandante del campo tedesco. Ma quel che non abbiamo passato noi. Come la sentinella imbavagliata ha avuto il cambio da quell’altra, si è accorta quell’altra che era successo. Grosso allarme, grosso allarme, sirene, tutti giù dai letti, tutti giù dai letti, in cortile, con un freddo da cani, c’era tanto di neve così, i cani sguinzagliati dappertutto, nei posti dove dormivano, annusare dappertutto, non sono riusciti ad annusare niente, perché si erano unti dappertutto, e non li hanno mai trovati. E 40 giorni dopo, da Torino, da, come si chiama quella frazione lì, mica Alpignano, insomma hanno scritto una cartolina al comandante del campo che erano in Italia. E voi avete subito delle ritorsioni dopo per questo? Abbiamo avuto le ritorsioni quella notte lì, poi abbiamo detto: “Abbiam colpa noi?”. È una cosa, loro lo ammettevano che il primo dovere scusato per un prigioniero era il tentativo di fuga, lo dicevano anche loro. No, per quel lato lì non erano così crudeli come lo erano per altri motivi. [...] Il rimpatrio: siam venuti fino a Bolzano in treno con carrozze di seconda classe e di dietro i soldati, sui carri bestiame, però erano attrezzati, c’erano delle panche, non è che erano come... Poi a Bolzano ci hanno accolto le autorità, le crocerossine, musica, bandiere, l’inno Fratelli d’Italia, che noi non sapevamo, un sacco di bandiere di tutti i colori, che noi chi è che aveva mai visto la bandiera rossa con la falce martello, per l’amor del cielo, e tutti facevano [...], bisognava vedere il Partito comuni-
232
G. PROCACCI (a cura di)
sta come erano organizzati. Fuori dalla stazione se uno voleva scendere e andarsene, c’erano i camioncini disposti a portarti fino a casa, fino a casa tua, per propaganda. E noi chiaramente avevamo scritto sui camion, sulle vetture, delle altre cose, non certamente “Pci”, c’era scritto “Mamma ritorno”, “Viva l’Italia”, “Viva la Repubblica”, avevamo scritto già così eh, “Viva la Repubblica”, perché, oh, come si faceva a scusare da parte nostra che eravamo là giovanissimi a rovinarci, quando il re e tutta la famiglia reale si erano messi al sicuro. Ma scherziamo? […] LUIGI PUVIANI - 1921 - Modena - Soldato L’8 settembre eravamo a Varna, sopra Bressanone. Eravamo appena arrivati dalla Sicilia. Ero soldato d’artiglieria costiera. Quando venne catturato? Subito, subito. Al mattino presto eravamo già in mano ai tedeschi. Come avvenne la cattura? Mah, hanno fatto presto perché la sera dell’8 settembre hanno cominciato a sparare alla caserma. Lì ci hanno presi. Ci hanno tenuti lì un giorno solo, poi ci hanno portati a Bressanone e ci hanno caricati su un treno. Da lì ci hanno portati su ai confini della Lituania. Siamo stati in un campo di concentramento grandissimo che non mi ricordo se era il 17A o simile e siamo stati lì otto-dieci giorni e poi in 200 ci hanno portati in un campo di lavoro a fare dei baraccamenti. Vi venne chiesto se qualcuno voleva aderire? Ci venne chiesto se qualcuno voleva venire in Italia a combattere con l’esercito di Salò. Oh, ci hanno fatto una giostra. Erano cattivi. Dopo che non trovavano nessuno li prendevano con la fame. Ci hanno lasciati senza mangiare. Abbiamo fatto due-tre giorni che si mangiavano gli scarti delle barbabietole da zucchero, che danno alle bestie, con dell’acqua fredda. […] Come era il lavoro? Eh, il lavoro era duro. Preparavamo i terreni per fare dei basamenti per dei baraccamenti.[…] Siamo stati là tre-quattro mesi e c’era sempre nebbia e acqua. È stato brutto quel lavoro lì. […] Eh, era brutto là. Anche i borghesi. [dando una botta sul tavolo] “Maccaroni!”. Là erano tutti borghesi tedeschi. Là c’erano i veri tedeschi: i prussiani. Ci trattavano malissimo. Picchiati proprio, no, solo qualche sberla. A lavorare non c’erano lavativi. Si lavorava davvero perché loro non scherzavano. Noi facevamo il meno possibile ma bisognava muoversi. Io ero contadino e quasi tutti, il 90%, venivamo dalla campagna: si era abituati a lavorare, si era già abituati un poco al sacrificio, alla fatica. Come era il mangiare? Era scarso. Era acqua più che mangiare. Era poca, calda, poco unta. Là non c’era tanta carne, c’erano solo delle carote e delle patate. […] Avevamo una brandina con la coperta dentro a baracche di legno abbastanza ben fatte, doppie. Ma erano baracche. Il riscaldamento ce l’avevamo, non tanto però, c’era solo una stufetta a carbone per ogni baracchina. Di carbone ce ne davano poco e bisognava fare economia. […] A lavorare là c’era di tutto: russi, francesi, belgi. Ma loro mangiavano bene perché avevano la Croce rossa che gli mandava della roba. A noi
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
233
invece niente. Ci si parlava ma mica tanto perché i tedeschi trovavano sempre la maniera di tenerci divisi. Come venivano trattati i prigionieri italiani dai prigionieri delle altre nazionalità? Non siamo mai stati trattati male. Neanche dai francesi che gli avevamo fatto la guerra. Ma ci siamo trovati là insieme. Non ci sono mai stati dei contrasti. Il più delle volte ci hanno offerto la sigaretta. A Natale del ‘43 si spostò il fronte russo e una notte ci hanno caricati su un treno e ci hanno portati al confine tra Austria e Cecoslovacchia. Lì siamo scesi dal treno e ci hanno tagliati fuori in 60. Ci hanno portati dentro una fabbrica, non si vedeva niente perché era notte, noi speravamo di andare a fare i contadini, perché eravamo tutti contadini, invece era una fabbrica. Al mattino vennero i capi a chiamare quelli che gli interessavano. La fabbrica era grandissima e produceva materiale ferroviario: locomotive, vagoni e cose del genere. […] Era pesante il lavoro in fabbrica? Per me era bello. Perché mi hanno messo ad una fresa universale. Io non sapevo fare niente e gli ho detto: guardate che io ho sempre fatto il contadino, di macchine non ne ho mai viste. Sono andato a finire lì con una tutina bianca e ci sono rimasto fino al 23 marzo del ‘45 quando ci hanno disfatto il paese e la fabbrica tutta con un bombardamento. In due passate hanno raso al suolo il paese e la fabbrica. C’erano prigionieri di altre nazionalità nella fabbrica? C’erano belgi, polacchi, russi, ce n’erano di tutte la fatte. Con loro sempre un buon rapporto. C’erano dei civili tedeschi? Si, ed erano abbastanza buoni. Io lavoravo a tre macchine con un tedesco. Quando mangiava lui avevo sempre anch’io il pane nel mio sgabuzzino. Erano tutti buoni, erano stanchi della guerra anche loro. Non subivate dunque maltrattamenti e punizioni? No. Noi eravamo in 60 e lì non è mai stato punito nessuno. […] Siamo stati per due-tre mesi, dal primo dell’anno del ‘44 fino a maggio, con le sentinelle, poi ce le hanno tolte. Non potevamo andare a girare fuori dappertutto, avevamo certi limiti. Potevamo andare al cinema perché ci pagavano con marchi civili e non con marchi per prigionieri. Subito ci davano i marchi da prigionieri ma poi ci hanno dato i marchi buoni. Per spendere i marchi ci voleva la tessera e noi non la trovavamo ed allora bevevamo la birra e andavamo al cinema. Potevamo soltanto andare al cinema e bere la birra. Lì non ci hanno mai detto niente, mai. Anche i soldati. C’era una differenza dalla Prussia all’Austria. Lì era tutto un altro mondo. Io mi trovavo molto bene; no, molto bene mi sarei trovato a casa, ma ecco, lì stavo abbastanza bene! Le riuscì di avere notizie della sua famiglia da Modena? Io non ho mai potuto avere niente dai miei. Io non ricevevo niente e loro non ricevevano niente. Non ho mai ricevuto niente, né pacchi né cartoline. […] Il 23 marzo del ‘45 con il primo bombardamento hanno spazzato tutto il paese e la fabbrica. Nella zona non c’erano mai stati bombardamenti. Passavano tutti i giorni nuvole di apparecchi. E noi dicevamo: “Finché passano e basta, va bene così”. Non suonavano neanche più l’allarme. Quel giorno lì due-tre giorni prima avevano cambiato l’orario del pranzo, invece di mezzogiorno e un quarto si mangiava alle 11,20. È suonato l’allarme al momento di andare a mangiare. In cinque minuti
234
G. PROCACCI (a cura di)
hanno spazzato via tutto. Tra noi prigionieri non vi furono perdite perché suonato l’allarme andammo tutti nel bosco di fianco alla fabbrica. Distrutta la fabbrica non abbiamo più lavorato. Cosa vi fecero fare allora i tedeschi? Niente, eravamo figli di nessuno. E mangiare? Arrangiarsi alla meglio. Ci si arrangiava con i civili: si andava a fare qualche lavoro da qualche contadino. Insomma abbiamo tirato avanti fino all’8 maggio che è finita la guerra. Dopo sono arrivati i russi. Ci hanno dato da mangiare loro e guai andare attorno ai tedeschi. “Voi state in baracca e ci pensiamo noi se qualcuno si è comportato male”. Ma noi non avevamo niente da vendicare. […] Quella è stata un’odissea, che non vorrei neanche raccontare. I russi ci avevano dato da mangiare la razione per due giorni, una pagnotta e burro. Mangiammo tutto in fretta e furia e la gente iniziava ad avere fame. Vennero poi sul treno due preti italiani e ci dissero: quei briganti vi hanno liberato. E noi gli facemmo notare: guardate che loro ci hanno dato da mangiare. Non tutti avevano fatto la vita che avevamo fatto noi, c’era gente che aveva solo le braghe. Ce n’erano di quelli che erano stati male per davvero. Ha raccontato in famiglia la sua esperienza di prigionia? L’ho raccontata tante volte. Era una barba. Io ad ogni modo sono stato uno di quelli fortunati, non mi sono mai trovato in difficoltà. […] Tornato a casa delle mie parti ho trovato tanti, tanti, tanti che erano stati prigionieri dei tedeschi ed erano stati male, male, male. Lavori di miniera, baraccamenti, trincee… brutti lavori. Ha subito attacchi o critiche per la sua vicenda di internato? Bisognava dare ai soggetti il peso che meritavano. “Voi avete fatto… Voi siete stati… etc”. E si rispondeva: “Ma là bisognava starci!”. Dicevano che non avevo fatto niente per la liberazione dell’Italia. Non ho fatto niente perché c’era poco da fare là, l’alternativa era lasciarci le penne. Non abbiamo mica lavorato volontari. C’è della gente che non se ne è mai resa conto di che cosa fosse la Germania, il campo di concentramento proprio. Noi ci siamo stati per otto-dieci giorni, in Lituania, poi siamo andati nel campo di lavoro, ma quelli che sono stati dentro i campi con i reticolati che non finivano mai… E dormire in costa, per così, perché sdraiati non ci si stava tutti e per stare caldi. Io non mi sono mai risentito di niente perché capivo che la gente molte volte parla e basta, e non merita neanche di essere ascoltata. Cercavano solo di fare discussioni che non valevano niente. LORENZO ROCCHI - 1920 - Sestola (Mo) - Soldato […] Io sono partito nel gennaio del ‘42; perché dovevo partire prima ma... […] Sono andato a Malles Venosta, al 13° sotto settore della guardia di frontiera. A Malles Venosta. […] Sono rimasto lì... io ero con la fanfara, suonavo nella banda. […] Si andava ad accompagnare le truppe, fino all’8 settembre. Poi l’8 settembre? […] I comandanti insomma, così… ci raccomandavano di stare fermi, stare in caserma perché addirittura han messo le sentinelle attorno alle
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
235
mura perché nessuno scappasse, ecco. […] Finché il mattino appena giorno ci hanno portati fuori insieme, dentro ad una pineta lì, ad aspettare che vengano a prenderci. Ma i comandi, i comandanti sono rimasti con voi? Anche loro, sì, sì. Naturalmente loro poi li hanno portati altrove. […] C’è una montagna, che vengon giù dal confine con l’Austria, si vedevano, non tanti perché erano in pochi veramente; eh, sono qui che arrivano, noi le armi le abbiamo messe per terra... Cioè, non vi siete preparati a resistere. No, non è successo niente lì. Qualcuno all’ultimo momento, quando han visto che han tentato la fuga e sono scappati e i più son rimasti lì perché non si sapeva mica neanche che fine si andava a fare; dicevano sarà questione di qualche giorno e poi dopo li mandavano a casa. Quindi il mattino dopo? Ci hanno incolonnati e ci hanno portato in Austria. Ci hanno fatto scavalcare lì il passo. A piedi? A piedi, in colonna, con le guardie. Nessuno poi scappava, ma ad ogni modo sai, i militari temevano che qualcuno scappasse e invece... E poi abbiamo camminato per tre giorni finché non abbiamo trovato un altro... un centro provvisorio di questi... che ci siam fermati lì. […] Dopo ci hanno caricati e abbiam viaggiato che siamo andati in Pomerania. […] Io poi son rimasto lì un dieci-dodici giorni, così che tutti i giorni facevano queste adunate per lo smistamento; da mangiare ce ne davano una volta al giorno, stabilito eh, una volta al giorno. […] Una scodella di roba lì, verdura cotta e un po’ di pane. E poi è arrivato il turno, ci han caricati di nuovo [nelle] ferrovie. Siamo andati a finire a Teschendorf, un paese che si chiama Teschendorf. Lì, era una grande campagna, c’era da lavorare per la campagna. […] Per le patate, levar le patate, piantarle, così; eravamo un gruppo di 40 italiani, ci avevano dei polacchi, dei russi; era proprio una cosa in grande, diciamo, con il capo Baumann lì e le guardie e quando si andava via al mattino ci accompagnavano in tal posto a lavorare, da una parte e dall’altra, poi ci riportavano dentro. […] Era un lavoro insomma, non c’era male, via, lì, dove eravamo noi; perché a mangiare non mancavano le patate lì, si mangiavano solo di quelle, ma, comunque... […] Venivan dentro loro, le guardie e chiedevano chi vuole passare con la Repubblica, dicevano che li addestravano un po’ e poi dopo li mandavano anche in Italia, ma a dir la verità lì non ha accettato nessuno perché poi si pensava che te la cantano così ma invece che in Italia ti possono mandare anche al fronte con loro, da una parte o dall’altra perché sei sotto di loro. Eh, insomma, c’è stato un momento che un po’ ci pensavamo o di tentare o di non tentare; da lì dove eravamo noi, il nostro gruppo è rimasto così. […] Venivano, c’erano pure quelli che facevano da interprete, naturalmente; degli italiani, che si parlavano in italiano, che facevano da interprete ai tedeschi. Comunque ce n’è stati di tentativi, molti; ma lì da noi non è successo che ne siano venuti via perché, non si sa come va a finire, tiriamo avanti e via.
236
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Vennero, perché c’è stata un’epoca che i russi, oramai, cominciavano ad avvicinarsi e allora i prigionieri che avevan lì a lavorare gli hanno cambiato posto e allora per sostituire il lavoro che facevano di questi, cercavano tre o quattro che andassero a fare, c’è un lago lì nel paese, un bel lago, il mestiere da pescare, pescatore. Mah, ci ho pensato un po’, poi ho detto bene o male io, non ho mai pescato perché io nell’acqua non sapevo neanche... dissi ci vengo anch’io. Ci andammo perché con la grazia... d’inverno… d’estate andremo a pescare, d’inverno forse ci fan riposare, perché cosa vanno a pescare? E invece purtroppo si pescava tutti i giorni; è venuto il ghiaccio, la neve, si andava via lo stesso fuori, il lago gelava, faceva il gelo, ed allora con delle slitte si caricavano le reti e via. Si lavorava ancora di più, il doppio; perché bisognava rompere il ghiaccio per buttare le reti, poi tirare con degli affari apposta da girare, era un continuo, un continuo. […] E quando poi, era per la libertà magari uno se la voleva prendere per la domenica che volesse andar via, quando siamo passati come civili, ma poi come ho detto prima, non si sapeva neanche dove andare, meglio riposare, ecco; perché lì bisognava sempre lavorare. […] Quindi la fame l’avete patita relativamente... Sì, sì, sì. Per dire la verità insomma, noi abbiamo anche, mangiato, ecco. L’abbiam passata peggio dopo, ecco. […] Chi stava bene si vedeva; ed erano gli americani, perché c’erano anche gli americani; loro avevano le sigarette, la cioccolata, si scambiavano. Noi magari, ci trattenevamo un po’ con la margarina per fare un cambio, avere una cioccolata, avere un pacchetto di sigarette. […] Perché loro erano sempre riforniti e loro facevano sempre anche la vita migliore perché pagavano anche le sentinelle con questa roba. Non ci mancava niente. Sa, anche i tedeschi, basta avere un pacchetto di sigarette, non so, una scatola di cioccolata, e loro facevano i padroni. Gli americani erano trattati molto bene. […] Noi ci siamo affiatati, insieme, si cercava di stare sempre uniti, amici, via, così, c’è poco da fare. […] Avevate notizie sull’andamento della guerra? Mica un granché, veramente, no. Si sapeva poi, quando incominciavan ad avvicinarsi i russi, il fronte russo. Noi eravamo proprio nella parte loro; infatti son venuti loro che dico la verità quello che ho passato da marzo ad andare a ottobre, sotto i russi… stavo meglio coi tedeschi. Due anni coi tedeschi meglio che sei mesi con i russi, perché loro erano troppo, pretendevano troppo dagli italiani; la guerra non era ancora finita, c’era il fronte che era appena passato; mi hanno prelevato, in un gruppo dietro le munizioni, andare a caricarle, a scaricare le tradotte poi caricare i camions di notte che andavano in linea e sempre forza, forza che la guerra finisce, che la guerra finisce e forza, forza ormai non ce n’era più di forza. […] Solo che io ho detto che sono stato male perché ci hanno fatto lavorare molto questi russi, molto; andare a scaricare delle tradotte di armi, munizioni, che ci arrivava tutto dall’America, roba americana, Uniti Stati America; e poi scaricato questi qua, ci davano, dividevano in sette otto un vagone; è già un bel po’, si sperava che si faceva presto per finire e dopo ci riposiamo. Invece andava a finire che i primi che finivano, c’erano ancora degli altri vagoni, li mandavano a scaricare. Avevan tanta gente
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
237
loro che potevano far lavorare tutti un po’, e invece approfittavano quei pochi e gli altri magari li lasciavano. Come eravate sistemati per dormire? Dentro delle case qualunque. […] Perché poi, dopo che era passato il fronte, non c’era più nessuno; paesi abbandonati, bruciati, vandalismi che c’erano... l’avran subìto anche loro quando ci andarono i tedeschi, questo non lo voglio dire... però la sua parte l’han fatta anche quelli là. […] Da dove eravamo, in Pomerania siamo andati a finire in Polonia, oltre Posen. Posen era la città della Polonia che l’hanno distrutta completamente. Siam passati noi, che ancora fumava tutto; e siamo arrivati in un’altra città più avanti 50 chilometri oltre Polte, che c’era poi il campo. […] Abbiamo lavorato fino a che è finita proprio la guerra e poi dopo ci han mandato in un paese, Hanganin [sic], si chiamava. Che lì c’eran poi già, di nuovo, tanti italiani, e francesi, jugoslavi; lì, abitavan lì, che poi un lavoro lì, non c’era proprio un lavoro; più che altro il lavoro lì, andavano a scegliere alcuni, i russi, per andare a prendere della roba per portare via, dentro dagli stabilimenti, macchinari; roba che poi loro cercavano di portarla indietro, verso di loro; svuotavano, ecco. […] Loro erano i padroni naturalmente; non ti davano da mangiare perché non ce n’era. Se vuoi mangiare, manda a raccogliere quello che trovi, ecco. Magari dopo questi qua, tante volte prendevano questi ragazzi che li trovavano a rubare del suo e li rinchiudevano, eh, ci facevan paura. […] Quindi siete partiti ad ottobre da là. In ottobre, ai primi di ottobre. Si fermava la tradotta, tutti scendevano giù per andare ad accendere, a raccogliere un po’ di legna, per scaldare dell’acqua da cuocere due patate, così. E poi tante volte non si faceva in tempo neanche a cuocere che si tornava a suonare, e bisognava salire per montare e via. Eran più le volte che si perdeva anche la roba che si metteva a far cuocere, e così. Il viaggio di ritorno è stato lungo? Quindici giorni ci abbiamo impiegato. Quindici giorni e siamo poi riusciti a passare il Brennero. […] Passato il ponte sopra al fiume, c’erano... i russi hanno consegnato la tradotta agli americani. Allora loro hanno già cambiato tutto. Ci han fatto fare tutti i bagni, disinfezione, tutto perché eravamo messi male, proprio malissimo. E poi fatte queste cose ci hanno poi rispedito. […] Ripartiti in treno fino a Pescantina. […] CARLO ROSEO - 1922 - Paliano (Fr) - Soldato Nel lontano 1942, il 3 giugno ’42, fui chiamato dal distretto militare di Modena per il servizio militare di leva con obbligo di presentarmi all’aeroporto militare di Borgo Panigale a Bologna, arma di destinazione aeronautica militare. […] Dopo circa 30 giorni di istruzione con uso delle armi ci radunarono tutti in un piazzale ed il comandante del campo ci comunicò che procedeva ad un sorteggio per destinare le 700 reclute nei luoghi di necessità: le località erano Russia-Africa-Balcani-Italia, io diciamo fortunato fui destinato a Roma per fare un corso di specializzazione di aereofonia e collegamento con aerei in volo. […] Ultimato il corso fummo spediti a Parabiago come campo e deposito base.
238
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Io fui fatto prigioniero su un treno che da Milano andava a Roma; il convoglio fu bloccato dai tedeschi con le armi fra Parma e Reggio Emilia e fecero scendere con la forza le persone che ritenevano ex militari; io ero in abiti civili, però l’età mi tradì. […] Iniziò un viaggio di 72 ore senza mai farci scendere dal treno; arrivammo in Olanda, dalla stazioncina Meppen ci fecero fare sei-sette km a piedi per arrivare in un campo di concentramento completamente recintato e isolato: a vista d’occhio non si vedeva una casa, una pianta, nulla. Ed era freddo nel campo di concentramento in ogni angolo vi erano fari e mitragliatrici sistemate sopra delle torrette con militari in servizio giorno e notte; l’intero recinto in filo spinato era alto circa 3 metri; nel recinto vi erano molte baracche di legno piene di pidocchi ed altri insetti, ognuno di noi si sistemò come meglio poteva, io per 30-40 giorni ho dormito per terra sopra una piccola tendina. All’imbrunire i tedeschi sguinzagliavano decine di cani lupo che mordevano chiunque uscisse dalle baracche. Preciso che ufficiali, sottufficiali e truppa eravamo tutti assieme, poi, un giorno, prelevarono tutti gli ufficiali e non ne abbiamo saputo più nulla. Il pasto nelle 24 ore consisteva in una zuppa di rape da foraggio, un cubetto di margarina e 130 grammi di pane tedesco. Non è mai stato distribuito un recipiente per contenere la zuppa di rape calda, scene indescrivibili; io avevo trovato un barattolo da conserva, i tedeschi di fronte a noi in fila ogni tanto raccoglievano con il mestolo la sabbia per terra e la mettevano dentro al pentolone per umiliarci. Io sono arrivato in Olanda con pantaloni, scarpe e una maglietta bianca a maniche corte ed altre poche cose e a metà settembre era freddo. Nessuna distribuzione di indumenti. I tedeschi giorno per giorno sceglievano gruppi di persone per andare a scavare lignite o torba da riscaldamento per loro e le cucine, oppure per le pulizie del campo di concentramento. […] Eravamo affamati, denutriti, avviliti e cominciavano i primi decessi per malattie e fame: un giorno venne un’altra delegazione di tedeschi con interprete per chiederci con esattezza cosa facevamo in Italia prima di essere chiamati per il servizio militare giustificando questa loro richiesta e precisando: avete rifiutato il rimpatrio, avete scelto i campi di lavoro per non collaborare con noi, ora diteci le vostre professioni e vi manderemo a fare il vostro mestiere. […] Dopo 40 giorni di campo di concentramento a Meppen venni trasferito con altre 60 persone a Krefeld nel pieno centro della Rhur, ci hanno portati in una fonderia con anche lavorazioni meccaniche su macchine utensili (producevano bombe da mortai); ci alloggiarono in una baracca di legno dentro il recinto dell’azienda sorvegliati da militari tedeschi invalidi ma armati. Ci facevano lavorare due turni, uno di giorno ed uno di notte, l’orario era dalle 6 alle 18, oppure dalle 18 alle 6, il pasto nelle 24 ore era sempre quello: 1a zuppa di rape con qualche patata, 1 cubetto di margarina, 130 grammi di pane, più qualche elemosina da parte di operaie e impiegate della fabbrica ma sempre di nascosto: ma oltre il lavoro, la fame, gli insetti vi era un altro grosso pericolo: i bombardamenti, giorno e notte era un continuo, città industriali vicine come Colonia-EssenDüsseldorf-Wuppertal-Solingen-Bochum-Dortmund, e tante altre, la Rhur intera era bombardata e mitragliata in continuazione, pensate essere dentro una baracca di legno o in fabbrica era un inferno: 10-12 bombardamenti per notte; fra bombe e contraerea non si dormiva più, ci augura-
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
239
vamo tutti che in qualche modo finisse, o una bomba o qualcos’altro; la fine della guerra era ancora lontana. Sono rimasto in quella maledetta fonderia per 6 mesi; ci furono vari decessi di ex militari italiani. I tedeschi continuavano a non darci nulla, pochissimo cibo, nessun tipo di indumento, nessun controllo medico, servizi igienici nulli; per le nostre prestazioni di lavoro i tedeschi ci pagavano in uno strano modo: il marco costava allora 7 lire e 50, esempio ci davano sulla carta 300 marchi al mese solo formalmente perché a noi materialmente ci pagavano con 100 marchi al mese non utilizzabili perché erano marchi per prigionieri di guerra; gli altri 200 marchi ci rilasciavano ricevuta ed era loro impegno spedirli a casa del prigioniero in Italia. A casa non è mai arrivato nulla: era solo una illusione ed un’altra presa in giro. […] Eravamo al maggio-giugno del 1944: si presenta negli uffici della fonderia di Krefeld un militare tedesco armato: mi venne a chiamare una impiegata piangente invitandomi ad andare in ufficio, in sostanza mi fecero capire che dovevo subito raccogliere le poche cose che avevo e seguire il militare. […] Inizio a parlare con le poche persone presenti: erano italiani prelevati da altre fabbriche esattamente come era capitato a me. […] Persone militari italiani che in campo di concentramento a Meppen dichiararono la loro professione prima di essere arruolati. In sostanza degli specialisti orologiai, orefici, calibrasti. Eravamo in una città di nome Heiligenhaus vicino Düsseldorf […] Noi lì italiani fummo destinati in un reparto di attrezzeria e utensileria per uso interno; il percorso che dovevamo fare, per entrare e uscire era sempre quello; gli orari di lavoro dalle 6 alle 18 e dalle 18 alle 6 del mattino; la razione di viveri giornaliera era più o meno sempre quella, ci si poteva arrangiare un po’ di più. Il militare di scorta ci portava e ci prelevava dal lavoro portandoci a piedi nel luogo ove dormivamo distante dalla fabbrica sei-sette km. […] In sostanza la fabbrica ove noi lavoravamo era in procinto di trasferirsi sotto terra a circa 100 metri di profondità, in parte già veniva utilizzato come rifugio antiaereo, vi era una lunghissima galleria che sfociava a fior di terra, lateralmente tanti capannoni che avrebbero dovuto ospitare la fabbrica esistente in superficie. In questa fabbrica che fuori vi era scritto schlüsselfabrik cioè produzione di chiavi; in effetti la fabbrica era stata riconvertita e con precisione la fabbrica produceva strumentazioni per telecomandare a distanza le bombe volanti V1 e V2. […] Un fatto importante avvenne nel febbraio 1945: un aereo da bombardamento inglese, che tutti chiamavano Pippo, bombardò centrandola in pieno la fabbrica ove noi lavoravamo, forse un grappolo di bombe distrusse tutti i capannoni ed il corpo centrale della fabbrica 6 piani. Quella notte che venne bombardata la fabbrica io ero di turno di giorno. […] Noi prigionieri di guerra o “IMI”, unitamente a prigionieri o internati di molte altre nazionalità, uomini e donne, fummo messi tutti assieme in un grande campo di concentramento nei paraggi, in attesa degli eventi. Nel lager gestito dalle SS vi era un comandante vestito in nero, lagerfürer. Nel lager completamente recintato vi erano una trentina baracche di legno con letti a castello; i tedeschi in previsione della imminente fine convogliavano tutti i prigionieri della zona in questo lager che era stra-
240
G. PROCACCI (a cura di)
pieno, ma senza nessun contrassegno della Croce rossa; pertanto era preso di mira dai soliti aerei che mitragliavano in continuazione. […] Finalmente il 21 aprile 1945 al mattino una colonna di autoblindo americane abbatterono i cancelli del lager, disarmarono e fecero prigionieri tutti i militari tedeschi delle SS, arrivarono rinforzi di truppe alleate e cominciarono le divisioni per gruppi di nazionalità e a noi italiani con dei camion ci portarono ad Heiligenhaus, in una scuola. Da quel momento dichiararono che vi erano 48 ore di carta bianca: iniziò il finimondo, i russi si armarono iniziarono saccheggi, furti, rapine, sequestri di persone, donne seviziate e uccise; era la conseguenza della guerra, per le strade si ripeteva quello che avete fatto a noi ora lo facciamo a voi, intanto continuava la caccia ai tedeschi che erano spariti, forse chiusi nelle cantine. Si sparava per vendetta con estrema facilità; fortunatamente dopo due giorni rientrò più o meno tutto nella normalità di un dopo guerra con tutto da fare e rifare. In breve tempo le truppe alleate rimpatriarono i prigionieri di guerra loro alleati. Per noi italiani, che non si sapeva bene cosa fossimo, la permanenza in Germania durò ancora quattro mesi circa. Per tre mesi collaborammo con gli americani nel recupero di montagne di munizioni di ogni tipo che giorno per giorno facevamo esplodere in aperta campagna e che rappresentavano un serio pericolo per le popolazioni residenti e per tutti gli altri. Iniziai con altri il viaggio di ritorno in Italia l’8 agosto 1945. […] In breve tempo trovai occupazione presso la ditta […], produzione di vari tipi di macchine per salumifici industriali. […] ERMES ROSSI - 1923 - Modena - Soldato […] Io, in Albania come sono sbarcato siamo stati presi in forza al 4° reggimento bersaglieri, al 48° battaglione motociclisti, posta militare 52 questo è dal 1° aprile in avanti. Abbiamo continuamente fatto dei rastrellamenti, tutti i giorni vi erano dei morti. […] Lei che grado aveva? Niente. […] Là il nostro compito era: c’è un paese, c’è una pianura, in mano ai patrioti chiamamoli partigiani, patrioti, il sindaco telefonava al viceré d’Albania Dalmasso, Dalmasso telefonava ai nostri colonnelli: “Vai a liberare quel paese, via vai subito”. 500 uomini, 500 motociclette, ripeto armati, e si andava a liberare quel paese. Però lungo la strada, perché tenga presente che l’albanese è molto traditore, non stupido, traditore, abbiamo capito che quando accendevano dei fuochi e c’era il fumo avvisavano quelli in quelle montagne là, perché l’Albania è molto molto montagnosa. C’è... quel pezzo di terra che all’epoca c’era solo la malaria, non c’era neanche la ferrovia quando c’eravamo noi, poi han detto che ne hanno fatto cento km però non lo so. E lì si arrivava e alle volte scappavano e alle volte facevano resistenza. Trenta uomini, tenevano testa a 500 di noi perché uno era in un buco qui uno in un buco là tu senti sparare la mitragliatrice, ma non sai quanti ci sono e come fai a rispondere al fuoco? Noi baionetta innestata avanti avanti, ma non li trovavi, perché loro si nascondevano. Questa è stata la vita, la battaglia, che abbiamo fatto in Albania e poi c’era un reggimento di fanteria cha era senza mangiare,
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
241
partivano cinque o sei camion con 500 bersaglieri a farci la scorta e noi facevamo antiguardia e retroguardia a questa piccola colonna. E poi c’era là la cavalleria senza munizioni, partono tre camion di munizioni: 200 uomini davanti e trecento di dietro. Quello era sempre la morte in agguato, quanti ne sono morti, quanti ne sono morti. […] Badoglio ha chiesto l’armistizio, in un primo tempo eravamo contenti, però noi sapevamo la fine. […] Uno dopo il terzo giorno ha avuto risposta: “Sono il colonnello G. comandante dei bersaglieri, da Tirana, con chi parlo?”. Questo ci ha detto, ha detto: “Ma, qui, non c’è mica nessuno”; “Ah, non è il ministero della Difesa?”, “Si, ma sono andati, via tutti; il re non c’è più!”. Poveretto, un uomo di 45-50 anni, per me vecchio. E dice: “E noi come ci comportiamo?”. E dice: “Ma io sono l’usciere”. Erano le cinque del pomeriggio: “Son venuto a chiudere le finestre di Montecitorio, perché il sole non entri, poi vado a casa. Non c’è più nessuno”. A quel punto riunisce il battaglione, va sopra una cassetta a inizia con queste parole: “Bersaglieri. A chiamarvi figli sarei troppo vecchio, a chiamarvi fratelli sarei troppo giovane; vi dico bersaglieri”. Un padre di famiglia un vero bersagliere. “Io non vi dico più che sono il vostro comandante, fate quello che volete!”. […] Era circa il 10-11 di settembre, io personalmente sono scappato, sono andato dai partigiani, sono stato una decina di giorni e poi sono dovuto rientrare perché il mio corpo non resisteva a fare la vita coi partigiani, i ribelli. Dormire sopra le piante, dormire sopra delle frasche, bere l’acqua che si trovava in campagna: si buttava l’elmetto col fazzoletto da naso si spingeva basso per tenere lontano gli insetti, c’erano rospi, lucertole, si prendeva un po’ d’acqua, siccome che l’elmo ha i fori si prendeva con... per poter bere, non era, era solo calda, non bolliva e non era fredda. Vino non c’era, e allora son tornato con i miei colleghi. […] Non ci ho mica detto, guai! Sono tornato lì e ho seguito il cosiddetto destino. Siamo partiti a piedi per venire a cercare un treno. […] Dopo appoggiato le armi, abbiamo capito che eravamo prigionieri perché han cominciato qualche calcio nel didietro qualche schiaffone, ad alzare la voce e noi lì abbiamo capito. Abbiamo fatto 40-50 km siamo andati in una stazione, penso che forse era Skopje, che c’era il treno, non c’era mai il treno non c’era mai la ferrovia. Di lì ci hanno caricato sopra ai vagoni da ghiaia quelli con le sponde fatte così. Quelli aperti? Sì, sì. 70 ogni vagone, erano aperti, e via e via abbiamo girato tre notti e due giorni siamo arrivati a Vienna. A Vienna ci hanno portato in un campo di smistamento, ci hanno disinfettato, là c’erano le persone, tutte le qualità di persone del mondo: donne, bambini, ebrei, lì c’erano tutti. Nel campo di smistamento? In questo campo di smistamento, non di concentramento, di smistamento, ci smistavano. Andavamo sotto una camera che era per i bagni, quest’acqua dentro ci aveva dei disinfettanti per toglierci tutti gli insetti che avevamo. […] Ne avevamo di tutte le qualità degli insetti: dalle piattole alle cimici, dalle pulci ai pidocchi, le zecche che ci attaccavano qui. Ne avevamo. Siam stati lì e poi ci han mandato a Linz. Al Scheilinken di Linz, nella fabbrica del Eisenberger-Oberdonau, era una fabbrica fatta, dopo il ‘40, dai deportati francesi, quando la Germania invase la Francia. Ai deportati
242
G. PROCACCI (a cura di)
dalla Francia ci han fatto fare questa fabbrica, quasi attaccata al Danubio, a 500 metri dal Danubio. […] In quella fabbrica ci lavoravamo in 100.000. Era grande. Almeno 10 volte la Fiat; 20 volte la Fiat [il riferimento è allo stabilimento della Fiat trattori di Modena] . Vi entrava i vagoni con la terra, con la percentuale ferrosa e uscivano i carri armati, e ho detto poco... 12 ore in fabbrica, 11 ore di lavoro, 100 grammi al giorno di una specie di pane, con 3/4: lo chiamavano brodo, era acqua che c’erano stati cotti i radicchi, l’insalata, che avevano asciugato d’estate, ed era messa, diciamo, nel fienile... e poi la bollivano e ce la davano, non c’era neanche il sale e lì abbiamo beccato 100 grammi di pane, ma non era proprio pane, ti ricordi? [rivolto alla moglie] Era pane nero, di segatura. C’era il frumento macinato tutto mescolato con segala e orzo, impastavano, ma appena sfornato ci andavano dentro le dita, dopo un giorno o due per romperlo ci voleva il martello. Fa niente, erano 11 ore di lavoro, 12 di fabbrica. […] Poi è finito mi hanno portato a Bels [sic] 60 km. Perché dalla Renania arrivavano dei treni di zucchero, zucchero bagnato non impacchettato, alla rinfusa, uscito dalla fabbrica, era bagnato mi hanno messo lì dentro. E c’erano dei mucchi alti così che erano da muovere, di questo zucchero, con le pale. Di nascosto, ci siamo un po’ arrangiati, e abbiamo incominciato a portarne fuori, avevamo fatto delle panciere, come le cartucciere dei cacciatori, si portava fuori quattro-cinque kg alla volta. I primi tempi i civili lo prendevano, noi facevamo cambio col pane. […] I primi di aprile del ‘45. Lì fanno un gran bombardamento in città, ci portano a scavare le macerie, sulla strada statale, la statale che fa LinzVienna, alcuni giorni prima c’è stata la ritirata dei tedeschi dalla avanzata russa che ha conquistato Linz, noi abbiamo visto la ritirata. Roba indescrivibile: un carro, cioè, un camion trainava 3-4 carri: gente con solo una gamba, un solo braccio, fasciati con della carta e nessuno diceva niente, caricati sopra ai carri, i carri da contadini, i carri che hanno requisito dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia che han portato, perché han rubato tutto. […] Lei non ha accennato se a voi fu chiesto di combattere a fianco dei tedeschi. Sì è vero, l’ho lasciato indietro, quello è successo quando siamo arrivati che ci hanno disarmato, abbiamo trovato in questa macchia dei sentieri con una tabella che c’era scritto in questa tabella: con Badoglio, contro Badoglio, per il duce. Ci guardavamo in faccia noi, “No, no, io per il duce non ci vado, io vado per Badoglio”. Perché se firmavi contro Badoglio, ti davano la divisa da SS, e andavi a combattere. […] E sono arrivati gli americani, a liberarci. […] Io, noi abbiamo cominciato anche a rubare per mangiare, non c’era ordine, senza vigili, senza il comando, è brutto. Non c’era ordine per niente, nessuno ci comandava più. Ognuno faceva quello che gli pareva. Questo per vari giorni? Per 40 giorni. Non c’era ordine, niente. La ragione ce l’aveva il più forte. […] Io fra un po’ compio 76 anni, sono vecchio, sono handicappato, se mi dicessero: “Vuoi tornare a 20 anni, a passare quello che hai passsato?”. L’Albania sì, l’assalto sì, perché eravamo forti, ma la Germania preferisco morire che ritornare a fare la prigionia in Germania, e poi adesso dopo tutte le sofferenze mi chiamano internato, sarebbe meglio che si vergognassero quelli che ci chiamano internati.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
243
[…] Solo vi dico ho visto delle cose talmente brutte, tremende che sono irripetibili, mi vergogna di pensare a quelle cose, ai morti, come son morti che si potevano salvare, alle torture che abbiamo subito. Questo lo dico davanti a Cristo che i miei occhi l’han passato. Non si può chiamare sotto le armi dei ragazzi di 19 anni come ho fatto io, mi han messo bersagliere, sono contento. Non sapevo neanche andare a Bologna, non sono mai stato a Mirandola, sono nato a Modena. Dopo... armato, addestrato, mandato incontro al nemico, fatto tutto quello che c’era da fare, quello che i miei ufficiali, di cui sono contento di essere stato comandato da questi ufficiali. Là mi hanno abbandonato, e il re è scappato, è arrivato delle forze inferiori alla nostra, ma organizzate e abbiamo dovuto cedere le armi, perché mancavano degli ordini dall’alto, e il re era scappato con documenti e oro che quelli penso che li usi ancora adesso, che l’han tolto dalle nostre braccia, e abbiamo solo sofferto noi. Per servire il re, ci han chiamato, ci siamo andati, l’abbiamo servito, e per compenso è scappato. Si vergogni casa Savoia! […] Mi è stato spedito dei pacchi, ma non ne ho mai avuti, non ho mai avuto un sostegno dalla Croce rossa, chiamiamola internazionale, chiamiamola... di chi sia sia, non abbiamo mai avuto niente, né un pezzo di pane né un fazzoletto. Quello che avevamo è perché abbiamo mangiato nel rifiuto ranci, questo è quello che è la verità che ho passato io in campo di concentramento in Germania. […] E poi ha detto anche che dopo un bombardamento avete trovato dei cadaveri dei deportati: con loro avevate un qualche contatto? Erano in un lager per conto loro, li vedevamo ma non ci parlavamo mai. Loro, nel mio caso, erano al lager 54, era distante 500 metri da noi, c’era la ferrovia che divideva tra noi e loro, noi li vedevamo, come camminavano, come andavano, ma non si poteva parlarci. Come è avvenuta la trasformazione in lavoratori civili? Noi, quasi tutte le settimane, venivano dei fascisti con dei tedeschi, ci riunivano e ci parlavano dell’Italia “che si sta così bene”, “perché stiamo qui”, “perché non andiamo a combattere”, “perché non pensiamo alle nostre famiglie”, “le nostre famiglie sono calpestate dagli americani”, “noi dobbiamo difendere “, dai discorsi loro avrebbero voluto che fossimo venuti qui a combattere Ve lo hanno chiesto non solo al momento della cattura, ma anche altre volte? Tante volte ce lo hanno chiesto se volevamo venire a combattere, però, solo qualche volta ci dicevano a combattere in Italia, perché noi pensavamo ci mandassero, c’era tutto un fronte in Germania, contro la Russia ad esempio, a presidiare la Polonia che all’epoca era in mano ai tedeschi, ma noi non ne volevamo sapere né del duce né di Hitler, no, noi volevamo solo la pace, aspettare che finisse la guerra. Com’era il rapporto tra gli italiani? Si buono, abbastanza buono, anche tra settentrionali e meridionali. Avevate notizie sull’andamento della guerra? Sì, a noi ci davano un giornalino che si chiamava “La voce della patria”, però sapevamo quello che scrivevano loro, non se era verità o non verità. Quando i tedeschi si ritiravano, non dicevano ci siamo ritirati, dicevano: l’esercito tedesco, per rinforzarsi, ha preso nuove posizioni. Loro ci facevano capire che in Italia le nostre madri, le nostre sorelle, le nostre mogli, erano perseguitate dai neri, che erano, come si dice, canadesi, austra-
244
G. PROCACCI (a cura di)
liani, neri che facevano parte dell’esercito americano. Non hanno mai parlato del partigianato che era qui, se c’era. Perché dopo che sono venuto a casa ho sentito dire che c’erano i partigiani. […] Com’era il rapporto con i civili tedeschi, come vi trattavano? Male, ecco spieghiamoci, male, loro personalmente, mentalmente non ci odiavano, era la loro disciplina che gli imponeva di odiarci. Perché io ci ho dei manifesti che sono stati appesi prima che arriviamo, che c’era scritto: arriveranno dei prigionieri italiani nessuno abbia contatti con quella persona, e le donne che avranno contatti con quelle persone saranno immediatamente passate per le armi perché quelli vengono considerati dei traditori, prigionieri di guerra. […] Quando andavamo a lavorare, io ero accompagnato da un uomo anziano, un austriaco, faceva finta di non vedere, le donne stavano attente, le massaie, sua madre, sapevano circa l’ora e andavano sulla siepe, col grembiule e c’avevano delle mezze fette di pane, quelle intere le tagliavano, per far vedere, e le buttavano vicino alla siepe, noi vedevamo e le andavamo a prendere. […] Come facevano gli appelli? Tutte le sere. Noi rientravamo alle sei e mezzo, alle sette, diciamo ci davano da mangiare. Diciamolo ci davano da mangiare, alle sei e un quarto il brodo, chiamiamolo brodo, ripeto era brodo di verdura non di carne, proprio non c’era. Il pane l’avevamo già mangiato, alla mattina ci davano un pezzettino di margherina, come ce lo davano l’avevo messo in bocca e non c’era più, e poi alle nove c’era l’appello. Fuori, l’appello era fuori, non c’era un reffettorio. […] In galera. Mi ha messo dentro una baracca senza riscaldamento. [...] Non c’era niente nella baracca, era vuota. Sono stato lì tutta la notte, mi sono messo in un angolo. Loro mi ci hanno mandato com’ero, non mi hanno detto va a prendere il cappotto o il berretto. Ero là con le ciabatte ai piedi, perché il freddo lo senti fino a un certo punto dopo non lo senti più, [...] perdi i pezzi, e non te ne accorgi. Hanno cambiato la guardia e quell’altro mi ha lasciato andare [...] . Al principio le gambe piegate non si addrizzavano più perché si erano congelate, piano piano sono venuto fuori, [...] questo è per darti, i piedi erano come degli elefanti. Dopo un po’ quando sono arrivato in baracca mi sembrava di essere un signore perché c’era caldo. Quindi le guardie erano violente e prepotenti nei confronti dei prigionieri? Se era un momento che erano viste da altri erano cattive, se era un momento che non erano viste non ti carezzavano, no, ma si giravano dall’altra parte. […] A Mauthausen, lo ripeto io ci sono stato, hanno cercato di non farmi vedere niente, ma noi tramite qualche civile sapevamo. Loro lo chiamavano la casa di disciplina. I borghesi la chiamavano casa di disciplina, e il mio capo [...] mi ha detto tante volte se vai lì non esci più, fai a modo mi diceva. Una volta il mio capo mi ha portato ad aggiustare i ricoveri, perché si verificò nel ‘43 durante un’avanzata russa, che presero circa 100.000 prigionieri russi. Di questi i più, per loro, i più traditori, i più cattivi li hanno portati a Mauthausen. Lo hanno riempito, ci hanno messo tre-quattro volte di più della capacità di tenuta di questo lager. Loro se ne sono accorti di che cosa si tratta, sono scappati in massa. Come fanno a scappare che c’è il filo spinato? Loro si sono spogliati nudi, perché ci hanno del coraggio, hanno isolato la 380 coi vestiti e poi sono passati
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
245
sopra ai vestiti. Ne è scappato un migliaio, e poi la vedetta ha dato l’allarme. Tutte le armi addosso a loro, su un migliaio, 1.200 che sono scappati 500 li hanno presi dopo quattro-cinque ore, altri 3-400 li hanno presi nel giro di un mese o due, ma 200 non li hanno più presi sono scappati. Si vede che erano in collaborazione con qualcuno, sono stati aiutati. Perché anche in Germania c’era quello che ti diceva ti sparo e poi ti dava da mangiare. Bisognava capire quella gente lì, quando erano guardati da questa persona ti diceva ti sparo, come girava gli occhi ti dava un po’ di pane, una sigaretta. Il mio capo me ne ha date tante di sigarette, perché io fumavo. Noi sapevamo grazie a dei civili che parlavano con noi solo in certe circostanze. Ad esempio il mio capo mi ha dato mezza sigaretta, ce ne aveva poche anche lui. Io ero suo figlio, quando c’era quello là che lo guardava mi urlava contro. Un’altro che ho visto io, un pezzo di un uomo di 40-50 anni, ha chiesto ad un altro, perché io scappavo quando potevo da quello lì: “Tu sei col duce o Badoglio?”, “Io, io Badoglio”. Gli ha dato tante botte, finche non l’ha steso. Incontravi un altro dopo un minuto a dieci metri: “Tu Badoglio o Mussolini?”, “Io Mussolini”, e giù botte perché quello era per Badoglio. Non sai come comportarti. A me mi fu chiesto solo una volta questo, io ho tirato su le spalle e poi sono scappato. Perché ti danno delle botte e poi non puoi reclamare, perché tutti ti danno contro. […] WALTER ROSSI - 1912 - Vignola (Mo) - Soldato Lei l’8 settembre era a Lubiana? Sì ero a Lubiana, allora ero in libera uscita, torno dentro, sentivo tutto non so… tutti che parlavano, una confusione: “Armistizio, armistizio!”, e io: “Beh armistizio siamo in mezzo ai tedeschi. Che armistizio è?”; allora sono andato in fureria, abbiamo sentito la radio: c’era stato un colpo di stato di Badoglio dovevamo usare le armi contro chicchessia fuori che con gli alleati nuovi. Era andata così, e poi ci hanno chiesto subito a noi: sarti, calzolai, autisti, perché al quartier generale c’erano i rappresentanti di tutte le armi: c’era Milizia, c’erano i Carabinieri, c’era Sanità, c’erano tutte le armi. Sono arrivate delle truppe alpine tedesche, i nostri ufficiali i più grossi sono scappati in aereo di notte. La notte dell’8? Sì, ci sono rimasti solo i piccoli gradi, hanno rinforzato tutti i posti di guardia, dietro la caserma: “Siamo in attesa di notizie, siamo in attesa di notizie”, l’attesa di notizie era quella di farci fare prigionieri. Ci hanno fatto depositare le armi e poi la Milizia e i Carabinieri hanno collaborato subito con i tedeschi e noi… qualche autista ma pochi perché abbiamo detto: “ Se collaboriamo militarmente qua la guerra non finisce più”. […] Gli ufficiali, io la scelta degli ufficiali non l’ho mai saputa. C’erano rimasti solo i piccoli e li hanno fatti prigionieri anche loro, ma poi dopo li hanno divisi da noi, era l’8 settembre del 1943, di lì dopo non so se erano 2 giorni ci hanno portato in una stazione vicino a Lubiana ci hanno fatto salire che c’era una fila di vagoni; le guardie che ci scortavano ci guardavano, ma poi abbiamo anche fatto una fuga perché in stazione c’era un po’ di tutto: c’era della paglia, c’erano delle balle di paglia perché c’erano anche dei vagoni dove c’erano dei cavalli. E allora abbiamo cercato di farci un
246
G. PROCACCI (a cura di)
giaciglio e poi ci hanno chiusi dentro e siamo stati in viaggio per cinque giorni, sempre chiusi, c’era solo un piccolo finestrino in alto. Si può immaginare: dentro c’era chi piangeva per un pezzo, chi cantava per darsi coraggio, per un pezzo… perché poi ti venivano anche i bisogni corporali, si faceva così alla meglio. Era diventato quasi un porcile quel vagone; e poi nel viaggio di cinque giorni sentivamo i bombardamenti degli alleati che cercavano di bombardare le ferrovie, e il treno delle volte accelerava, fuggiva che sembrava pazzo, non si fermava. Dopo cinque giorni campo di smistamento a Luckenwalde circa 70 km prima di Berlino. […] Se continuavamo a stare lì si moriva tutti perché era trascurato il mangiare. La disciplina era quella che era; i prigionieri arrivavano e partivano in continuazione, e anche i tedeschi a tenere a bada tanta gente sa com’è! E allora adoperavano anche dei mezzi brutali per tenere l’ordine: o calci nel culo, o colpi con le baionette. Finalmente dopo un po’ ci hanno avviato ai campi di lavoro. E quanti giorni siete rimasti a Luckenwalde? Adesso i giorni precisi non me li ricordo, però penso che fossero una ventina di giorni quasi un mese, e poi ci hanno avviati ai campi di lavoro, quando siamo andati là a Luckenwalde tutti i giorni ci guidavano fuori in una piazza, c’erano i borghesi che dicevano: “A me me ne vuole cinque! A me me ne vuole dieci…”; ci trattavano come se fossimo al mercato del bestiame, ci reclutavano per dei lavori che erano sempre diversi, tutti i giorni ci cambiavano, allora io ero andato in una cava di sabbia perché il terreno là dov’ero io era molto sabbioso, in quella cava ci hanno dato delle pale che saranno state così… e poi noi caricavamo la sabbia e c’erano degli altri che la portavano su e poi la scaricavano; ‘sto tedesco ci osservava come lavoravamo, ’sta sentinella e allora un bel giorno mi guardava me e poi fa perché poi ci intendevamo solo a gesti perché allora la lingua, e allora comincia a… che poi mi voleva dire: “Fai vedere le mani…”, insomma a forza di gesti mi ha fatto capire che voleva sapere che mestiere facevo e io gli facevo il sarto così, tagliatore, e allora lui ha cominciato a urlare che aveva capito, tira fuori un taccuino e prende il mio nome e il mio cognome. Porca miseria! Comincio a pensare: “Mi mandano in una compagnia di disciplina, chissà dove mi sbattono!”. Io credevo così e invece mi avevano messo a fare il sarto. Ma erano tutte cose saltuarie, giornate saltuarie, e poi un bel giorno siamo partiti per il campo di lavoro siamo andati… abbiamo attraversato Berlino con la sotterranea perché la sotterranea di Berlino era più di 60 km sotto. C’era un lavoro, treni che arrivavano, treni che partivano, gente che parlava in tutte le lingue: francesi… perché là ce n’erano di tutte le… finalmente dopo è uscito dalla sotterranea e siamo arrivati di notte, e lì abbiamo trovato delle guardie tanto docili, tanto buone, delle guardie tedesche tanto buone, a noi ci sembrava di sognare. Ci hanno chiesto subito se avevamo fame, ci avevano dato anche delle fettine di salame, per la madonna, poi per dormire, c’era l’interprete, che ci ha tradotto che per dormire provvisoriamente ci mettevano nel letto di quelli che lavoravano di notte, fatalità ha voluto che io ho occupato il letto di uno che lavorava di notte e che quando mi ha svegliato la mattina era uno di Vignola e allora lo conoscevo di nome proprio. […] Allora ci siamo abbracciati e ci siamo anche immagonati perché erano momenti così. E poi lui è stato destinato diversamente, e noi eravamo
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
247
io e uno di Parma e uno di Urbino ci hanno messi a fare i sarti; era un campo c’erano le baracche tutte bianche sa che cos’era? Del ’36 lì c’era un villaggio, le olimpiadi di Berlino, era un villaggio olimpionico, un ex villaggio olimpionico. Lo abbiamo poi saputo dopo perché abbiamo visto tutte le baracche tutte verniciate di bianco, con tutti gli impianti così, e poi l’accoglienza che ci hanno fatto ci sembrava di essere in un altro mondo e lì abbiamo passato un certo periodo. […] In questo campo siamo andati abbastanza bene perché c’era un capo campo tedesco, la guardia che mi aveva preso a voler bene a me perché io tutte le parole che sentivo dire in tedesco ci avevo un librino e ce le scrivevo sopra, mica come andavano scritte ma come andavano pronunciate e allora ero un po’ più esperto in tedesco degli altri miei compagni. Lui mi aveva preso in simpatia era un contrabbandiere, mi faceva andare fuori dai borghesi, per vestire dei borghesi e lui chissà che cosa ci guadagnava e che giri aveva. E poi quando sapeva che arrivava l’ispezione mi veniva a dire: “Stai attento!” e mi faceva nascondere tutte le cose. Quando siamo passati civili che abbiamo cambiato baracca lui si è messo a piangere non voleva che ce ne andassimo e quasi quasi sembrava che mi dispiacesse anche a me, però ci hanno passato d’autorità. È stata la nostra fortuna perché dopo ci arrangiavamo meglio: dopo è migliorato tutto e poi ci pagavano anche, perché prima nel campo c’erano i marchi che circolavano ma erano quelli del campo che sembravano dei biglietti del tram che li potevamo spendere in una specie di spaccio dove però non c’era quasi mai niente, invece dopo ci hanno pagato con i marchi veri e così ci siamo arrangiati anche fuori e dopo poi siamo andati anche al cinema, abbiamo potuto fare tante cose così. […] I tedeschi, le guardie quando erano le 10 loro andavano a mangiare le tartine con un uovo o della marmellata e a mezzogiorno mangiavano le patate al posto del pane e poi rimangiavano alle 4 del pomeriggio e gli altri a guardare con la fame che avevano guardare mangiare gli altri e lavorare sempre così; e allora ce n’erano di tutte le nazionalità e allora cercavo di fare un po’ di sabotaggio, perché appena che siamo arrivati c’erano degli olandesi che dicevano: “Italiano piano piano” e dopo un po’ abbiamo cominciato a capire che dovevamo lavorare piano... era sabotaggio. […] Abbiamo subito dei bombardamenti: le fortezze volanti 12 ore di continuo eravamo nei rifugi, che poi erano dei paraschegge più che altro; gettavano delle bombe di 10 quintali che le chiamavano mine a aria, anche dentro ai rifugi facevano uno spostamento d’aria che toccavamo uno contro l’altro, sembrava che ti si spaccasse lo stomaco, noi poi avevamo paura che ci facessero fare la resistenza contro i russi perché i russi venivano avanti perché poi gli inglesi e gli americani venivano avanti con gli aerei invece i russi combattevano proprio. […] Quando sono arrivati i russi ci hanno aperto i magazzini dei viveri e hanno fatto male perché abbiamo dato l’assalto ai viveri... uno trovava della marmellata la ingoiava, un altro beveva l’olio, c’erano quelli che poi rigettavano, lo stomaco era così chiuso che non tenevi dentro più niente. Dopo la situazione è migliorata ma all’inizio... e allora dopo hanno cominciato a sparare per aria i russi per fermare questa cosa qua e dopo, piano piano, ma i primi giorni, sarà stato quasi un mese, i russi cercavano di prendere delle posizioni di difesa; quando è arrivato i russi dopo
248
G. PROCACCI (a cura di)
hanno cominciato a darci la zuppa tutti i giorni, dieci grammi di pane e poi noi volevamo tornare a casa, ma non c’erano notizie certe, eravamo angosciati per quello lì, allora i russi ci hanno detto di rispettare la popolazione tedesca. Invece polacchi e russi che erano quelli che erano stati trattati peggio si sono vendicati, hanno ucciso dei polizei tedeschi... ohhh! Delle volte passavamo sopra dei morti, quelli che erano vicino ai magazzini poi sono stati uccisi tutti e noi andavamo dentro scavalcando i morti, non c’erano più le strade, c’erano i cavalli morti per le strade e noi con dei coltelli andavamo a tagliare delle bistecche da questi cavalli, perché c’erano dei reparti di cavalleria che solo che un cavallo si rompesse una gamba veniva abbattuto, oppure li abbandonavano ancora mezzi vivi e noi passavamo lì, e noi mangiavamo quella carne lì e tutt’intorno c’erano moltissimi morti che non erano stati seppelliti e facevano una puzza tremenda e noi ci chiudevamo il naso con le dita e tiravamo su la carne. Erano i morti sotto i bombardamenti, ed erano tanti e noi ci eravamo abituati a quelle scene lì, può immaginare. […] È venuto un borghese, perché ci sono venuti dietro tre-quattro volte per farci aderire alla Repubblica sociale, e allora un bel giorno adunata di tutti in un gran piazzale, mitragliatrice qua, mitragliatrice là, c’era un palco lì va su un borghese che parlava italiano mezzo meridionale; ci ha invitato ancora ad aderire alla Rsi e poi ci ha invitato a cantare “Giovinezza”. Si può immaginare, a noi c’è venuto il groppo, quasi tutti hanno rifiutato di cantare “Giovinezza”. Si può immaginare quando ha finito quel discorso lì che c’erano poi le minacce perché ci facevano paura con le armi e poi anche dentro al lager c’erano due file di reticolati c’erano quelli che avevano aderito della Milizia italiana; passa un vignolese che aveva aderito, un certo V. che dopo è scappato in Francia quando è venuta la fine della guerra, non ho mai più saputo che fine ha fatto, faceva propaganda per i tedeschi: “Perché io mangio bene. Mi danno caffelatte, mi danno salame... io che ho aderito mangio bene e poi mi mandano anche in licenza!”, e anche a noi ci avevano promesso la licenza se aderivamo. Quando ha visto che non c’era niente da fare, ma noi questo lo abbiamo poi saputo dopo, dei poliziotti tedeschi sono venuti a darci una mano quando hanno visto che facevamo resistenza, e in quella occasione due tedeschi della Wehrmacht ci sono venuti a stringere la mano, ovviamente di nascosto. E questo ci ha fatto capire che anche tra di loro c’era un senso di disfatta e non ne potevano più della guerra. […] Sono tornati quattro o cinque volte per cercare di convincerci ad aderire, ma noi abbiamo sempre resistito e senza concordare fra noi, era una cosa istintiva ne avevamo tanto abbastanza della vita militare che non volevamo che la guerra continuasse di più, perché c’eravamo in 640.000 di internati militari. Noi abbiamo resistito per quello, noi più anziani, devo essere sincero, cercavamo di fare un po’ di propaganda per i giovani perché i giovani cedevano soprattutto per la fame, e allora qualcuno ha ceduto, però quando sono stato a Berlino ho capito che la guerra… sinceramente non credevamo che durasse due anni, però quando sono arrivato nel secondo campo il tedesco che mi aveva preso in simpatia, Fritz, mi ha detto: “Cercate di fare a modo perché tenetevi in mente che la guerra non finisce!”. […] Fino a che i russi ci hanno liberato e poi abbiamo girovagato e sempre aspettato questo benedetto rimpatrio e il 7 settembre sono arrivato a
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
249
Pescantina dove c’era lo smistamento dei militari però per me non c’era nessuno ad aspettare e allora ho trovato dei camion di americani, e allora abbiamo cominciato a chiedere delle informazioni e ho detto: “Noi andare a Modena. Ci caricate?” e allora loro ci hanno visto, erano degli americani che se erano inglesi, perché lei deve sapere, lei è giovane ma quando c’era il fascio aveva messo dei detti come “Dio stramaledica gli inglesi!”, allora i francesi ci accusavano che li avevamo colpiti alle spalle, gli slavi ci accusavano che abbiamo invaso il loro paese, i russi altrettanto, si può immaginare, noi eravamo odiati da tutti. Ha capito? A Luckenwalde che razioni alimentari vi davano? A Luckenwalde ci davano una fettina di pane di segala, una fettina trasparente, e del the che noi lo chiamavamo the ma lo facevano con delle erbe che non so neanche io che cosa fossero e poi ci davano una zuppa con delle rape bollite, un po’ di margarina, un po’ di zucchero, un po’ di marmellata, o delle volte ci davano un formaggio puzzolente, una gavetta arrugginita, una scodella ci davano dentro un intruglio che noi lo chiamavamo miglio, un intruglio che non abbiamo mai saputo dargli un nome, a volte c’era dentro una qualche patata e poi quando andavamo a prendere il rancio loro per tenerci buoni ci davano dei colpi sulla schiena con la baionetta. Ah se restavamo lì a Luckenwalde si moriva. La fortuna è stata venire via. A Luckenwalde c’erano le baracche con i castelli ma c’era una specie di materasso che c’era dentro del truciolo, c’erano dentro dei nodi duri che sembrava di dormire sopra dei sassi. Io ho cominciato un commercio con dei francesi loro mi portavano della roba da riparare e ce la scambiavamo nei bagni perché lì dentro c’era un contrabbando, anche fra tedeschi. […] ENZO TASSI - 1923 - Ravarino (Mo) - Soldato L’8 settembre ero in Grecia, soldato semplice del 317° fanteria con la divisione “Acqui” dislocata nelle isole di Cefalonia e Corfù. Io mi trovavo a Cefalonia. Dopo la proclamazione dell’armistizio ricordo una grande esultanza perché pensavamo tutti che fosse finita la guerra. Il tenente ci fece fare l’adunata e il colonnello ci tenne un discorso col quale ci metteva in guardia. “Ragazzi, per noi la guerra comincia adesso. Ricordatevi che non siamo in Italia ma su un’isola”. Dopo alcuni giorni cominciarono i primi movimenti di truppe tedesche e si verificò quello che aveva detto lui. Seguì l’inferno di Cefalonia. […] Tra il 20 e il 21 settembre ci fu l’attacco grosso dei tedeschi e la nostra disfatta. Io mi trovavo a Falaklata [sic] e nel ripiegare la mia compagnia si trovò sotto un attacco di stukas. Ho visto cadere falciato il mio comandante di compagnia, che ci incitava ad andare avanti, i miei portamunizioni e gli altri miei compagni tutti intorno. Saltellando mi sono allora riparato tra alcune rocce. Poi ho raggiunto il nostro deposito di carburante dell’isola e lì ho trovato un mio amico che, poverino, aveva una gamba squarciata. Ho cercato di medicarlo come potevo con il pacchetto di medicazioni che avevo nello zaino, poi come non ero in grado di trasportarlo l’ho lasciato facendogli i miei auguri. Mi misi in cammino per Argostoli e lungo la strada mi unii ad altri soldati italiani, trovai anche un tenente della mia compagnia. Arrivati in città siamo andati all’ospedale per cer-
250
G. PROCACCI (a cura di)
care delle fascette con la croce rossa, ma non ce n’erano più. Intanto venuta sera ci siamo sistemati su un tetto e lì abbiamo dormito. La mattina quando ci siamo svegliati ci siamo all’improvviso visti davanti i tedeschi. Io avevo il fucile in mano e un mio amico mi gridò: “Butta quel fucile che ti sparano!”. Lo buttai e ricordo che il calcio si ruppe. Alzammo tutti le mani. Quella fu la mia cattura. I tedeschi ci portarono in un accampamento fuori città dove avevano raccolto anche tanti altri italiani. Il secondo giorno di prigionia vennero alcuni ufficiali tedeschi e chiesero chi voleva collaborare con loro. Accettarono più che altro degli altoatesini che erano militari con noi. Diversamente nessuno voleva vederli i tedeschi. Poi ci hanno mandati in una caserma dove ci hanno tenuti per alcuni giorni. Per tre giorni non ci diedero da mangiare. Avevamo anche sete e c’era chi prendeva delle lenzuola e calandole nelle cisterne ormai quasi vuote riusciva a recuperare qualche goccia d’acqua. Con i fazzoletti filtravamo anche l’acqua sporca, pur di bere. Mentre c’erano dei soldati che erano stati catturati con tutto l’equipaggiamento e quindi avevano anche qualche scatoletta da mangiare, noi invece, che venivamo dal fronte, eravamo senza niente e cominciavamo ad avere fame. Non avevamo niente, niente, niente. Si andava alla ricerca di qualcosa. Ricordo che trovai dei marinai che avevano bollito degli gnocchi e ci lasciarono bere l’acqua che avevano usato. Ad un certo punto i tedeschi ci inquadrarono nel piazzale della caserma e ci diedero un po’ di verdura cotta in acqua di mare cattiva. Iniziarono anche ad organizzare le partenze in nave. Le prime due andarono a fondo e il mare ricordo depositava i corpi degli italiani morti sulla riva dell’isola non lontano dalla caserma dove eravamo. […] Il terzo convoglio, dove mi trovavo io, riuscì invece a raggiungere il Pireo. Arrivati ci fecero scendere e c’erano due ragazzini che erano della marina tedesca che ci davano colpi con il calcio del fucile. Ci raccolsero tutti nei vecchi magazzini viveri italiani di Atene. Nonostante i tedeschi li avessero svuotati c’erano pezzi di gallette per terra e cercando cercando si trovavano anche delle scatolette, noi mangiavamo tutto, avevamo una fame tremenda. Da lì, dopo 10-15 giorni ci hanno portati a Salonicco dove siamo rimasti fino all’11 novembre quando ci hanno caricati su una tradotta. Intanto il 9 novembre avevo compiuto 20 anni, sono nato il 9 novembre ‘23. Abbiamo fatto il periplo dei Balcani: siamo stati in Jugoslavia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Polonia. Forse perché non trovavano un posto dove collocarci alla fine ci hanno portati in Russia… Giungemmo a Leopoli in Polonia […] qui con i polacchi scambiammo sigarette per pane. Nel vagone ero assieme a V. di Modena: ci eravamo conosciuti a Trento dove eravamo militari insieme e da allora eravamo nello stesso gruppo di amici. Ci siamo divisi il pane dei polacchi ma o perché era poco cotto o perché la farina non era buona, sono stato male dell’altro mondo. Un mal di stomaco tremendo. Ma poi è passato. Il nostro viaggio intanto continuava e noi non sapevamo dove andavamo. […] Verso il 20 novembre siamo arrivati in Russia Bianca a Minsk. Qui siamo rimasti un paio di giorni e poi ci hanno portati a Borisov, a 75 km a est di Minsk. A Borisov ci hanno fatti scendere dai vagoni e ci hanno divisi in tanti gruppi. Lì io ho perso V. e gli altri amici. Mi sono così trovato in un gruppo di otto italiani. Io avevo 20 anni; uno di San Cesario che sarebbe diventato mio grande amico era del ‘17 e un altro che cantava era del ‘15, loro erano i due più anziani. Gli altri 5 invece erano tutti della mia classe: 1923.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
251
Con loro sono stato portato a Krupky, dove sono arrivato il 1° dicembre. Da qui il 13 dicembre ci portarono in una piccola borgata dove c’era un ospedale per cavalli. Lì ci hanno messi dentro ad un’isba di legno. Da una parte c’eravamo noi con i nostri letti a castello, mentre dall’altra c’era il corpo di guardia tedesco. Si trattava di una compagnia veterinaria addetta ai cavalli, saranno stati in 30 o 40 uomini. C’erano veterinari, ecc… Erano tutti molto più anziani di noi tra i 50 e i 55 anni. Tra di loro c’era chi aveva figli morti, chi dispersi, chi feriti, chi mutilati. Ce n’erano alcuni che parlavano italiano perché nella guerra del ‘18 erano rimasti prigionieri in Italia. Lì quei tedeschi ci hanno accolto molto bene. Era gente che della guerra ne aveva fin qua. Appena hanno visto che noi lavoravamo e facevamo quello che ci dicevano di fare hanno cominciato a rispettarci. Per Natale abbiamo festeggiato insieme e anche il primo dell’anno abbiamo fatto festa. Ma nei primi giorni di gennaio notiamo un grande movimento di SS tedesche su slitte. Imparammo sottobanco che c’era stato un attacco di partigiani e i tedeschi stavano facendo dei rastrellamenti. Quelli della compagnia veterinaria allora ci fecero star chiusi dentro all’ospedale per cavalli per qualche giorno. Questo forse per evitare che ci mettessimo nei guai girando fuori. Per di più alcune SS vennero messe a dormire con noi nei castelli. Tra di noi c’era chi capiva un poco il tedesco e poi tutti noi tentavamo di imparare i rudimenti per capirli quando parlavano. Sentendo le SS parlare mentre erano con noi capivamo che uccidevano e ammazzavano dappertutto e questo ci aveva messo una gran paura. Passati quei giorni ritrovammo la nostra routine: si andava ad abbeverare i cavalli, si puliva la stalla, si portavano via gli escrementi… L’unica differenza fu che dovemmo cambiare il luogo dove portavamo i cavalli a bere. Il perché lo capimmo solo dopo… […] Verso Pasqua il tempo cominciava ad essere bello così chiedemmo al maresciallo tedesco che ci comandava di poter fare un giro nei dintorni dell’ospedale. Il terreno attorno era tutto ondulato, soprattutto vicino al torrente dove prima portavamo ad abbeverare i cavalli. Ne approfittammo per sparire dalla vista delle sentinelle che ci controllavano dal campo-ospedale. Infatti a grande distanza, mentre due-tre di noi stavano in piedi su una cunetta e si lasciavano vedere, senza però che fosse possibile contarli bene, io e gli altri strisciavamo lontano per andare a scuriosare. Non lontano da dove portavamo i cavalli a bere trovammo resti di capelli, ossa e vestiti bruciati: era quello che rimaneva di quelli che le SS avevano massacrato durante il rastrellamento. Vicino c’erano anche i resti di un villaggio bruciato. Ecco, la nostra Pasqua l’abbiamo passata vedendo quel lavoro lì. Il 24 giugno le forze russe avanzano e i tedeschi decidono la ritirata. Assieme ai tedeschi della compagnia veterinaria prepariamo tutto. Carichiamo diverse carrette, riempiamo i nostri zaini e ci incamminiamo. Passiamo per Vilna e Kaliningrad fino a giungere in Polonia. Poi ci fecero tornare indietro nella zona di Rastenburg in Prussia orientale dove arrivammo il 19 luglio. Siamo rimasti lì fino a febbraio 1945. Nel frattempo venivano a passare in rivista i cavalli generali tedeschi, giapponesi e italiani. Gli italiani non ci degnavano di grande attenzione. […] I russi si avvicinavano ancora e lasciamo la regione di Danzica, proseguendo su una lingua di terra verso nord-est ad un certo punto ci troviamo ad attraversare un braccio di mare congelato di otto km. Con dei
252
G. PROCACCI (a cura di)
paletti viene segnato il percorso, il ghiaccio viene coperto con delle frasche, perché si stava già rompendo, ed io con la mia carretta e i miei cavalli sono l’ultimo ad attraversare. Sulla carretta con me avevo quello di San Cesario con la febbre alta. Siamo riusciti a passare. Dopo siamo arrivati su una duna molto alta tanto che per ogni carretta ci volevano setteotto pariglie di cavalli per portarla a superare la duna. Siamo così tornati a Kaliningrad e da lì ci siamo diretti a Gotenhafen dove c’era un piccolo campo di internati militari italiani in cui siamo stati sistemati per alcuni giorni. Poi siamo tornati a Vilna. A Vilna ci mettono dentro un lager per lavoratori stranieri. Ricordo che la ferrovia passava poco lontano. Il trattamento non era male: oltre al cibo del campo avevamo anche una tessera per comprare quello di cui avevamo bisogno fuori dal campo. Ogni giorno venivano a prendere alcuni di noi per farci fare i lavori di cui avevano bisogno e soprattutto scavare dei camminamenti, delle trincee e delle fosse anticarro. Un giorno però sentiamo cannoneggiare vicino. Arrivano degli aerei russi. […] Un bel giorno, non ricordo la data precisa, i tedeschi erano spariti. In giro c’erano solo i loro cadaveri talora schiacciati dai carri armati in mezzo alla strada. Nelle vie di Vilna c’erano tedeschi impiccati. Sotto un attacco aereo rimane ferito il mio amico di San Cesario. Lo carico su una carretta e vado in cerca di medici con gli altri. C’era una piccola caserma di addetti ai fumogeni, erano aderenti alla Repubblica sociale e loro volevano venire con noi. Si volevano intrufolare in mezzo al nostro gruppo. “No, noi abbiamo fino ad ora fatto i nostri sacrifici. D’ora in poi li farete anche voi!” Gli dissi così. Loro fino ad allora non avevano fatto dei sacrifici. Erano lì con dei lancia-fumogeni da utilizzare nelle incursioni aeree. Loro stavano bene: erano militari ed erano liberi. […] Più tardi incontriamo un posto di blocco dei soldati russi, il mio amico ferito di San Cesario lo fanno mettere in disparte, noi ci mandano a raccogliere i morti lungo la strada con la carretta per poi buttarli nelle fosse comuni. […] Finito quel lavoro lì ci portano a Slawa in Pomerania dove i russi avevano un loro comando e un centro di raccolta per i cavalli da mandare in Russia. Ci hanno assegnato una casa e noi siamo rimasti lì. Abbiamo iniziato a collaborare con loro perché loro avevano bisogno di aiuto per raccogliere roba da mandare a casa loro. Andavamo con i russi per le case a fare requisizioni. Io facevo da interprete: non sapevo il russo ma avevo imparato un po’ il tedesco. Accompagnavo un tenente ucraino che non parlava italiano ma ci capivamo comunque. Lui conosceva benissimo, meglio di molti italiani, la storia d’Italia: mi parlava di Cavour, di Mazzini, etc. Il suo capitano ci aveva detto di chiedere ai tedeschi quanto terreno e quanti cavalli avevano per regolarci sul numero di cavalli da prendere. Si era raccomandato: “Mai con della cattiveria!”. I russi sono stati molto ospitali. […] Per la festa in ricorrenza della rivoluzione ci hanno presi a tavola con loro a festeggiare. Ma del resto mangiavamo sempre insieme. Ci consideravano come degli alleati. Ci davano anche le armi per andare a caccia. C’era un mio amico di Parma, F., che aveva una buona mira. Una volta un maggiore vide il mucchio di selvaggina che aveva cacciato e si offrì di dargli tutte le munizioni che voleva purché cacciasse per lui. Durante il periodo in cui siete stati con i tedeschi non avevate mai sofferto la fame? No, mai. La fame l’ho patita solo a Cefalonia. Dopo Cefalonia più niente.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
253
Per noi la fortuna più grande fu capitare tra i soldati tedeschi della compagnia veterinaria. Erano tutti vecchi ed appena gli avanzava qualcosa da mangiare ce lo davano a noi perché eravamo tutti giovani e ci comportavamo tanto bene. Loro la notte ci tenevano addirittura accesa la stufa. Si preoccupavano per noi. Poi venivano a parlare con noi: c’era uno di Monaco tanto buono che ci raccontava tutto. Quando eravamo nella stalla uno di noi stava sulla porta a guardare che nessuno arrivasse poi io e lui ci nascondevamo in mezzo a due cavalli e lui mi raccontava tutto quello che sapeva sulla guerra. In questo modo eravamo sempre informati. […] Per quanto tempo rimase con i russi? Fino al 21 novembre 1945 quando decidono di farci partire per rimpatriarci. Ci portano a Neuestadt, da lì passiamo per Poznan e poi arriviamo a Berlino. Da Berlino ci caricano su un altro treno e ci mandano a Praga dove veniamo diretti al consolato italiano. Restiamo a Praga per 1-2 giorni dormendo nella stazione centrale. L’addetto italiano ci diede da mangiare un pasto poi ci mise su un treno che ci portò a Norimberga, Erfurt e poi Monaco di Baviera. A Monaco c’erano tutti i binari sottosopra per i bombardamenti. Dopo arriviamo a Innsbruck. La tappa successiva è Vienna e da qui partiamo infine per l’Italia. Il 1° dicembre ‘45 arriviamo a Merano dove ci diedero il benvenuto mettendo su un disco con la canzone “Mamma”, seguì un coro di lacrime. […] ANGELO TESTONI - 1922 - Castelfranco Emilia (Mo) - Ufficiale Io ero a fare un corso in aviazione, io andai soldato nei primi di gennaio sapendo che sarei tornato a casa perché i corsi c’erano per le altre armi ma non per l’aeronautica e mi presentai all’esame, e poi mi han mandato a casa e mi hanno richiamato per il giorno 26 luglio, cioè io mi sono presentato all’aeroporto Gino Allegri di Padova il 26 luglio. […] Noi dunque facciamo il corso da ufficiali con passaggio sergente. La vita era proprio svelta, sì insomma non si dormiva, gli ultimi erano sempre consegnati, era veramente un corso di gente che doveva correre, facevamo boxe, scherma, facevamo molta fatica, etc ma eravamo giovani, avevamo fatto sport e non è stato un gran che. Poi l’8 settembre abbiamo saputo, così come parlando l’un l’altro, la radio, di questa faccenda, di questo cambiamento a Padova, nell’aeroporto Gino Allegri. […] L’8 settembre eravamo così armati, intorno al campo di servizio giorno e notte. Dopo tre giorni ci richiamano dentro e poi la notte ci convocano sul piazzale, col fucile al fianco, c’erano quattro carri armati tedeschi agli angoli del piazzale e lì gli ufficiali ci disarmano. […] Lasciamo le armi e lo facciamo pacificamente, queste le sole parole che furono dette. Noi capivamo che un gran pacifico non era e in quei giorni lì cominciammo subito a pensare come si poteva scappare. Per scappare bisognava salire al piano di sopra, calarsi lungo la grondaia, attraversare un piccolo spazio una specie di cortile, di corsa, avevamo poggiato una scaletta sul muro, quando si era sul muro saltare dall’altra parte, si prendeva un fosso, si arrivava a una casa da contadino dove c’era gente che dava vestiti borghesi per poter scappare. […] E così fummo caricati in questi carri bestiame che ricordiamo avere letto in un libro, ma della guerra del ‘15-‘18 che si intitolava: cavalli 8,
254
G. PROCACCI (a cura di)
uomini 40, perché in un carro bestiame ci stanno 8 cavalli o 40 uomini. Noi eravamo in 52, noi togliemmo la griglia del finestrino per poter respirare meglio e per poter buttar fuori gli escrementi e l’urina quando uno aveva bisogno e insomma magari usava anche la gavetta. Mi ricordo benissimo perché non ero mai stato in montagna sulle Alpi, mai stato e mi ricordo che si era fermato il treno e misi la testa fuori dal finestrino, e c’erano due soldati tedeschi e uno dei due prese un sasso e me lo buttò, non mi prese, però tirai indietro la testa e lui si mise a ridere. […] Oggi se lo trovassi quello lì lo picchierei, se ne avessi la forza, per la risata, non per il sasso, mi aveva colpito veramente. Dopo me ne sono successe di tutti i colori, ma quella mi è rimasta ugualmente impressa, anche perché è stato il primo gesto, ed stata questa derisione che mi ha dato fastidio. […] Ci hanno di nuovo chiusi, una volta ci hanno anche dato da mangiare un pezzo di pane, molto nero, era abbastanza cattivo ma la fame era tanta e poi arrivammo alla stazione di Wietzendorf. Witz vuol dire scherzo, dorf vuol dire paese. Ed entrammo in questo campo di prigionia, dove c’erano stati dei russi ed erano morti tante migliaia di tifo petecchiale, questa non so se fosse una chiacchiera o se fosse vero. Ma pare che fosse proprio vero, forse non le migliaia che dicevano, forse meno. Per accoglienza a due dei nostri soldati che andarono a scuotere la coperta fuori dalla finestra, spararono e ne uccisero uno. C’erano queste baracche basse con la finestra bassa e dall’altra parte c’era il filo spinato e non si poteva andare perciò la guardia dalla garitta gli sparò e ne uccise uno. Questo è stato l’inizio. E poi lì siamo stati poco più di un mese, subito però il giorno dopo ci chiesero chi di noi parlava il tedesco, io l’avevo studiato a scuola di malavoglia proprio perché non mi piaceva, era una lingua dura. Però in questo caso c’era da mangiare anche a mezzogiorno, se no si mangiava solo alla sera e allora dissi: andiamo. […] Andammo là e ci misero in un tavolino, noi tutti soldati italiani e noi dovevamo registrarli, tutti i dati. […] Il giorno dopo non ci andai perché non mi piaceva, insomma. Trovavamo sempre qualcosa da fare, allora cercavano dei soldati per sbucciare le patate, nella baracca della cucina e allora alcuni di loro uscirono e facevano il cambio perché anche lì di giorno si mangiava. E allora siccome eravamo molto amici fra di noi, ci scambiavamo il piastrino e poi il giorno dopo ci andava l’altro, in modo che un giorno sì e un giorno no si mangiava anche a mezzogiorno, fin che durò, ‘sta faccenda. […] C’erano due modenesi, tre con me, uno di Nonantola, c’era il mio amico compagno di scuola, il maestro, sette o otto di Modena e siamo rimasti insieme dal corso. Soltanto dopo una parte fu trasferita, io poi rimasi proprio solo. Tra voi c’era molta intesa quando stavate insieme? Sì, sì. Eravamo modenesi, eravamo compagni di scuola. Gli altri venivano tutti dalle Belle Arti, erano legati tra di loro, e noi eravamo legati tra di noi ma stavamo insieme come modenesi. In baracca insieme. Ci davano questa fetta di pane che era grande come il piastrino e poi un cucchiaio di margarina o roba del genere e mentre Claudio mangiava tutto in un colpo, io mangiavo un po’ alla volta, la fame era talmente tanta anche alla notte, io aprivo il mio sacco, tiravo fuori dal fondo, lo mettevo in fondo perché mi sembrava che la tentazione fosse minore, tagliavo una fettina di pane e la mangiavo. Quando mi davano il pane ne mangiavo un
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
255
pezzetto e l’altro lo tenevo, lo mettevo in un tovagliolo e lo mettevo dentro allo zaino per mangiarlo dopo. Cuocevate le bucce delle patate? No, lì non si recuperavano, perché le buttavano via. Erano dannose, era un lavoro da bidone delle immondizie, anche se c’era gente che mangiava anche quelle oppure l’erba cotta per esempio. Si parlava sempre di mangiare e si parlava di casa, ovviamente. […] Ci chiesero: chi vuole passare alle forze del nuovo esercito repubblichino, repubblicano, chi vuole tornare in Italia, chi vuole entrare nelle SS italiane. Furono degli italiani a chiederlo o furono dei tedeschi? Lì erano i tedeschi. C’era anche un ufficiale italiano, l’interprete era un militare. Ma verrà nel 1944 il momento della scelta, della grande decisione, allora mi presi anche uno schiaffo. Alla fine di ottobre o forse ai primi di novembre presero su una gran parte e si cambiava campo, da un’altra parte ma non sapevamo dove. Ci misero tutti in un gran tendone, passammo la notte lì, senza mangiare, mi ricordo che mangiavamo le patate crude, avevamo la nostra riservetta e ce le eravamo divise. Avevamo quelle cartoline militari verdine, le avevamo tagliate e poi Claudio aveva fatto le carte da giocare, disegnava bene e allora avevamo il cucchiaio, le patate, le forchette e con queste carte si faceva la partitina. […] Noi italiani se ci sorprendeva l’allarme durante la giornata o anche durante la notte non potevamo andare nei loro bunker di cemento armato, era proibito, avevamo però dei paraschegge, in una piazza che si chiamava Welfenplatz, c’era un grosso bunker in cui andava tutta questa gente e noi avevamo un paraschegge e una volta ci prese una bomba proprio all’imbocco, ci furono due vecchi tedeschi morti e due soldati russi che non so da dove saltassero fuori, non so dove avessero il loro campo. […] La bomba è scoppiata sopra e ha fatto soltanto il buco, io poi uscii per primo che mi fecero scaletta gli altri, uscii dal piano superiore e poi scesi le scale e venni fuori, allora tirai fuori gli altri e poi cominciammo a demolire i muretti davanti alle finestre per fare uscire i tedeschi, le donne e bambini, soprattutto questo. Questo ricordo ce l’ho impresso perché c’era un tedesco anziano, chissà perché mi sembrava che fosse mio padre, abbiamo lavorato come dei matti perché ogni sasso che toglievi via te ne venivano giù degli altri. Dovevamo arginare tutto, e mi ricordo che lo feci con tanta passione perché mi sembrava che fosse mio padre, non gli assomigliava proprio per niente, però me lo ricordava. […] Mi ricordi come stavate ad Hannover. Lavorate in fabbrica? Noi no, il nostro campo no. Andavamo a spalare per la strada. Eravamo in 350, tutti italiani, poi una parte di questi, non subito ma dopo un po’ andarono a lavorare a Misburg che era come da qua a Ponte S. Ambrogio, dove c’era una raffineria di petrolio ed è un lavoro maledetto perché tratti soltanto petrolio; mentre gli altri 200, andavamo a spalare per le vie di Hannover e spalando si trova una volta una mela, una patata, una calza, una scarpa, una camicia, qualcosa si trova sempre insomma, e allora era molto meglio. Una squadra invece andava a trasportare mobili, due uomini andarono in aziende di… a prendere mobili da una parte e portarli dall’altra, poi venivano dall’Olanda ed erano rubati in Olanda e in Francia questi mobili, li distribuivano. Le squadre di coloro che lavoravano erano sorvegliate dai soldati tedeschi?
256
G. PROCACCI (a cura di)
Fortunatamente dai soldati no, ma spesso avevano dei bambini della Hitlerjugend, questi erano maledetti, si comportavano maleducatamente. Se uno si fermava i bambini protestavano, e qualche botta saltava fuori. Erano dei balilla, degli avanguardisti di dodici-tredici anni. Bisognava vederli alla mattina quando erano tutti in fila e il loro capo, che aveva anche lui dodici anni, dava l’attenti, sembravano proprio delle SS. Non avete idea che cosa erano i tedeschi. […] I soldati erano meglio, erano spesso dei soldati anziani, non sempre, ho avuto anche dei giovani, poi io […] conoscendo il tedesco tutti volevano che lavorassi con loro, una squadretta di soldati bresciani, mi dicevano: tu vieni con noi, non fare niente, parla soltanto, dicevano. Ovviamente lavoravo anch’io, non potevo fare lavorare solo loro, solo perché noi non ci capiamo, gente che erano tutti contadini, abituati a lavorare dalla mattina alla sera, per loro lavorare era uno status normale, non era come per noi studenti. […] Ad un certo punto per un patto tra Mussolini e Hitler, credo che sia del luglio, i soldati potevano diventare civili. Giugno o luglio del ‘44. E il mio campo era di 350 uomini più c’era un altro campetto che c’erano i vetrai. Sempre ad Hannover, io non mi sono più mosso da Hannover pur appartenendo al campo di Fallingbostel dove io sono andato diverse volte per prendere sigarette, per mettermi d’accordo etc, potevo andare. […] Alla sera 12 dei miei sono andati a firmare perché volevano diventare civili. Pensavano di stare meglio. […] Fummo bombardati, la scuola si incendiò e noi dovemmo cambiar posto e andammo a Buchholz, che era come S. Lazzaro e un’altra scuola che era già stata un pochettino dissestata, aveva sotto il rifugio con dei gran tronchi che lo sostenevano che noi poi andavamo lì quando suonava l’allarme. Eravamo un po’ fuori città e ci sembrava anche di essere più sicuri. Lì c’era anche un bunker, un po’ più lontano, quando eravamo fuori andavamo lì ma poi non abbiamo mai avuto bisogno di andarci dentro perché vedevamo gli aerei che passavano e andavano proprio in centro. […] Poi dopo due giorni arrivarono gli americani, con grande non dico spavalderia, ma questa gente che ha creduto per anni di vincere la guerra e si trovano questi ragazzoni che arrivano con i camion, con le jeep, due uomini su ogni jeep, con un’abbondanza di mezzi, poi alla sera si fermavano, tiravano fuori il sacco a pelo e dormivano col fucile messo lì, dormivano a riposare senza timore, scendevano dal camion, avevano il pallone e si mettevano a giocare nel campo. Dev’essere stata una grande mortificazione, avevano fatto le buche per i panzer, con il soldato dentro con il katiuscia per abbattere i carri armati e gli americani, umiliazioni proprio. […] Noi rimanemmo lì fino a settembre, fummo gli ultimi perché gli altri erano tutti alleati, noi non eravamo né carne né pesce, rientrammo, andammo a Hildesheim, credo. C’era un gran casermone e poi imbarcammo di nuovo in treno, mi ricordo che avevo preso con me un telo da tenda e due grossi chiodi, li piantai e feci l’amaca invece di dormire per terra. Arrivammo a Pescantina, passammo il Brennero con grande emozione, gente che piangeva dall’emozione, a Pescantina c’era un paio di tende lì della Commissione pontificia di assistenza e trovai che lo dirigeva un mio compagno di scuola, ci trovò un camion che aveva trasportato maiali e venimmo a Modena con quel carro profumato. […]
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
257
AROLDO VACCARI - 1921 - Modena - Soldato […] Mi hanno mandato a Modena nel 36° fanteria di Modena; il 36° fanteria di Modena stava organizzando il campo prigionieri di Fossoli quello dove sono stati messi i prigionieri inglesi e allora sono stato lì a Fossoli dal ’42 fino all’8 settembre del ’43. […] Di fronte al campo c’era un campo di frumentone si comincia a vedere che il frumentone si muove e c’era un carro armato che veniva avanti e poi dei soldati. Arriva un comandante a parlamentare con il nostro e il risultato è stato questo qui, che abbiamo consegnato le armi e siamo tornati al 36° a Modena, nessun tentativo di resistere, e allora niente ci hanno portati al 36 fanteria e lì sono stato fino alla fine di settembre, dal 36° fanteria scappava tanta gente perché c’erano delle fogne che uscivano e davanti c’era un ricovero per anziani. […] Anche io una volta ho provato ad andare ma non ci sono riuscito e lì hanno cominciato a chiederci di aderire alla Repubblica sociale ma io non ho voluto perché ero stanco della guerra e poi veramente credevo che ormai stesse per finire, e allora ci hanno portato verso la Germania una settimana di viaggio. […] Al confine con la Polonia allo stalag IIIC nella città, adesso non mi ricordo come si chiama, ci hanno tolto tutto quello che avevamo. Il viaggio è stato terribile, 50 per vagone, poco da mangiare e poi delle volte si fermavano per i bisogni corporali e quando non aprivano i bisogni li facevamo lì, e poi anche per il bere quando si arrivava in un certo posto si faceva rifornimento: a Trento le crocerossine sono venute e ci hanno dato delle mele e del pane, e poi siamo usciti dai confini e siamo arrivati a Innsbruck poi ci hanno portato in Polonia allo stalag IIIC, qui ci hanno spogliato di tutto. […] Vi hanno mai fatto pressioni per farvi aderire alla Rsi? Veramente no, né qui né poi nel campo. Avevamo un giornalino che ci veniva mandato dall’ambasciata di Berlino il quale parlava tutto bene di questa adesione, di questa possibilità ma in verità fisicamente non c’è mai stato chiesto nulla. […] Noi andavamo a lavorare in una fabbrica, c’erano tanti francesi, tanti olandesi che lavoravamo tutti in questa fabbrica, ci saranno state 5.000 prigionieri; poi c’erano francesi, russi i russi oltre ai prigionieri c’erano anche quelli che erano fuggiti dalla Russia. Noi avevamo la sorveglianza stretta ma poi quando ci hanno passato a lavoratori civili andavamo in fabbrica per conto nostro e poi tornavamo da soli, mentre al campo c’erano sempre le sentinelle. La fabbrica era abbastanza lontana, ci voleva quasi un’ora, la sveglia era alle 4,30-5, e poi prima di partire ti davano l’acqua di malto senza zucchero così, era solo calda, poi c’era un’ora di viaggio e andavamo in fabbrica là il poliziotto ci faceva entrare e poi ci smistavano nei reparti e cominciava il lavoro. Era una fabbrica immensa che l’avevano fatta i prigionieri francesi catturati nel ’39 e lavoravamo dodici ore; c’era anche la mensa, là andavi in fila e prendevi il rancio, ma si mangiava malissimo: c’erano delle carote bollite condite con dei semi di finocchio, poi c’era della rapa ma nutrimento molto scarso, alla sera al lager c’era anche qualche pezzo di patata, qualche occhio di margarina…
258
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Anche i sogni la notte erano sempre e solo sogni gastronomici, non sognavi altro se non di mangiare, mangiare, mangiare. Questa fissazione di mangiare quando tornavamo o andavamo alla fabbrica di solito era sempre buio, si sentiva parlare solo di pranzi, cene: “Quella volta ho fatto una mangiata, quella sera ho mangiato questo e quello, a te ti piacciono?”. Le condizioni sanitarie del lager? Ottime. Morti di fame ma tutti i sabati doccia; ci mettevano nudi e c’erano le polacche che quando uscivamo le polacche ci davano un qualche cosa in testa e nei genitali per disinfettare, per togliere i pidocchi. Secondo me era quello che in Italia mettevano nei gabinetti, bruciava come il fuoco e morivano anche i pidocchi, nel frattempo i nostri panni venivano disinfettati; fame tanta ma pulizia tutto sommato c’era. Eravate in tanti italiani? Occupavamo 6 baracche: eravamo in 950 credo, e c’era anche il comandante italiano e poi c’era un comandante tedesco e cinque o sei soldati tedeschi, pochi soldati, ma buoni. […] Ah i francesi e gli olandesi loro ormai erano liberi, prendevano la paga perché all’interno del campo c’era un piccolo spaccio che vendeva lamette da barba, borotalco ma da mangiare niente. Anche in fabbrica davano l’acqua di malva allora io la andavo a comprare e loro mi davano il resto in marchi buoni e quando avevo un marco andavo dai francesi e compravo pane, e poi ho comprato un pezzo di stoffa e mi sono fatto un paio di guanti fatti bene, ma un giorno un tedesco me li ha tolti e poi ti menavano anche. […] Com’erano i rapporti con i tedeschi nel campo? C’era uno che io lo chiamavo Rigoletto, perché era bruttissimo e un po’ scassato aveva gli occhi diversi, era mezzo sciancato, non era cattivo; e invece ce n’erano di quelli che picchiavano di continuo senza nessun motivo. Tante volte è toccata anche a me, bisognava stare attenti a non farsi trovare con della roba: c’era ad esempio il bidone della spazzatura e quando hanno trovato uno che ci cercava dentro ce lo hanno messo dentro e poi lo hanno capovolto con i piedi per aria e poi lo hanno lasciato lì. Che rapporto c’era fra voi della baracca? C’era soprattutto rispetto perché ho cercato di essere giusto e non ho mai preso niente di più di quello che mi toccava, e cercavo di essere giusto con tutti anche nella distribuzione del rancio perché c’erano anche quelli che ti minacciavano perché ne volevano di più, ma la fame è una brutta bestia, c’era gente che andava a letto magra e alla mattina si svegliavano che erano gonfi, gonfi, ma senza forze. E questi qui dopo li prendevano e li portavano via, e non so dove siano andati a finire; noi quando siamo arrivati lì eravamo 950 quando siamo tornati che eravamo ad Amburgo eravamo 650, gli altri che mancavano non so dove siano andati. […] È stata bombardata anche la nostra fabbrica che è stata gravemente danneggiata e allora noi dopo la abbiamo dovuta ripulire, sistemare; poi ho lavorato alle ferrovie a ripristinare i binari, e poi ho fatto il calcestruzzo per rifare le case distrutte, e poi mi hanno messo ai trasporti dentro alla fabbrica che erano degli aggeggini con quattro ruote che andavano avanti e indietro: uno stava davanti e guidavi dentro la fabbrica, poi sempre con i trasporti ma fuori, ci mandavano a prendere le patate verso la Polonia per rifornire la nostra fabbrica.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
259
Con il settembre ’44, quando siete stati considerati lavoratori civili, avete vissuto dei cambiamenti? Sì ci sono stati cambiamenti significativi essenziali: andavamo a lavorare da soli e alla sera quando eri stanco ti mettevi a dormire, prima dovevi aspettare l’appello che veniva alle 10 o alle 11 e fino ad allora non potevi dormire; se suonava l’allarme e tu non volevi uscire stavi a letto, è stata una liberazione. Andavamo in fabbrica per la scorciatoia, camminavamo quindi meno, e poi potevamo uscire, andavamo al cinema, e poi c’erano rapporti con i civili un giorno un tedesco mi dice: “Vieni a casa mia a segare della legna?”, lui abitava nel paesino, ho segato la legna e poi ha portato un pesce, con del pane e della birra e ho fatto una mangiata… ci davano dei marchi, la fabbrica ci pagava come pagava uno stipendio. […] Noi siamo stati liberati dai russi. […] Parlare di quello che è successo allora è impossibile; tutta questa comunità è impazzita, hanno preso possesso del lager e i tedeschi erano scappati tutti, da un giorno all’altro ci hanno mollati lì e sono scappati. Due o tre giorni dopo perché io sono uscito subito dal campo e sono andato in cerca di patate, ne ho trovate e le ho portate a casa, sono entrato in tante case che erano deserte, abbandonate, saccheggiate; sono andato dentro una radura e ho trovato sette o otto cadaveri per terra ed erano tutti tedeschi ed erano stati tutti crivellati con rabbia, noi dopo che i cosacchi ci hanno liberati siamo rimasti lì quindici-venti giorni, perché loro prima hanno preso Berlino, noi siamo rimasti lì, ci siamo arrangiati con il mangiare. […] E poi ci hanno trasferiti a Bukow, ci abbiamo messo una settimana per arrivarci perché la disorganizzazione russa era tanta; siamo stati trasferiti a piedi, attraverso boschi, prati, strade. Qui a Bukow c’era il campo da pallone, avevamo fatto il giornalino, c’era una compagnia che faceva delle rappresentazioni, c’erano dei soldati che facevano gli attori, insomma c’era chi cantava e così si passava qualche pomeriggio così. C’erano anche cinque o sei ragazze che solo per il fatto di essere ragazze erano diventate delle prime donne, e avevano sempre dietro un codazzo di gente. Siamo restati qui fino alla fine di agosto, e poi abbiamo cominciato ad organizzarci per partire. […] Passavamo il tempo come potevamo; io ho disfatto una radio per fare una lampadina, poi ascoltavo la musica, ma ad esempio lavorare non ci hanno mai fatto lavorare a parte una volta o due, ma ci davano da mangiare bene, anche la carne; bene ovviamente confrontato ai tempi. […] L’accoglienza è stata che a Ravarino c’era mia madre che appena mi ha visto si è messa a piangere perché poverina qualcuno gli aveva detto che ero morto. La mattina dopo sono andato a casa della mia fidanzata, poi dopo qualche giorno sono andato anche al distretto. Dunque eravamo in settembre, prima c’era ufficiale che era un po’ schizzinoso diceva: “Ma siete stati lavoratori civili?”, e io: “Sì!”, sembrava che fossimo dei traditori della patria. Poi è rimasto muto. Nell’aprile del ’46 sono stato chiamato dal distretto e mi hanno dato la paga, e credo di aver riscosso 44-45.000 lire, non erano pochi se pensa che la paga di un soldato era una lira al giorno di paga e 30 centimetri di viveri di conforto al giorno. Anche facendo il confronto con l’epoca, con una lira anche allora forse si andava al cinema; bene, questa è stata la mia Germania.
260
G. PROCACCI (a cura di)
ORONZO VADACCA - 1917 - Lecce - Sottufficiale […] Io dovevo raggiungere Lubiana con il treno caricando i carri armati sopra. […] I nostri carri erano quelli piccoli, quelli di tre tonnellate e andavano solo due: capocarro e mitragliere, il pilota e il mitragliere. Li ho mandati, anzi li ho accompagnati, li ho schierati in modo che se fossero andati ad assalire la divisione, loro la difendevano, li ho portati alle sei, alle nove dell’8 settembre, all’indomani tutta la notte siamo stati là a vegliare. All’indomani alle nove, precise alle nove, gli Ustascia, gli Ustascia facendo finta di sfilare sono arrivati di fronte ai carri nostri, armati, con le bombe a mano, me li hanno uccisi tutti, tutti. Sono andato, me l’hanno detto, sono andato in motocicletta subito arrivo là non c’era più nessuno: sangue si vedeva il sangue che scorreva, non era tutto degli 8 perché ne avevano ammazzati anche dei loro. Io torno in caserma, ho un carro, tolgo l’otturatore del cannone perché quello aveva il cannone, era uno dei nuovi che dovevamo prendere, tolgo l’otturatore cerco di rimetterlo, di non farlo sparare, di non offendere; arriva un ufficiale e mi dice: “Vadacca dobbiamo dare le armi perché la guerra è finita!”. […] Il viaggio è stato lungo, molto lungo. In Prussia, la Prussia è lontana dalla Jugoslavia, siamo andati per Tarvisio e poi adesso non mi ricordo... perché poi eravamo chiusi dentro. […] Arriviamo ad Hammerstein ci dividono e come sottufficiale davano in consegna un po’ di uomini per... mi hanno dato 25 finanzieri, allievi finanzieri perché erano... venivano da vicino a Bolzano. […] Lavoravo anch’io perché vedevo che ci trattavano bene sia per il mangiare, sì per il mangiare non c’erano problemi: quello che volevamo, eravamo in casa di gente, avevano una stanza e ci facevano dormire tutti a terra. […] Il 28 ottobre la mattina arrivano i russi, mi fanno prigioniero, ci fanno a tutti prigionieri eravamo parecchi, perché c’erano molte fabbriche che lavoravano. […] A Danzica sono arrivati i russi, ci hanno portato da Danzica a noi tutti italiani inquadrati sul Mar Nero. […] Io ho detto: “Sì! Major... Sergente maggiore, Major!”. Mi toglie e mi dà in consegna loro, mi dà in consegna 80 uomini, divento comandante di compagnia, sì perché lì si era formato un battaglione. […] Noi prendevamo gli uomini e li mandavamo a mettere a posto le ferrovie, e alcuni li lasciavo a casa a far finta che erano ammalati e io così non li facevo lavorare. […] Eravamo però liberi di andare anche in città con il permesso, ci davano il permesso e andavamo in città. […] Siete rimasti lì parecchio poi... Sì, fino al 17 settembre del 1945, il 17 settembre siamo partiti da Gomel. Con il treno che abbiamo pagato noi 500 rubli, 500 rubli a testa abbiamo dovuto pagare. Siamo arrivati a Pescantina vicino a Verona. […] PIETRO VANDELLI - 1924 - Maranello (Mo) - Soldato
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
261
[…] Sono stato richiamato il 30 agosto 1943 e destinato al 23° battaglione fanteria a Gorizia, ed ero ancora lì all’8 settembre. I tedeschi ci hanno fatto prigionieri; dopo averci tenuto un giorno e una notte in caserma, ci hanno detto che dovevamo scegliere tra combattere al loro fianco o andare in Germania. […] Quindi ci hanno radunato in un cortile e hanno detto chi vuole rimanere a combattere da questa parte, e ce ne saranno stati otto o dieci. Gli altri invece sono stati fermi e così il giorno dopo ci hanno caricati su un treno e siamo andati in Germania, o meglio, in Polonia. Siamo rimasti sul treno quattro o cinque giorni. […] In Polonia c’era un campo di concentramento e poi hanno cominciato a dividerci e a mandarci a lavorare dai contadini, però sempre con una scorta, perché non eravamo liberi. […] Eravamo di solito in gruppi di cinque o sei, facevamo diversi lavori, come raccogliere le barbabietole, comunque lì si stava piuttosto bene con il mangiare perché ce ne era abbastanza. […] I contadini polacchi erano trattati peggio di noi. Siamo andati avanti così per un mese, un mese e mezzo, poi sono finiti tutti i lavori perché è venuto l’inverno. Allora ci hanno trasferito in Germania in altro campo di concentramento. Lì, ci facevano fare diversi lavori. Io sono stato in un bosco e poi in una fabbrica dove facevano dei pezzi per i sottomarini. […] Poi ci hanno passato civili. […] Come erano i vostri rapporti con i tedeschi nella fabbrica? Dei tedeschi ce ne erano pochi, comunque c’erano quelli buoni e quelli cattivi. […] Lei si ricorda di qualcuno che era morto per la fame? Che sappia io, no, almeno non dove ero io. Io comunque ero 34-35 chili. Non sono mai stato grasso, però… Ricorda episodi di maltrattamenti da parte dei tedeschi? Quelli ci sono stati, alcuni hanno preso delle gran botte. Anche io ho preso delle sberle, perché non capivo quello che dicevano e loro dicevano che facevo finta, sa ci voleva poco. […] Io avevo la febbre e non potevo andare a lavorare e così mi avevano lasciato al campo. Lì c’erano degli altri italiani che mi chiesero di dove ero e come mi chiamavo. Mi dissero che anche nel loro campo c’era un soldato di Modena che si chiamava Vandelli, Vandelli Paolo. Era mio fratello. Dopo due giorni ci siamo incontrati, lui lavorava in un’altra fabbrica e così ci si incontrava ogni tanto dopo il lavoro. […] Io non stavo bene e così ero rimasto a letto mentre mio fratello andava a cercare del cibo. Ci fu un bombardamento e c’erano stati dei morti. Io uscii e andai alla ricerca di mio fratello chiedendo informazioni anche ai tedeschi, ma noi da allora non abbiamo mai più avuto notizie di mio fratello. […] Quando sono arrivati gli americani, i tedeschi erano scappati, ci hanno spostato dalla fabbrica e ci hanno messo in un altro campo. Lì si stava bene. […] Saranno rimasti un mese un mese e mezzo, ci si capiva poco ma ci davano da mangiare. Poi sono arrivati gli inglesi, che sono peggio dei tedeschi, hanno anche ucciso uno o due italiani. Loro volevano che ci fosse ordine nel campo e se qualcuno cercava di passare da un qualche buco gli sparavano. […] Dopo, hanno cominciato a smistarci e ce ne sono stati che sono partiti anche a piedi, io invece sono tornato con il treno. In treno fino a Bologna, poi a Mirandola in camion e quindi fino a Modena, a Cittanova.
262
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Poi sono andato al distretto e ho fatto tutte le carte che dovevo fare. Quelli più giovani, hanno dovuto fare di nuovo il militare. […] Dopo sono ritornato nella fabbrica dove lavoravo prima. Come descrive quei due anni di prigionia? Cosa vuole, sicuramente sono stato meglio in Polonia perché almeno si mangiava. Dopo, invece, è stata dura, perché non c’era niente da mangiare. Si prendeva quello che si trovava lungo la strada. Io avevo sempre il tegame qua e il cucchiaio nell’altra mano e quello che si trovava si mangiava. […] Cosa le ha lasciato la prigionia? Non è che mi abbia lasciato delle impressioni… Io non so neanche come si carica un fucile, me lo hanno dato e subito dopo ci hanno fatto prigionieri. Certo, subito dopo ci pensavo, soprattutto a mio fratello. Avevo sempre la speranza che tornasse… Poi quando è passato troppo tempo lo hanno messo disperso.[…] TARCISIO VENTURELLI - 1923 - Pianorso (Mo) - Soldato L’8 Settembre ero al Passo di Piè di Colle, che adesso è sotto alla Jugoslavia. Dal 25 luglio, da quando è caduto il fascismo ed ha preso il comando Badoglio, siamo stati al Passo di Piè di Colle. Eravamo dietro alla ferrovia. I tedeschi mandavano delle truppe in Italia, eravamo lì, li vedevamo passare. […] Alla notte del giorno 8 settembre, abbiamo combattuto contro i tedeschi. I tedeschi, senza dirci niente si sono piazzati ed hanno iniziato a spararci. […] La sentinella che era davanti alla porta della nostra caserma, quando è smontata, c’è montata quella tedesca. Il nostro maggiore diceva di non cedere le armi, ma lui era già stato disarmato. Dopo ci hanno fatto prigionieri. […] Avevamo una caserma fatta a fortino. A livello del tetto, ci passava la ferrovia. I tedeschi erano piazzati all’argine della ferrovia. Io sparavo da una finestra con il fucile mitragliatore. Mi deve aver colpito una scheggia perché sanguinavo, ma stavo cambiando il caricatore ed allora non sparavo più, stavo giù riparato. Ho sentito il colpo di due bombe a mano in fondo alle scale. Stavano cercando di entrare i tedeschi, per buttarci fuori. Uno dei nostri gli sparò due bombe a mano e ne ammazzò due. Questi si ributtarono indietro, poi ritornarono con tante di quelle bombe che cadevano i calcinacci dappertutto. Una puzza! Allora dovemmo saltare fuori subito. […] Ci tennero lì per un po’, poi ci portarono 1 km e mezzo più su che c’era la stazioncina della ferrovia. C’era una galleria che andava in Jugoslavia. C’era la città di Bistrica-Dublinsca. Ci portarono lì verso l’una dopo mezzogiorno. Ci tennero in stazione e ci piantonarono. […] Gli ufficiali fecero domandare dall’interprete se potevano andare a prendere della roba, giù nella casermetta. Ci dissero di sì. Allora sono andato giù anche io perché ero vestito di tela e stavamo andando contro l’inverno e c’era anche il caso di gelare. Presi il mio zaino ed altri due che diedi a due dei miei compagni. Quando eravamo nella strada tornando su, c’era una “fiascheria” dove andavamo le sere precedenti a bere del vino di mele. Delle donne cercarono, con la scusa di offrirci delle mele
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
263
cotte, di tirarci fuori da quella situazione ma i tedeschi ci controllarono bene e ci portarono a Bistrica-Dublinsca. […] Lì ci misero dentro ad un recinto dove credo ci fossero state delle pecore. Dopo poco presero fuori dei soldati e gli diedero dei picconi e dei badili. […] Credevamo che ci facessero fare le fosse e poi ci ammazzassero…[…] Capimmo però subito che non era così, per fortuna. Ci fecero fare i servizi igienici. Rimanemmo lì fino al pomeriggio del giorno successivo. Poi ci caricarono in treno e ci portarono via […] Pensavamo che fosse finita la guerra ma sapevamo che saremmo rimasti in mano ai tedeschi. Alla notte, vedevo i monti che conoscevo; se fossi stato capace di uscire da Bistrica-Dublinca, avrei attraversato il Friuli per andare verso casa o almeno mi sarei messo con i ribelli di Tito. Qualcuno prima di me ha cercato di scappare; si sentivano gli spari e poi delle urla; li avevano uccisi. Allora sono rimasto lì, per non rischiare che mi uccidessero. La domenica del 12 Settembre ci caricarono e ci portarono a Ziegenhein. Lì c’eravamo in 15.000. […] Da lì ci mandarono in 600 a lavorare ad Hallendorf, in una grossa polveriera. Ci misero a lavorare lì in 600 ma il giorno prima della vigilia di Natale, quando facemmo la disinfezione, eravamo la metà. O erano morti o erano stati mandati via perché non stavano più in piedi. Non stavamo più in piedi e non ci potevamo cambiare neanche i vestiti di dosso. Quello era un cimitero. C’era solo un’altra fabbrica per fare le granate. Dalle granate da cannone da 75, a quelle da aereo che pesavano dieci quintali. Prendevamo i bossoli e li riempivamo. Poi nell’altra fabbrica montavano la spoletta. Il 17 di febbraio non stavo più in piedi. Avevano messo su una specie di infermeria. Avevo chiesto al comandante, un ufficiale fascista, di cambiarmi posto. Lui mi aveva proposto di andare a Fulda, dove venivano fatti i pneumatici. Invece di andare lì mi ha mandato alla miniera del carbone. […] La prima settimana di aprile ci hanno portato in un campo sportivo e ci hanno iniziato a chiedere cosa sapevamo fare. Chi sapeva fare il cuoco, chi il falegname. Io sapevo fare il muratore ma se lo avessi detto mi avrebbero mandato dove bombardavano a ricostruire, così non dissi niente. Io sapevo anche guidare i cavalli ed i buoi. Così quando lo chiesero saltai fuori anche io. […] Ci fecero una visita e poi ci disinfettarono, ci cambiarono i vestiti perché i nostri ormai non andavano più, e poi il giorno dopo ci mandarono in una fattoria. Li siamo stati benissimo. Eravamo lontani dai bombardamenti ed avevamo patate a volontà. Ho fatto un anno lì. […] Quando eravamo alla polveriera ci davano da mangiare delle pelli di patate e degli spinaci con dentro della terra. Se trovavamo un osso dietro la strada, gli saltavamo per vedere se c’era qualcosa. La fame ci dava le allucinazioni, vedevamo dei pezzi di mattone e ci sembravano delle pagnotte. […] Può parlare della richiesta di adesione a Salò? Prima di mandarci a lavorare [alla polveriera], erano sempre lì, tutte le sere con la rivoltella. Noi eravamo le leve più giovani. Avevamo però gli anziani, del 1910-1911, ci minacciavano che se ci andavamo ci uccidevano sul posto. Allora noi stavamo zitti. Dopo non ci hanno più disturbato. Erano gli anziani che non volevano mica. Se avessi pensato così, che una buona parte li mandavano in Italia, ci sarei andato subito. Ma la nostra
264
G. PROCACCI (a cura di)
paura era che ci mandassero in Russia, sapendo che eravamo italiani e che eravamo con i tedeschi, ci avrebbero fritto in padella subito. […] Ci ha liberato la 9° armata americana. In due o tre giorni ci hanno liberato. Il giorno di Pasqua eravamo già liberi. Gli americani avevano provato il sabato a venire avanti, ma i tedeschi gli rispondevano con i carri armati Tigre, i più grossi che avevano. Allora gli americani sono tornati indietro ed hanno bombardato. Noi siamo saltati dentro ai camion americani abbandonati ed abbiamo preso le scarpe ed il tabacco che abbiamo trovato. Il giorno di Pasqua era già passato il fronte. In prima linea degli americani non c’erano mica i bianchi c’erano i neri. I bianchi arrivavano dopo. Sentivamo parlare nelle nostre lingue, il veneto, l’abruzzese etc. Ce n’era di tutte le razze. […] C’era uno alla polveriera, che si chiamava Sellin, un tedesco dell’esercito, che chiamavamo “il boia”, era terribile, picchiava tutti. I nostri compagni sapevano dove stava e lo hanno ammazzato, quando arrivarono gli americani. […] Non avevamo fretta di tornare perché avevamo paura di essere usati nella guerra contro il Giappone. Avevamo paura che ci facessero una visita e, poi ci rimettessero a combattere. Quando sono tornato a casa ero in forza. In agricoltura si mangiava, delle patate, qualche uova, poi rubavamo una gallina, ci si difendeva. Dai primi di Aprile al 6 di Agosto, facemmo la bella vita. […] OTELLO VERONESI - 1921 - Bazzano (Bo) - Soldato […] La prima destinazione, siamo entrati in guerra con la Jugloslavia; che eravamo sui capisaldi, noi, sulla frontiera, proprio siamo stati i primi ad entrare. Era il giorno di Pasqua e siamo entrati, eravamo in venti, dal confine, siamo andati giù, che si chiamava Bistrica, il primo paese; siamo arrivati la vigilia di Pasqua. E lì, il nostro capitano: “Battaglione di destra, avanti! Battaglione di sinistra, avanti!”, e io guardavo... “Ma dove sono ‘sti battaglioni!”, e lì, han depositato le armi e siamo entrati in questo Bistrica e dopo sono arrivati anche i tedeschi, e via. […] Quindi arriva l’8 settembre; volevo sapere se nei giorni prima si immaginava già che l’armistizio si avvicinava... No, noi non sapevamo proprio niente. Lì, l’ufficiale ci ha radunato nel cortile lì, in questo castello: “Guardate, Badoglio ha firmato l’armistizio”. “E quindi cosa dobbiamo fare?”, dice: “No, facciamo... gettate le armi e andatevene a casa”. Ma lì andare a casa, da lì, a venire in Italia, dovevamo passare attraverso i boschi per paura dei tedeschi, o paura di Tito, perché... I rapporti di forze tra voi e i tedeschi erano... No, no, dov’ero io non c’erano. Ah, non c’erano i tedeschi, in quella zona lì. L’8 settembre non c’erano. Io i tedeschi li ho trovati quando sono arrivato a Postumia. Che Postumia era italiana allora e, quando sono arrivato a Postumia mi sono fermato in un casolare, dico: “Qui come siam messi in Italia?”, “Eh, siam messi bene, potete andare, i treni funzionano, potete andare in stazione, prendere il treno”. Allora noi: “Lì, la stazione è
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
265
subito...”; come arriviamo in stazione, son saltati fuori i tedeschi da tutte le parti e ci han presi. […] Sì, sì, catturati lì a Postumia. Io anzi ero riuscito ad avere un soprabito borghese, che m’ha dato una persona... adesso non mi ricordo più bene come è avvenuta la cosa che mi ha dato ‘sto soprabito, e me l’ero messo, ma mi han visto gli scarponi militari mentre andavo sul treno, m’han preso proprio così. E l’atteggiamento dei tedeschi immediato qual’è stato? Bruttissimo. Con degli spintoni, delle botte, ci han portati in una caserma lì di Postumia, una caserma di militari italiani, che era abbandonata; siamo entrati dentro là, c’era tutto spaccato, rotto. E lì, eravamo un mucchio di prigionieri radunati, fermi lì. Anzi, lì tanti tentavano di scappare perché saltavano la mura, poi c’era il bosco, ma quando saltavano la mura c’eran le guardie, non lo sapevano, e allora lì… cosa vuol saltare, t’ammazzano. E lì ci hanno imbarcati sui vagoni, cinquanta, sessanta, settanta per vagone, stipati proprio. E una settimana ci siamo stati lì dentro, fino in Polonia. […] Cibo niente, niente, chiusi i vagoni, urlavamo anche acqua, qui o là, niente, niente. Ricordo che in una stazione si era fermata la locomotiva, urlavamo acqua, ci han dato un getto dentro con... ci han bagnati tutti! […] Sì, avevamo delle gallette, delle scatolette, perché quando siamo scappati di là, ci eravamo riforniti di viveri, insomma; avevo lo zaino pieno, io. Ma il bere no; avevo quel po’ nella borraccia ma stop. […] E lì ci hanno scaricati che andavamo qua e là, perché può immaginare, una settimana dentro un vagone, con escrementi, tutto quel che succedeva, e ci han fatti passare per tutto il paese, e lì la popolazione ci sputavano in viso e ci davano calci, “Badoglio, Badoglio, traditori!”. […] Ci han fatto sfilare in mezzo alle stradine con tutte le sentinelle, e là dentro ci siam trovati, saranno stati un 50.000 prigionieri là dentro, tra russi, italiani; inglesi e americani, no. […] Lì siamo rimasti 2 o 3 settimane, mi sembra. Che è poi lì che facevano la... “Venite volontari”. Dopo arrivarono delle squadre di fascisti che venivano fuori dal reticolato, ci inquadravano nel cortile, e fuori dal reticolato c’erano là seduti tutti i fascisti con le gavette piene di pastasciutta, dicevano: “Venite con noi, se volete mangiare... vedete qui come mangiamo bene!”. […] E dopo in più vennero dei tenenti cappellani, vestiti da militari, con la croce da prete, a fare propaganda dentro, al concentramento, che andassimo volontari. Allora io non so se era un prete finto, per me era un finto, capito? […] A noi ci davano solo delle rape, e il bere, c’era una fontanella unica in mezzo al concentramento, nel piazzale… Va mò a prender da bere. Tutti si ammazzavano per andare a prendere un po’ d’acqua o per lavarsi; e dopo prima di partir di lì, ci han fatti passare dentro una baracca, là c’eran due mastelle, spogliati nudi, c’erano due mastelle, non so calce, roba bianca là, e un tedesco va col pennello, e passavamo con le braccia alzate, ci dava una spennelata e via, una spennellata e via, la disinfezione la chiamavan loro, ma era un bruciore dappertutto, perché era calce. E lì dopo ci han fatto rivestire e ci hanno inviato a Sagan. […] E dopo lì, quando ci davano il rancio, cosa facevano. Ci inquadravano, c’erano delle mastelle di legno con ‘ste rape, che ci davano cotte, lì, con pelle e tutto eh, Hans, si chiamava quel sergente delle SS, con
266
G. PROCACCI (a cura di)
due cani lupo così, questi cani neri tedeschi, sono aggressivi proprio, gli davano dei pezzi di cavolo, delle carote per terra, un pezzo di pane... Allora quando si passava, tanti si buttavano fuori per prenderlo, e lui gli aizzava i cani; lo facevano apposta, e i cani sbranavano eh! E quello lì era il primo impatto del concentramento. E lei come si spiega il fatto che in così pochi hanno deciso di aderire? Perché era subentrato un odio tremendo contro i tedeschi. L’odio l’avevamo già prima dell’8 settembre, anche. Perché anche in Jugoslavia arrivavamo nei paesini che avevamo conquistato noi, arrivavano loro... eran loro che l’avevano conquistato. Noi eravamo pezze da piedi, ci mettevan da parte, capito? […] Patire in prigionia era il massimo, ma li mandavano tutti in prima linea in Russia, poi. Perché noi avevamo sentito delle voci che li vestivano da tedeschi e poi li mandavano in prima linea in Russia. […] E lì dopo un mese che ero lì, ci hanno prelevati, eravamo una cinquantina, ci hanno portati... avrem viaggiato mezza giornata in treno, io non so come si chiamasse quella fabbrica, era una fonderia, che fondevano ‘ste bombe.[…] Perquisizioni ne subivate? Sì, le subivamo, che ci portavano in cortile di notte, la doccia. A me è capitato tre volte la doccia, di notte; e poi fuori in cortile bei nudi o con 10-15 gradi sottozero, magari. […] No, no, solo italiani, e russi, e polacchi anche c’eran in fonderia; russi, polacchi e italiani, e i civili tedeschi erano i caporali; perché quelli giovani erano tutti in guerra. Erano i caporali che quelli lì erano terribili anche loro. […] Commerciare, non avevamo mica niente, noi. Noi commerciavamo con gli americani, con un orologio che uno aveva o con gli stivali, e si metteva due zoccoli di legno ai piedi, eh! […] Allora lì a Sagan c’erano diversi campi. Sì, sì. italiani, ebrei, francesi, americani. Divisi, ma era grandissimo. […] Un giorno sono arrivati, che era poi l’ultimo anno di prigionia, han chiesto: “Chi è che sa fare il contadino qui?”. Io ho alzato subito la mano, non sapevo neanche cosa era una zappa, dico: “Là mangerò. Ci saranno delle patate, delle carote, dell’erba...”, dico. E sono andato a fare il contadino, che dopo lì sono stato liberato dai russi. […] E le condizioni sanitarie del campo... Pessime, pessime; ne morivano tutti i giorni in questo modo. Di epidemie, polmonite, di tutte le razze. Anche per l’igiene, eh! Perché io ricordo lì alla baracca, è meglio che non lo dica, perché... dove c’eran i gabinetti, non si poteva entrare insomma, ha capito? Ma non era perché fossero non puliti gli italiani, per questi ragazzi, che gli venivano delle gran coliche, delle gran... che la facevano per strada, ecco perché l’igiene non esisteva assolutamente. E poi anche il lavarsi e tutto, non c’era la possibilità come avrebbe dovuto, insomma. Quindi non vi facevano lavare quasi mai, disinfestare, non facevano nulla. No, no. E c’era un’infermeria? No, infermeria era che c’erano i tenenti medici, prigionieri, che facevano... aiutare tra noi, capito? Anzi, si guardava bene a dire che uno era malato, capito? Uno si riguardava a dire che era malato, perché quando
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
267
era malato venivano: “Ti portiamo a curare”. Non si vedeva più quello là; dove sono andati? Gli sarà morto all’ospedale? Perché loro degli ammalati non se ne facevano niente. […] Sì, sì ufficiali ce n’erano. Nello stesso campo? Sì, sì, nello stesso campo. Tenenti, c’era anche un capitano, c’eran degli ufficiali di marina. […] Ma loro avevano una baracca a parte o erano lì con voi? No, erano lì con noi. Dopo avevano fatto nella baracca un castello che erano tutti gli ufficiali; ma lì dov’ero io erano nella stessa baracca con noi, non è che fossero a parte. Ed erano trattati come i soldati? […] Sì, sì, come noi. […] Lì c’eran solo queste guardie di SS temibilissime e basta. Ah, c’era, mi ricordo uno era di Bolzano, un altro di Merano, tutti altoatesini erano, facevano il kapò quelli lì. […] E quello lì di Bolzano era proprio... è sempre stato prigioniero anche lui... carogna, e delle volte si vedeva che gli davano da mangiare di più a questo di Bolzano. E quello lì l’abbiam trovato su un treno quando si scappava dalla Polonia a venir giù dalla Cecoslovacchia. E quando l’han visto l’han gettato giù dal treno, io non ho più saputo niente, di quel bolzanese lì. Perché era carogna, e io non so perché non andasse volontario coi tedeschi. Lui stava bene lì; mangiava, beveva, e faceva la spia di ogni movimento dei prigionieri. […] Il morale; delle volte uno cercava anche di scherzare o star su col morale, ma il morale era sempre bassissimo, non era che fosse un morale alto. Ma c’era collaborazione tra di voi? Sì, sempre. Nella mia baracca non è mai successo... delle zuffe, liti tra prigionieri, mai. C’era collaborazione. […] Anzi, c’era collaborazione tranne che quando ci davan la pagnotta di pane e si tagliava in sette fette, non so, glielo avranno già raccontato, poi si faceva la conta a chi toccava prima a prendere la fetta; allora il primo aveva sempre la più grande e all’ultimo gli toccavan le briciole, perché aveva la più piccola. […] Si ricorda del momento in cui, in base all’accordo Hitler-Mussolini, diventaste lavoratori civili? Noi non ne sapevamo niente, dov’ero io lì. Ho imparato certe voci che... Non c’è stato un periodo in cui eravate più liberi di muovervi? No, lì dov’ero io, dai contadini, eravamo liberi, quando eravamo lì in campagna, potevamo anche scappare, c’era una sentinella, un anziano, quegli anziani che mettevano a far le sentinelle lì, poi c’erano i contadini tedeschi, anziani anche quelli. […] Anche gli ufficiali che mi ha detto che eran lì presenti eran costretti a lavorare? No, lì con me non ce n’erano ufficiali, lì dai contadini; si vede che loro non han detto che sapevano fare il contadino, e allora... E in fonderia neanche? Neanche. Non li ho visti neanche in fonderia. […] Quando sono stato liberato, era, mi ricordo, un freddo terribile, c’era 20 gradi sottozero e... i tedeschi sono scappati tutti; ci hanno ab-
268
G. PROCACCI (a cura di)
bandonati lì, no? Anche la popolazione del paese, tutti sono scappati; che anzi dopo noi siamo andati nelle case, aprivamo i cassetti, ci cambiavamo di maglia, di tutto, perché avevano lasciato lì tutto i tedeschi, avevano lasciato il bestiame, che noi stessi andavamo a dargli da mangiare al bestiame, prima che arrivassero i russi. Poi quando abbiamo visto arrivare i carri armati in mezzo a ‘sta neve, tutti vestiti di bianco, dico: “Eh, sono qua!”. E dopo c’era venuto il dubbio che fossero i tedeschi che facevano... allora, arrivano e ci ammazzano tutti, qui; perché avevamo già saccheggiato un po’ le case. E invece erano i russi, e ci hanno accolto bene. […] Quindi veniste aggregati all’esercito insieme ai mongoli? Sì, ma sempre vestiti in borghese noi. Avevamo carta bianca, tutto. E nell’avanzata su Berlino, l’esercito russo venivano avanti, ma non c’era il rancio, il mangiare, c’era carta bianca; ognuno si doveva arrangiare. Arrivavano... eran capaci di uccidere una mucca per mangiare una bistecca, e basta, poi piantavano lì; magari arrivavano degli altri e la mangiavano loro. Dopo arrivati ad un certo punto, oltre Breslau, han cominciato a requisire, i russi, il bestiame, tutto quello che trovavano; viveri, bestiame... e allora ci han fatto fare i convogli, con ‘ste... tutte, 500 mucche dovevamo portarle lungo l’Oder e portarle indietro verso la Polonia per dopo portarle in Russia, non lo so. Lì, particolare, lo devo dire? C’era da riempire dei cestoni d’uova e guai se dovessimo bere un uovo, dovevano andare in Russia. E io, con lo spillino, bevevo e poi le rimettevo, bevevo. […] A muover ‘sto bestiame eravamo una trentina, eravamo; una trentina di prigionieri. Di prigionieri, non eravamo più prigionieri, insomma. […] L’abbiamo portato fino in Polonia, poi l’hanno caricato su dei carri, dopo, dov’è andato il bestiame, non lo so. […] E dopo, come sono arrivati a Berlino, i russi... abbiam detto: “Noi adesso andiamo a casa!”, e dice: “No, no, adesso voi dovete venire a Odessa, che là vi smistiamo e dobbiamo registrare tutto e poi vi mandiamo a casa”. E io mi trovavo a Cracovia, eravamo tutti su un treno ma con i vagoni aperti, e allora era di sera, lì c’era un polacco e dico: “Ma dove vanno quei vagoni là?”, c’eran dei vagoni aperti, sa quelli da trasporto, mi dice: “Quei vagoni lì, è una settimana che son lì, che dovrebbero andare in Cecoslovacchia”. Allora, salta giù, dentro i vagoni, ci siamo addormentati, mi sono svegliato che i vagoni andavano, e mi son trovato in Cecoslovacchia, per rientrare. E dopo in Cecoslovacchia, un po’ a piedi, un po’ su dei treni, un po’ su dei carri, sono arrivato in Austria e da lì a Vienna, ho traghettato dando degli orologi, della roba, per passare di qua dagli inglesi e americani; perché a passar sui ponti, i russi ci prendevano e ci portavano indietro; anzi in Cecoslovacchia, sono venuti, che ero dentro una stazione là a terra che dormivo, facevo finta di essere un polacco, capito? Dicevo: “Poporski, poporski” [sic], allora andavano via, ma se dicevo italiano ci portavano via. Qual era l’atteggiamento dei russi nei confronti della popolazione tedesca? Terribili, terribili. Io ho visto prendere delle donne legarle la sottana in testa, fare i loro comodi, e poi buttarle dentro l’Oder, per dire. La guerra è brutta, eh! Dopo ne ho visti dei russi umani, buonissimi, ma c’era anche il russo, come questa gente, analfabeta lì, quei russi lì, cosa vuol pretendere; loro quello che trovavano, alcool, quella roba lì, bevevano.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
269
C’era uno, ha trovato una bottiglia d’inchiostro, una volta, “Uh, quello è buono!” faccio io, e si è messo a bere l’inchiostro. E poi gli piacevan le sveglie, dio bono. Prendevano dei begli orologi. Dicevano: “Guarda, bello questo, grande!”, allora glielo davo e mi davano l’orologio bello, per la sveglia. Sembra della roba da ridere, ma è realtà. […] Mi hanno aiutato molto i polacchi, invece... no, no... proprio umanamente un pezzo di pane te lo davano; i cecoslovacchi, no. Ai miei compagni han detto: “Ah, volete del pane? Venite qui”. Li han fatti lavorare lì in campagna e poi a momenti gli dan delle botte, non gli han dato niente e li han mandati via. Per dire, della gente che eran coi tedeschi... insomma il cecoslovacco era cattivo, anche con noi. […] Allora sono andato a finire con gli inglesi; dopo di lì ho continuato e sono arrivato a Tarvisio. Tarvisio, ancora con gli inglesi, ci han prelevati in un accampamento grandissimo, da luglio, tutte le tende, eravamo tutti prigionieri che rientravano, e lì dovevamo fare la quarantena dicevano loro, per via delle malattie, avranno avuto anche ragione; e lì ci mettevano in fila ‘sti inglesi, un giorno ci mettono in fila e ci danno questo mestolino di tè e dei biscottini, gallettine, piccole così, e poi ci han dato una carta velina lì, e passavano, e uno da un barattolo di marmellata metteva un cucchiaino di marmellata, e c’era l’ufficiale inglese che diceva: “Italiano, non ti va bene? Marmellata buona”. Mi è venuta una reazione fatta così: marmellata in faccia all’ufficiale inglese e, via! Ho lasciato tende e tutto; se mi faceva prendere quello lì mi fucilava. […] Perché anche gli inglesi, oh, non erano mica... gli americani sì, ti davano da mangiare, ma gli inglesi no. Forse ne avevano poco anche per loro, non lo so. […] Sono scappato, e sono arrivato a casa e... sono arrivato a casa e non ho trovato nessuno. […] Facilitazioni, anche successivamente, riconoscimenti... No, no, nessun riconoscimento. […] Niente. Ci han dato un po’ di soldi lì al distretto, perché erano soldi che in quei due anni di prigionia non avevamo mai preso la decade. E se ho voluto lavorare sono andato a finire in Belgio in miniera, a 1.200 metri sotto terra. Quella è stata la mia fine. Sono stato 9 anni in Belgio, e dopo là sono riuscito a venir fuori dalla miniera, ho messo su un negozio, ho trafficato, insomma mi son fatto e dopo nove anni sono tornato. […] BRUNO VEZZELLI - 1923 - Modena - Soldato […] L’8 settembre 1943 ero in ospedale a Cefalonia, ero caduto quindici giorni prima e cadendo mi ero rotto la faccia e di conseguenza mi trovavo in ospedale, un ospedale da campo della divisione “Acqui”. […] Sono sopravvissuto alla morte senza esagerare cinque o sei volte; uno di questi casi è questo, nel reparto dove ero; io ero alle salmerie della quarta compagnia, non se n’è mica salvato uno. Il generale Gandin che comandava la divisione a Cefalonia aspettava ordini, ordini che non sono mai arrivati, i tedeschi a quel punto volevano che gli italiani consegnassero le armi, loro sull’isola erano in 2.500 noi 11.500; allora non tanto i comandanti delle varie compagnie, ma i militari
270
G. PROCACCI (a cura di)
stessi hanno preso l’iniziativa e quando i tedeschi hanno cercato di attraversare il canale che divideva l’isola da una parte all’altra, alcuni reparti di artiglieria da costa e della marina gli hanno fatto fuoco contro e da lì siamo stati attaccati dagli apparecchi e noi non avevamo né ordini né aiuti né direttive. Io ero in ospedale ed il capitano doveva mandarmi al reparto, perché ormai ero guarito e come sono arrivati gli apparecchi il capitano mi ha detto: “Se vuoi ti metto una croce al braccio e rimani qui come infermiere”. I tedeschi sopravvissuti sono stati portati nell’ospedale ed il capitano, persona molta equilibrata, ci ha rammentato che: “I militari sono militari per cui non oltraggiateli”. Per circostanze diverse nei reparti a curare gli ammalati c’eravamo solo io ed una suora. Quando tutti i tedeschi si sono uniti e sono arrivati da noi, c’erano due ospedali da campo, uno dove li avevano maltrattati e loro li hanno uccisi tutti e il nostro, dove li avevamo curati, per questo ci hanno fatto grazie della vita, ci siamo salvati in 2530 fra medici, infermieri e feriti nell’ospedale, in generale 4-5.000. Nei primi giorni i tedeschi ci uccidevano tutti; quando hanno iniziato ad aver bisogno hanno iniziato a farci prigionieri ed hanno fatto un campo di prigionia a Cefalonia, dove davano poco da mangiare. Al mattino venivano a dire che a chi andava a raccogliere i morti gli avrebbero dato più da mangiare ed una sera, dopo avere fatto questo, ho preteso la mia razione doppia di cibo ed una guardia mi ha portato in una camera dove tenevano i vestiti dei soldati italiani, vi erano altri due che piangevano perché erano sicuri che il mattino dopo ci avrebbero uccisi tutti. Al mattino arriva un capitano e dice che, visto che le operazioni erano finite, ci avrebbero salvato la vita. Da Cefalonia ci portano con tre navi a Salonicco; nel viaggio le prime due navi affondano perché urtano delle mine, la terza dove vi ero anche io, arriva al Pireo e da lì ci portano ad Atene dove restiamo quindici o venti giorni, poi ci portano a Salonicco in un campo di sterminio di prigionieri di varie razze, ma comunque tutte separate fra di loro, ed i tedeschi ci chiedono di collaborare e chi era disposto a farlo veniva portato o in Italia o in Germania, ma sotto il comando tedesco e nessuno ha accettato e così ci hanno caricato su un treno e dopo ventun giorni di viaggio si siamo trovati a Borisov che è la seconda città dopo Minsk. Durante il viaggio per i primi giorni ci hanno dato da mangiare, ma gli ultimi giorni erano rimasti senza cibo, ce lo hanno detto e siamo rimasti a digiuno, ci hanno promesso che quando saremmo arrivati a Leopoli ci avrebbero dato la razione dei giorni passati a digiuno, e così hanno fatto. Da Borisov, che era l’ultima stazione del treno, abbiamo proseguito per circa 80 chilometri per arrivare in una località dove c’era un campo di prigionieri, e ci mettono in una stalla di cavalli, già pulita con i castelli già preparati, dove c’erano molti topi; io ad esempio, che ero il più giovane e comandavo meno, dormivo sotto e i topi si divertivano a camminarmi sopra, ma non ci morsicavano, mentre noi invece abbiamo iniziato a mangiare i topi per combattere la fame, ad iniziare era stato un romano. Eravate solo italiani? Siamo tutti italiani provenienti dalla Grecia, circa un centinaio nella baracca. Eravamo divisi per gruppi da nove persone, comandati da un sottufficiale tedesco, noi come guardia avevamo trovato un padre di famiglia, era molto bravo, il cibo era abbastanza sufficiente per andare avanti
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
271
anche perché la nostra guardia da padre di famiglia tutti i giorni a mezzogiorno ed alla sera faceva il giro delle varie cucine ufficiali, militari etc con un secchio raccogliendo cibo e ce lo divideva fra tutti. […] Il nostro lavoro era di caricare le munizioni che arrivavano dall’ultima stazione e poi le venivano a riprendere con dei carretti per portarle al fronte che era abbastanza vicino. La giornata si svolgeva in modo normale, sveglia al mattino, si andava a lavorare, etc, il tempo che non si faceva niente era limitato perché adunata al mattino e poi a lavorare, adunata alla sera e poi a letto, anzi devo dire che lì a volte ci hanno fatto fare anche il bagno turco, si entrava in una cava di pietra di acqua bollente, ci facevano sudare e poi ci facevano andare in un capannone dove c’erano dei contenitori di acqua fredda con la quale ci dovevamo lavare, ma noi eravamo talmente tanto poco nutriti che ci faceva più male che bene, essendo poco nutriti subito dopo non riuscivamo a stare in piedi dalla debolezza. […] In questo posto ci siamo rimasti circa nove mesi da quasi fine di novembre del ‘43 fino a quasi la fine di giugno del ‘44. Come fu il vostro trattamento? In questi nove mesi a parte la fame la vita era abbastanza accettabile perché il ritmo di lavoro, il trattamento che ci usavano diciamo e anche il vitto inteso anche nel suo poco, nella sua ristrettezza, erano accettabili. […] Io non ho mai subito maltrattamenti, qualche offesa, soprattutto quando facevamo finta di non capire quasi per vendetta. […] Mi si sono gelati i piedi cioè le unghie dei piedi, l’inverno lo abbiamo passato con tanta neve e tanto freddo, vestiti di pastrani e senza scarpe e quando sono uscito dall’ospedale mi hanno dato due zoccoli olandesi che mi hanno aiutato ad andare avanti assieme alla coperta che mi ero portato dietro dall’ospedale di Cefalonia e che ho sempre tenuto con me. […] Arriva il 24 giugno, ed arriva l’ordine di liberare il campo, di partire perché i russi iniziano ad avvicinarsi, così ci incamminiamo a piedi nelle strade in mezzo ai boschi; durante il viaggio vi è un’incursione aerea e ci viene dato ordine di metterci dalle parti della strada e così io ho convinto altri quattro a scappare in mezzo ai boschi, pensando di nasconderci tra gli alberi, ma uno torna indietro e così restiamo in quattro camminando per due chilometri e ci fermiamo per passare la notte. Durante la notte si sentiva la confusione del fronte che si avvicinava ed la mattino ci svegliamo già nella zona russa e uno di noi sale su una pianta per vedere dove eravamo e nota oltre il bosco una radura con un gruppo di case che raggiungiamo. Lì siamo stati accolti con baci ed abbracci con un calore umano incredibile. Il mattino dopo attraversiamo l’altro versante del bosco ed incontriamo tre civili russi a cavallo ai quali ci presentiamo facendogli capire che eravamo italiani, ci hanno portato al comando in un altro posto. Nel viaggio uno di loro si accorge della mia coperta e la vuole ad ogni costo fino ad estrarre la pistola per averla, la piega e la nasconde sotto la sella del cavallo e uguale fanno gli altri due con i miei compagni. Ci portano vicino a questo paese dove vi è un capitano dell’esercito russo che per mezz’ora ci fa la predica con la rivoltella in mano; i tre partigiani spariscono e mentre lui continua a farci la predica i civili ci portano da mangiare. Dopo ci portano sulla strada principale dove arrivavano dei camion pieni di prigionieri sia tedeschi che italiani, formiamo una colonna di prigionieri con gli italiani davanti e i tedeschi dietro, gli italiani or-
272
G. PROCACCI (a cura di)
mai erano in un centinaio. Proseguiamo in questo modo per sette od otto giorni ed è stato il momento più brutto, tanto da pensare che era meglio morire: la truppa russa continuava ad avanzare su questa strada e quelli della colonna di carri armati vuoi perché bevevano o perché volevano vendicarsi sparavano nella colonna di prigionieri e chi veniva colpito e solo ferito doveva trascinarsi fino a dove poteva, per poi morire lungo la strada. Noi che eravamo davanti eravamo i più fortunati perché di solito iniziavano a sparare a metà fila, ma ad un certo punto hanno iniziato a sparare prima ed il caporalmaggiore russo che ci accompagnava viene colpito da una pallottola nella testa e si accascia in ginocchio, vengono colpiti anche alcuni italiani tra cui un caro amico di Ancona che è stato ferito ad una gamba il quale ce lo siamo trascinati fino che abbiamo potuto e poi è morto. Io mi trovavo sotto un carro armato e mi sono salvato per quello. Morto il caporale russo resta solo il soldato russo dietro la colonna il quale non si preoccupava né di darci da mangiare né da bere. Ci siamo cibati solo di cose che trovavamo lungo il cammino. Dopo quindici giorni siamo arrivati in un campo ad Orazsa [sic], ci danno qualcosa da mangiare ci riposiamo, ci trattano tutti allo stesso livello, chi ci comandava erano delle donne armate, erano terribili perché se qualcuno si avvicinava un po’ troppo a loro ci minacciavano con le armi, e dopo qualche giorno ci portano a Mosca. A Mosca per far vedere tutti i prigionieri, ci hanno messi nella strada che gira tutto intorno alla piazza dietro al Cremlino, in reparti di centro persone, per i tre giorni che siamo rimasti lì ci rifocillavano con cibi americani, siamo sempre insieme ai prigionieri tedeschi coi quali non volevamo stare, in fondo alla piazza c’è un palazzo con un grande balcone sotto il quale noi avevamo fatto il nostro ritrovo, urlavamo e facevamo molta confusione per il fatto che non volevamo stare con i tedeschi, a quel punto è arrivata una generalessa russa che parlava italiano, ci ha raccomandato di stare buoni perché presto saremmo andati nei campi di prigionia-lavoro dove ci sarebbe stato lo smistamento, chi avesse voluto andare a combattere in Italia con l’esercito di Badoglio per la liberazione poteva farlo etc. Ci hanno fatto sfilare come prigionieri nessuno ci ha ingiuriato. Passati i tre giorni ci portano alla stazione dove ci caricano in treno e dopo tre giorni credo arriviamo a Stalingrado; ci fanno scendere dal treno e vediamo una città che è un ammasso di rovine, ci fanno spogliare di tutto quello che avevano nelle tasche, oro, catene, etc. tutto. Io ho cercato di nascondere una foto della mia bambina in una calza perché io a qual tempo ero già sposato con una figlia, ma vedendomi mi hanno bastonato, qui ho capito che non vi era differenza con i tedeschi, nessuno si è interessato di noi, chi eravamo, cosa facevano, da dove venivamo, etc. Ci portano in un prato dove c’era una bella casa in muratura fatta di mattoni, ci danno l’ordine di costruire delle baracche, nel frattempo noi dormivamo all’aperto perché era il mese di agosto, il 16 agosto del 1944, c’era qualcuno che diceva che fino a quando Stalingrado non era stata costruita come era prima non ci avrebbero mandati a casa. Dopo qualche tempo le baracche sono state costruite e venivano fatte sottoterra per il caldo, cioè solo le finestre erano sopra terra, siamo rimasti lì fino al luglio del 1945. Appena arrivati nel campo ci hanno spogliati nudi, ci visitano due dottoresse tenenti più un capitano donna, se eravamo in carne ci mettevano nei campi di lavoro altrimenti rimanevamo a fare i lavori nel campo.
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
273
[…] Poi mi mandano in una fornace dove la maggior parte erano donne che lavoravano e nessuno ci permetteva di parlare con i civili, poi in una falegnameria dove facevano le ruote per i carretti e dove c’erano dei civili molto buoni che mi trattavano bene, il padrone spesso chiedendolo alla guardia mi prendeva con lui quando doveva andare in qualche posto. I civili soffrivano la fame come noi, vivevano malamente, venivano pagati una parte in denaro una parte in generi alimentari; con il padrone un giorno vado in una stanza dove in un angolo c’erano tanti pomodori che stavano marcendo e dall’altra parte un mucchio di patate, prendi una parte di patate e una parte di pomodori, io ho chiesto ma perché non posso prendere anche quei pomodori che stanno marcendo e lui ha risposto che la regola era questa tanti pomodori e tante patate non di più, e là ho capito il disinteresse sull’economia, sulla produzione. Le prime macchine mietitrebbia le ho viste là in un campo di grano dove sparivano all’orizzonte, portavano il grano vicino alla ferrovia con dei camion russi non sigillati bene e quando arrivavano alla ferrovia il grano era stato perso quasi tutto lungo la strada. Alla stazione non c’era né selciato né tettoia, il grano veniva buttato sul terreno perché poi lo avrebbero caricato sui vagoni; i camion spesso per scaricare il grano camminavano con le ruote sul grano già in terra, era l’autunno del 1944. Io continuo ad essere sorvegliato da una guardia russa sono l’unico italiano, tutte le sere torno nella mia baracca. Come si svolgeva la sua giornata? La mia giornata si svolgeva in questo modo, sveglia alle sei del mattino alle sei e trenta pronti per il rancio che era un mescolo di minestra molto chiara, c’erano dei cetrioli bolliti, pomodoro e lische di pesce, una fetta di pane di un chilo, il pane era di colore di nero, era buono per quel tempo, era tanto bagnato che pesava un chilo. In Russia si mangiava più male di quando ero prigioniero coi tedeschi perché loro ad esempio facevano quasi sempre orzo pelato, miglio, granone quasi sempre la pasta piccola in brodo ma abbastanza densa, al mattino caffè d’orzo, pane, marmellata e margarina, a pranzo minestra, come secondo una fetta di lardo oppure una fetta di maiale arrotolato, alla sera il formaggino, il pane veniva dato solo al mattino, una pagnotta e mezzo da dividere in nove. Il capogruppo prendeva la razione per tutti, il pane, la margarina, qualche volta la marmellata a volte lo strutto, la quantità era poca ma le calorie sufficienti. Tornando alla giornata in Russia dopo colazione fino alle otto e trenta contavano i prigionieri anche venti volte, ed alla sera era uguale perché in tanti morivano, spesso perché si logorava l’intestino. Com’era il rapporto con gli altri prigionieri, i tedeschi? Nei campi di prigioni russa sono sempre i tedeschi a comandare e ogni ingiuria che potevano farci la facevano anche perché essendo loro che parlano il russo sono anche quelli che comandano il campo. I russi trattano i prigionieri uguali sia tedeschi che italiani. Quando arrivava il freddo ci portavano la domenica a raccogliere la legna per le cucine, non per le stufe della nostra camerata. I tedeschi nell’inverno cominciano piano piano a morire perché stavano appoggiati alla stufa spenta tutta la notte a fumare per vincere il freddo e al mattino dovevano andare a lavorare come noi e finivano per morire di stanchezza e di freddo, alla fine ne erano morti quasi l’ottanta per cento. In quel campo ci siamo trovati ad un certo punto in dodici nazionalità perché man mano che morivano veni-
274
G. PROCACCI (a cura di)
vano sostituiti da altri. Ogni mese venivamo controllati dalle dottoresse le quali ad un certo punto mi trovano talmente magro che mi tengono in campo a fare i lavori di pulire la camerata, prendere l’acqua, pulire intorno ai gabinetti che erano solo buchi fatti nella terra con intorno delle assi di legno, seppellire i morti, mettere a posto i vestiti di quelli che morivano, questo l’ho fatto quasi per tutto l’inverno. Chi non fumava dava via il tabacco per avere il pane, ma questo pane; veniva tolto da bocche che avevano fame, la mia razione di tabacco prima la davo ad un mio amico di Bomporto, il quale lo cambiava per il pane; quando me ne sono accorto ho iniziato a darlo ad un fumatore accanito per niente. Gli italiani generalmente si mettevano in gruppo sia per necessità di sopravvivenza che per amicizia, tipo alla notte si dormiva per scaldarci in tre su di una tavola e quando ci si girava dovevamo farlo tutti e tre. Fino alla fine di febbraio faccio il lavoro nel campo, il mio amico era stato messo in cucina e quando buttava via le scorie dalla finestra quando poteva ci metteva due patate che io dovevo andare a prendere subito perché il freddo era tale che se ritardavo erano già gelate e così aspettavo fuori dalla finestra anche fino a mezzanotte che lui buttasse fuori il secchio dalla finestra. Una notte vengo scoperto dal vice comandante del campo il quale mi pesta con i piedi e mi mette tre notti in prigione, la prigione era un buco fuori dal campo senza niente dove morivano quasi tutti. L’ultima notte siccome era l’ultimo dell’anno ci lasciano andare in baracca, perché eravamo in tre nel buco. Alla fine di febbraio io ero peggiorato e iniziavo a perdere anch’io del sangue e mi mandano al lazzaretto dove non si salvava quasi nessuno dopo tre giorni morivano quasi tutti. Il mio amico, che nel frattempo stando in cucina si era rinsavito, era tornato nei campi a lavorare e con i 30 rubli che percepiva di paga, perché nel frattempo le leggi erano cambiate e i prigionieri dovevano essere pagati per il lavoro svolto, la sera della seconda giornata che io mi trovavo al lazzaretto non so come si è procurato un litro di latte che io ho bevuto tutto in un fiato perché la malattia che avevo dava una sete terribile che a volte prendevamo il ghiaccio dei vetri per dissetarci. Al lazzaretto sono rimasto quasi una settimana. Dopo che sono guarito mi mandano in un campo a seppellire i morti fino al 15 luglio giorno nel quale ci chiamano tutti quanti e ci chiedono chi siamo, da dove veniamo, se abbiamo famiglia etc, poi ci danno una cartolina da scrivere dove dobbiamo mettere solo i saluti, io che pensavo non arrivasse mai l’ho scritta tutta con tante notizie e lo strano è che la mia è arrivata tante altre no solo che è arrivata dopo che sono tornato a casa. Da quel giorno cambia anche il mangiare. Una sera mi chiamano in cucina ad aiutare e così quando si è finito si può mangiare tutto quello che si vuole. Si sa che la guerra è finita perché il 9 di maggio i russi hanno fatto una festa a Stalingrado lanciando razzi luminosi in alto, ma continuavano a dire che fino a quando Stalingrado non era finita non ci mandavano a casa. Nel frattempo mi avevano cambiato campo mandandomi a Karkov in un campo di convalescenza dove vi sono due medici italiani, sempre prigionieri. Si poteva dormire nelle brande e non più sulle tavole, ci davano il pane bianco, ci davano la carzia che è un orzo fatto come la polenta, che è quasi buono perché è condito. […] Restiamo in questo campo fino ai primi di ottobre quando finalmente ci dicono che possiamo andare a casa. Ci danno un pezzo di carta che diceva che eravamo prigionieri e che rimpatriavamo, ci dicono di farla
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
275
vedere tutte le volte che veniamo fermati, ma di non isolarci perché tutti quelli che troviamo isolati dalla tradotta saranno mandati nei campi di prigionia e poi in Siberia, siamo rimasti per 52 giorni in treno. Il treno poteva andare solo quando il binario era libero. Noi eravamo in quattro, due cucinavano e altri due quando il treno era fermo andavano a cercare cibo intorno ai binari lungo la ferrovia, barbabietole patate, a volte anche pane nei vagoni in sosta. Un giorno a Varsavia facendo un giro trovo un secchio di quelli che i tedeschi usavano per portare il mangiare ed era quasi pieno, in un vagone trovo dello zucchero del pane solo che quando torno in dietro non trovo più la tradotta, e così ho iniziato a correre verso il posto dove secondo me la tradotta andava e mi sono trovato ad un certo punto dove i binari si stringevano e diventavano solo un binario e c’era un polacco al quale ho cercato di spiegare che cosa era successo e lui mi ha detto che c’era una tradotta di merci che seguiva la stessa linea, ti metto dentro la garitta di frenatore quando inizia a rallentare scendi perché lì ci sarà la tua tradotta. Io ero dentro il convoglio merci e sentivo delle urla, capivo che cercavano qualcosa. I russi stavano cercando due prigionieri russi collaboratori dei tedeschi che erano scappati da un convoglio di prigionieri con non solo i vagoni chiusi col catenaccio ma anche avvolti col filo spinato. Ad un certo punto hanno aperto la garitta dove ero io e quando mi hanno visto il tenente ha tirato fuori la pistola e quello che era con lui che aveva la lumiera gli ha spostato il braccio perché era quello che mi aveva nascosto lì e così mi sono salvato. Alle undici la tradotta è partita e mi sono incontrato poi con la mia, ritrovando i miei amici che mi avevano tenuto la mia parte di zuppa. Siamo arrivati a una città completamente distrutta, vi erano morti dappertutto, i cadaveri lungo la strada, lungo i fossi, vicino i muri, c’erano tanti morti perché quella era l’ultima stazione ed arrivavano molte tradotte piene di morti che li lasciavano lì. Un po’ fuori dalla città c’era lo scambio tra russi e americani, i tedeschi li lasciavano liberi, i francesi, gli italiani, i rumeni, i bulgari etc. Li portavano in un campo dove gli americani dovevano prenderli in consegna, ma gli americani volevano che noi avessimo due scarpe ed un vestito cosa che non avevamo, io ad esempio avevo due braghe tagliate e una scarpa ed uno zoccolo e così mi sono fatto contare nascosto dietro gli altri. Dove vi hanno portati? Dopo una notte di viaggio siamo arrivati ad Innsbruck dove ci hanno spogliati e spolverato dappertutto e ci hanno ridato i vestiti di prima per partire. Quando siano arrivati al Brennero ci hanno dato del pane del vino brulé, io avevo la febbre alta ci hanno dato dei panni etc, a Pescantina il 24 novembre del ‘45 ci hanno dato da mangiare un vestito ogni persona, le scarpe a chi andavano bene e preso i dati. Come ritorna a Modena? Sono venuti dei partigiani da Modena a prelevarci, ci caricano su un camion e ci portano a Modena dietro la questura in un convento di suore che ci ospitano per la notte per non incontrare dei malintenzionati, ma io rifiuto e vado a casa. Lungo la strada per Albareto incontro uno in bicicletta il quale mi dice di abitare ad Albareto e lo mando allora ad avvisare che sto ritornando. Ad Albareto ritrovo tutti, mia madre, mia figlia, mia moglie, mio fratello e in un secondo tempo mio padre. La gioia è immensa, non si può spiegare, ero molto magro quasi non mi riconoscevano.
276
G. PROCACCI (a cura di)
[…] Ad Albareto incontro amici che conoscevo con i quali però non potevo raccontare la mia esperienza in Russia perché altrimenti diventavo un anticomunista e non venivo accettato, per cui ne parlavo solo in famiglia quando me lo chiedevano, ma loro non si rendevano conto che il comunismo non era quello che credevano, ad esempio il padre di mia moglie è morto dal dispiacere di non sapermi comunista. Anche se la mia famiglia non mi ha mai contraddetto, pur essendo veri comunisti, hanno cercato di capire la mia esperienza. Tutte le persone cercavano di convincere mia moglie a fare in modo che io tornassi ad essere comunista e così mia moglie si è sentita offesa ed ha cominciato a distaccarsi dal partito. Quasi tutte le notti pensavo se era vero quello che avevo vissuto perché non capivo le persone che erano così accanite con il comunismo se io ero stato così maltrattato. In un secondo tempo mi sono iscritto al socialismo. Nel dopoguerra anche quando ritrovo un buon inserimento nella società non riesco a scordare la prigionia in Russia, soprattutto perché ho sofferto molto il freddo, ho avuto la sensazione di morire diverse volte cosa che con i tedeschi non mi è mai successo. Solo negli anni settanta inizio a parlare con gli amici delle vicende che avevo vissuto, ma non come vivevano in Russia, non come erano trattate le persone là. […] Ho cercato di dimenticare la mia esperienza, mi ci è voluto del tempo per capire che la vita continuava, non capivo chi si divertiva, chi andava a ballare, mi facevano rabbia. Io non posso dire che in Russia stavano bene, non posso dire che l’economia andava bene in Russia, perché tutto veniva trascurato. Della mia esperienza dettagliata come ho fatto adesso non ne ho mai parlato con nessuno, l’ho fatto con lei perché mi sembra interessato. Ho anche cercato qualcuno per scrivere un libro, ma a chi interessa la mia storia? A chi serve? […] La differenza tra la prigionia tedesca e quella russa è enorme. I tedeschi ad esempio ci davano poco da mangiare ma quel poco ci permetteva di vivere, i russi non consideravano la persona, per loro eravamo numeri e basta che usavano e basta; i tedeschi conoscevano il nostro nome, i russi non si sono neanche interessati di chi fossimo, per loro al mattino dovevano esserci tot persone se non c’erano tutti bisognava presentare l’elenco dei morti, l’appello veniva fatto fuori al freddo senza maglia senza mutande e non nutriti, a volte questo appello durava anche due ore, io ero fortunato perché avevo due giacche e due pastrani, quando alla domenica hanno iniziato a farci il bagno hanno cominciato a controllare anche gli abiti e chi ne aveva due li doveva nascondere nelle baracche e quando si sono accorti di questo andavano nelle baracche e levavano tutto quello che trovavano. I tedeschi al mattino lasciavano il tempo di mangiare e dopo venivano in baracca a chiamare il gruppo per andare a lavorare. Con i tedeschi eravamo uomini affamati ma uomini, con i russi invece niente addirittura ci avevano svuotato di tutto anelli, orologi, foto, coperte, etc. Con i tedeschi non ho mai avuto paura di morire a parte quando mi sono avvelenato con i funghi. […] La solidarietà fra di noi era più forte nella prigionia russa in quanto il bisogno era maggiore rispetto alla prigionia tedesca, nel bisogno senti di più la necessità di avere e quindi se puoi anche di dare e quindi se anche devi dare per poter aver e dai. […] In Russia la domenica dopo la conta si andava a raccogliere la legna, il pomeriggio qualche volta si era liberi, si faceva la doccia non tutte le
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
277
domeniche, quel poco tempo libero che si aveva si viveva in baracca, non c’era molta conversazione, non c’era né odio né amicizia, si viveva nell’indifferenza assoluta sempre pensando al momento di mangiare qualcosa. LELIO ZENI - 1924 - San Possidonio (Mo) - Soldato Io sono della classe 1924, nato il 27 d’aprile del 1924, quindi alla chiamata, proprio perché sono dei primi mesi del ‘24, siamo andati via con il ‘23, e siamo andati via nel 1943. All’8 settembre del ‘43, noi, io ero militare all’88° fanteria La Marmora di Livorno, e di lì son riuscito, attraverso le fogne son riuscito a scappare e venire a casa. Nessuno più mi ha cercato e quindi son rimasto a casa fino ai primi mesi del ‘44. Che poi venne fuori il famoso bando che chi non si presentava alla leva, cioè non si presentava militare e così via ai distretti, veniva fucilato, proprio il manifesto parlava di questo, ed era rivolto alle classi del ‘25, ‘24, ‘23, mi pare anche il ‘22. Allora io mi presentai al distretto, anche se la mia famiglia è una famiglia di sinistra, nata da sinistra, i miei nonni, e così via, è stato assessore comunale a San Possidonio, dove io sono nato, e io avevo paura che non presentandomi o andando coi partigiani, facessero del male alla mia famiglia. […] Parlò questo ministro, sottosegretario che si chiamava Mezzasomma, e si chiedeva agli italiani, per il prestigio dell’Italia, e per l’onore dell’Italia, per riscattare i guai prodotti dall’8 settembre e così via, era giusto aderire a, e quindi ha cominciato a circolare la voce, a vent’anni cosa vuoi che se ne intenda, “Non firmiamo, non firmiamo, non firmiamo”, e quindi la voce ha, si è sparpagliata in modo tale, anch’io ho aderito a questa cosa di non firmare. Infatti, poi, lì cosa è successo, chi ha firmato è stato in Italia, e invece io, insieme a tanti altri, abbiam fatto un treno che non finiva più, dentro i vagoni bestiame, eravamo in 40 ogni vagone, e allora ci han caricato in questo vagone, con i viveri praticamente per cinque-sei giorni, siam stati su questo treno 17 giorni. Da Bassano del Grappa, col treno, quando la ferrovia era libera, siamo arrivati a Stettino, sul Mar Baltico. E lì ci han sistemati in un campo, dove noi andavamo fuori a lavorare, abbiamo avuto la fortuna o la disgrazia che per due volte consecutive hanno bombardato con spezzoni incendiari la città, vista dal di fuori non sembrava niente, però all’interno dei muri era praticamente bruciato, crollato tutto. E noi lì, deportati così, ci han messo già come prigionieri eravamo i vestiti nostri che nessuno ce li ha tolti eravamo anche autorizzati a tenere il distintivo bianco, rosso e verde, e quindi si andava fuori a lavorare. E poi si è capito che se qualcheduno faceva una somarata andava poi dentro i campi di punizione, insomma. […] Ti portavano tre patate da pelare, è vero, con un po’ di sugo che sembrava, delle volte cantava in bocca, proprio una roba, con dentro un po’ di polvere, sembrava lì, si sentiva solo il gusto del sale. Pochissimo, due fettine di pane e quello era il mangiare, insomma. […] Noi altri non andavamo mica nei campi, nei campi di punizione, diciamo così, o in quelli di sterminio; qualcheduno ci andava se non faceva a modo, veniva spedito nei campi, veniva spedito nei campi di punizione. Se facevi una cosa non fatta bene. […]
278
G. PROCACCI (a cura di)
Com’era la vita nel campo? Ma come devo dire, anche nei guai, anche con tanta fatica, anche con... così, quando si han 20 anni, si riesce sempre a trovar dei momenti anche così, nel rapporto umano con gli altri tuoi colleghi, riesci anche a trovare il momento per ridere, per raccontare una barzelletta, eh, per tirare fuori le foto delle nostre donne, delle nostre ragazze, e così, per scherzarci sopra e per dire: “Eh, che se vengo a casa!”, e insomma, come fa un giovane insomma. […] Com’erano i tedeschi nel campo con voi? Ah, tremendi, tremendi. Quando arrivavi. Noi siam stati fortunati perché avevamo un omino alto così, che era praticamente, come diremmo, un po’ il dirigente del campo, siccome lì andavano tutti a lavorare a gruppi, a gruppi, e allora quindi lui era un po’ l’organizzatore, fino al punto che qualcheduno lo chiamava “mamma”; quindi, perché poi se commettevi un errore, prendevi una cicca che buttavan via loro e così via, non sempre faceva la spia. […] E le cose più umilianti, che facevano più male, è che quando capitava che qualcheduno non stava bene e cadeva per terra o non riusciva più ad andare avanti, si prendevano quattro prigionieri, e prendevano questo personaggio come potevano, che molte volte andavi avanti uno da una parte uno dall’altra e così, e quello lì a pancia bassa, insomma molte volte gli saltava fuori la camicia, un freddo della madonna, perché poi quelli che lo portavano erano mica messi molto meglio di quello là. Quello è uno dei ricordi più brutti, perché il lavoro, se stavi attento, sempre a mani così, senza guanti, senza niente, muovere delle pietre, coi pericoli che c’erano. […] E i rapporti con i cittadini polacchi o tedeschi? Ma non è stato molto buono. Gli italiani non stati accolti bene perché partivan sempre dal fatto che gli italiani, insieme ai tedeschi e ai giapponesi, sono stati la causa dell’ultima guerra. I polacchi? Sì, sì. E quando stavi attento, qualche volta per andare a lavorare andavi anche sul tram, e qualche volta erano capaci di farti anche uno scherzetto, uno sgambetto; dovevi stare attento insomma. Con questi zoccoli a muoversi era difficoltoso. Va ben che eri giovane, però. Mah, in senso generale direi che però le cose dovevan funzionare, insomma, dovevi fare il tuo dovere, perché se per caso per due o tre volte facevi il lavativo ti mandavano via, ti mandavano, diciamo, quel campo “dei tigri”, quelli che avevano la divisa a righe. […] Voi sapevate dei forni crematori? Si, sapevamo che c’era i campi di punizione, perché quello lì ce lo diceva: “State attenti perché se commettete cose gravi, soprattutto, sulla propaganda, c’eran dei grossi pericoli”. […] C’era un nostro amico, che abitava a Castelnuovo Garfagnana, che era la nostra mascotte. Un uomo straordinario, alto quasi due metri, nella sua vita faceva l’ambulante e in quell’occasione ha bevuto quattro o cinque bicchierini di questa grappa e gli è scoppiata una sbornia da chissà che cosa. […] L’hanno interrogato il giorno dopo, insomma per due o tre giorni l’hanno interrogato, fino al punto che lui ha firmato una dichiarazione nella quale si diceva che può anche darsi che in uno stato di ubriachezza, così, abbia, così, ingiuriato qualche cosa, e che praticamente
Internati militari italiani. Cinquantotto interviste
279
ha quasi ammesso di aver pronunciato il nome di Stalin come, come un’ingiuria, come: “Verrà bene quello là a punirvi, insomma”. Fin lì, dopo due o tre giorni, una mattina ci han fatto alzare alle 5, e ci han preso questo nostro amico e l’hanno fucilato, alla presenza di parecchi. […] Quando venni a casa, sì, il Comitato di liberazione ci regalò un vestito, un vestito, altra roba, mi pare anche un paio di scarpe, un vestito, sì, poi, ma io vivevo già in una famiglia contadina. Eravamo in molti in questa casa, però il problema del vivere non c’era. […]
LA DEPORTAZIONE IN PROVINCIA DI MODENA di Lorenzo Bertucelli
Il lamento per essere stati dimenticati e abbandonati dalle istituzioni e dalla collettività — “parlano sempre degli ebrei”1 — si collega alla paura per una memoria che rischia di non essere trasmessa. Alcuni, proprio per questa ragione, scrivono un diario da lasciare al giovane nipote oppure accettano, a fatica e con sofferenza, di realizzare interviste dopo lunghi anni di silenzio sulle loro vicende personali. I timori di uno “strappo” nella memoria sono forti: “Non si può dimenticarli questi lavori qui! […] Il benessere va bene, per fortuna che c’è. Ma bisogna anche capire dove sei stato, che cosa hai fatto. Che cosa gli racconti te ai tuoi figli? Non gli racconti niente! La scuola! Che cosa gli racconta la scuola? Niente. Sanno che è passata una guerra? No, non sanno mica niente. Se ci vado a dire così sa loro cosa mi dicono: ma vai via sciocco vecchio”2. La documentazione e le testimonianze raccolte con questa ricerca riannodano qualche filo della memoria, allargano lo spettro delle nostre conoscenze su un fenomeno, quello della deportazione e dei rastrellamenti di civili destinati al lavoro coatto, indispensabile per capire la tentata costruzione di un nuovo ordine europeo da parte dei nazisti e così importante per la provincia di Modena, investita in pieno e a lungo dalle vicende dell’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Pur trattandosi di un numero di testimonianze insufficiente per parlare di un campione statisticamente rappresentativo, le interviste raccolte ci restituiscono un profilo di un’esperienza collettiva forte, capace di parlare al nostro presente, di donne e uomini impegnati a fare 1 2
Interviste a Sergio Lugli ed Ettore Malpighi. Intervista a Tullio Neri.
282
L. BERTUCELLI
fronte ad una realtà avversa e ad un sistema di valori completamente rovesciato.3 Gli studi storici hanno spesso evidenziato la difficoltà di una ricostruzione quantitativa della deportazione, resa ancora più complessa da definizioni approssimative che hanno a lungo perdurato e hanno contribuito ad offuscare le diverse articolazioni di un fenomeno in realtà complesso. Così, per quanto attiene la seconda guerra mondiale, il termine deportazione ha spesso assunto il significato estensivo di “trasferimento coatto dall’Italia occupata alla Germania”4, rischiando di rendere inafferrabili le profonde diversità di quanto compreso in una definizione così generica e di impedire ogni ricostruzione numerica. Anche una volta operata la distinzione tra deportati e internati militari italiani nei campi di prigionia in Germania, è rimasto il problema di un’ulteriore precisazione circa la natura della deportazione stessa. Come nota bene Brunello Mantelli, essa deve essere scomposta in almeno due fenomeni distinti: da un lato, i deportati veri e propri — la deportazione razziale e politica — dall’altro, i lavoratori rastrellati dai nazisti in Italia dopo l’8 settembre 1943.5 In questo modo il numero dei deportati italiani, escludendo i rastrellati, può essere indicato in una cifra tra 40.000 e 45.000 unità comprendenti gli ebrei e i politici, mentre per le persone destinate al lavoro coatto si può parlare di circa 100.000 unità.6 Proprio le caratteristiche estremamente composite delle deportazioni operate dai nazisti hanno contribuito a complicare le cose, ma è certo che la disattenzione delle istituzioni statali nel dopoguerra ha contribuito ad impedire — ad oggi — un’esatta ricostruzione quantitativa di uno degli avvenimenti più drammatici del nostro secolo. Tale situazione non poteva che rispecchiarsi anche nel caso modenese, tuttavia per la nostra provincia disponiamo dei risultati di una ricerca effettuata dal locale Istituto storico della Resistenza nel 1960 che indicava il numero complessivo dei deportati modenesi in 610, di cui 83 morti nei campi.7 Si tratta però dei soli 3 Vedi su questa anche A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa: storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano 1986. 4 B. Mantelli, Gli italiani in Germania 1938-1945: un universo complesso e ricco di sfumature, p. 381, in questo volume. 5 Ibid., p. 383. 6 F. Cereja, B. Mantelli, La deportazione nei campi di sterminio: studi e testimonianze, Milano 1992 e B. Mantelli, Gli italiani in Germania 1938-1945, cit., pp. 382-383. 7 “Rassegna annuale”, periodico dell’Istituto storico della Resistenza, 1960.
La deportazione in provincia di Modena
283
dati ufficiali disponibili in provincia nel dopoguerra e non permettono di capire se si tratta di deportati politici o di civili rastrellati. Certo tra questi non figurano i 70 ebrei arrestati a Modena,8 prevalentemente provenienti da altre province italiani o profughi stranieri;9 sicuramente non figurano i detenuti del carcere di Castelfranco Emilia, importante luogo nella geografia repressiva del regime fascista prima, e del sistema nazista dal ’43 al ’45. Dei prigionieri di Castelfranco — politici e non — almeno 140 risultano dalle rubriche del penitenziario essere stati trasferiti in Germania, destinati al lavoro coatto. Questo dato è però molto lontano dalla realtà: la documentazione infatti è largamente incompleta a causa del bombardamento aereo subito dal vecchio “Forte Urbano” adibito a carcere il 17 settembre 1944, come si evince dal fatto che nel giugno del 1944 un contingente di ben 396 deportati provenienti da Castelfranco arriva a Magdeburgo per essere avviato al lavoro coatto.10 Infine, il campo di Fossoli viene utilizzato fino al novembre 1944 come punto di raccolta per il trasferimento coatto di lavoratori in Germania, oltre che per l’organizzazione dei trasporti verso Auschwitz.11 Indubbiamente però il vuoto di conoscenza più importante riguarda i tanti deportati in seguito ai rastrellamenti, largamente prevalenti nella provincia, sui quali siamo in grado di fare solo ipotesi di massima e fare deduzioni, considerando che a livello regionale tra l’agosto e l’ottobre 1944 i grandi rastrellamenti nell’Appennino tosco-emiliano portano all’arresto di 59.148 persone delle quali circa 7.000 deportate in Germania. In provincia di Modena il rastrellamento di agosto, che interessa prevalentemente il bolognese, porta all’arresto di 500 persone di cui 192 deportate in Germania.12 La realtà quantitativa della deportazione dal modenese appare quindi sufficientemente delineata per quanto attiene la depor8 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 1991. 9 K. Voigt, Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese, p. 492, in questo volume. 10 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino 1993, p. 594. 11 Sul campo di Fossoli vedi in questo volume S. Duranti, Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi: percezione, ricordo e significato attraverso la sistemazione degli scritti raccolti nella bibliografia, pp. 531-545 e L. Ferri Caselli, Il campo di Fossoli: una ricognizione nella stampa quotidiana locale, pp. 546-552. 12 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, cit., pp. 384-387, vedi anche C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Modena 1998, p. 233.
284
L. BERTUCELLI
tazione razziale, non così per la deportazione politica e per i rastrellati. Ugualmente non possiamo affermare di avere buone informazioni per quanto riguarda gli elenchi nominativi, per noi fondamentali dal momento che una delle intenzioni primarie della ricerca era la costituzione di un archivio della memoria sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti. Ora, prescindendo dagli elenchi nominativi del carcere di Castelfranco (dai quali non si evince la città di provenienza dei prigionieri, ma è molto probabile che i modenesi fossero pressoché assenti), dai nomi dei pochi ebrei della comunità modenese (dei quali purtroppo nessuno fece ritorno) e dai nomi degli ebrei di altre province o stranieri arrestati a Modena, i nomi di deportati o rastrellati a nostra conoscenza, risultano essere davvero pochi: 27 tratti dagli elenchi nominativi delle domande accolte per gli indennizzi a cittadini colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste pubblicati dalla Gazzetta Ufficiale del 22 maggio 1968; 6 tratti dalle schede personali dell’ANED di Modena, delle quali 1 sola relativa ad un superstite; 84 relativi a deportati modenesi caduti nei campi. Complessivamente perciò siamo riusciti a costruire un elenco di 117 nomi di modenesi deportati in Germania. Di questi ben 89 non fecero ritorno dai lager e altri 10 sono mancati nel corso del dopoguerra. Restano così solo 18 persone potenziali testimoni. Ciò spiega l’impossibilità di andare oltre la dozzina di interviste — alcuni, infatti, non godono di una condizione di salute sufficiente ad affrontare un’intervista, uno solo ha rifiutato — cui si aggiungono 3 interviste a membri della comunità ebraica che sono testimonianze di come gli ebrei modenesi subirono la discriminazione fascista, la persecuzione nazista e la deportazione, ma soprattutto confermano il profondo radicamento di quella comunità nella società modenese, reso evidente dall’altissima percentuale di ebrei non arrestati. A fianco di queste interviste, davvero di straordinaria intensità, si sono reperiti diari, manoscritti, memorie e documentazione sulla deportazione modenese che contribuiscono a fornire elementi di valutazione nuovi rispetto ad una vicenda a lungo completamente trascurata nella nostra realtà. Il dato più evidente che balza agli occhi è il peso notevole che ebbero i deportati in seguito ai rastrellamenti collegati alle operazioni militari di controllo del territorio che, adottando un criterio rigido, potrebbero non essere definiti tali. Sono i cosiddetti “deportati per caso”, che in realtà tanto per caso non sono, in un
La deportazione in provincia di Modena
285
territorio nel quale l’attività partigiana è capillare — sia in montagna sia in pianura — e che confermano quanto affermato da diversi studi sulla deportazione13 circa la complessità del fenomeno e la difficoltà dei tentativi di operare nette distinzioni relativamente alle tipologie di deportazioni: il reclutamento coatto di civili per il lavoro, gli spostamenti forzati di popolazione differiscono infatti sottilmente dalla vera e propria deportazione politica e spesso nelle vicende personali gli elementi si intrecciano e rendono meno efficaci le grandi suddivisioni. La politica, infatti, è sempre un elemento che rimane sullo sfondo, patrimonio della tradizione familiare: “eravamo antifascisti, avevano anche arrestato mio padre e io andavo davanti al carcere a portargli la roba da mangiare […] eravamo dei mezzadri […]. Quindi mio padre aspirava, aveva bisogno di terra e quelli che volevano la terra erano comunisti, era chiaro questo!”14 Oppure: “Io ad esempio conoscevo i partigiani perché quelle cose lì si erano cominciate a capire, ma non è che sapessi molto di più!”15 Ma più spesso è addirittura assente, “Non sapevo neanche cosa fosse la politica!”16, se non nel caso di Carlo Andrea dell’Amico che è un vero e proprio deportato politico arrestato perché sceglie consapevolmente, “Una scelta quasi istintiva: finalmente si combatte contro i fascisti e contro i tedeschi e quindi si stava dalla parte del giusto. Quella diventava finalmente una guerra giusta! […] io non avrei disertato dall’esercito italiano per passare nelle linee inglesi, ecco! Però avvenuto questo: l’esercito italiano non c’era più, la famiglia reale era scappata, i grandi generali avevano tagliato la corda… e allora ho pensato: adesso faccio la guerra con chi dico io!”17 Nella provincia di Modena i rastrellamenti, operati dai tedeschi con il supporto delle strutture istituzionali e militari della repubblica di Salò, rispondono a più di un obiettivo: la necessità di manodopera è certo un’esigenza prioritaria per l’economia di guerra tedesca, ma non è da meno l’esigenza di fare terra bruciata intorno ad un movimento resistenziale che gode di un vasto ap13 E. Collotti, P. Dogliani (a cura di), Arbeit macht frei: storia e memoria della deportazione, Carpi 1987; F. Cereja, B. Mantelli, La deportazione nei campi di sterminio, cit.; A. Bravo-D. Jalla, La vita offesa: storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, cit. 14 Intervista a Giorgio Angelantonio. 15 Intervista a Tullio Neri. 16 Intervista a Ettore Malpighi. 17 Intervista a Carlo Andrea Dell’Amico.
286
L. BERTUCELLI
poggio e supporto popolare, in pianura in modo particolare, e quindi di rendere sicure le retrovie della linea Gotica e le vie di comunicazione; inoltre è presente la volontà di colpire duramente i renitenti alla leva, in un groviglio di casi personali nei quali è difficile soppesare quali siano le ragioni principali che poi conducono al lavoro coatto in Germania. La netta prevalenza di questo tipo di deportazione nel modenese, rispetto a quella politica, è spiegata dalla relativa debolezza numerica dell’antifascismo organizzato fino alla fine del 1943 e, successivamente, proprio alla forza del movimento resistenziale armato. I nostri intervistati sono rastrellati in coincidenza di azioni partigiane (in montagna) o in zone in cui l’attività resistenziale è diffusa capillarmente (in pianura). Racconta Annibale Tintorri che a Sestola, nell’appennino modenese, “i partigiani presero il paese e allora sa tra repubblichini e una cosa e l’altra. Da Pavullo partirono i repubblichini, poi tutti i tedeschi hanno accerchiato il paese. Io ho cercato di scappare con il cavallo verso la rocca, poi mi hanno sparato e sono tornato indietro e ho preso la strada del Cimone. […] Da lì sono arrivato a casa e hanno preso me e mio padre, ci hanno tenuto un po’ qui in veranda, poi ci hanno portato a Pieve ed infine a Fossoli”18 e Ettore Malpighi ricorda che “sono stato catturato l’8 giugno 1944 in un rastrellamento a Soliera hanno circondato il paese: io venendo fuori dal cinema ho visto che c’era un po’ di subbuglio, ho tentato di uscire fuori dal paese però non ci sono riuscito, […] erano tedeschi però nel paese c’erano anche i repubblichini, erano misti cioè era un rastrellamento fatto insieme, e poi senz’altro i fascisti erano quelli che guidavano i tedeschi”19. L’altro aspetto che emerge con evidenza dal materiale documentario e dalle interviste rappresenta una conferma di quanto sostenuto dalla storiografia più avvertita sulla deportazione. La deportazione non razziale, e in particolare quella dei “non politici” destinati al lavoro coatto, è il fenomeno che meglio ci permette di capire la razionalità del sistema nazista durante la guerra e del progetto di nuovo ordine europeo, contribuendo così a sgretolare l’ancora forte senso comune — anche storiografico — del nazismo 18 Intervista ad Annibale Tintorri. Analoga testimonianza sulle modalità del rastrellamento si trova nell’intervista di Romolo Tintorri. 19 Intervista a Ettore Malpighi.
La deportazione in provincia di Modena
287
come fenomeno inspiegabile se non ricorrendo alle categorie dell’irrazionalità. Gli zingari e gli ebrei sono le prime vittime della tragica ideologia razziale del Reich nazista e della “nuova Europa” da loro immaginata, nel cui quadro rientra razionalmente l’utilizzo del lavoro schiavistico delle razze inferiori e l’eliminazione attraverso il lavoro degli uomini destinati a sostenere lo sforzo bellico e il sistema industriale della Germania nazista. Ricorda Sergio Lugli, carabiniere deportato a Dachau perché ritenuto un partigiano: “Quello lì è stato un disastro, è stato proprio un terrore, era una eliminazione, era una eliminazione completa! Lei non aveva voglia di parlare con nessuno, con nessuno, neanche fra di noi si parlava mai… no niente! La disperazione era tale che… non so come ho fatto”20. Le interviste restituiscono tanti aspetti e una varietà di esperienze spesso drammatiche che però non cadono mai in una sorta di soggettivismo fine a se stesso, bensì rappresentano un percorso indispensabile per chi voglia davvero cogliere la giusta dimensione di cosa ha significato per tanti uomini e per intere comunità la scelta della guerra totale nazista. E anche se un ex deportato piemontese ha esemplarmente affermato che “nessuno libro e nessun oratore riuscirà mai a dire che il freddo è freddo e la fame è fame”, queste testimonianze ci trasmettono una serie di straordinarie vicende personali, piene di forti valori umani che non possono non coinvolgere anche chi le ha raccolte cercando di fare prevalere gli aspetti professionali del lavoro. Non si tratta solo di pezzi di storie soggettive, ma di un affresco che aiuta a capire come una cultura sociale, spesso di estrazione popolare, ricca di una straordinaria forza morale, abbia tenacemente resistito, nonostante le continue umiliazioni e i tentativi di annullamento della dignità umana e personale, ad una forza che sembrava schiacciante ed invincibile. Le condizioni al limite del possibile durante la prigionia sono descritte con grande dignità, le strategie di sopravvivenza rivelano, come detto, una forza umana certamente non comune, anche quando si deve anteporre la propria salvezza a quella degli altri. Gli spazi per la solidarietà verso i compagni o per l’aiuto reciproco si riducono drasticamente, resta solo una disperata battaglia 20
Interviste a Sergio Lugli.
L. BERTUCELLI
288
per la sopravvivenza. Racconta Sergio Lugli, “c’era uno lì nel coso della morte che non capiva mica più niente, cioè la testa era andata: ci aveva le fette del pane lì di fianco perché ormai non mangiava neanche più e allora io ho detto: solo che muoia. A questo si arrivava! Infatti è morto e io sono arrivato e ho preso su il pane. Sono andato poi a mangiarlo di nascosto perché se uno mi vedeva ne voleva anche lui. […] Uno pensa per sé! Lì pensava per sé. Mica tutti per uno!”21 E Marino Ragazzoni: “Non c’era rispetto per gli esseri umani, non ho le parole per dirglielo, c’era un affetto impressionante invece verso i tuoi amici ma che cosa si poteva fare?”22 La durezza della vita nei campi non è mai pretesto per atteggiamenti vittimistici, anzi emerge una solidità morale straordinaria. La fame, il freddo, la pesantezza del lavoro, le punizioni inutili, l’accanimento nella disciplina, i bombardamenti e le umiliazioni subite costituiscono la trama di un racconto il cui spessore e qualità è difficilmente esprimibile in poche citazioni. Con semplicità si racconta dei rischi per riuscire ad avere qualche patata in più, “Morire di fame o prendere una fucilata per noi ormai era uguale”23, lo sforzo per non crollare psicologicamente di fronte a condizioni estreme, “Arrivi in questo posto scuro, vedi della gente vestita di stracci, vedi della gente che è la metà di noi di peso, vedi quelle facce, quelle facce… e ti rendevi conto che i pensieri, le idee che ti eri fatto durante il viaggio non corrispondevano alla realtà, che Mauthausen era tutt’altra cosa! […] Ci siamo resi conto e alcuni ebbero proprio un crollo immediato. Io ebbi una reazione contraria e mi dissi che il mondo che avevamo conosciuto fino ad allora qua non c’era più. E adesso ce n’era un altro e bisognava imparare a stare in questo posto!”24 Ma i momenti più drammatici sono le testimonianze sull’umanità umiliata nei campi e sono anche i momenti in cui emerge la forza dei nostri protagonisti. “Quanti morti, quanti morti che ho visto, a migliaia, a migliaia dentro a quelle baracche tutte le mattine ce n’erano: magri, sporchi; c’era nell’ultimo campo lì che non c’erano i forni, una mattina andiamo dentro nel bagno ce n’erano due, perché i bagni erano tutti fatti con delle assi di legno e poi c’era una fila di rubi21
Intervista a Sergio Lugli. Intervista a Marino Ragazzoni. Intervista a Annibale Tintorri. 24 Intervista a Carlo Andrea Dell’Amico. 22 23
La deportazione in provincia di Modena
289
netti ce n’era sotto i bagni tutti lì in terra, tutti... e io pensavo: — Guarda che ci ha famiglia, ci avrà moglie, ci avrà dei figli a casa, guarda come l’hanno ridotto e umiliato una persona, un corpo portarlo a quei livelli lì! […] Una persona viene eliminata, viene sciolta, la personalità non c’è più. Lì non eri più una persona eri un oggetto”25. E ancora: “Ci hanno rasato come le pecore, ti trattavano come le bestie, peggio delle bestie e solo per umiliarti”26. Nei confronti dei tedeschi l’atteggiamento non è univoco: alcuni sottolineano la fortuna di avere incontrato anche persone in grado di aiutarli al momento delle selezioni per il lavoro, nella malattia o nel reperimento del cibo; altri cedono al risentimento e non riescono ad operare nessuna distinzione. L’amarezza più grande è però quando si incontra l’indifferenza. Racconta Romolo Tintorri, deportato in un sottocampo di Neuengamme: “quelle che mi sono rimaste impresse sono le lunghe camminate che facevamo dal campo alla fabbrica che era un po’ lontana, dovevamo attraversare la città e allora mi ricordo che tutti, specialmente nel ritorno, perché al mattino andavamo via molto presto e le famiglie tedesche dormivano forse ancora e io guardavo, ad esempio, la sera attraverso queste finestre se c’era uno sguardo, qualcuno che ti, non so, uno sguardo di compassione, che capissero, insomma, la nostra tragedia e così... perché passavamo attraverso la città e attraverso queste finestre, con queste tendine tutte ben addobbate con i fiori pensavamo che ci fosse un’umanità che poi non c’è mai stata e non ci sarà mai!! Ecco! Pensavo che qualcuno ci pensasse, che pensasse alla nostra condizione invece non abbiamo mai visto uno sguardo che ci potesse rasserenare oppure ci potesse dare... e dei bambini durante specialmente nel ritorno mi ricordo che ci sputavano addosso, pensi un po’ che cosa!”27 Nonostante tutto questo nelle testimonianze raramente si parla di vendette al momento della liberazione. Anche se sia i Russi sia gli Americani lasciano per qualche giorno “carta bianca”, sono soprattutto i prigionieri russi ad approfittarne esasperati dal durissimo trattamento subito — “Noi usavamo dei cucchiai per mangiare e li avevamo fregati e così abbiamo fatto. O meglio, ho visto fare delle laparatomie, cioè entrare, aprire la pancia. Me ne ricordo una in modo particolare: un kapò tedesco sventrato dai russi! 25 26 27
Intervista a Sergio Lugli. Intervista a Ernesto Vuch. Intervista a Romolo Tintorri.
L. BERTUCELLI
290
Quel kapò era stato veramente terribile soprattutto con loro e loro lo hanno fatto fuori”28 —, gli italiani il più delle volte vanno nelle case abbandonate dai tedeschi in fuga per recuperare cibo e vestiario.29 Quando finalmente arriva la liberazione non c’è solo gioia. Naturalmente è un momento indimenticabile, descritto con un emozione difficile da controllare anche a distanza di tanto tempo. “E io quel giorno lì, quello della liberazione non me lo scorderò mai perché quando si è aperta la porta della baracca ed è entrato questo soldato americano, nessuno di noi parlava americano e siamo riusciti solo, quelli che camminavano, a baciarlo, chi le mani, chi la faccia: abbiamo capito che era finita! E lui con questo elmetto, armato, così di tutto punto, ci ha guardato e poi si è messo a piangere, piangeva come un bambino a vederci ridotti così”30. Alle fatiche di un lunghissimo viaggio di ritorno, atteso per mesi, spesso senza ricevere aiuti ritenuti indispensabili — “Siamo venuti a casa a righe”31 — si aggiunge la scoperta che il ricordo delle sofferenze subite nei campi accompagnano i sopravvissuti anche in Italia. “Anche adesso mi sogno delle volte alla notte, mi sogno che dicevo: ma guarda, Dio bono sono stato fatto prigioniero un’altra volta, ma come facciamo? Adesso non riusciamo mica più ad andare a casa!”32 Oppure: “io qui dentro, in questa stanza, quando sono da solo mi metto a leggere. Io sa quanti pianti ho fatto qui dentro io! Però ho sempre cercato… mia moglie non mi ha mai visto, mai, mai”33. Anche subito dopo la liberazione, rientrati in Italia, è difficile partecipare del clima di gioia del paese, risulta quasi una realtà incomprensibile: “Dopo la liberazione quando vedevo tutta la gente contenta, che si abbracciava… io non ci potevo credere, io non ci riuscivo. Non mi veniva per niente l’allegria”34. E, ancora 28
Intervista a Carlo Andrea Dell’Amico. Rappresenta un’eccezione nel gruppo degli intervistati Carlo Andrea Dell’Amico che ricorda con rimpianto: “Il 5 maggio arrivarono i carri armati, però lo stesso ci venne data la libertà di fare un po’ di giustizia: io stesso ho inseguito uno dei Kapò e gli ho sparato, gli ho sparato con una pistola automatica da 16 caricatori. Tenga presente che io pesavo alla liberazione, quando sono stato nell’ospedale americano di Linz mi hanno pesato ero 35 kg, quella pistola lì pesava quasi più di me era una pistol-machine. Gli sparai alle gambe, gli arrivai addosso, vidi le decorazioni naziste che aveva addosso e gli sparai in testa! E dopo tornai nel blocco. Questo eravamo diventati!” 30 Intervista a Erneto Vuch. 31 Intervista a Tullio Neri. 32 Intervista a Sergio Lugli. 33 Intervista a Ettore Malpighi. 34 Intervista a Ernesto Vuch. 29
La deportazione in provincia di Modena
291
peggio, si scopre l’incredulità degli altri per la propria esperienza, un’incredulità che crea un effetto di distanza molto difficile da colmare anche dopo tanti anni. “Mah noi abbiamo visto delle robe che sembrano impossibili e invece sono proprio capitate! Cioè quelli che erano là come c’ero io le hanno viste e vissute anche loro quelle robe lì perché invece delle volte quando si discute, si parla con qualcuno di queste cose qui ti dicono: — Mah, mah! Non è mica vero! — oppure ti dicono che siamo stati degli... come degli stupidi perché, secondo loro, saremmo dovuti scappare”35. La disattenzione delle istituzioni repubblicane nel dopoguerra nei confronti dei deportati e rastrellati è uno degli aspetti più dolorosi per i nostri protagonisti. Il paese vuole dimenticare le sofferenze e in questo senso la loro esperienza ha aspetti di similitudine con quella dei soldati internati in Germania e nei territori occupati.36 Il prigioniero difficilmente riesce ad essere al centro dell’attenzione, è il figlio di una guerra perduta che si vuole rimuovere; l’unico mito positivo diviene così il partigiano combattente, e la resistenza compiuta da questi uomini nel cuore del sistema nazista viene per lunghi anni dimenticata: “non è che la nostra sofferenza, la nostra odissea ci abbia portato a dei grandi… ha capito? Perché sì anche quando si raccontavano le cose che avevamo subito non ci credevano mica! Perché erano cose proprio al di fuori della realtà […]. Sì, stavano ad ascoltare poi la guerra era finita, avevano bisogno di divertirsi, di ritornare alla vita e quindi non avevano più i problemi di sentire uno che era stato in prigionia per tanto tempo”37. Così, come notano bene Bravo e Jalla, l’indisponibilità della società italiana del dopoguerra a fare propria la loro esperienza è vissuta come una bruciante ingiustizia, aggravata dalla passività delle istituzioni e dal mondo della politica che, da parte governativa, relativizza l’intera esperienza resistenziale oppure, nelle opposizioni di sinistra, punta esclusivamente sul partigiano combattente come figura emblematica di un “antifascismo vincente”. Dovranno passare decenni per attendere un rinnovato interesse della storiografia e dell’opinione pubblica anche sulla deportazione di civili in Germania e per ampliare l’orizzonte di una resistenza al 35 Intervista a Alberto Mario Vescovini, deportato a Dachau perché ritenuto un partigiano. 36 Vedi in questo volume G. Procacci, Gli internati militari italiani. Le testimonianze degli Imi della provincia di Modena, pp. 15-42. 37 Intervista a Romolo Tintorri.
L. BERTUCELLI
292
fascismo e al nazismo finalmente popolato di tutti i suoi protagonisti. Infine, le tre testimonianze di membri della comunità ebraica rappresentano un contributo utile per seguire le vicende degli ebrei modenesi — 550 al censimento del 1938 — durante la seconda guerra mondiale e sulle strategie messe in atto per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste. Klaus Voigt descrive nel dettaglio anche la sorte degli ebrei italiani non modenesi presenti sul territorio provinciale e dei profughi ebrei stranieri,38 ma ciò che è bene mettere in evidenza è come della comunità modenese solo due persone furono arrestate e deportate dalla provincia di Modena. Ciò conferma il forte radicamento della comunità in città e la scarsa adesione dei modenesi all’ideologia razzista, resa ancor più palese dall’atteggiamento non certo rigido adottato anche dalle autorità.39 Afferma Silvana Formiggini che “noi ci siamo sempre sentiti molto italiani”, “eravamo molto mischiati alla città”, tanto che si ricorda il caso dell’arresto di un membro della comunità, Guido Melli, che rifiuta di nascondersi nella convinzione che non potesse accadere nulla: “Me. Io, modenese, nessuno mi farà niente. E invece un giorno, lui antifascista da sempre, conosciuto, era andato a farsi tagliare i capelli, usciva dal barbiere, l’hanno preso e poi l’hanno mandato ad Auschwitz e poi da Auschwitz non è più tornato”40. Conferma Vittorio Sacerdoti: “anche proprio la comunità ebraica di Modena era ben integrata nella città. Perbacco se era ben inserita… si, sì, sì ma ci volevano tutti bene anzi molti si sono salvati perché lo devono a dei modenesi perché molti li hanno aiutati se no non si salvavano mica eh!”41 Ricorda Luisa Modena che “Il fatto di essere stati avvertiti: una cosa assolutamente unica si è verificata a Modena, quindi le autorità o qualcuno delle autorità che comunque aveva conoscenza dei fatti e che comunque poteva disporre; quindi a Modena non è stato deportato nessuno, tutti sono potuti tranquillamente fuggire, salvo il Melli che non ha voluto […] non c’è stato nessun atto 38
K. Voigt, Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese, in questo volume, pp. 488-
505. 39 Inoltre uno dei martiri del fascismo modenese era proprio un ebreo, Duilio Sinigaglia: vedi Claudio Silingardi, Una provincia partigiana, cit., p. 150 e in questo volume C. Silingardi, M. Storchi, La Resistenza a Modena e a Reggio Emilia, p. 477. 40 Intervista a Silvana Formiggini. 41 Intervista a Vittorio Sacerdoti.
La deportazione in provincia di Modena
293
di violenza né verbale, né materiale dalle autorità”42. In effetti, gli avvertimenti di persone influenti all’interno della Questura di Modena è decisivo per permettere agli ebrei modenesi di organizzarsi per la fuga, ma anche per avere notizie sul futuro che poteva aspettarli, in modo che chi non è più in tempo per espatriare può rifugiarsi in montagna o, talvolta, unirsi ai partigiani: “quando abbiamo pensato di scappare, non si riusciva più ad andare in Svizzera, perché ti prendevano di sicuro e allora abbiamo deciso di andare in montagna perché ormai era chiaro che se ci avessero preso ci avrebbero deportati, poi ci siamo convinti di più che era meglio morire con un’arma in mano che rimanere proprio presi così come stupidi, e allora siamo andati in mezzo ai partigiani, ecco!”43 Lo stretto legame con la città, la rete capillare di aiuti in tutta la provincia da parte della popolazione e del clero permettono agli ebrei modenesi di salvarsi — molti fuggendo in Svizzera — in un intreccio di storie che completa e rende esemplare, proprio perché risulta così non un’eccezione, la vicenda dei ragazzi di Villa Emma, un gruppo di oltre cento ragazzi profughi ebrei nascosti dalla popolazione a Nonantola e successivamente riparati in Svizzera.44 Sono testimonianze che possono così contribuire, oltre che alla ricostruzione diretta delle vicende della comunità ebraica, a fornire ulteriori elementi anche sulle ragioni del progressivo e ampio distacco che la società italiana — e modenese in questo caso — dal regime fascista in particolare dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938. Sono questi tutti temi che vengono ripresi negli interventi alle giornate di studio dell’ottobre 1999 e qui pubblicati. Brunello Mantelli dopo avere puntualizzato le diverse tipologie di deportazione, evidenzia il ruolo importante ricoperto dal sistema concentrazionario fascista nella deportazione, ricostruisce poi le vicende dell’emigrazione dei lavoratori italiani in Germania tra il 1938 e il 1943 e del lavoro coatto nell’ultimo biennio di guerra. Bruno Vasari, ex deportato, ricorda le attività culturali e scientifiche dell’ANED 42
Intervista a Luisa Modena. Intervista a Vittorio Sacerdoti. 44 Sui ragazzi di Villa Emma vedi I. Vaccari, Villa Emma. Un episodio agli albori della Resistenza modenese nel quadro delle persecuzioni razziali, Modena 1969; Comune di Nonantola, Villa Emma. I luoghi e le persone. Un episodio della Resistenza che cinquant’anni dopo va alle radici della solidarietà, Nonantola 1993 e il bel romanzo di G. Pederiali, I ragazzi di Villa Emma, Milano 1989. 43
294
L. BERTUCELLI
piemontese e la produzione bibliografica frutto della collaborazione con gli Istituti storici della Resistenza piemontesi, l’Università di Torino e gli enti locali. Alberto Cavaglion sposta l’attenzione sul problema della memoria e della rimozione della deportazione e della Shoah sostenendo che il periodo immediatamente successivo al termine del conflitto non sia un momento di silenzio, come spesso si afferma, ma al contrario un periodo caratterizzato da un discussione attenta i cui protagonisti — Bonaiuti, Croce, Jemolo, Lattes — si dividono, suscitando stimolanti interrogativi, sui nessi tra persecuzione, diversità, assimilazione con una franchezza che — sottolinea Cavaglion — probabilmente non si riscontra negli anni a seguire. I lavori di Klaus Voigt e di Giovanna Caroli, rispettivamente sulla deportazione e il salvataggio degli ebrei in provincia di Modena e sulla deportazione di civili dalla montagna reggiana, sono ricostruzioni analitiche di una realtà territoriale, come quella dell’Emilia centrale, investita pesantemente per venti mesi dall’occupazione nazista e dove la lotta armata del movimento resistenziale si avvale di un forte sostegno della popolazione come si evince dall’intervento di Claudio Silingardi e Massimo Storchi. Infine, gli interventi di Brunetto Salvarani, Simone Duranti e Letizia Ferri Caselli sul campo di Fossoli sottolineano l’importanza della ricerca sui luoghi più significativi per la memoria e l’identità di un territorio e rappresentano solo una tappa del lavoro scientifico più ampio intrapreso dalla Fondazione ex campo Fossoli impegnata in una ricostruzione complessiva delle vicende legate al campo.
DEPORTATI E RASTRELLATI QUINDICI INTERVISTE a cura di Lorenzo Bertucelli
GIORGIO ANGELANTONIO - 1924 Faccio fatica a raccontarlo, faccio fatica a parlarne perché devo riandare con la memoria a tutto quel periodo e ripercorrere tutti quei famigerati trattamenti, quei brutali maltrattamenti a cui sono stato sottoposto dai tedeschi e che adesso sono finiti, se si può dire che siano finiti, cioè i segni visibili sono scomparsi adesso almeno esteriormente, ma in me sono presenti dentro e tirarli fuori adesso mi fa molto male. Questa è la prima intervista che faccio. Ma le devo dire subito che il peggiore maltrattamento ci venne fatto dagli italiani. Sa che noi siamo completamente dimenticati? [...] Questo è molto doloroso, non ha aiutato a risollevarci, anzi. [...] Io ero al 63° reggimento di fanteria a Vercelli, l’8 settembre la caserma venne circondata dai carri armati, noi avevamo solo dei fucili. Mi chiamò il comandante di battaglione che mi disse: “Giorgio che facciamo? Scappiamo?”, e io gli dico: “Scappiamo? E come facciamo a scappare. Se la caserma è circondata dai carri armati tedeschi!”, e lui disse: “C’è una possibilità, se tu sei d’accordo”, e io: “Ma certo che sono d’accordo”. [...] Ci siamo rifugiati nella chiesa e lì ci hanno aiutato. Io ero riuscito a mettermi già in borghese perché avevo i vestiti borghesi, ma non avevo le scarpe da civile. [...] Pensai di mettermi in viaggio insieme agli altri che andavano a Milano, perché loro erano milanesi e mi dissero: “Vieni con noi Giorgio, vieni con noi”, e difatti quando arrivammo a Milano e dissero che non dovevo andare a Bologna, ma poiché appariva tutto tranquillo dissi: “Io voglio continuare il viaggio”. [...] Senonché, quando arrivai a Modena, incominciarono le mie disgrazie. A Modena fecero fermare, si fermò un treno adesso non ricordo, ma salirono dei tedeschi armati sul... e io avevo i capelli tagliati da poco e quindi mi guardarono attentamente, poi mi guardarono le scarpe e mi dissero: “Ah! Militare! Militare!”, mi ordinarono di scendere e una bella signora così sui... poteva avere sui cinquant’anni, proprio bella, l’esempio tipico emiliano, le venne una lacrima, aprì la borsa e volle che per forza prendessi dei soldi, a forza me li volle dare e mi disse: “Li prenda, li prenda. Ho anch’io i figli sotto le armi”. Io li presi e poi una guardia mi prese in consegna e mi portò dov’erano già radunati degli altri militari che avevano subito la stessa fine. Proprio sotto la pensilina del treno, non molto lontano dal caffè, tanto è vero che 2 donne giovanissime che
296
L. BERTUCELLI (a cura di)
25-26 anni, 24 più di tanto non potevano avere a guardarle, si vede che parlavano tedesco e parlavano con la sentinella, con la guardia che stava lì a sorvegliarci e si vede che io dovevo essere molto impallidito perché queste ragazze convinsero la guardia a portarmi al bar per prendere qualche cosa... e io guardavo in faccia la sentinella, io guardavo alle donne, e vidi che stavano facendo tutto il possibile così per rendersi simpatiche, ecco diremo così, con il soldato e capii che si adoperavano per... e difatti fu così, a un certo momento gli dissi di voler scappare e dissi: “Ma la sentinella?”, “La sentinella è d’accordo, scappa”, e mi fecero uscire per la porta, e io stavo per raggiungere la parte opposta dove, ai miei tempi, c’era un negozio. [...] Stavo proprio per raggiungere il porticato, proprio in quel punto, quella guardia tedesca, quel soldato tedesco mi punta il fucile e prima lanciò un grido terribile e poi mi puntò il fucile e io mi volsi a guardare: “Ma che succede?”, e vidi che ce l’aveva proprio con me che dovevo fare? Scappare? Ma quello aveva il fucile puntato e io ero a cinque metri. [...] Lì fummo rinchiusi c’erano già tanti altri soldati italiani rinchiusi, prigionieri, e così stetti lì circa, 20 giorni, anche da lì tentai di fuggire. [...] Fummo gli ultimi a tentare la fuga perché dopo le fogne furono completamente bloccate. I primi erano riusciti a scappare, ma poi non ce la fece più nessuno. Era l’inizio di ottobre. Così all’improvviso prima ci venne richiesto nei giorni che precedettero quello della partenza, ripetutamente vennero a chiederci di collaborare e ci furono anche quelli che accettarono, anche se per la verità non mi sembrarono molti comunque, ma la massa non accettò. Una mattina tutti quanti quelli che eravamo lì ci misero nelle tradotte e ci avviarono verso il Brennero. A noi non ci dicevano dove, ma avevamo il sospetto che... quando arrivammo a Verona e poi quando arrivammo proprio al Brennero lì non avemmo più dubbi. Eravamo ammassati dentro alla tradotta, eravamo... le sentinelle stavano nelle loro garitte, i vagoni erano piombati quindi. [...] Fu piombato a Modena e fu aperto solo quando arrivammo a destinazione. Non andammo molto lontano perché andammo, mi sembra, a Mosbach. [...] La gente qui a Modena fu molto generosa, in modo particolare i contadini che venivano con i carri con l’uva e roba di ogni genere, qualcuno poi riuscì anche a fuggire infilandosi dentro i carri quando questi, dopo aver scaricato, uscivano dal cortile della caserma e qualcuno è riuscito anche a fuggire. E così una mattina già freddo ci trovammo a Mosbach, ma non c’era niente di pronto per noi; le baracche: avevano preparato solo il terreno con dei pagliericci da stare così all’aperto, dovevano ancora costruirle le baracche. E così noi eravamo all’aperto. E a ottobre era già freddo. Era abbastanza freddo però noi lì eravamo, diciamo così, equipaggiati ancora discretamente perché ci lasciarono portare tutta la roba che avevamo. Noi non conoscevamo l’inganno perché non è che ce la facessero portare per farci stare meglio, ma ce la fecero portare e poi dissero: “Voi ce la consegnerete”. Quando ci immatricolarono infatti dovemmo consegnare tutto quello che avevamo portato e ci lasciarono solo quello che loro vollero lasciarci. Ben poca cosa. Già lì c’era una fame terribile nel campo, era un campo centrale, c’erano prigionieri di ogni genere, ma noi eravamo isolati cioè i prigionieri qua erano isolati gli uni dagli altri per nazionalità.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
297
[...] Era una dieta che a casa neanche le galline non mangiavano: davano il miglio... da noi, gli animali, non lo mangiavano il miglio. Perché avevano ben altra roba da mangiare, e invece noi il miglio lo mangiavamo. Il miglio dava un odore nauseante che ti impediva quasi di mangiarlo. Noi allora si pensò di metterci in fila là dove chiedevano di andare a lavorare perché dicevamo: “Può darsi che andando a lavorare...”, così fu. Mi portarono a Monaco di Baviera una mattina, ma ohimè lì… la dieta era migliore... anche diciamo così il piatto caldo era molto migliore, le due pagnotte di pane erano più grandi dovevano essere mezzo chilo esatto, cioè 250 grammi l’una più o meno, però ci facevano fare 12 ore di lavoro. [...] A fare il tornitore a 12 ore al giorno, mentre i tedeschi facevano otto ore e avevano il cambio e noi invece no. Premetto questo che poi dal momento della sveglia, l’adunanza e poi lavare, preparare, la fabbrica non era molto lontana, ma bisognava farla a piedi e poi a ritornare passavano... si sfioravano le quindici ore. Quindi... ma era un posto molto pericoloso perché eravamo a Monaco di Baviera e quindi era pieno di fabbriche e quindi i bombardamenti cominciavano a martellare notte e giorno. Quella era una fabbrica dove si costruivano i bossoli, i proiettili per i cannoni quindi capisce che questa fabbrica era un ottimo bersaglio, però fu possibile, per alcuni giorni, sfamarsi, cioè per qualche tempo fu possibile sfamarsi. Perché essendo stato messo... alcuni amici miei, proprio vicino ai forni dove iniziavano a preparare i proiettili e quindi lì non era altro che una piastra che poi cominciava a prendere forma e diventava piano piano il proiettile: era possibile cuocerci le patate dentro. [...] Io non me la sentivo di stare 12 ore seduto perché la macchina si alzava e noi dovevamo mettere sotto i bossoli e dovevo fare in tempo a togliere anche la mano perché la macchina aveva un ritmo e tu dovevi tenere quel ritmo. Perché era la macchina che comandava, non ero io quindi non era consentito distrarsi non solo perché eri vigilato, ma anche perché era pericoloso perché come minimo ci si poteva rimettere le mani. Quindi... non si parlava e stare 12 ore così era terribile. Incominciai a sabotare. Cominciai a rompere i proiettili, venni richiamato, ma io insistetti e allora mi mandarono in prigione proprio per questo, poi ritornai al lavoro e in quella occasione mi rifiutai proprio di prendere posto. [...] Mi mandano di nuovo a Monaco di Baviera e mi mandano presso una ditta edile che costruiva una grande centrale elettrica moderna, sotterranea. [...] Non fu migliore il lavoro. Io ed altri fummo messi a scaricare i vagoni del cemento. [...] Il vitto era peggiore e il lavoro era peggiore, però era possibile fare qualche scappatella, vendersi qualche oggetto. [...] C’erano quelli che pur di fumare si vendevano il pane. E io ero fra quelli non che se lo vendeva, ma che lo comperava il pane perché io non ho mai fumato e avevamo anche una nostra razione di sigarette, 75 sigarette al mese ed erano preziosissime. [...] Incontrai simpatia presso un capo tedesco che era una persona abbastanza civile. [...] La mia vita era cambiata. Io con le mie sigarette, quello che acquistavo al mercato nero lo vendevo e acquistavo una quantità enorme di marchi, di moneta, di quella moneta marcia e i due francesi, erano due idraulici, con i quali feci amicizia e simpatizzai presto.
298
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Ma arriva il giorno in cui dicono: “Dovete passare civili! Vi sarà dato, vi sarà fatto lo stesso trattamento dei lavoratori tedeschi”, a parità delle stesse condizioni, qualifica etc. Però bisognava sottoscrivere, bisognava firmare. Quindi questa collaborazione andava sottoscritta. Vennero anche i fascisti a fare opera di persuasione. [...] E allora ci riunimmo e discutemmo in questo senso, però nonostante apparentemente sembrava che nessuno volesse firmare, nessuno volesse collaborare la metà all’incirca accettò e si capì subito che erano quelli che si erano arruffianati... i più ruffiani che erano andati in cucina, che erano andati... insomma in posti buoni dove si stava meglio. [...] Domandavano sempre chi era disposto a firmare, sì, ma nessuno di quelli che non aveva firmato la prima volta firmò dopo. Un giorno arrivano le Camice brune, le famigerate Camice brune armate, armate di tutto punto, ci mettono con le spalle al muro nel grande capannone: ci portano tutti lì dentro e poi uno alla volta: “Tu firma. Tu firma. Tu firma!”, quando arrivarono da me io non firmai. Lo sa lei che io sono stato l’unico che non ho firmato? L’unico. Allora le Camice brune mi hanno subito prelevato, arrestato e portato via in una prigione accanto alla Gestapo, accanto a quel terribile ufficio. [...] Si concluse l’interrogatorio e mi vennero fatte quattro testuali accuse: la prima fu quella di comunista che io, a dire la verità, ignoravo perfino la parola. [...] Eravamo antifascisti, avevano anche arrestato mio padre e io andavo davanti al carcere a portargli la roba da mangiare... il fascismo dei giudici. Perché mio padre aveva subito dei processi, aveva fatto delle cause contro il padrone, perché noi eravamo mezzadri, quindi, addirittura il padrone aveva dei parenti nella magistratura proprio locale e allora può capire quanto fosse facile perdere la causa... non è che i giudici... si è scoperto adesso che sono, certuni, delle carogne. Quindi mio padre aspirava, aveva bisogno di terra e quelli che volevano la terra erano comunisti, era chiaro questo. Da quello poi che capii mio padre aveva contatti con gente nota per questa idea. Per esempio il nostro calzolaio, che abitava nel paese vicino al nostro che aveva una discreta cultura e come tale era il segretario del partito, era un ottimo amico di mio padre. Questa gente era stata anche a casa nostra, a pranzo e poi quando io andavo lì ad aspettare che ci faceva le scarpe dovevo mangiare per forza con loro. Erano molto amici. Si stimavano. Erano gente che stavano vicino alla gente. [...] Ma c’era anche un altro fattore forse che rafforzava il sentimento di profonda ostilità contro i tedeschi in particolare ed era l’amor di patria a cui io appena ho cominciato a leggere e a capire un po’ la storia, e con la terza elementare questo ai miei tempi era possibile. [...] La seconda accusa: Badogliano. Persino i ragazzi per strada ci insultavano e ci dicevano: “Badogliani, italiani”, che poi voleva dire traditori. La terza accusa più specifica ancora: antifascista, antinazista, testuali parole del capitano che mi faceva tradurre dalla denuncia fatta dal soldato non ci potevano essere equivoci. Quarta e penso che sia l’ultima perché poi il verbale lo hanno fatto loro e allora che cosa ne so io di che cosa di altro ci hanno messo: sovversivo. A questo punto, quel bestione lì non perdette tempo mi menò di santa ragione, chiamata un’altra guardia mi
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
299
portò in un’altra cella che non era molto piccola, ma ce n’erano molti altri, potevamo essere una decina che avevano subito la mia stessa sorte. [...] Io non avevo commesso nessun crimine, l’unica cosa di cui mi si poteva accusare era di lavorare poco, ma chi lavorava molto contribuiva a moltiplicare le armi, a moltiplicare i giorni della guerra, le uccisioni, questo in me era presente quindi io facevo il minimo per cui non mi uccidessero. E allora io avevo chiaro un unico pensiero: “Voglio tornare”, ed è per questo che sono tornato, io alla sera parlavo con la gente... essi erano già morti e io invece dicevo: “Io devo tornare, devo tornare e raccontare!”, perché mi ero accorto che erano delle cose straordinarie, perché il mondo era completamente chiuso alle nostre spalle. [...] A questo punto io vengo portato a Dachau. [...] Ci portarono in uno stanzone grosso dove lì c’erano tutti in fila delle guardie già pronte, ci spogliarono completamente: orologi, scarpe, tutto, tutto: non fummo padroni di tenere niente, niente, niente. Neanche un fazzoletto e ci dettero quei miseri vestiti che avevano già coperto mille corpi e come scarpe degli zoccoli. Tosati subito, con una riga nel mezzo del cranio, con la giubba con sopra il triangolo rosso che ce lo diedero subito prima di entrare in baracca insieme al numero. Quindi diventai un numero. I primi 40 giorni, la quarantena eccetera era come si dice: precipitare dalle stelle alle stalle, non c’era nessun paragone. [...] Quanti pidocchi e come facevi a lavarti? Come facevi a liberartene? Non potevi. La disciplina era rigorosissima. Guai a commettere un’infrazione. Io sono salvo anche per questo. Io non ho fiatato più. Ho capito e per istinto, per la sopravvivenza, bisognava cominciare a fare economia, a tenere le proprie energie, sarebbe stato inutile commettere infrazioni, ti avrebbero menato e avrebbero fatto avvicinare la tua fine, quindi ebbi un forte spirito di conservazione, ma anche l’ambizione di essere lì per motivi nobili e cioè essere lì per compiere il proprio dovere. A un certo momento ero convinto di non farcela più, ma non ero spaventato. La quarantena è stato il momento peggiore. Oddio. Non è che uscito da quella baracca è andato bene o che la vita fosse migliore, ma per me il momento più brutto è stata la quarantena: la grande miseria in cui vive un essere umano produce delle malattie le più brutte perché altera non poco quelli che vengono chiamati i geni. La fame fu uno degli aspetti peggiori. Io avevo perduto quasi la metà del mio peso. [...] Il 31 gennaio, il giorno della merla, quelli che per me dovevano essere i giorni della mia fine, noi venimmo inquadrati tutti quelli della mia baracca, tutti quelli che venivano ritenuti validi al lavoro perché abbiamo saputo dopo, dovevamo andare a Berlino a scavare delle trincee perché i russi avanzavano, sto parlando del gennaio del ‘45 e lì era freddissimo: ci portano nel grande camerone, [...] quindi già vestiti, pronti per partire, ma all’una di notte arriva l’ordine di sospensione e ci mandano in baracca: abbiamo saputo dopo che c’era stata una forte avanzata russa. Quella è stata la mia salvezza. Perché io avevo già addosso il tifo petecchiale, io ero già infettato potrei dire … i primi di febbraio io sono stato prelevato, insieme a tanti altri, dalla mia baracca perché ero malato di tifo. Fin dall’inizio questa malattia fu terribile e feroce, ci separarono dagli altri e ci portarono in questa baracca... e qui c’era lo sfacelo completo del nostro corpo; io alla fine di marzo sono uscito da lì che ero praticamente convalescente... ce l’ho fatta.
300
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Avevo la febbre a 41 e 6, ridotto a 38 kg sì e no, [...] io mi sentivo ormai spacciato. [...] Succede che il mio corpo, come quello di tutti gli altri malati, si era ridotto in marciume, io ero tutto una piaga. [...] Ti veniva una diarrea fortissima motivo per cui tu perdevi tanta di quella roba, ma dato che non mangiavi era proprio la tua essenza corporea che se ne andava. Eri ridotto quindi al lumicino. [...] Questo dottorino mi aiuta e io ricevo gli antibiotici. Erano pastiglie bianche e grandi come le nostre attuali 50 lire e lui me ne diede otto o nove e furono sufficienti a sfebbrarmi. [...] Lì c’era, come devo dire, un terrore meditato, ero terrorizzato dal pensiero che, non abile al lavoro, mi avrebbero buttato lì fra i morti destinati al crematorio. Lui mi ha sorriso e mi ha detto: “Sei fuori pericolo”, Dio mi ha aiutato. E anche quell’anima buona di quel medico grazie al quale ci cominciò ad arrivare anche qualche cosa da mangiare un po’ migliore perché lì, è triste da dire, ma di cibi ce n’era perché molti morivano o non erano più in grado di mangiare e allora la loro razione la lasciavano lì e allora... anch’io una volta... me la rimprovero però questa azione, l’unica volta che ho commesso un’azione non degna di una persona civile... c’era un giovane che stava per morire e dormiva accanto a me... dato che eravamo molto gravi ci avevano messo al primo piano del castello, così avrebbero fatto prima a portarci al crematorio. Questo morì e lasciò la sua razione di pane: io non ricordo se ne ho preso una parte o tutto. Sono stato ladro quella volta. Anche se lui era morto e quindi non gli ho rubato il pane, ma comunque questa non è stata una bella azione. Ma però io non sono riuscito a mangiarlo. [...] Arriva il momento della liberazione, il primo americano arriva nel campo che poi non so neanche se fosse veramente americano, ma questi sono aspetti del tutto, diciamo così, secondari che fosse inglese o americano il fatto importante è che ci vennero a liberare. Anch’io piano piano mi sono ripreso. [...] La fame fa degenerare l’uomo. Ma l’uomo vero si conosce in quelle occasioni. [...] Io ce l’ho con gli italiani che non sono stati capaci di darci la minima delle minime. Noi siamo persone fortemente menomate. Io, per farmi riconoscere una menomazione, ho dovuto fare causa per sette anni. [...] Dopo 46 anni io venni a sapere che era stata quella giovane suora in che modo? Dicevo, un comitato capeggiato da un cardinale aveva organizzato questo stratagemma: siccome diciamo all’esterno del campo, ma sempre anch’esso sempre tutto recintato vi era una grandissima estensione di terreno, un giardino, diciamo così, delle SS dove venivano coltivati soprattutto ortaggi e fiori questa suora viene lì a comperare i fiori perché un prigioniero, un deportato della diocesi... i tedeschi, il diavolo insegna a fare le pentole ma non i coperchi, ritenendo la persona degna di fiducia, un deportato lo avevano messo lì a vendere i fiori... quindi la suora li comperava e parlava con questo. E riceveva... siccome il deportato era una persona degna di fiducia a lui venivano consegnati questi antibiotici, questi medicinali; [...] io ho goduto di questo passaggio e ritengo che ciò è stato decisivo per la mia salvezza. Quindi io vorrei ritrovare quella suora perché so che è ancora vivente. So che è vivente.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
301
[...] Lei mi domanderà se ho rancore... no, non ho rancore perché vede se sono salvo sono salvo grazie ai tedeschi buoni. È la verità. Io sulla mia strada ho trovato anche delle persone umane. Non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. I malvagi ci sono sempre stati, ci sono adesso, ogni Stato ce li ha perciò bisogna sempre, sempre essere armati per combattere per la libertà. [...] Ci vogliono sempre gli innamorati della libertà. ARMANDO ASCARI - 1923 La mia era una zona buona perché lì tanti erano cattolici. E alla festa, alla domenica, i contadini attaccavano i loro carrettini, tutti ben vestiti, e andavano alla messa. […] Gli austriaci, è vero, erano più buoni. Mi ricordo che mi pagavano a me per il lavoro, anche se alla fine mi hanno detto: “Adesso non la liquidiamo, la manderemo poi a chiamare”, beh, mi devono ancora mandare a chiamare. Noi avevamo anche delle donne, con noi c’erano anche dieci ragazze che venivano in campagna a lavorare con noi. […] Su queste ragazze mi hanno detto che ci facevano anche degli esperimenti molto brutti, che tante di loro hanno anche voltato i piedi all’uscio. E mi ricordo che alcune di quelle ragazze, che non so mica più se erano russe o polacche, cantavano sempre una canzoncina triste triste. Che poi mi hanno spiegato che era una canzone partigiana. Erano tante anche le donne russe che erano state deportate in Germania proprio perché erano delle partigiane. Ci facevano sempre arrabbiare. Noi eravamo tutta gente di vent’anni ed eravamo come tanti agnellini, proprio così! Ma in quei momenti lì chi è che si sentiva di essere giovane? Nessuno! […] Io sono venuto a casa da San Martino con una cavallo che mi ha prestato un contadino. Quando sono arrivato avevo una fame, una fame terribile che ho mangiato due piatti di tagliatelle e dieci uova fritte. E mia madre, poveretta, mi diceva che non ero morto in Germania le sarebbe dispiaciuto vedermi morire a casa. CARLO ANDREA DELL’AMICO - 1921 Ci sarebbe da parlare per anni su queste cose, per di più quando uno come me ne ha fatti abbastanza di mesi nei campi perciò quando si parla di qualche cosa viene un ricordo che si aggancia a un altro ricordo che si aggancia a un altro ricordo e non finisci più ecco! [...] Ce ne ho talmente piena la memoria che non ho più bisogno di sollecitarla. [...] Io provenivo da una famiglia socialista. La mia famiglia è originaria di Carrara. Il mio nonno paterno era di Carrara: era un vecchio, molto intelligente, era nel movimento anarchico allora quando cominciò a formarsi il gruppo socialista aderì al movimento socialista di allora; fu a Genova tra i primi promotori del gruppo carrarino con alcuni che poi sono diventati... non so il papà dell’Onorevole Bucalossi che era anche lui di Pietrasanta e poi Pieraccini che fu ministro... e mi ricordo mio nonno
302
L. BERTUCELLI (a cura di)
che diceva: “Pensa io me lo portavo in carrozzina perché suo padre aveva vergogna a spingere la carrozzina e allora lo spingevo io”, e perciò in casa mia c’è sempre stato... e poi mio nonno allora, anzi più che altro mia nonna era... veniva da una delle famiglie più importanti di Carrara, era una Rotti e loro avevano delle cave di marmo, quando morì il padre le lasciò a mia nonna e a un’altra sorella e mio nonno che era allora come poteva essere non so un dirigente, un capo cava, un dirigente così era anche fra le altre cose un bell’uomo e mia nonna si invaghì, lo sposò e cominciò il gruppo familiare. [...] Quando venne il fascismo fecero pressione su mio nonno e su altri per passare così... anche perché con i membri della famiglia, i cugini di mio nonno erano abbastanza nazionalisti e piuttosto verso Mussolini. E mio nonno che non era fascista, risultato gli chiese la restituzione quasi immediata delle somme percepite, avute in prestito, mio nonno non sapeva come fare e allora le cave vennero messe all’incanto e furono comprate dalla Montecatini e praticamente i miei rimasero in miseria. Mio padre intanto si era trasferito a Milano e io nacqui a Milano. [...] A casa della nonna Adele non si faceva altro che parlare di politica e di politica da socialisti contro i fascisti che allora... perciò io con il latte materno assorbii anche questo sentimento. [...] Mio padre è stato ufficiale di Marina, in servizio permanente effettivo [...], era antifascista anche lui mio padre aveva fatto il Collegio Cicognini a Prato, non poteva vedere l’ambiente... mio padre pur venendo direi allora dall’ambiente della ricca borghesia era piuttosto contrario, anche perché in casa c’era uno spirito antifascista tanto è vero che anch’io l’ho assorbito. [...] Io sono del ‘21 avrei dovuto andare sotto le armi nel ‘41, alla fine del ’41, io sono di quegli anni lì. E allora i Guf facevano le manifestazioni fasciste per l’intervento dell’Italia in guerra e il risultato fu che il ‘21 fu la prima classe che fu chiamata sotto le armi come volontari: ci diedero il nome di ‘Savoia’ ci fecero fare... fu la prima classe che fece il corso per sergenti universitari presso i reparti e poi dopo gli ultimi sei mesi ti facevano fare il corso per ufficiali. Il caso mio per esempio a Sabaudia... perciò io nel gennaio del ‘41 ne compivo venti in maggio ero già sotto le armi. [...] Fui per un periodo di tempo a Napoli, poi fui mandato alla divisione “Legnano” [...] come sottotenente. [...] Alla scuola allievi ufficiali che nel caso mio è stata Sabaudia. [...] Ero risultato come uno dei primi del corso perciò era per quello che ero stato mandato... era un’arma nuova l’artiglieria contraerea italiana che allora aveva in dotazione gli ‘88-56’ tedeschi e lì c’erano tutti i figli dei generali, dei segretari della Milizia eccetera e allora questi qua arrivavano alla mattina al Sabato, con il papà, con la macchina. E poi tornavano a casa e i non raccomandati, noi avevamo il sergente di picchetto, il sergente d’ispezione, il sergente di ronda e stavamo lì. Finalmente poi mi arrivò la nomina e andai a Napoli, poi da Napoli mi mandarono al 58 vale a dire a Milano, alla caserma Parrocchetti; di lì poi fummo mandati, quando la Francia si arrese, con la 4ª armata... Ah, no! Prima, mentre sono a Milano, mi hanno destinato al 35° corpo d’armata che doveva andare come Armir in Russia. Ci avevano già dato il cappotto con la pelliccia e tutto poi finalmente sbarcarono gli americani a Tunisi, in Tunisia e allora
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
303
ci mandò l’artiglieria... e poi con il generale Bertolini andammo in Francia fino a Tolone. In Francia invece che in Russia. Sulla Costa Azzurra e per me fu una pacchia perché io, fra le varie cose, avevo nove in francese. Andavo bene in francese e allora mi hanno staccato presso la Commissione italiana a Saint Tropez. [...] Ero addetto al controllo e cercavo, che poi ce li indicavano gli stessi francesi, dove c’erano dei depositi di armi dell’esercito francese che si era arreso, alcuni erano andati a casa, alcuni erano andati nei maquis e alcuni erano stati fatti prigionieri e avevamo l’incarico di provare queste armi di fornire le istruzioni e mandarle al centro di addestramento della 4ª armata e io ero a casa in licenza premio perché era arrivata nel ‘43 e invece mi telegrafarono di raggiungere il mio reggimento che si stava muovendo per andare nell’Italia centrale. Io raggiunsi il mio reggimento dopo il 25 luglio, mi sembra che fosse l’agosto; raggiunsi il reggimento a Bologna qui assistemmo anche al bombardamento mi pare di Porta Lame. [...] Dopo siamo andati giù a Francavilla. Io, l’8 settembre, ero a Francavilla. [...] E allora sa il problema politico non è che fosse un impegno costante. [...] Noi abbiamo visto la famiglia reale che si imbarcavano. [...] L’impressione era... per noi finalmente la guerra era finita contro... con i fascisti, con i tedeschi... io cominciavo a pensare al fatto che sarei andato a combattere contro i fascisti e contro i tedeschi. Siccome quando ero in Francia ero entrato a far parte del Sim lì mi misero a contatto. [...] Noi avevamo rastrellato i prigionieri, quelli sbandati cercavano di raggiungere o la Città del Vaticano o il litorale per portarli poi invece, attraverso la Maiella, portarli giù verso le linee alleate e organizzammo con la popolazione di lì questo primo lavoro di rastrellamento e di trasporto di questi ufficiali alleati e lì entrai in contatto con alcuni dell’OSS ed ebbi... mi fecero un piccolo corso di addestramento e poi mi mandarono al nord e presi contatto con il Partito d’Azione, con Parri e che si cominciavano ad organizzare. La centrale era in Svizzera e dovevamo organizzare i lanci per le prime formazioni che si stavano formando nell’Alta Lombardia e nel Piemonte. Il 13 dicembre del ‘43 io ebbi l’incarico di pigliare contatti con quelli della Giunta militare del partito repubblicano per farmi dare informazioni e per poter organizzare, lì qualcuno fece la spia e vennero a colpo sicuro e ci presero. [...] Lì mi dissero che alla mattina ci avrebbero fucilati, mi presero le armi. Poi invece il mattino dopo ci hanno portato a San Vittore e lì sono stato mandato al sesto raggio che era il braccio in mano alla Gestapo e passai dai fascisti alla Gestapo. [...] Dopo l’8 settembre lei sceglie subito di tenere i contatti con gli alleati, ma questo ancora da militare? Sì! Non è stata proprio una scelta pensavo: “Ora si comincerà a fare la guerra contro i tedeschi”. [...] Una scelta quasi immediata, istintiva: “Finalmente si combatte contro i fascisti e contro i tedeschi” e quindi si stava dalla parte del giusto. Quella diventava finalmente una guerra giusta. Quindi era qualche cosa che lei pensava anche prima? Sì, sì quello sì anche se io non avrei disertato dall’esercito italiano per passare nelle linee inglesi, ecco! Per intenderci, ecco! Però era avvenuto questo: l’esercito italiano non c’era più, la famiglia reale era scappata, i
304
L. BERTUCELLI (a cura di)
grandi generali avevano tagliato la corda... e allora ho pensato: “Adesso faccio la guerra con chi dico io!” [...] Si può proprio dire assunzione di responsabilità e l’ho fatto con grande entusiasmo e senza pentimenti. Quindi lei prese tutti i contatti con l’Oss proprio in virtù della sua precedente esperienza nel Sim? No, no. Mi presero loro, loro mi contattarono. Molto probabilmente qualcuno del Sim, cioè il Sim comunicò a qualcuno dell’Oss. [...] Ma questo viaggio verso nord come avviene? Mi sono fatto paracadutare a Pizzo Tormino, a Clusone in Val Brembana perché a Pizzo Tormino c’è una croce, un punto trigonomentrico anche per l’aeronautica come qua il Cimone, e c’è anche un pianoro conosciuto da chi andava in montagna a sciare ed era comodo perché ci lanciavano sotto c’era quel che c’era: non erano ancora organizzati... dopo organizzarono i lanci con le formazioni partigiane, dopo c’erano i collegamenti, ma quando mi lanciai io no, mi lanciai e basta. [...] Poi da Clusone arrivai a Milano, e poi con il mio amico che era nel gruppo universitario che si era formato alla Bocconi di Milano ripresi i contatti, e da lì cominciarono i miei contatti nuovi. [...] La scelta partigiana in me è stata non tanto una scelta maturata su basi politiche, almeno inizialmente, la mia è stata una scelta... purché si combattesse contro i fascisti e contro i tedeschi. Come spirito e come azione queste sono state le motivazioni alla base della mia scelta. [...] A San Vittore sono stato dal 14 dicembre fino al 17 di febbraio che sono partito per Dachau. Due mesi, isolato assoluto. Perché da subito mi hanno messo in una cella d’isolamento quindi non ho avuto rapporti con gli altri prigionieri. Solo gli ultimi tre-quattro giorni che ci hanno tolto dall’isolamento io e Renato, quel mio amico che è venuto a Mauthausen dove morì un mese prima della liberazione, ma per il resto del tempo siamo rimasti in isolamento assoluto. Mi venivano a prendere per andare giù all’ufficio degli interrogatori. [...] Il 17 febbraio ci hanno messi su due camion che ci hanno portato fuori da San Vittore e ci hanno portato alla stazione centrale di Milano e poi ci hanno chiuso sui vagoni e siamo partiti, destinazione Germania. [...] Perché io poi pensavo: “Mi manderanno in Germania a lavorare!” Non sapevamo che c’erano i campi di sterminio. Nessuno di noi aveva idea dell’orrore che invece era. [...] E della situazione degli ebrei sapevate nulla? No. Cioè degli ebrei sapevamo quello che sapevano tutti e cioè che erano uscite le leggi razziali, ma io per esempio avevo degli amici: Jona, de Benedetti, Levi e poi chi c’era? Beh, insomma questi erano miei compagni di scuola e quando vennero le leggi razziali se prima gli volevo bene come un compagno di scuola dopo gli ho voluto bene di più perché per me erano dei poveri infelici che venivano ingiustamente perseguitati. [...] Eravamo una classe molto affiatata, ma anche la mia scuola più genericamente, tolto qualche figlio di fascista, il resto, non so, se si andava a ballare dicevamo: “Oh! Venite a ballare con noi”, perché a noi, detta come va detta, delle leggi razziali non ce ne fregava niente. Per noi erano gli amici di sempre. Non era cambiato niente, nel modo più assoluto. E poi mi sento anche di dire che, a Milano in generale non c’è stato un cambiamento in peggio nella considerazione degli ebrei anzi, a mio avvi-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
305
so c’è stata una certa sensibilità nei confronti degli ebrei anche perché erano dei cittadini milanesi. [...] Non c’era una forte discriminazione a quanto mi ricordo io da parte della gente, sono stati rovinati dalle leggi razziali i dipendenti pubblici quelli sì. E tutti quelli che avevano a che fare con lo Stato direttamente, ma direi che la popolazione stessa, tolta quella parte di fanatici fascisti, non era antisemita anche perché a Milano direi proprio che... anche se il fascismo è partito da Piazza S. Sepolcro a Milano bisogna anche dire che dei grandi fascisti non è che ce ne fossero tanti a Milano... e poi a Milano c’era un forte sentimento anti-tedesco... così potremmo quasi dire innato. [...] Il viaggio... eravamo su un vagone, come quello di tutti gli altri, un vagone piombato, dei vagoni merci. Perciò noi abbiamo fatto tre giorni e due notti: da Milano, attraverso tutta la Lombardia e siamo arrivati a Vienna e poi da Vienna, siamo stati fermi una notte e il mattino siamo arrivati a Mauthausen. [...] Eravamo tutti detenuti per reati cosiddetti politici, eravamo tutti deportati politici. Era tutta gente o partigiani, o appartenenti ad ambienti clandestini, a partiti politici clandestini o qualcuno magari non so... hanno gettato una bomba nella tal zona, hanno rastrellato tre strade hanno preso metti dieci persone che non c’entravano niente, ma per la gran parte si trattava di politici; magari persone che erano già in galera da tempo per questioni politiche perché si opponevano al fascismo. [...] E quindi l’arrivo in questo campo come è stato? Com’è il primo impatto? Non è tanto facile riportare alla mente quei momenti. Arrivi in questo posto scuro, vedi della gente vestita di stracci, vedi della gente che è la metà di noi di peso, vedi le facce, quelle facce... e ti rendevi conto che i pensieri, le idee che ti eri fatto durante il viaggio non corrispondevano alla realtà, che Mauthausen era tutt’altra cosa. [...] Ci siamo resi conto e alcuni proprio ebbero un crollo immediato. Io ebbi la reazione contraria e mi dissi che il mondo che avevamo conosciuto fino ad allora qua non c’era più. E adesso ce n’era un altro e bisognava imparare a stare in questo posto. E questa credo che forse è stata l’unica vera salvezza mia e di quelli che sono tornati e che non si sono lasciati andare. Perché lì era facile cadere in quella che adesso chiamano “depressione” perché con la vita che facevi là da quando ti alzavi con le urla dei kapò a quando tornavi nei blocchi... io credo che un’altra fortuna che ho avuto è stata quella che io ho facilità che quando vado a letto “spengo i contatti” e mi addormento. [...] E sono riuscito a dormire anche in Germania, a volte con la gamella della minestra sotto la testa come cuscino avvolta nella giacca. Non tutti riuscivano a dormire e per me il fatto di essere sempre riuscito a dormire mi ha permesso di ritornare a casa. Perché poi con il sonno riuscivo a recuperare quel po’ di energie forse più mentali che fisiche che mi servivano per stare in piedi e lucido il giorno dopo. [...] Appena arrivati lì ci hanno fatto scendere tutti, poi ci hanno condotti alle docce, ci hanno spogliati di tutto. Il mio trasporto, io parlo del mio, ma penso che anche negli altri trasporti succedesse questo... a noi ci diedero dei sacchi e ci dissero: “Tutta la roba che avete la mettete qua perché dopo vi verrà restituita”, quindi tutti i nostri effetti personali li abbiamo messi in questi sacchi e, ovviamente, non abbiamo mai più rivisto nulla. Poi la doccia, calda e fredda, poi ci hanno tagliato i capelli e ci
306
L. BERTUCELLI (a cura di)
hanno rasato dappertutto e poi fuori, nel campo per essere poi inviati nei blocchi a cui ci avevano destinati, però i primi che uscivano dalla doccia erano i più sfortunati perché dovevano aspettare lì in piedi, bagnati e al freddo che uscissero anche tutti gli altri... io credo che molti hanno cominciato a prendersi qualche accidente proprio da allora. Poi ci portarono nei vari blocchi. [...] Ci diedero dei vestiti, degli stracci. Le prime divise poi che diedero erano divise, alcuni dicevano che erano dell’esercito ungherese, insomma erano di pannetto con il risvolto rosso con giacche verdi e... ma la prima divisa, proprio da deportato del campo ce l’hanno data prima di essere spediti a lavorare dal campo principale nei vari sottocampi perché era lì che la maggioranza di noi andava a lavorare. La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di aggiungere delle assi di legno alla baracca, ma c’era lo stesso un freddo che si gelava e poi di notte dormivamo su un chiamiamolo materasso, di panno che ormai era trito da tutte le persone che ci avevano dormito sopra e si facevano delle file per uscire e per entrare nel blocco, poi ci facevano l’appello, ma c’era un freddo, c’era veramente un freddo terribile. Il rapporto con i compagni del blocco? Ma i compagni del blocco, noi del primo trasporto eravamo i più odiati. Perché noi avevamo i francesi che non ci potevano vedere per la pugnalata alle spalle, i greci perché avevamo combattuto in Grecia, gli Jugoslavi perché eravamo contro la Jugoslavia, i tedeschi anti-nazisti perché avevamo appoggiato il fascismo e allora, sa com’è, per questa gente gli italiani erano fascisti, ma non ci potevano vedere i belgi e tanto meno gli spagnoli, noi avevamo combattuto in Spagna: insomma, non ci poteva vedere nessuno. I tedeschi nazisti non ci potevano vedere perché avevamo tradito il fascismo, gli altri non ci potevano vedere perché eravamo stati alleati dei nazisti perciò la nostra situazione era questa. Io i primi contatti li ho avuti con dei francesi perché io parlavo discretamente francese. [...] Conobbi Robert Dubois, non riesco a parlare di lui senza commuovermi, e siamo diventati amici. [...] Lui mi chiese come mai gli italiani arrivavano a Mauthausen e io allora gli spiegai del movimento clandestino di liberazione, dei partigiani, della lotta interna che si stava sviluppando contro i fascisti e i tedeschi. Loro di questo non sapevano niente perché erano stati deportati prima. Poi il viaggio finì e arrivammo in fabbrica. Appena arrivati ci hanno messo in questo hangar dove avremmo dovuto lavorare e hanno cominciato a chiamarci in base al lavoro che svolgevamo a casa e che avremmo dovuto svolgere anche lì e io ero lì con alcuni italiani che erano tutti ingegneri. [...] Allora io quando mi hanno chiesto che lavoro sapevo fare ho detto il meccanico perché pensavo che se mi avessero messo a lavorare insieme a questi ingegneri loro mi avrebbero potuto aiutare. [...] Lì c’era anche il capo della fabbrica: quando ho visto che si avvicinava, “tac”, sono scattato sull’attenti perché avevo imparato in Francia con i tedeschi che loro guardano molto alla forma, e almeno quello lo feci e loro pensarono che non fossi italiano perché secondo loro gli italiani erano tutti mori, scuri, riccioluti e io ero biondo e di carnagione chiara... questo ingegnere legge sul foglio che io ero un esperto degli impianti elettrici, mi viene vicino e mi dice di seguirlo e io allora vado con lui.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
307
[...] Arriviamo vicino a un tavolo di progettazione, questo apre un disegno, me lo fa vedere, ma io non sapevo distinguere una valvola da una lampadina o qualche cosa del genere e io non sapevo neanche da che parte bisognava guardarlo. E allora comincio a giustificarmi dicendo che in Italia si usavano dei segni, una simbologia diversa. Lui si è messo a ridere, ma ha capito benissimo che io non ne capivo nulla. Allora chiama uno e gli dice in francese che io dicessi la verità e cioè che io non ero un esperto di elettricità e io ho detto: “Io non sono un esperto. Sono stato deportato perché i miei erano contro al fascismo e io anche…”, e poi gli ho spiegato com’era andata tutta la faccenda. E questo uomo che poi ho saputo non essere tedesco, ma austriaco e vicino al movimento di resistenza del lager, invece di continuare a guardarmi con una faccia e uno sguardo di superiorità perché gli italiani secondo loro erano tutti così, infidi, ladri, bugiardi... perché anche in Germania certe cose sull’Italia non si sapevano, le cose sull’Italia che passavano erano quelle che si voleva che passassero e quindi il discorso dell’antifascismo italiano non era risaputo in Germania perché non si voleva che si sapesse. E allora io non posso dire che la sua opinione sugli italiani fosse improvvisamente cambiata, ma devo dire che una certa stima nei miei confronti questo uomo me l’ha dimostrata. Direi che in gran parte la mia vita, per come sono andate le cose, la devo proprio a lui se sono sopravvissuto perché lui poteva dire che ero un impostore quale ero davvero e il mio destino sarebbe stato sicuramente diverso, sarei stato ucciso subito o, nel migliore dei casi, mi avrebbero mandato a fare l’operaio-schiavo, a scavare la montagna e anche lì non sarei sopravvissuto molto. E invece mi disse: “Impara a leggere quel disegno perché se passa un qualche ingegnere e si accorge che non lo sai fare io non potrò aiutarti”. Io nel giro di 15 giorni sapevo quel disegno a memoria, ma solo perché questo uomo, non tradendomi, me ne aveva dato la possibilità. [...] Il 23 aprile ‘44 c’è stato il primo bombardamento, dopo neanche un mese subiamo il primo bombardamento che avviene mentre noi eravamo lì a lavorare. [...] Noi eravamo chiusi dentro alla fabbrica e negli hangar. [...] Quella volta ci furono 41 morti e 185 feriti gravi. [...] Il 26 di giugno del ‘44 perciò due mesi dopo il secondo bombardamento e allora non ci hanno più chiusi in fabbrica, avevano fatto dei camminamenti fra un blocco e l’altro, ci facevano uscire dagli hangar e andavamo in queste buche esterne. Insomma. Potevi beccarti una bomba direttamente perché all’esterno ti arrivava addosso non avevi cioè... lì eri sicuro di essere bombardato le vedevi arrivare. [...] Però anche quella volta il bilancio è stato drammatico: abbiamo avuto 130 morti e più di 200 feriti. L’8 luglio del ‘44, dopo questo bombardamento e dopo tutti quei morti, quando suonava l’allarme aereo ci portavano ai margini del campo perciò lì avevamo più possibilità di salvarci anche se il vero pericolo restavano le schegge. Beh, abbiamo avuto il terzo bombardamento, appunto l’8 luglio del ‘44 e in quella occasione abbiamo avuto un morto e 149 feriti quindi è andata molto meglio. Però la fabbrica è stata distrutta, gli spezzoni incendiari e le bombe l’hanno rasa al suolo. Il 14 di luglio ci hanno trasferito a Vienna. Lì noi eravamo adibiti a spalare le macerie, a togliere le bombe inesplose, alcuni lavoravano nella fabbrica che era una fabbrica di pezzi meccanici, era stata collocata
308
L. BERTUCELLI (a cura di)
nelle cantine di una birreria, era a dieci metri sottoterra e siamo andati... ah, voglio dire anche questa: mentre noi eravamo tra quelli che non lavoravano, cioè che lavoravano all’esterno e non dentro alla fabbrica, però quando c’erano gli allarmi dovevamo andare in queste cantine sottoterra mentre i civili scappavano, però il movimento clandestino aveva fatto in modo che sempre un certo numero di noi stava fuori, una trentina di noi prestava servizio per spegnere gli incendi, io allora avevo dei grossi problemi di salute e non ce la facevo quasi più allora Robert, e quella volta toccava a me... andò al mio posto e ci lasciò le penne. Poi da lì siamo andati a Hirschborn dove c’era una grotta lacustre, che esiste ancora adesso e all’interno c’era la fabbrica. [...] Nel lager veniva deportato anche il rastrellato, gli ebrei, i testimoni di Geova e così, ma io ad esempio non ho conosciuto nel lager... no! Nel mio blocco eravamo tutti politici. A Mauthausen eravamo nel mio blocco tutti triangoli rossi. Quando ho fatto la quarantena neanche perché eravamo tutti quelli che erano arrivati da Milano, però nei sottocampi arrivava gente da tutte le parti perciò io vedevo ogni tanto in mezzo ai triangoli rossi, qualche triangolo giallo, che erano poi gli ebrei, però personalmente non li ho conosciuti. [...] Voi non avevate una sensazione di differenza fra voi e gli ebrei? No, no, nel modo più assoluto. Anche perché eravamo vestiti uguali, trattati uguali. Perché poi noi non sapevamo allora che loro venivano mandati subito alla camera a gas, però sapevamo che quando eri qui a Mauthausen, quando andavi in infermeria e ci stavi tre-quattro giorni e non guarivi e non potevi guarire se avevi il tifo o la diarrea, noi sapevamo che ti mandavano nella camera a gas. Perciò per noi differenze non ce n’erano perché non le vedevamo. [...] Parlando ancora degli altri gruppi, di prigionieri di altre nazionalità, ci ha già detto di questa difficoltà che avevano gli italiani. Però dopo i primi mesi ci siamo spiegati. Anche perché eravamo tutti politici e specialmente con i francesi, con gli spagnoli, un po’ meno direi con i polacchi perché poi fra i polacchi dei politici ce ne erano molto pochi, c’erano dei nazionalisti polacchi che erano degli anticomunisti feroci, erano tutti, ma questa non vuole essere una cosa di... quelli che con meno fatica facevano i kapò erano i polacchi e la prima cosa che facevano con un cordino e un pezzetto di ferro o di plastica si facevano una croce e se la mettevano al collo. Io al pensiero che ad avere la croce fossero i servi sciocchi delle SS... perché poi quando le SS dovevano pestare qualcuno chiamavano quasi sempre lui, il kapò... e allora io dico: “Tu che sei un cattolico...” ma questo qui è un ragionamento che faccio a posteriori, ma per il resto con gli altri deportati andavamo bene, però c’erano i polacchi ai quali bisognava stare attenti perché erano anche delle spie. [...] I russi hanno avuto come somma fregatura che quando sono stati fatti prigionieri di guerra e sono venuti nei campi perché non risultasse che erano militanti del Partito comunista perché altrimenti avrebbero avuto un trattamento ancora peggiore non lo ammettevano, anche se poi erano lo stesso tutti considerati deportati politici e al momento della liberazione i russi non erano contenti a differenza di noi perché ci dicevano: “Noi dovevamo morire. Non dovevamo essere catturati vivi”. Queste erano le disposizioni. Questa erano le direttive date ai russi non so se da Stalin o da chi altri: loro non dovevano essere fatti prigionieri. Loro dove-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
309
vano morire piuttosto. Infatti, molti penso che scappassero verso Linz, che Linz era già zona americana perché avevano paura dell’accoglienza che avrebbero ricevuto in Urss. Invece questa organizzazione clandestina com’era strutturata? Strutturata non so se è la parola esatta. C’era una parte... si trattava di organizzare quello che poteva essere il sabotaggio. Il resto era quello di cercare di, quando potevi, di aiutare quelli, fra i tuoi compagni, che ormai non ce la facevano più. Ad esempio, gli spagnoli, che erano lì da molto tempo, erano sei anni che erano lì ormai erano ridotti al lumicino; e allora noi si aiutava il deperito, si cercava di tenerlo a fare un lavoro meno pesante. Il lavoro proprio di sabotaggio non era solo di Mauthausen, era un po’ distribuito in tutti i campi. Quindi era anche un’organizzazione di solidarietà? Sì, anche. Fondata sul motivo dell’antifascismo e della appartenenza a una rete, ma il vero motivo che ci univa tutti era l’antinazismo. [...] Portammo via i pezzi di radio e facemmo una radio ricevente che tenevamo nascosta, e allora avevamo fatto un buco e dentro ci avevamo messo una cassa nella quale avevamo messo questa rudimentale radio poi durante la notte sentivamo le notizie e ricevevamo soprattutto quelle provenienti dal fronte russo, ma grandi notizie non è che ne avevamo, noi le notizie le avevamo dallo stato d’animo dei tedeschi. [...] Tenga presente che quasi tutti avevamo questa sensazione e cioè che ogni minuto poteva essere l’ultimo. Perché ad esempio se non ti toglievi il cappello quando passavano le SS come minimo erano delle legnate, se era un fanatico ti poteva anche sparare. Non avevi nessun motivo di essere sicuro di restare vivo... preso poi quel poco da mangiare che ti davano tiravi avanti. Non avevi certezza di niente se non di volere resistere a tutto questo. Questa è l’unica volontà che mi teneva in vita, che ci teneva in vita. Non c’erano altre speranze, tolti gli ultimi mesi quando si vedevano ormai gli aerei che ci sorvolavano, non so se erano americani, inglesi o russi, ma non era quello che ci importava, l’importante è che ci fossero e non fossero tedeschi. E sentivamo le cannonate, e cominciavamo a credere che fossero vicino a Vienna. Avevamo visto file e file di tedeschi feriti che si ritiravano, la popolazione civile che scappava, ormai era una situazione che si evolveva verso una sconfitta della Germania. [...] La nostra sorte era legata ancora di più ad un filo... e che comunque ormai era questione di giorni, e infatti noi avevamo anche organizzato... diciamo meglio avevamo pensato alla possibilità di una insurrezione dei deportati del campo, avevamo pensato a una insurrezione armata a Mauthausen... rimase nel programma perché non ce ne fu bisogno e poi molto probabilmente sarebbe andata male lo stesso, ma noi pensavamo siamo in 10.000 gli saltiamo addosso: qualcuno di noi morirà, ma gli altri noi li mangiamo, ma però arrivarono gli alleati. Il 5 maggio arrivarono i carri armati, però lo stesso ci venne data la libertà di fare un po’ di giustizia: io stesso ho inseguito uno dei kapò e gli ho sparato, gli ho sparato con una pistola automatica da 16 caricatori. Tenga presente che io pesavo alla liberazione, quando sono stato nell’ospedale americano di Linz mi hanno pesato ero 35 kg, quella pistola lì pesava quasi più di me era una pistol-machine. Gli sparai alle gambe, gli arrivai addosso, vidi le decorazioni naziste che aveva addosso e gli sparai in testa. E dopo tornai nel blocco. Questo eravamo diventati.
310
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Noi gli ultimi tempi a Mauthausen non mangiavamo neanche più, gli ultimi giorni mangiavamo solo un po’ di pane, che poi non è che fosse vero pane, era pane di farina di non so che cosa. Comunque era qualche cosa che con il frumento non era neanche parente, non c’era proprio neanche un minimo di parentela e la quantità era stata ulteriormente dimezzata. [...] Il valore nutritivo... il valore di un pavesino era molto più grande di quello... e la zuppa di rape? La zuppa di rape era fatta con i resti delle rape da cui era stata tolta la parte zuccherina, che poi è quella che ha la sostanza, perciò quella zuppa era acqua sporca. Questa è stata la nostra alimentazione quotidiana. Ogni tanto ti davano un microscopico pezzetto di wurstel, i primi tempi, poi neanche quello. E abbiamo tirato avanti così. [...] Io però non mi perdevo tanto a fantasticare, come invece facevano tanti altri, su dei banchetti immaginari. Mi ricordo solo una volta di avere detto che quel giorno, il giorno della liberazione mi sarei tolto lo sfizio di pigliarmi delle patate, di tagliarmele a fette e poi metterle sulla stufa calda e mangiarle quando si staccavano, perché se si staccavano voleva dire che erano asciutte cioè cotte, pronte. Questo mio pensiero era vicino al delirio perché con tutto quello che potevo desiderare di mangiare la mia mente si era fermata sulle patate che poi erano quelle che mezze marce trovavamo a volte nella zuppa, e quindi ne avrei dovuto avere abbastanza. È un po’ lo stesso discorso che si può fare quando si diceva: “Che cosa farei alle SS quando le prendo?”, tu dici: “Le impicco”, io no invece dico: “Gli do un chiodino piccolo così e una mazza grande così, uno scalpello da 5 kg e poi gli dico picchia!”, e poi quando hanno finito li facciamo ricominciare e il tutto ovviamente senza mangiare. E gli faccio fare questa cura per un po’, per un anno, solo così riuscirebbero a capire quello che hanno fatto a me. Perché se li impicchi è troppo facile, per loro. Questo l’ho pensato e l’ho detto, ma quelli erano momenti così, erano momenti di follia. Di follia. Voi avete ricevuto l’annuncio della liberazione da un ufficiale? Sì dal capitano Hern che ci ha detto che stavano arrivando gli alleati, non sapeva se arrivavano i russi o gli americani. Tra questo annuncio e l’effettiva liberazione sono passati 4, no anzi 5 giorni. [...] In questi giorni ci siamo riuniti nei vari blocchi, divisi per nazionalità e noi, nel nostro blocco X abbiamo messo un capo blocco e siamo stati lì. E intanto i tedeschi del campo? Erano scappati. Se l’erano data a gambe. Qualcuno è rimasto vittima di vendette? Sì. Noi usavamo dei cucchiai per mangiare e li avevamo fregati e così abbiamo fatto. O meglio ho visto fare delle laparatomie cioè entrare, aprire la pancia. Me ne ricordo una in modo particolare: un kapò tedesco sventrato dai russi. Quel kapò era stato veramente terribile soprattutto con loro e loro lo hanno fatto fuori. Ma tanti sono stati gli episodi sullo stesso tipo: troppe sono state le violenze, troppe le umiliazioni. Molte sono state le scene tant’è vero che i tedeschi quando sono arrivati gli americani perché prima ne è arrivata una pattuglia poi, dopo alcuni giorni, sono arrivati i rinforzi e anche i russi, e da quel giorno ci hanno fatto consegnare le armi, quelle che noi avevamo raccolto lasciate lì dai tedeschi in fuga e ci hanno detto: “Adesso basta. Se vedete qualche SS, qualche kapò, qualcuno di questi lo dite a noi e noi interveniamo”. Quindi il farci giusti-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
311
zia da noi è durato solo pochi giorni, ma ne abbiamo approfittato. Anche gli americani ne catturarono diversi che si erano nascosti, e si erano nascosti soprattutto per paura delle nostre vendette. [...] Io sono stato lì 18 mesi in Germania e sono rientrato un mese e mezzo dopo la liberazione, e poi noi italiani siamo quelli che siamo tornati a casa per ultimi anche perché eravamo stati gli ultimi a partire. [...] Siamo venuti in Italia con un treno speciale che ci riportava tutti a casa. Arrivato a Bolzano sono sceso per farmi riconoscere, lasciare le mie generalità e i miei dati, mi interrogarono e erano un po’ diffidenti perché io avevo una divisa americana nuova di zecca e grazie alla permanenza nell’ospedale americano e sotto le loro cure mi ero rimesso in forze perché loro uccidevano un cavallo e mi davano da mangiare un fegato di cavallo al giorno con le cipolle, e così mi hanno rimesso in forze. E in questo modo mi hanno fatto recuperare peso e infatti là ero arrivato a pesare 35 kg e quando sono rientrato ero un po’ più di 54-55 kg. E poi ero bianco e rosso e invece rientravano anche compagni che erano tutti pelle e ossa e allora nel confronto io sembravo essere stato in vacanza. Quando sono rientrato a casa solo il certificato della Croce rossa attestava quello che avevo patito perché io stavo, almeno fisicamente, proprio bene. E alcuni lì a Bolzano non credevano che avessi patito quello che invece avevo patito e c’era chi diceva: “Guarda quello là; lui sì che è stato male, mica te”, perché in quei momenti tutti volevano essere vittime più vittime degli altri. Perché c’era poi chi sperava negli aiuti da parte dello Stato e allora c’era chi magari era andato a lavorare volontario in Germania oppure sotto la Todt che voleva essere considerato deportato. [...] Poi dopo da Bolzano ritornai a Milano e la prima cosa che volli vedere fu piazzale Loreto. E poi andai a casa di mio nonno perché volevo capire che cosa era successo ai miei e poi da lì mi misi in contatto con i miei. Mia madre quando mi ha visto a momenti le veniva un colpo perché ormai erano convinti di non rivedermi più. L’incontro con la famiglia è stato uno dei momenti più commoventi della mia vita e mi è tornato freddo. Ma però la gioia più grande è stata quando sono arrivato qua. [...] Io davvero non ci speravo più di tornarci a casa. SERGIO LUGLI - 1921 Parlano sempre degli ebrei. Non tengono in considerazione che c’eravamo anche noi civili, ha capito? E lì sembra perfino che non esista ‘sto fatto qui. E invece c’eravamo anche noi civili. [...] Ero carabiniere di carriera. Eravamo a Roma, ero al Comando gruppo esterno e i tedeschi siccome che era stato ucciso Muti che era quel gran caporione fascista del dopo l’8 settembre e l’abbiamo ammazzato noi, ha capito? E allora i tedeschi hanno fatto la retata di tutti i Carabinieri di Roma in 2.000 e ci hanno portato in Germania. [...] Eravamo a Klagenfurt, gli ufficiali li hanno mandati in Polonia perché loro sanno la carta geografica e allora [i tedeschi] avevano paura della fuga. E noi militari, così, brigadieri, così ci hanno fermato lì in Austria a Klagenfurt [...], abbiamo tentato di allontanarci dal campo, abbiamo tentato la fuga, perché la fame fa venire una disperazione che è terribile caro
312
L. BERTUCELLI (a cura di)
mio, ci hanno preso io e un altro e ci hanno internato nel campo di Dachau. [...] Come siamo arrivati là ci hanno portato dentro nella baracca del bagno, ci hanno preso tutto: orologio, non ci hanno lasciato niente, né fazzoletto né niente, niente. E poi ci hanno portato via i vestiti, l’orologio, tutto. E poi ci hanno messo quei vestiti a righe, quelli da galeotti, con il numero: qua davanti io avevo, ce l’ho ancora a casa, io avevo il 116.434. Me lo ricordo ancora a memoria. E allora ci hanno fatto fare il bagno e poi dopo... no, prima c’erano i barbieri. Tre file di tavoli in cima questi qui: chi faceva i capelli, chi faceva tutto il... pelati, via! E poi dopo quando ti avevano pelato dappertutto... beh dopo, quando siamo smontati giù dai tavoli chiedevano di che nazionalità eravamo e italiani e i russi non avevamo... noi perché eravamo i traditori dell’otto settembre, i russi perché non avevano la Croce rossa internazionale ci facevano come gli indiani, come i tartari, con una macchinetta più fine ci facevano una striscia nella testa da davanti a didietro per conoscerci, per poterci picchiare meglio. Per picchiarci di più. E poi dopo quando siamo stati per andare dentro nel bagno abbiamo fatto la doccia, ce n’era una fila, erano attrezzati... perché bisogna dire la verità. E quando uscivamo, con un pennello, un bidone da marmellata e un pennello da imbianchino ci davano una spennellata qui [sotto le ascelle], da mezzo a qua [nella zona inguinale] ... un bruciore, un lavoro da cane. E poi dopo ci hanno vestiti da galeotti e ci hanno portato dentro nella baracca a fare la quarantena. Erano tre settimane: dalla mattina alla sera, eravamo in ottobre era freddo senza maglia con solo la camicia e quei vestiti di sacco, perché quei vestiti lì sono di sacco in mezzo al cortile vestiti così leggeri, dalla mattina alla sera fino a quando non si andava in baracca. Facevamo i gruppi schiena contro schiena, con le schiene assieme per stare caldi, con gli zoccoli di legno, sì perché avevamo proprio gli zoccoli di legno, così! E poi dopo 21 giorni ci hanno passati in un’altra baracca, ci hanno cominciato a mandare a lavorare. Si andava ai lavori forzati lì. A mettere su le rotaie a Monaco di Baviera, perché c’erano dodici chilometri da Dachau e lì abbiamo lavorato. Avevano fatto un bombardamento e ci hanno anche fatto tirare fuori i morti da sotto le case. Un lavoro. È stato terribile. E poi dopo finito lì siamo rientrati... ah, ho fatto otto giorni a portare i cosi, i morti dentro nel forno crematorio, loro [i tedeschi] prendevano una squadra. C’era un tenente delle SS: alla mattina ci faceva fare il giro nelle baracche, quelli morti li prendevamo per i piedi e tac, li buttavamo in mezzo al pavimento. E poi finito la corsia non diceva mica: “È morto Tizio, è morto Caio”, perché chiamavano solo per numero, e allora dicevamo: “Qua ne sono morti sette o otto”, e poi li buttavamo fuori dalla baracca e poi avevano un rimorchio di quelli di una volta e via per le braccia, erano tutti 30 o 40 chili. E allora per le braccia e alè! Li buttavamo tutti in cima al camion e poi li portavamo dentro nel forno crematorio. Nel forno crematorio c’erano due civili che tenevano dietro... guardavano se erano ebrei e se avevano dei denti d’oro, ha capito? E con due tanaglie, “tac!”, prendevano via! E poi facevano andare... ci facevano mettere dentro ai forni, perché ce n’erano dieci dei forni a Dachau e lì, dopo un po’, c’era un vetro che era un po’ appannato e ci dicevano di guardare. Volevano che guardassimo se erano finiti di bruciare, ma con la debolezza e la fame si diventa come scemi secondo me. È il deperimento organico, si diventa
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
313
come scemi e allora si guardava. L’ultimo a bruciare è lo stomaco. Cominciavano a fare... dei modi per non arrivare... È lo stomaco perché è dove c’è più sangue. E poi si ritiravano su e li buttavamo... Adesso, dopo che sono venuto a casa, dei morti io non ne sono più andati a vedere dall’impressione che mi fanno. E poi dopo finito lì, finito quel lavoro lì di otto giorni che ci hanno messo degli altri, ci hanno trasferito a Neckarelz. [...] Lavoravamo sotto la montagna scavata, che si facevano i motori degli aereoplani, noi lavoravamo, facevamo i lavori pesanti, lavoravamo sulle scavatrici, spaccavamo la roccia e poi portarla fuori su dei carretti e così! Là è successo che era un freddo da cani. [...] Avevo sempre una tremarella, un lavoro addosso, era terribile. Ne morivano settanta, ottanta tutti i giorni. [...] E allora ci avevamo solo un panno, ma era sufficiente per restare al caldo dentro le baracche perché poi non c’erano mica le lenzuola, non c’era mica niente. Allora il panno da letto ho detto: “Aspetta mo’ mi faccio due pezze per i piedi”, e così ho fatto: ho tagliato una striscia poi l’ho spaccata. Si dava il caso che ci avevo i pantaloni un po’ corti e fuori dai pantaloni si vedevano le ‘pinze’ di queste mie pezze. A lavorare lavoravamo dentro ‘sta galleria a scavare, scavare, scavare... un kapò, perché c’erano i kapò, avevano la gomma [un manganello di gomma], ah, ti tiravano le sgommate. E mi ha detto: “Te italiano”, adesso io non ce lo sto a dire in tedesco che faccio prima così e mi dice: “Te domani non vieni mica a lavorare!”, aveva visto che mi spuntavano dalle braghe e non si poteva mica rompere il panno e così… Alla sera ero in baracca, viene due sentinelle, due soldati, erano le SS quelli cattivi: [...] “Te hai rotto la coperta” e io lo sapevo che l’avevo rotta e gli ho detto: “L’ho rotta perché avevo freddo”, e lui mi dice: “A te ti danno venticinque sgommate a culo nudo”. Mi hanno fatto mettere i gomiti così, levare i pantaloni e poi mi hanno... uno di quei kapò lì, che erano poi soldati, erano le sentinelle a tirare delle sgommate, mi è venuto freddo. Ho fatto delle urla che mi hanno sentito fino a Modena. Però in dialetto gli dicevo io: “Che ti venga un accidente a te e a tutta la tua razza”, e ce ne ho dette di tutti i colori in dialetto, eh! Perché se ti sentivano era un disastro, ti fucilavano. Allora però le persone la intonazione la capiscono, ha capito? C’era uno di questi soldati che mi diceva: “Te italiano sprichst nicht gut”, che poi voleva dire: “Te italiano non parli bene!”, e io non parlavo mica di dire... non dicevo mica delle cose come: “Accidenti a te e a Hitler”, perché se io dicevo Hitler ecco loro avevano già mangiato la foglia. Beh, ho fatto delle urla che ci ho vergogna a dircelo, ho quasi detto di male a chi mi aveva creato. Dal dolore, dal male, un male che mi si è gonfiato tutto qui di dietro, mi hanno dato dieci giorni da stare in baracca. [...] Erano attrezzati avevano le seghe laggiù nel piazzale da fare le armature di legno per andare avanti con le gallerie. Siamo andati là in cima e poi tagliare dei tronchi e poi ce li facevano caricare in cima a un camion, mettevamo quattro travi così e poi si rotolavano su i tronchi, ogni sei persone rotolavano su ‘sti pini che si portavano poi giù in segheria... e allora spingi, spingi, spingi, eravamo ubriachi dalla fame e allora quando non andavano più su arrivava il kapò che ti dava quattro o cinque sgommate e i tronchi andavano su. Io ero proprio di fuori, in fondo al camion con le braccia così che mi arriva con una svirgola qua. Guardi non mi vo-
314
L. BERTUCELLI (a cura di)
glio mica svestire, ma ci ho una cicatrice lunga così qua... sì, sì, sì perché marciva la pelle e mi è guarita la ferita quando sono arrivati gli americani. [...] Dopo un bel momento è stato il 1° di febbraio del ’45, perché facevano sempre la visita: facevano levare i pantaloni poi ci guardavano: quando lei era sfinito, andava scartato e allora di lì, proprio il 1° febbraio mi hanno mandato a Vaihingen [sic] che era un convalescenziario, cioè lì era un cimitero da morti quello lì. Cioè, lì morivano tutti. [...] C’era il tifo, la diarrea, il tifo petecchiale, tutto un lavoro. Di tifo petecchiale e di diarrea si moriva. E c’era un professore dal Portogallo che parlava l’italiano e dice: “Se c’è un qualche d’uno che se la sente di venire con me a fare un po’ da infermiere tirate avanti di più”, e allora io ci sono andato e caro mio anche lì, quando morivano, io... non c’era mica il forno crematorio c’era, mi piacerebbe andare a vedere se c’è ancora, una croce che avevano messo gli americani e allora facevano delle fosse e li buttavamo tutti lì dentro, sì insomma erano fosse comuni ecco! [...] I morti si buttavano giù a casaccio così! E lì poi sono arrivati gli americani che è stata una grande gioia. È stato un bel giorno, come quando si va alla Cresima, alla Comunione e così, ma ci sarebbero tante cose da dire. Ma erano cattivi, erano terribili quella gente lì. Io avrei il coraggio di ammazzarne uno, se ne trovassi uno di quelli lì, sa! Oh, se mi dicessero che non mi mettono in galera io lo ammazzo. Me li sogno ancora la notte, è questione che ho dovuto fare dopo che sono arrivati gli americani sette mesi di ospedale. [...] Gli ultimi sette mesi non ho mai visto né carne, né niente sempre rape, solo rape, ancora rape. Cinque o sei patate che te le davano senza pelarle, né niente e noi si mangiava la pelle e tutto dalla fame che c’era. Era una disperazione, la fame ti porta alla disperazione. [...] Era ‘na babilonia, ha capito?: eravamo tutti, non so, eravamo tutti mescolati, eravamo di tutte le razze e alla sera quando tutti parlavano, quando si sentiva parlare c’era un casino che non si capiva niente e noi allora si cercava di stare assieme, in sei o in sette, mi ricordo sempre per Natale del ‘44 c’era uno dell’Istria, un ragazzino che aveva quattordici anni e che era stato deportato anche lui durante dei rastrellamenti e questo qua ha cominciato a piangere, ha cominciato a dire che a casa sua mamma faceva la torta, faceva qua e là... capirà, con la fame che c’era. A noi ci veniva la voglia di picchiarlo. E allora noi ci abbiamo detto: “Se non stai mica zitto ti picchiamo”, perché avevamo tutti una fame, una fame. La fame è una cosa che è terribile, è terribile. Ma la cosa più terribile era vederli lì nei forni bruciare, così tutti sporchi era un lavoro che faceva schifo. [...] Alla sera facevano l’appello nel cortile e d’inverno è un disastro, dal freddo e poi poco vestiti e così era un lavoro, era una disperazione. Ti veniva in mente casa, la madre, i genitori e veniva voglia solo di morire, sì. Il deperimento organico fa un effetto che bisogna provarlo per crederlo. E poi c’erano delle punizioni, delle punizioni che erano terribili. Lì a Dachau lì c’era le croci, le croci come Cristo. Solo che non ti mettevano mica i chiodi, ma per il resto era uguale ti legavano a tanto così da terra [a un metro circa da terra], poi in cima, per le gambe, poi le braccia stese così, e ti facevano stare lì un’ora, due, tre, una mezza giornata a secondo della punizione.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
315
[...] Un cecoslovacco e un tedesco alla notte sono riusciti ad andare nella baracca dove c’era la cucina che adesso c’è un museo e avevano rubato quei pacchetti di margarina e del pane... li hanno trovati e li hanno messi in cima a quegli sgabelli militari alti così con un cartello in mano con scritto in tedesco “Io sono un ladro”. [...] Questi qua hanno rubato così e così, se fate così si fa questa fine qui adesso li impiccano. E allora li hanno impiccati. [...] Era una cosa che faceva schifo. Io non avevo mai visto e mi hanno obbligato a vedere allora vanno giù i piedi e la mani, i pantaloni fanno così, le maniche... insomma faceva schifo, ecco... schifo. Un senso, un senso, ma scherza? Però come dire, c’è il deperimento organico e così, e allora ad esempio tanta gente si è buttata contro i fili articolati, c’era la corrente, eh! E così sono morti fulminati. Perché uno, dal deperimento organico, va giù di testa. Va proprio giù di testa. E allora quei due lì li hanno impiccati così e io ho visto quella punizione lì. E poi ho visto delle sgommate. [...] A Dachau ci sono tornato, ci sono tornato perché è stato mio genero e i miei figli, però come sono andato dentro mi si è rigirato un po’ la testa, mi si era girato un po’ la testa e non ero buono di parlare poi dopo piano piano mi sono ripreso. È stata tanto grande l’emozione che non ero più capace... perché mi era tornato in mente tutto, tutto. Anche adesso mi sogno delle volte alla notte, mi sogno che dicevo: “Ma guarda, Dio bono sono stato fatto prigioniero un’altra volta, ma come facciamo? Adesso non riusciamo mica più ad andare a casa!”, e poi ecco che... cioè, uno si sveglia, ha capito? [...] Allora all’inizio ero un deportato, ero internato e allora... giusto. Non ho finito di raccontare quel fatto lì. È successo che come gli ho detto sparivano sempre dei prigionieri anche da... perché c’erano degli altri campi anche lì intorno così, e noi prigionieri delle volte ci trovavamo a lavorare e così e allora fra di noi si parlava: “Ma lo sai che Tizio e Caio sono spariti? Sono riusciti ad andare a casa”, e allora... ostia! Sentire dire così e esserci così vicini anche noi... e allora io e un altro abbiamo tentato la fuga, era il 23 settembre del ’44... no! Era il 23 agosto del ’44, perché io prigioniero in quei campi lì ci sono stato dal 23 d’agosto del ‘44 fino al ’45, prima ero internato militare, però una fame. Cioè si stava male anche lì. E allora siamo stati fuori, c’era in Austria, c’erano molte pinete e io dico: “In due o tre giorni arriviamo in Italia e dopo con gli italiani ci arrangiamo”, dopo abbiamo capito che anche se venivamo in Italia c’erano dei vigliacchi di fascisti qua che forse la fine che abbiamo fatto ce l’avrebbero fatta fare lo stesso. Beh, non fa niente tanto è andata così. Allora era sotto sera, io e quell’altro avevamo preso su delle mele, avevamo un sacchetto, uno zainetto che lo avevamo noi da prigionieri quando siamo andati là... delle mele così per mangiare, e poi lì nei boschi c’è... ho visto tanti caprioli nel bosco e poi c’erano delle fragole, insomma c’era molta roba che si poteva mangiare, e allora era sotto sera mi ricordo sempre andava giù il sole, c’era una vallata lì che c’era una di quelle stradette di campagna, c’erano due o tre case, e io ci faccio con quell’altro: “Vuoi che aspettiamo quando non ci si vede più? Perché se ci vedono”, e lui: “Ma dai che attraversiamo lo stesso!”. Porca Madosca! Ci mancava un cinquecento metri, mille metri prima di arrivare in quell’altra boscaglia... arrivano su due cani, due cani di quelli che avevano loro ad-
316
L. BERTUCELLI (a cura di)
destrati a ritrovare i fuggitivi e anche a uccidere, uno di questi cani mi raggiunge e mi butta le gambe qui, mi ha dato un morso e mi ha buttato in terra. [...] Quell’altro cane ha buttato per terra quell’altro mio amico e ci ha dato un morso nel culo. Ma sono ammaestrati bene, sa! E poi sa che cosa hanno fatto? Hanno cominciato a correre in rotondo e ad abbaiare è arrivato su due di quei ragazzi di diciotto, diciannove anni come i fascisti avanguardisti che avevamo noi italiani solo che là erano hitleriani e sono venuti lì e hanno cominciato a dire: “Partigiani, banditi!”, e cose così che però io non ho capito niente. E ci hanno preso e ci hanno portato a un comando in una caserma di questo paesetto, ci hanno messo dentro una baracca. [...] Ci hanno portato a Villach [...], in un carcere come Sant’Eufemia, Sant’Anna, e poi lì ci hanno chiuso lì dentro, dopo quindici giorni ci hanno fatto il processo e anche lì non ho capito niente. Hanno cominciato a dire: “Banditi!”, e poi c’era un poliziotto che parlava un po’ d’italiano e ci ha detto: “Partigiani”, perché lì c’era la frontiera della Slovenia anche lì vicino e delle volte noi quando eravamo prigionieri hanno suonato l’allarme perché c’erano i partigiani della Slovenia che tentavano di fare delle azioni, e allora credevano che noi volessimo andare con loro, e noi ce l’abbiamo detto: “Siamo usciti così, siamo scappati perché volevamo andare in Italia”, niente, non c’è stato niente da fare e di lì dopo ci hanno portato a Dachau. [...] Quello lì è stato un disastro, è stato proprio un terrore, era una eliminazione, era una eliminazione completa. Lei non aveva voglia di parlare con nessuno, con nessuno, neanche fra di noi si parlava mai... no, niente. La disperazione era tale che... non so come ho fatto, perché poi ero robusto io da giovane, ma ancora adesso non so ancora come sono riuscito a venire a casa, ma se ci fossi restato ancora... Perché noi siamo stati fortunati, lì dov’ero io sono arrivati al 21 o al 22 di aprile gli americani, invece a Mauthausen sono arrivati ai primi di maggio. Per me sono stati quei giorni lì che mi sono salvato. Mi sono salvato perché se stavo ancora lì non so mica come andava a finire. Io non riuscivo più... non stavo più in piedi. Ero arrivato alla fine, mi si era mossa la diarrea e con quella lì si partiva, mica storie. Sa che c’erano delle cimici e dei pidocchi che erano grossi, Porca M […], ci voleva il martello per ammazzarli. E lei quando era fuori a lavorare, fuori al freddo, lei non sentiva niente perché si nascondevano qua [sotto le ascelle], in mezzo alle gambe. insomma dove c’era più caldo, ma quando eri in baracca, che era caldo nella baracca, erano di un fastidioso, di un tedio; si schiacciavano così con le unghie. Un lavoro, era un lavoro devastante, proprio devastante, era una roba da matti. E arrivati gli americani ci siamo salvati. [...] Ne è morto una quantità i primi giorni. Ne sono morti forse più di 180 e gli americani lo hanno detto subito: “Non bevete”, ti davano del tè loro perché erano attrezzati e hanno cominciato a darci da mangiare e mi ricordo che hanno cominciato a darci il brodo, poi delle tagliatelle larghe così sempre in brodo e poi sempre... ho mangiato e mi si è mossa una diarrea che orinavo per il sedere, all’ospedale camminavo con le mani attaccate alle pareti perché non stavo in piedi, mica solo io anche tutti quegli altri insomma era una situazione generale.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
317
[...] Sono poi venuto a casa in settembre sono stato in ospedale con gli americani e alla fine sono aumentato 25 kg. Sì, sono aumentato di 25 chili. Da luglio ad andare a settembre. [...] Ero 42 kg e 7 etti. Perché gli americani avevano mica le bilance avevano delle sedie come queste con le ruote e poi ti tiravano su con quelle e così ti pesavano. E tutte le settimane ci pesavano e in più ci avevano dato delle scatoline, ma loro ti curavano proprio come si deve: punture, iniezioni, sa facevano tutto quello che c’era da fare. [...] Mi è rimasta una fissazione su quella vicenda lì, ma la questione è che ho fatto fatica a fare la vita io. Perché ero sempre ammalato. [...] Io le dico che quello che mi faccio caso è che nelle scuole non avete insegnato quel lavoro lì, non per raccontare, cioè sì è vero bisogna raccontare la storia com’è stata però che si facciano furbi e che non ci capiti più, che non capitino dentro un’altra volta a un lavoro del genere. Ecco di non capitare in un lavoro del genere: ecco è questo qui che si deve raccontare ‘sti fatti. [...] Quanti morti, quanti morti che ho visto, a migliaia, a migliaia dentro a quelle baracche tutte le mattine ce n’erano: magri, sporchi; c’era nell’ultimo campo lì che non c’erano i forni [forni crematori], una mattina andiamo dentro nel bagno ce n’erano due, perché i bagni erano tutti fatti con delle assi di legno e poi c’era una fila di rubinetti ce n’era sotto i bagni tutti lì in terra, tutti... e io pensavo: “Guarda che ci ha famiglia, ci avrà moglie, ci avrà dei figli a casa, guarda come l’hanno ridotto e umiliato una persona, un corpo portarlo a quei livelli lì”. E io che non avevo fatto niente di male andare a finire in un lavoro così. [...] E venivano là tutti i mesi anche a chiedere chi voleva andare volontario nell’esercito repubblicano e allora sa come si fa si parlava, quando eravamo qui internati, e si diceva: “Ma dopo? Se ci mandano in Russia? Se ci fanno prigionieri, ma che cosa ci raccontiamo a quelli là? Andare a combattere con quella gente lì”. E si preferiva morire dalla fame e stare lì. Nessuno di quelli che era lì con me ha aderito, facevano passare per un ufficio in fila indiana e dire sì o no e io dicevo: “Qui c’è anche da prendere delle botte!” invece non ci hanno mai picchiato. [...] Ma io ho fatto male vede a non scrivere, mica un diario una scrittura così, degli appunti diciamo e poi darceli a lei che li metteva giù. Perché certe cose ci se le dimentica e se io invece avessi scritto: “Ho fatto così, così e così!”. Ecco ho fatto male a non fare quel lavoro lì. [...] Lei si era mai interessato di politica? No, no. Mai, mai, mai.. non mi sono mai occupato. [...] E là mi avevano deportato come politico, perché c’erano i triangoli e io avevo il triangolo rosso con il numero. Me lo avevano messo anche a me il triangolo rosso. Ce l’ho ancora in mente il numero 116.434. E questo qui, questo numero qui l’ho dovuto imparare in tedesco perché altrimenti erano botte, perché là non è che chiamassero Lugli, là chiamavano il numero. [...] Quando è arrivato i cosi, gli americani, erano due o tre notti che eravamo senza luce e poi nelle baracche avevano portato dei mastelli di legno. [...] Avevano messo due o tre mastelli per baracca perché come le ho già detto eravamo in 1.100 e poi un’assina così per andare al gabinetto... per andare al gabinetto. Ma non c’era la luce, non si poteva andare fuori caro mio una mattina uno di quei due fratelli lì non so se fossero anche ge-
318
L. BERTUCELLI (a cura di)
melli adesso di preciso non me lo ricordo, è andato fuori, corre dentro e ci dice: “Ci sono gli americani, ci sono gli americani”, allora avevamo freddo e così abbiamo preso i panni dai letti e ce li siamo buttati addosso e poi siamo andati fuori e c’era, non li avevo mai visti, c’era un carro armato che era grosso che era andato contro il cancello del campo e ha fatto presto lui a tiralo giù. [...] C’era uno che urlava perché... perché si urlava perché senza medicine, senza niente si sentiva la gente che si lamentava: “Oooh, Oooh, Oooh” e il tipo andava avanti due o tre giorni a lamentarsi finché non moriva; e allora c’era uno lì nel coso della morte che non capiva mica più niente, cioè la testa era andata: ci aveva le fette del pane lì di fianco perché ormai non mangiava neanche più e allora io detto: “ Solo che muoia!”. A questo si arrivava! Infatti è morto e io sono arrivato e ho preso su il pane. Sono andato poi a mangiarlo di nascosto perché se uno mi vedeva ne voleva anche lui. Ma lì dentro diventavi un lavoro, ma mi piacerebbe vedere uno in quelle condizioni lì che cosa avrebbe fatto. Uno pensa per sé. Lì si pensava per sé. Mica tutti per uno. Tutto per sé solo. Ha capito? Uno pensa per sé e basta. Vacca, che lavoro è stato. E poi con quei carretti là e scavare sotto le montagne, spaccare... “brrrrrr”, sempre forare... era un lavoro, era un lavoro terribile. E sempre un urlo, sempre un lamento... sempre: “Dai! Dai! Dai!”, un lavoro... Sempre degli urli, delle parolacce, sempre così. [...] Quando siamo ritornati a vedere Dachau con mio genero che c’è voluto andare, anche se io avevo giurato che in Germania non ci sarei più tornato e invece ci sono andato che saranno dodici anni che ci siamo andati, ci siamo fermati lì che c’era uno che lavava la macchina: era una domenica mattina e gli abbiamo chiesto dov’era il campo e così... e nessuno sa niente, nessuno indica dov’è il campo. Ci hanno ancora vergogna. [...] [nel campo] Non avevi voglia né di parlare né di niente passava il tempo e te stavi lì come in sonnanbula, c’era solo la disperazione Una persona viene eliminata, viene sciolta, la personalità non c’è più. Lì non eri più una persona eri un oggetto. [...] Quando sono arrivati gli Alleati, quando vi hanno liberato ci sono stati, da parte dei prigionieri, dei tentativi di farsi giustizia da soli? Ci hanno dato carta bianca per stare fuori dal campo 48 ore e allora mi ricordo che c’era uno che era un polacco con un chiodo grosso, perché poi avevamo portato dentro delle biciclette perché siamo stati lì diversi giorni prima che gli americani organizzassero di portarci via tutti, e allora ci sono stati di quelli che se ne sono approfittati e si sono fatti delle vendette e allora ci sono stati di quelli che hanno anche ucciso dei tedeschi, ma io non ne ho viste di queste cose e allora non ne parlo perché io di quello che non ho visto non dico niente. [...] Ci hanno portato al confine con la Svizzera per la strada si trovavano dei prigionieri tedeschi che andavano a casa a piedi e allora noi ci dicevamo dietro delle parole, delle parolacce. Sì ce le abbiamo proprio dette a quei delinquenti. Quando sono venuto a casa sono dovuto andare alla Legione dei Carabinieri a Bologna a registrare che ero rientrato a casa, a registrare che ero tornato: lì c’erano ancora tutti dei prigionieri tedeschi... beh, dalla corriera io ci ho sputato. Guardi bene a che cosa si arriva. Perché guardi che è stato un lavoro terribile.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
319
ETTORE MALPIGHI - 1926 Io sono nato a Carpi, ho fatto due o tre anni di elementari a Carpi e poi sono venuto qua: no, prima a Soliera, prima ho abitato anche a Soliera poi dopo a Limidi, ecco! [...] Beh, io sono stato catturato l’8 giugno del ’44 in un rastrellamento a Soliera, hanno circondato il paese... io venendo fuori dal cinema ho visto che c’era un po’ di subbuglio, ho tentato di uscire fuori dal paese però non ci sono riuscito, non ce l’ho fatta. Cioè, ho inforcato la bicicletta e una motocicletta mi ha raggiunto appena fuori. [...] Erano tedeschi però nel paese c’erano anche i repubblichini, erano misti cioè era un rastrellamento che hanno fatto insieme, e poi senz’altro i fascisti erano quelli che guidavano i tedeschi. Senz’altro, senz’altro. Perché c’era già dei fermenti cioè il partigianato non c’era ancora, però c’erano già dei fermenti, avevano tagliato i fili del telefono, qualche palo abbattuto e via... e questo, almeno, dovrebbe essere stato questo ecco! Ma poi i rastrellamenti sa come sono: i tedeschi avevano bisogno di manodopera e quindi magari erano pretesti però loro cercavano... perché noi ci siamo restati in una sessantina a Soliera e poi da Soliera siamo andati a Bologna al comando tedesco e poi il giorno dopo a Fossoli. Cioè, di sessanta una ventina sono stati rilasciati come mio padre e poi ce n’erano altri di qui di Limidi... invece ci sono rimasti i più giovani ecco. [...] A Fossoli io ci sono rimasto quasi due mesi. Sì perché Fossoli nonostante che era un campo di transito io sono stato uno degli ultimi a partire perché molti miei compagni sono partiti anche dopo otto giorni... invece io sono partito dal 9 giugno che siamo entrati a Fossoli io sono andato via i primi di agosto, 3, 4 o 5 agosto adesso non mi ricordo bene, cioè io in quel periodo lì ho visto... è stato il periodo che hanno fucilato Gasparotto, Leopoldo Gasparotto, che hanno trucidato i 70, che sono poi 68 perché due sono fuggiti. [...] Sono stato a Guben, cioè noi siamo arrivati da Fossoli... cioè dalla partenza da Fossoli, dopo sette giorni chiusi in un vagone siamo arrivati a Sachsenhausen, e lì siamo restati tre giorni e lì, lì c’è stata la selezione purtroppo, cioè chi non ha resistito bene ai sette giorni di viaggio perché purtroppo lì, lì facevano due mucchi: una parte di qua e una parte di là. Perché Sachsenhausen era proprio un campo di sterminio, non era un campo di lavoro e purtroppo c’è rimasto anche un mio amico di scuola... Alfonso Fontana si chiamava, abitava qui a cento metri ed è morto lì. Noi non lo abbiamo più visto, lui lo hanno messo da una parte assieme a quelli che non erano, che non gli andavano bene e non lo abbiamo più visto. Ma siccome quello lì era proprio un campo di sterminio cioè senz’altro quello lì è passato per le camere a gas immediatamente. [...] Eh, la vita nel campo di Fossoli non era, come dire, noi avevamo un comandante di campo che si chiamava Titho. [...] Si vedeva poco in giro, saltuariamente lo vedevamo mentre invece, il vice capo, Haage quello lì era terribile. Mamma mia! Quante botte, quante botte, quante botte. Tutti li prendeva a botte perché noi anche alla presenza di un soldato semplice, quando ci passava anche lontano cinquanta metri noi dovevamo metterci sull’attenti fino a che non si era allontanato e io si dà il caso che una volta viene dentro il capitano che era poi il vice comandante, il maresciallo Haage, che era il vice comandante,
320
L. BERTUCELLI (a cura di)
si dà il caso che viene dentro nella baracca e l’ho urtato, lui entrava e io uscivo, l’ho urtato perché poi non aveva la divisa, aveva la camicia bianca, l’ho urtato con una spallata e allora lì quante botte, quante botte che mi sono preso. Quella volta lì. Mi ha picchiato a sangue perché lì poi bastava poco per prenderle, bastava un niente, un niente anche perché i soldati semplici avevano sempre la frusta in mano, sempre. A Fossoli vi avevano già messo una divisa? Non una divisa, ci avevano messo il triangolo rosso. Da subito il triangolo rosso e 1.509, e il numero: 1.509, il mio numero era il 1.509. Cioè non avevamo più un nome all’appello, tutte le sere noi dovevamo rispondere al numero. [...] Non sapevo neanche cosa fosse la politica. Cioè avevo una visione proprio... e poi ero molto giovane e non è come adesso che uno ci ha le sue idee, ci ha la televisione, i giornali, allora non leggevamo neanche i giornali. [...] Mio padre non era né comunista, né socialista, io credo che fosse... comunque era un uomo che non si interessava di politica, però veniva da una famiglia... ecco aveva dei fratelli fascisti. [...] Eh, il triangolo, il triangolo rosso voleva dire che eri un detenuto politico sì, sì ce lo hanno detto poi al campo abbiamo avuto degli insegnamenti in quel periodo lì. Per esempio io ricordo don Valotta, don Camillo Valotta che era... perché siccome nel campo c’erano delle cellule clandestine e don Valotta è uno che sapeva molto, che sapeva molto del campo, di quello che succedeva perché Gasparotto che fu fucilato sembra che fosse il perno di queste cellule clandestine e don Camillo Valotta, quando diceva la messa, alla sera... perché lui diceva sempre la messa ci informava di quello che succedeva perché in quel periodo venivano dentro molti civili a lavorare, soprattutto muratori e comunicavano con l’esterno. [...] Ha cominciato ad interessarsi anche di politica? Beh, più che interessarmi ho cominciato a capire. Ecco, via a capire [...], ci sono stati anche dei tentativi di fuga, anche gente che aveva il coraggio di scappare per non andare in Germania. [...] A Fossoli lì non si soffriva la fame, poi da noi venivano... anche mia moglie, che poi non era mica mia moglie, venivano i ragazzi, le ragazzine piccoline o mia sorella, ad esempio, venivano a portare da mangiare, le facevano entrare. [...] E poi arriva la notizia che si parte in Germania [...]; noi siamo stati dimenticati perché io ho tanti libri su, ma parlano sempre degli ebrei, degli ebrei, degli ebrei... che poveretti anche loro ne hanno subite, per l’amor di Dio, per l’amor di Dio! Hanno subito magari più di noi perché loro entravano nei campi proprio per essere uccisi, mentre invece noi chi ha resistito purtroppo e chi ha avuto fortuna... perché diciamo che tutti quelli che sono venuti a casa hanno avuto delle fortune immense, ecco! Perché non tutti... perché io non ero in un campo di sterminio ma là, su 12.000 internati che lavoravano tutti i giorni, tutti i giorni c’erano dei morti perché chi entrava in infermeria era già... perché anche se non era morto quello lì passava il carrozzone e morti o non morti quello lì li caricava e non tornavano mai più indietro perciò ci voleva anche una fortuna immensa. Adesso ci racconto: poi, quando siamo stati evacuati, che noi ci abbiamo avuto una fortuna che, come devo dire, sovrumana perché noi
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
321
siamo stati evacuati il 14 febbraio dal campo e facevano fare delle marce terribili facevano fare e chi non teneva il passo venivano... perché erano marce senza destinazione lì... lì dovevamo fuggire perché arrivavano i russi. Io ero sul confine Germania-Polonia, eravamo proprio sul fiume Oder-Neisse, all’arrivo dei russi ci hanno fatto evacuare e noi di Modena, che eravamo in otto di Modena abbiamo cercato... siamo stati i primi a fuggire. Noi abbiamo preso la strada immediatamente per venti chilometri... andare al mattino una ventina di chilometri proprio di corsa cioè il grosso lo abbiamo lasciato indietro e poi, piano piano, siamo entrati nelle case anche, siamo entrati in una casa perché anche i tedeschi fuggivano, fuggivano tutti, eh! Perché sapevano già che dovevano arrivare i russi e facevano non piazza pulita però fuggivano, si radunavano nei centri abitati, ecco! Ma dalle campagne fuggivano tutti, ecco e noi siamo entrati in una casa da contadini, non c’era nessuno, ci siamo riposati lì, poi abbiamo trovato un carrettino ci abbiamo caricato la nostra roba, non ci avevamo mica tanto, le lenzuola, la coperta, così... e abbiamo camminato per tre giorni; dopo tre giorni siamo stati arrestati. Siamo stati arrestati dai tedeschi e ci hanno messo dentro una scuola. Alla notte passa il grosso degli internati. Noi saltiamo dalla finestra e ci uniamo a loro però quando abbiamo visto il pericolo. [...] Allora di notte, il primo boschetto che abbiamo trovato ci siamo infilati e la fila ha continuato ad andare, perché così in tanti, tutti incolonnati eravamo un bersaglio troppo facile. [...] Noi non abbiamo mai avuto problemi. I problemi erano il freddo, il mangiare [...], e solo una sera ci siamo trovati veramente in difficoltà: nevicava, pioveva, c’era un freddo perché in febbraio da quelle parti... eravamo tutti bagnati e dico: “Qui ragazzi, questa volta...”, abbiamo preso il coraggio di entrare di notte da un contadino anche lì, con la fortuna, abbiamo trovato un signore, un signore! Io lo chiamo signore perché ha chiamato fuori sua moglie ha visto che c’era Ruggero che era un bambino, perché aveva quindici anni, che piangeva lo ha preso per una mano e lo ha tirato dentro. Insomma quella notte lì ci hanno messo nella stalla, la signora ci ha fatto levare i panni perché erano tutti bagnati, sempre tutta la notte con il fuoco ad asciugare i panni, così... della bravissima gente, più fortuna che così! E così solo il tedesco, suo marito, si raccomandava che al mattino dovevamo partire perché anche la loro vita era in pericolo. Era in pericolo come nel campo... perché non c’è l’ho ancora raccontata la vita del campo, adesso poi ce la racconto. Alla mattina partiamo all’avventura insomma, via, ma intanto abbiamo trovato questa casa che ci ha dato un po’... e allora lui ci ha detto: “Guardate ragazzi che...”, anzi, ci ha dato anche dei consigli: “Se c’è persone che vi respingono non fate, non insistete, andate via; però voi dovete attraversare il fiume Elba e lì troverete delle difficoltà perché non fanno passare neanche i tedeschi”. [...] Dove andiamo, dove non andiamo. Però lì c’erano degli inglesi anche a lavorare lì e loro forse erano informati forse attraverso non so da chi però loro erano informati: “Ragazzi nascondetevi che entro domani arriva il fronte americano”, e ci siamo nascosti. Nascosti ci siamo perché noi lì, in quel paese lì ci mettevano a dormire dentro una fornace, una fornace in disuso dentro a quei buchi che c’erano lì dentro e noi ci siamo nasco-
322
L. BERTUCELLI (a cura di)
sti lì dentro. Difatti al mattino c’erano già gli americani e lì è stata la liberazione. [...] È stata circa la metà di aprile [...] In questi 300 chilometri che li abbiamo fatti in circa 28 giorni, abbiamo visto anche dei tedeschi che non erano poi dei boia, vero, ecco! Mentre invece nel campo di concentramento, uno che ci stia dal principio fino alla fine, non è più un uomo, viene fuori come una bestia. Allora io l’ho sempre detto: “Adesso, quando aprono il campo, succede quello che succede!” perché gli americani per otto giorni ci hanno lasciato carta bianca, praticamente carta bianca. [...] Però non abbiamo mai picchiato, oh no, no, no. Andavamo nelle case e prendevamo tutto quello che c’era: galline, conigli, le tovaglie anche tutto. Forchette... tutto! [...] Noi, con i fratelli Trogi, siamo... abbiamo sfondato una vetrina in paese, che c’erano degli strumenti musicali. [...] Loro suonavano la fisarmonica e allora hanno preso una fisarmonica. [...] Ah, dopo è stata un’altra avventura. Perché Primo Levi ci ha messo dieci mesi praticamente per venire a casa, noi ci abbiamo messo sei mesi. Perché io sono venuto a casa in settembre... dall’aprile. Non sono proprio sei mesi, sono cinque. Allora, dopo otto giorni gli americani hanno messo fuori il bando “Guai chi esce dal campo, guai chi tocca un tedesco!” dopo otto giorni, ma in quegli otto giorni lì, ragazzi. [...] Noi abbiamo preso uno che era un capo squadra nel campo, io non lo conoscevo però quando lo abbiamo preso c’era chi lo conosceva e l’abbiamo portato dagli americani. E l’americano che cosa ha fatto? Ci ha detto: “Portatelo fuori, fate quello che volete?”, l’abbiamo portato fuori, poi ha preso abbastanza botte, però io gli ho detto: “Guardate ragazzi che io voglio andare a casa dato che io ho salvato la pelle, non voglio mica andare a casa a dire: — Io ho ammazzato uno — no, no, no, per l’amor di Dio”. E difatti non gli abbiamo fatto... fuori che botte... gli abbiamo risparmiato la vita, insomma. Perché io poi non so neanche che cosa abbia fatto. Forse non è stato neanche un criminale perché se no lo facevano fuori, lo facevano fuori. [...] Perché noi andavamo fuori e siccome non avevamo scarpe, né vestiti... i tedeschi passavano per la strada e giù le scarpe, giù le braghe, giù le camice, e via. Tutti quelli che passavano, nessuno si salvava. Abbiamo fatto circa due mesi con gli americani abbiamo fatto maggio e metà giugno circa. Un bel mattino invece degli americani ci troviamo i russi. [...] Però anche sotto i russi noi siamo stati bene, anzi benissimo perché noi sotto gli americani... gli americani rifornivano la mensa, ci davano da mangiare che la fame dopo non l’abbiamo più patita invece sotto i russi mangiavamo alla mensa dei soldati, c’era una grande mensa e mangiavamo lì. [...] E così, sotto i russi dopo è andata in ballo la fisarmonica, perché si sono fatti un’orchestrina e i russi, come nel film La Tregua, l’ha visto lei il film La Tregua, che c’era l’orchestra che suonava? I russi volevano sempre quest’orchestrina, volevano sempre che suonassero. Era diventato una specie di lavoro. [...] Vicino a Dresda eravamo e lì, lì chissà quanti tedeschi sono stati fatti fuori, sono stati uccisi, cioè chi resisteva si vede che... perché non facevano mica più prigionieri, lì. Perché ormai la guerra era al termine e allo-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
323
ra che cosa vuoi resistere? Chi resisteva veniva ucciso: c’era una puzza di morti. Per la campagna c’era una puzza che era una roba brutta. E poi seppelliti così, a pochi centimetri di terra e di lì è scoppiato il tifo, ecco! Non ci hanno più fatto uscire fino a quando non siamo venuti a casa. Un bel giorno è arrivato l’ordine di partire perché partivano un centinaio alla volta, non tutti i giorni, eh! È arrivato il mio turno e anche il viaggio è stato un po’ movimentato. Fino alla fine, fino a che non sono arrivato a casa, mi hanno fatto patire fino a quando non sono arrivato a casa. [...] Quando arriviamo a Mirandola c’era una folla di curiosi, sa com’è perché si ferma per mangiare l’autista, scendiamo con tutti i nostri bagagli e la folla di curiosi: “Da dove venite?”, perché c’erano delle persone magari che avevano i congiunti ancora via e ti chiedevano se ce n’erano ancora in Germania, perché sa dopo sei mesi, dopo cinque o sei mesi chi non rientrava facevano già dei pensieri a casa brutti. E uno ci fa: “Dove abitate?”, e io: “Abitiamo a Limidi!”, e lui: “Ostia a Limidi, ma a Limidi hanno bruciato tutto il paese!”. Noi non sapevamo niente. [...] Per tutto il tempo che sono stato prigioniero non ho mai avuto neanche una notizia che fosse una. [...] C’erano dei contadini che vendemmiavano e ci hanno dato la bicicletta e siamo arrivati a casa di corsa e abbiamo trovato fortunatamente... abbiamo trovato la casa bruciata perché non abitavo qui, abitavo vicino al semaforo. [...] È stata la prima cosa che ho visto e poi ero preoccupato per i miei, ma poi ho trovato degli amici prima di entrare in paese che mi hanno un po’ tranquillizzato. E i suoi familiari quando l’hanno vista? È stato non un dramma, ma siamo rimasti … siamo restati tutti muti. È stata una cosa molto commovente, veramente molto commovente”. Ma noi abbiamo saltato tutta la sua vicenda del campo. Io sono entrato... noi dunque a Sachsenhausen ci hanno messo in un piazzale, quelli che secondo loro erano quelli che erano validi al lavoro e lì questo piazzale era il mercato; era il mercato delle braccia, diremo così e noi dovevamo sostituire quelli che morivano nei campi di lavoro, ecco! Il terzo giorno arriva un signore, un tedesco e uno, due tre, quattro, cinque... in diciassette, ci ha presi in diciassette. [...] E noi questo signore ci carica in treno, treno passeggeri, eh! Questo qui era un treno passeggeri e dopo un paio d’ore arriviamo a destinazione a Guben. A Guben abbiamo visto subito perché noi, sostituendo quelli che morivano, per esempio io sono andato dentro a una baracca che era morto un ragazzo mantovano, uno di Mantova. Io ho preso il suo posto, il suo letto, ho preso non solo il suo letto ho preso le cimici, i pidocchi, tutto quello che c’era lì dentro. Perché la mensa era schifosa, la mensa... davano da mangiare le... non le barbabietole, il residuo delle barbabietole: la ciancia che è la pelle delle barbabietole, quello lì era il nostro menù. Era il nostro menù di tutti i giorni: alla mattina una bevanda che dicevano che era tè, ma era una bevanda, ma loro lo chiamavano tè, ecco, mentre invece mezzogiorno e sera il nostro pranzo e la cena era queste barbabietole, questi residui, la ciancia che la chiamano così qui che la danno alle bestie, accompagnati con... il secondo era una patata o due al massimo poca roba, però dodici ore al giorno di lavoro pesante.
324
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Mi hanno messo allo scarico dei vagoni. Siccome era un campo che facevano le armi: carri armati, mitraglie, cannoncini. Io ero allo scarico dei vagoni, il ferro che arrivava, io lo dovevo scaricare. Ah, d’inverno era terribile con il freddo. Mamma mia! Il freddo era terribile. [...] Ma avevate ancora il triangolo rosso? Sì, sì, sì. Il triangolo rosso lo abbiamo avuto fino alla fine. [...] Erano tutti politici come noi, e militari e prigionieri militari. Però fra i politici c’erano anche rastrellati, non italiani, c’erano polacchi, c’erano russi, c’era cecoslovacchi, c’era rumeni, ce n’erano di tutte le nazionalità. [...] Nella mia baracca erano quasi tutti italiani, dei russi non ce n’erano e poi io un bel giorno arrivo... perché noi avevamo un kapò, un kapò che era tremendo, eh! Perché ogni squadra aveva il suo kapò. [...] Era un tedesco. Ed era cattivo. Il secondo giorno che sono là, suona l’allarme e mi metto a correre perché i primi giorni uno, sa, è un po’ disorientato e allora mi metto a correre, sono saltato sopra ad una aiuola... porco cane mi ha chiamato indietro, mi ha dato tante di quelle botte. [...] Dopo anch’io ho imparato la lezione, l’ho imparata a suon di botte, ma l’ho imparata. Poi ho avuto la fortuna che un giorno arriva un tedesco muratore e viene lì dal nostro kapò e dice, ci ha detto: “Ho bisogno di un operaio, mi vuole un garzone per una decina di giorni”, e lui: “Prendi uno!”, mi ha preso me. Beh questo muratore, tutte le mattine che veniva a lavorare mi chiudeva in uno sgabuzzino con il suo coso da mangiare e mi diceva: “Quando hai finito di mangiare bussi alla porta e io ti vengo ad aprire”, per quindici giorni anche lì ho avuto una fortuna. [...] Io mangiavo anche la terra come diceva il mio amico là. Ah, paura sì, tanta. Ma la paura bisognava nasconderla. Non bisognava mica far vedere di avere paura. Perché i kapò non erano mica tutti coglioni, ce n’erano anche di quelli furbi. E allora se vedevano che avevi paura era peggio, ti trattavano ancora peggio. [...] Adesso ci dico anche questo: che io qui dentro, in questa stanza, quando sono da solo mi metto a leggere. Io sa quanti pianti ho fatto qui dentro io. Però ho sempre cercato... mia moglie non mi ha mai visto, mai, mai. Ho sempre cercato di non farmi vedere, però quando io ci penso dietro o che vedo delle storie che si assomigliano alla mia allora mi commuovo, è così. [...] Là [a Guben] c’era solo l’infermeria e purtroppo chi andava in infermeria non è mai più venuto fuori neanche uno. Chi entrava era difficile che uscisse. Se non aveva delle cose leggere come avevo avuto io. Ma era il lavoro che era troppo. Che dodici ore al giorno senza … a mangiare di quella roba lì uno si ammalava. Perché poi c’era le malattie che si trasmettevano attraverso i pidocchi, le cimici, le piattole. Perché ce n’erano sa dei pidocchi. Mamma mia, mamma mia! Alla notte facevi così [si tocca sotto le ascelle] e loro saltavano fuori a branchi, così! Andavano al caldo. Proprio una roba… [...] Mentre invece, quando siamo stati liberati, i due mesi sotto gli americani ci divertivamo ad andare in stazione e allora c’era uno di quei carrelli uno di quei carrelli che adoperano a riparare, quei carrelli che vanno a mano e noi montavamo su quello lì, montavamo su in cinque o in sei facevamo delle volate e andavamo in un paesino lì vicino e lì c’erano... c’era un campo di donne ebree erano in un palazzo e andavamo là per stare in compagnia. E allora ricordo che c’era una signorina che si chia-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
325
mava Agnes che suonava il pianoforte e noi dietro con la fisarmonica e allora facevamo un po’ di musica e mentre facevamo quel tragitto lì attraversavamo, c’era da attraversare un ponte che c’erano gli americani e quando passavamo di lì ci fermavamo a prendere, se ci davano le sigarette. Ma la cosa che mi ricordo di più è sicuramente la paura. Ma la paura bisognava nasconderla. E poi che cosa pensavi in quei momenti? Non bisogna pensare, perché il pensiero ti logora dentro, ed è peggio. TULLIO NERI - 1926 Io ero a Soliera e sono stato, come dire, rastrellato, perché allora sa facevano i rastrellamenti e allora ci hanno preso, ci hanno caricato e ci hanno portato a Fossoli, che allora a Fossoli c’era il campo... un campo di smistamento e a Fossoli ci siamo restati circa due mesi poi dopo ci hanno portati a Bolzano dove c’era un altro campo che anche quello era di smistamento e anzi quando ci hanno caricato a Fossoli noi abbiamo detto: “Ci portano a casa”, e invece, caro mio. Invece ci hanno portati lì a Bolzano e da Bolzano siamo andati in Germania e io sono stato uno di quelli che sono stato deportato mica come quelli che sono stati là per lavorare, che poi là andavano fuori magari a fare i contadini e via dicendo. Io proprio dentro ai campi sono stato. Con la giacca a righe, con la giacca a righe e il triangolo. Di che colore era? Era rosso. Rosso, se lo vuole vedere glielo faccio vedere, l’ho tenuto da conto... qui ci sono tutti i nomi di quelli che sono stati presi. Vede il cartellino rosso e la I di italiani? E poi lì sopra c’era un numero, perché ci davano il triangolo, ma poi ci mettevano anche un numero e poi ti chiamavano con il numero non ci chiamavano mica più come Neri, come tutti i nostri nomi, e chiamavano con il numero. [...] Sono stato a Mauthausen, sono stato a Buchenwald, a Ebensee. Tre campi ho fatto, sono stato in tre campi. Credevo di trovarne uno migliore di quegli altri e invece era sempre il peggiore degli altri. Era sempre peggio. E così sono poi riuscito a venire a casa, ho portato a casa la pelle. Bisogna dire così... io ero 30 chili quando sono arrivato a casa eh! Come le dicevo anche per telefono la nostra vita è stata dura, ci hanno picchiato. Lo sa come fanno i tedeschi. Ci hanno bastonato magari per una cicca di sigaretta che raccoglievamo da per terra. E poi io ho preso che allora ci dicevano la scabbia, che ti venivano tutte delle croste nella pelle e allora sono stato messo da solo, isolato, da solo in una parte del campo, in una stanza, ma che stanza. Era una specie di cella, nessuno che veniva a vederti, nessuno. [...] Ero sempre da solo per il resto, e scappare non si poteva e poi non si sapeva dove andare. Ho fatto tanti di quei pianti, tanti di quei pianti. Sa, l’età giovane così, non si sapeva niente, non è mica come adesso, mancava l’esperienza, quella che abbiamo adesso, ma allora io non sapevo proprio niente, niente di niente. [...] A Fossoli era abbastanza vicino a come si stava a casa. Perché a Fossoli ti venivano a trovare i tuoi, tanti dei dintorni venivano lì anche tutti i giorni. [...] E poi lì ci hanno smistato a Bolzano, ci hanno divisi [...], a me mi hanno messo nei politici. [...]
326
L. BERTUCELLI (a cura di)
Ma lei di politica, allora che cosa sapeva? Ma, io non so che cosa ci devo dire, io ad esempio conoscevo i partigiani perché quelle cose lì si erano cominciate a capire, ma non è che sapessi molto di più. Sapevo chi erano ecco. E poi siamo finiti in Germania e abbiamo cominciato a... perché loro là in Germania le fabbriche ce le avevano sottoterra, sottoterra nelle montagne, e noi abbiamo fatto tutte le gallerie. Perché loro sotto ci facevano le fabbriche, le allargavano e allora noi dovevamo prepararci le gallerie. [...] Ci facevano uscire dal campo e poi ci mandavano a lavorare lì sotto fino alla sera. [...] A Fossoli da mangiare ce ne davano. Oh, non ti facevano mica dei pranzi prelibati, però il pane e la minestra te la davano. A Bolzano invece era già cambiata perché anche lì poi sono già mezzi tedeschi, ma mai brutto come in Germania. In Germania abbiamo proprio patito la fame, siamo morti dalla fame. [...] I tedeschi proprio ci godevano a vederci morire di fame, sono tutti così i tedeschi, per me sono tutti così. Sono una nazione fatta così. [...] Ci mettono sopra questi vagoni bestiame, ma non ci dicono niente. Perché poi il primo posto che abbiamo fatto siamo andati a Mauthausen. [...] La prima cosa che abbiamo visto è che c’era uno impiccato davanti. Abbiamo cominciato subito bene. Poi lavati con l’acqua fredda, senza vestiti, senza scarpe, andare a lavorare senza... allora si aspettava che morisse uno per prenderci le scarpe se ce le aveva e poi te le mettevi. Perché poi la stagione era già fredda, vacca d’un mondo! Sono andato via del ‘44 e sono tornato del ’45, ci ho fatto circa un anno... ero poi arrivato agli ultimi. Se andava avanti ancora un po’... addio. [...] Io dove ci sono stato e ci sono stato male non ci ritorno, se posso. Perché vede a raccontarla sono tutte storie. Chi c’è stato, perché se la racconti adesso ai giovani di adesso sa che cosa dicono? Dicono: “Perché eri un coglione te”. [...] Insieme a me, ad andare a lavorare c’era un mio amico. [...] Era un “marocchino” [una persona dell’Italia Meridionale] sa? Ma ci ho voluto un bene, un bene. Eravamo sempre insieme, sempre insieme. [...] Un po’ ci si poteva aiutare. Quando c’era il momento di mangiare no. Da mangiare se trovi una pelle o qualche cosa te la mangiavi te. Là si andava a patate, a pane duro, che era poi duro come qua [picchia sul tavolo], con la muffa e via, e poi quando te lo davano. Te ne davano una fetta di 4 dita e ci dovevi fare mezzogiorno, sera... con 4 dita... e lavorare se no erano botte. Io ho sempre detto: “Vado dietro al destino”, per via di non perdere la testa perché se uno perde la testa è già finita. Perché se ti butti giù dopo non c’è più niente da fare. Era un lavoro fatto così. [...] Noi eravamo solo italiani [...], ci tenevano separati. [...] Ce l’avevano proprio con i russi, gli facevano dei lavori. Ma lo sa che uno per un pezzo di sigaretta ha preso 25 sgommate. [...] Noi preparavamo il posto, scavavamo, portavamo via i sassi, la terra e così, ma la fabbrica niente, perché noi eravamo dei deportati politici non siamo mica dei civili. Noi eravamo invece dei politici... sì, che cosa ne sapevamo noi di politica, noi non sapevamo neanche di essere al mondo. [...] Appena arrivo a Mauthausen c’era uno impiccato là sopra... perché là poi è sempre brutto, da quelle parti là non c’è mica il sole, c’è poco sole,
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
327
c’è sempre nebbia, brutto, piove, vento. Siamo stati in quelle baracche di legno che c’era un freddo come a stare fuori: uguale. Con delle cimici, dei pidocchi, senza mai potersi lavare. Cioè, ti lavano loro. C’erano le docce grandi come questa camera, ti mandavano dentro e lì c’erano delle docce che erano come quelle dei giocatori di calcio, andavi là sotto e loro aprivano l’acqua: un colpo e veniva giù fredda gelata, un altro colpo calda che ti bolliva. Solo per farti del male. Solo per quello. L’ultimo giorno c’eravamo un bel po’: avevano fatto andare tutte le persone sotto per via che volevano mandare giù il gas così morivamo. Siamo stati fortunati che sono arrivati i russi e loro sono scappati. [...] Piangevano anche loro. [i russi] A vedere dei ragazzi ridotti così, a vedere delle persone ridotte così. [...] C’erano anche degli ebrei, li ho visti sì anche io. Ce ne erano anche qua a Fossoli, anche gli ebrei li trattavano a una qualche maniera anche loro. Non andavano mica d’accordo i tedeschi con gli ebrei. I tedeschi andavano d’accordo con i polacchi, con gli slavi... e basta. Francesi, inglesi... li trattavano tutti male. [...] Le cose brutte sono state tante: le botte, la fame, ma la cosa più brutta in assoluto era la fame. [...] A Buchenwald c’erano anche delle donne, ma c’erano anche a Mauthausen, di donne ce n’erano dappertutto: c’erano anche qua a Fossoli. [...] Le trattavano come noi. [...] In infermeria ci sono andato un giorno, per un dente: ci avevo un dente che mi faceva un male, mi era venuta un’infezione e ci avevo la faccia tutta gonfia e allora me lo hanno levato. Me lo hanno strappato via così, con delle pinze... così, un colpo e via. Ma ci sono stato solo un giorno, solo quella volta lì. Non si poteva mica andare lì dentro. Perché chi andava in infermeria e ci stava per un po’ era difficile che poi lo si rivedesse in giro. Chi ci andava faceva poi fatica a saltarci fuori sulle sue gambe. Sa quante persone sono state ammazzate? E per che cosa? Per dire: “Vado a prendere quella nazione lì perché ci voglio comandare io”. Perché era questo che volevano. Volevano comandare loro. E noi siamo stati alleati proprio con loro. Ce n’erano tante altre delle nazioni e noi invece ci siamo alleati proprio con loro. [...] Tutte quelle conseguenze che le paghiamo adesso. Io adesso soffro di male alle gambe, ho i piedi che non giro mica tanto. Faccio due o tre chilometri tutti i giorni per girare un po’, per tenere viva la circolazione per stare un po’... per la circolazione, per tutto ecco. I piedi là ti gelano, ti gelano per il freddo: insomma ci hanno rovinato la gioventù. Ma loro miravano proprio a quello. Loro volevano proprio quello. Quei tedeschi di merda. Per me sono delle brutte persone. [...] A me mi dicevano che mio padre era un comunista, un bolscevico. E allora: “Caricali, caricali!”. Ci hanno caricati e ci hanno portato là. Mio padre era un socialista, invece io non mi ero mai occupato di politica. [...] Non me ne interessavo proprio. Ero giovane. Ma forse è per quello che mi hanno messo il triangolo rosso. Ma non è poi neanche così perché tutti quelli che ci hanno preso quella volta lì ci hanno messo il triangolo rosso. [...] Ma quello che è stato, quello che ci è capitato speriamo che non succeda mai più a nessuno, ma sa che ci sono persone che non ce l’hanno più in memoria quello che è stata la Germania?
328
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Io li tengo in memoria questi lavori qui. Non si può dimenticarli questi lavori qui. [...] No perché se si ricordassero non sarebbero mica questi guai. Se si ricordassero non ci sarebbero mica questi guai... il mondo... se stessero come sono stato io non ci sarebbe mica tanti lavori, tante persone... tu uccidi di qua, io uccido di là, tutto quest’odio, tutte queste cose. Il benessere va bene, per fortuna che c’è. Ma bisogna anche capire dove sei stato, che cosa hai fatto. Che cosa gli racconti te ai tuoi figli? Non gli racconti niente. La scuola… che cosa gli racconta la scuola? Niente. Sanno che è passata una guerra? No, non sanno mica niente. Se ci vado a dire così sa loro che cosa mi dicono: “Ma vai via sciocco vecchio. Vai a casa.” Quindi secondo lei i tedeschi lì vi volevano uccidere tutti? Sì, sì... perché poi loro facevano presto, ti mandavano il gas, ti mandavano un po’ di gas ed erano tutti andati. E se avessero avuto il tempo ci avrebbero uccisi tutti così. E anche in tutti quegli altri campi sarebbe andata a finire così perché se non arrivavano mica gli americani o i russi quella era la fine di tutti quanti noi, eravamo tutti uguali come destino. E quando è tornato a casa, i primi tempi a casa come sono stati? Continuava a pensare al lager? Sì, sì... me lo sognavo la notte... che questo poi me lo raccontava mia madre che facevo degli urli. Mi diceva che dicevo: “Vado, vado... vado che mi chiamano”. È stata una esperienza così brutta che uno non riesce mica a dimenticarsela, uno non la può mica dimenticare, neanche quando dorme, neanche nei sogni. [...] [nell’ultima parte del viaggio di ritorno] Non c’è stato nessuno, dico nessuno che si sia fermato, che mi abbia chiesto se avevo bisogno... nessuno. E senza i soldi per prendere corriera e andare a casa. [...] Non ci avevano neanche dato dei vestiti, avevamo quelli che avevamo là. Siamo venuti a casa a righe. [...] Non c’erano momenti belli c’era solo del brutto, a volte un po’ meno brutto, ma sempre brutto. Non c’era mai un sorriso, questo me lo ricordo bene. Mai un sorriso, mai. Eravamo sempre brutti, seri. E anche con questo mio amico non ci sono state occasioni belle, anzi se avevo bisogno di qualche cosa che ci aveva lui mi veniva la rabbia proprio perché ce l’aveva lui e non ce l’avevo io. Ad esempio, quando ci volevano le scarpe era una battaglia di tutti contro tutti non c’era più amici o nemici. [...] MARINO RAGAZZONI - 1916 Io sono andato via del ‘38 e sono andato a Napoli e poi da Napoli sono andato ai confini con l’Albania. Poi dopo sono andato alla guerra della Grecia e così fino a quando siamo arrivati all’8 settembre stavo discretamente. Ma dopo capirà: ero a Corinto che eravamo proprio lì, e lì andavamo a fare il bagno anche di notte e lì l’8 settembre quel che è venuto. Ci hanno preso come eravamo, ci hanno circondati e non c’è stato niente da fare. [...] Ci hanno portati subito lì che c’era un gran casermone lì a Corinto poi da lì dopo due giorni ci hanno preso e ci hanno portato dentro alla linea Maginot in Germania. [...] E poi sono andato a finire dentro Buchenwald, perché lì alla Maginot stavamo troppo bene. Ben che me mi
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
329
hanno preso, l’8 settembre, capirà in canottiera e pantaloncini corti, dunque siamo arrivati là che c’era la neve. I disagi erano tantissimi. La notte ci facevano alzare, alle due, alle tre e ci urlavano di alzarci, di andare in cortile perché ci volevano contare, per controllarci ci dicevano, ma non era così. Era per umiliare, per farci cedere in modo che fossimo andati con loro. Ecco il ragionamento che cambia e loro dopo ci hanno portato a Buchenwald e Buchenwald era ancora peggio. Ma perché vi hanno portati a Buchenwald? Ci hanno portati lì per via di portarci dove eravamo più vicini al lavoro. Ha capito il ragionamento? E là si stava ancora peggio. No, no, no. Non c’è stato nessun motivo particolare. Solo che loro ci volevano costringere per forza ad andare con loro. Ma non ci siamo mica andati. Non ci sono andato io e pochi sono andati e allora ci facevano lavorare. Che non facevamo poi niente. Niente. Che cosa vuole che facevamo che non avevamo forza, non avevamo niente nel ventre, non si dormiva perché anche là alle due, alle tre, all’una, nevicava: “Fuori”, l’adunata! E ci controllavano, ci contavano e ricontavano. [...] E ne abbiamo passate un po’. Io, ma anche gli altri, e ci sono di quelli che ne hanno passato ben delle peggiori perché magari per un niente ti fucilavano o una cosa o un’altra e poi venivano gli apparecchi. [...] Mah, delle cose abbiamo passato che è difficile anche immaginarsele. Delle cose che per crederle bisogna provarle. Perché io dico ce ne ho passate tante che dico: “Ma è possibile che l’umanità fosse così!”, ridotti in quella condizione. Ecco questi sono i ragionamenti che faccio io. Solo perché là sopra c’è uno che dice: “Mettiti la camicia bianca o mettiti la camicia nera”, oppure: “Fai la guerra contro questo, fai la guerra contro l’altro”. Ci hanno liberati... sono arrivati gli americani che ci hanno preso, ci hanno messo dentro dei campi di concentramento ancora, però eravamo guardati da loro, controllati da loro, c’erano le guardie loro perché non scappava mica nessuno però ci tenevano controllati. Ecco, quando sono arrivati gli americani ci hanno cominciato a trattare abbastanza bene, in base a quello che ci trattavano quelli lì. A me i tedeschi mi hanno rovinato solo perché sono andato a prendere su una patata marcia, mi scusi la parola. Noi eravamo in fila e ho visto una patata per terra mi sono chinato per prenderla e allora con il moschetto mi è arrivato e mi ha dato un colpo nella schiena. Io ero piegato e mi ha dato una tale botta che mi sono venuti due falli tra l’ottava e la nona vertebra che dopo, quando sono rientrato, ho dovuto farmi operare e poi non è mai stata finita: io sono un invalido. [...] Com’è stato il viaggio da Corinto alla Germania? A me mi hanno portato via in canottiera e in pantaloncini corti perché là anche alla notte era sempre caldo magari ci si svegliava, si aveva caldo e allora uno si andava a buttare in acqua e il viaggio verso la Germania, lei se lo può immaginare, in 30 dentro un vagone bestiame, si può immaginare che cosa volesse dire, senza mangiare, senza bere. [...] Eravamo tutti chiusi e pigiati dentro questi vagoni in 30 e più a seconda dei vagoni e avevamo due militari tedeschi che ci facevano la guardia e quando si fermava il treno sui lati c’erano sempre i tedeschi pronti a sparare se qualcuno provava a scappare. [...] Mah! Chi è che pensava che l’umanità si poteva ridurre in quelle condizioni? Non avevamo proprio nessuna idea. Perché magari da recluta
330
L. BERTUCELLI (a cura di)
si è passato quello che si è passato, insomma quando sono andato via ma solo come serietà, come disciplina che dato che non ci ero abituato ho fatto fatica ma non come essere trattati in quelle condizioni. Ecco non ci pensava nessuno, nessuno si immaginava che si sarebbe arrivati in quelle condizioni. [...] Ci hanno diviso e io ero con i soldati perché io ero militare. [...] Ci hanno separato quindi i soldati da una parte e gli ufficiali dall’altra però eravamo vicini e ci vedevamo. [...] Lavoravamo tutti. Sia noi soldati che gli ufficiali. Magari no da tutte le parti, questo io non lo so. Ma dove eravamo noi ci facevano lavorare tutti anche gli ufficiali. Li volevano anche, anzi forse loro li cercavano di umiliare anche più di noi. [...] Mi interessa molto capire meglio il suo passaggio dai campi degli internati militari a Buchenwald. In quanti vi prendono più o meno per portarvi a Buchenwald? Ah! Loro facevano presto: venivano con quattro o cinque camion uno attaccato all’altro e poi li caricavano a caso perché noi non avevamo niente. Con noi non avevamo niente: avevamo solo quel marmittino dove ti davano quel po’ di brodo che non si sapeva che cosa fosse, e secondo me era l’acqua dove si erano lavati i piedi e che poi ce la davano a noi, mi scusi le parole, perché si faceva fatica anche a mangiarla benché uno avesse proprio una bella fame e 30 grammi di pane. [...] Anche se devo dire che noi a Buchenwald non eravamo proprio nel gruppo di quelli badati con il fucile, di quelli trattati peggio. Noi eravamo in un altro gruppo: non è che noi ci trattassero bene intendiamoci alla minima cosa che non andava ci eliminavano subito. A Buchenwald però non vi mettono insieme agli altri deportati? Nel campo di Buchenwald, perché era grande... era una cosa, era grande come metà la provincia di Modena, non era tutto un campo ma c’erano tantissimi sottocampi e allora noi non è che fossimo proprio separati dagli ebrei, dai deportati politici perché ce n’eran anche di quelli, perché caso mai parlavi con uno e gli chiedevi qualcosa: “Non capisco!” non capivi niente e lui viveva con te. Ma non sapevi se era dell’Austria, se era della Germania, se era olandese, se era greco, se era questo, se era l’altro, francese, slavo se era serbo, ecco il ragionamento è questo. Ce n’era di tutte le nazioni, però secondo me noi militari cercavano di tenerci separati, guardavano che si fosse separati, ma erano pochi quelli di altri. A Buchenwald vi avevano dato una divisa? Niente, niente. Quindi non vi avevano messo nessun triangolo? Niente, non ci avevano messo niente. E il suo numero se lo ricorda? No, non ci avevano messo neanche quello: eravamo senza numero, senza niente. Nella vostra baracca eravate solo italiani? Sì. Eravamo separati per nazionalità. Almeno lì dove c’ero io, nella mia baracca eravamo tutti italiani, di tutta Italia, ma tutti italiani. Per la più parte eravamo separati. Magari però nello stesso capannone, perché magari eravamo in 50-60 italiani e poi ci potevano essere anche 40 della Jugoslavia. Ha capito? Ma la maggioranza eravamo italiani. Però di solito si cercava di stare italiani con italiani. Sì, sì perché magari c’era più affetto anche perché era la questione di parlarci con questa gente. C’era la vo-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
331
glia, il bisogno di scambiarsi qualche parola perché come si faceva altrimenti. Non c’era mica tanto tempo per imparare e poi io che avevo fatto solo la quinta elementare non è che potevo imparare un’altra lingua con facilità. Sapevo poco anche l’italiano. [...] Era una amicizia con la “A” maiuscola. Era più amicizia di quella che abbiamo adesso tra i nostri amici anche quelli più cari, era una cosa diversa. Perché c’era un affetto fra di noi che era diventato... i fratelli che si vogliono bene non hanno questo affetto... non sentono questo bisogno viscerale di aiutarsi. Magari ci sono dei fratelli che faranno di più ma la percentuale, è così, ecco! Lei ha visto dei suoi amici morire? Sì. Parecchi purtroppo. Perché ci hanno sparato, altri sono morti dagli stenti, altri perché si sono ammalati e allora non ti curavano. [...] Quando uno magari faceva un... magari si rivoltava perché magari era un momento che magari aveva un pensiero, aveva una cosa un’altra, loro non ci mettevano mica tanto, “tac” ti davano una fucilata e te avevi già finito. Ma lì se ne sono viste delle cose troppo umilianti. [...] Non c’era rispetto per gli esseri umani, non ho le parole per dirglielo, c’era un affetto impressionante invece verso i tuoi amici ma che cosa si poteva fare? Non si poteva mettersi in mezzo o per lo meno lo potevi fare una volta, ma non una seconda perché eri già morto. Il ragionamento è che non potevi andare a difenderli. Li potevi aiutare quando non c’era in mezzo il tedesco, ecco. Perché il tedesco è terribile. È terribile. Perché anche fra di loro ce n’erano anche dei buoni, dei buoni... insomma qualcuno un po’ meno peggio degli altri. Ed erano controllati anche loro, ma la maggior parte erano delle bestie. Che se lasciavano correre una volta a uno dopo avrebbero dovuto lasciare correre anche agli altri. Ma cose che sono tremende e anche a raccontarle non sono quello che è stato: bisogna provarle. Per capire che cosa è stato bisognerebbe provarlo. Purtroppo bisognerebbe provarle perché non si crede quello che uno... non si può credere che un essere umano si deve ridurre a quelle condizioni e essere umiliato così. [...] Secondo lei il fatto di essere italiani vi penalizzava? Ci trattavano peggio sì. Perché noi eravamo degli esseri un po’ più teneri ecco e secondo loro dovevamo pagare anche questo fatto. [...] Quello che umiliava più di tutto era il fatto di essere trattato come una mosca che ti viene in casa e poi di vedere delle cose così umilianti nei confronti dell’umanità, ecco! Che colpa ne avevamo noi? Ecco anche se uno fosse andato con loro e poi dove andava? Perché se andavo con loro peggioravo ancora la situazione che invece di durare otto mesi magari mi durava nove mesi. Dal ‘43 a venire adesso degli anni ne sono passati un bel po’ ma quello che ho patito me lo ricordo ancora benissimo perché noi qua alle nostre bestie delle brutte cose come ci hanno fatto a noi in Germania non ne abbiamo mai fatte e non ce le facciamo neanche tuttora di questo. Mio figlio ha un cane: ebbene io non permetterei che gli facessero quello che hanno fatto a me. Ecco. Arriviamo alla liberazione. Sì; arrivarono gli americani che cominciarono subito a trattarci come degli essere umani: ci hanno trattato bene, ci hanno curato, ci hanno dato da mangiare. Dopo pochi giorni ci siamo riuniti tutti perché non eravamo mica più nelle baracche quando hanno detto che era finita la guerra:
332
L. BERTUCELLI (a cura di)
quelli che hanno potuto sono scappati da dov’era per cercare un posto un po’ più sicuro che poi per la verità l’unica cosa che si cercava era da mangiare in mezzo ai campi. Patate, erbe, frutta tutto quello che si trovava ecco. E allora poi gli americani ci hanno raggruppati un po’ tutti, passavano e ci prendevano su e ci riportavano dentro al campo e poi finalmente ci hanno dato da mangiare poi ci hanno curato, ci hanno visitato soprattutto quelli che erano in certe condizioni. [...] Ma anche io sono stato lì ancora tre mesi prima che mi rimpatriassero. [...] Però devo dire che in quei tre mesi lì io mi sono un po’ rimesso in salute. Sono venuto a casa lo stesso che ero 37 chili, ma però mi ero un po’ rimesso in sesto. ERNESTO SILVESTRI - 1923 Lavoravo alla Cassa di Risparmio dal 1940, ci ho lavorato dal 1940 al 1980, avevo 17 anni circa, non mi ricordo neanche tanto bene. [...] Abitavo con la mia famiglia qui ai Mulini Nuovi. [...] Una notte abbiamo portato tre fucili lì da un certo Baroni che era un falegname dei Mulini Nuovi che dopo lì ha mandati su ai partigiani e allora forse ci ha visto qualcuno e poi hanno fatto la spia, insomma quando mi hanno arrestato mi hanno portato al Comando tedesco, oh erano cattivi: “Lei favorisce gli americani, qui, là...”. [...] Mi hanno preso qui a casa e poi mi hanno portato al comando tedesco e poi da lì c’era un italiano che faceva da interprete che era un imbecille che gli avrei dato un calcio; poi dopo ‘sto interrogatorio dove io dicevo di no e basta e invece loro mi accusavano di favorire i partigiani e anche gli americani, e allora mi portarono in Sant’Eufemia, quindici o sedici giorni e poi dopo ci hanno portato al campo di concentramento a Fossoli: lì non si poteva dormire, se no venivi pelato dalle cimici, dalle bestie che c’erano dentro in ‘ste baracche sporche. Guai se uno si addormentava veniva assalito mentre dormiva e ti mangiavano la pelle addosso. [...] Lei è stato catturato nell’agosto del 1944? Non era un rastrellamento, mi sono venuti a prendere a casa degli ufficiali tedeschi [...] dopo mi hanno portato alla fortezza a Peschiera, mi hanno fatto andare dentro in un buco così, c’era la camera con il soffitto che non stavi neanche seduto, sempre sdraiato per tre giorni [...] da Peschiera ci portarono dopo tre, quattro giorni, ci hanno messo in questi vagoni, chiusi e poi ci hanno portato nel bacino della Ruhr, vicino a Dortmund. [...] Quando eravamo a Fossoli non sapevamo niente. Dopo, una mattina, ci hanno tirato fuori e noi abbiamo detto chissà? Perché c’era anche il pericolo che uccidessero, perché ne hanno uccisi anche quando ero in Sant’Eufemia. E poi da quella fortezza lì ci hanno portato in questi vagoni chiusi che eravamo non so in 25 ogni vagone, lì per terra, senza mangiare, non so quanti giorni, notti ci siano voluti perché ad arrivare là. [...] Il viaggio è durato cinque o sei giorni perché si sono fermati in qualche stazione, quindi hanno fatto un po’ di soste, ma a noi non ci aprivano mica.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
333
[...] Niente acqua, niente. Quando siamo arrivati là in questa stazione che ci hanno fatti andare giù era tutto ghiaccio là vicino all’Olanda, la neve ghiacciata, la strade ghiacciate; vacca, avevo un freddo perché poi non avevo poi neanche un golf, magari. Avevo la giacca, la camicia e basta. Cosa vuole mai qui era caldo, ero vestito come quando mi avevano catturato. Poi allora ci hanno portato in questo campo, là chiuso; ci hanno detto: “Mettevi in fila!”, poi ci hanno messo in fila, poi hanno chiesto a ognuno che cosa faceva là, io ho detto quello che facevo, che scrivevo a macchina, che lavoravo in banca, allora sa che cosa hanno fatto: “Ah scrivi a macchina? Vieni qui, vieni qui!” mi hanno dato un bel badile con il picco, con il piccone lì come si chiama e poi così! Ognuno doveva tener dietro ai suoi attrezzi. Perché se andava perso un attrezzo le SS ti davano delle gran botte. [...] Siamo stati là prigionieri nel campo, ci siamo stati finché non è finita la guerra. [...] Ci portavano fuori dalle baracche, c’era una fabbrica. [...] C’era qualche chilometro, quattro o cinque chilometri e bisognava farli a piedi. [...] Al mattino ci alzavamo, loro ci portavano un mestolo di tè, basta. Niente di niente. A mezzogiorno in una ciotola lì ci mettevano dentro della roba acidosa che ci bruciava lo stomaco, gambi di rape, gamboni di verze, che erano dentro delle botti che le tenevano là fuori vicino al campo ‘ste botti, tutte aperte sopra che ci volava la polvere, e poi ci bruciava lo stomaco e cosa mangi? Ci davano due fettine di quel pane nero, sottilissime che c’era l’ombra di marmellata, l’ombra proprio. Alla sera ti davano un altro mestolone di quella porcheria lì che io il liquido lo buttavo via perché mandarlo giù. Mangiavo la verdura anche se bruciava perché dicevo qua se non mangio niente... [...] Durante la giornata ci tenevano là: una volta ci hanno detto: “Venite col badile, venite a buttare fuori che c’è da scaricare due vagoni ferroviari di carbone!”, e io: “Oh! Ma sono alti alti!”, allora l’interprete questo Montorsi è intervenuto: “Veh che se non ci date da mangiare non ce la fanno”, e lui ha tanto insistito, ma quelli erano tanto cattivi e allora io ci ho detto con William: “Guarda che una di queste volte ti portano via!”, allora insomma lui insisteva perché... allora loro sono andati a prendere questo pane nero ce ne hanno dato, lo hanno tagliato che erano dei filoni e ce ne hanno tagliato un pezzo di tre dita per uno con niente e così abbiamo mangiato quello lì e poi siamo andati là, va beh che dentro ‘sti vagoni quando sei là che ormai era vuoto arrivano i Caccia americani a mitragliare la ferrovia, caro mio! Bisognava stare attenti a guardare da che parte arrivavano perché i carri ferroviari lì erano di lamiera con dentro ‘sto carbone, va beh che noi andavamo poi piano, non era un lavoro, e poi tante volte non ci andavamo. Erano cattivi. [...] C’erano anche dei militari. [...] I militari italiani, capi: chi era là dentro già da un anno e mezzo, due anni non, erano magri magri tutti scheletri; siamo rimasti già tanto impressionati, ci hanno fatto impressione… Allora dopo due giorni che siamo stati lì ci portarono poi lì a Reclinghausen che era un campo cattivo perché ti davano quasi niente da mangiare, ne sono morti parecchi di militari italiani lì.
334
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Ci sono poi stato quindici mesi, sedici mesi lì, adesso non mi ricordo neanche più e dopo sono stato con gli americani là perché non si poteva rimpatriare subito perché non c’era neanche una linea ferroviaria intatta. [...] Anche con gli americani, però almeno c’era da mangiare. [...] Perché erano poi stufi anche loro di tutto ‘sto scatolame che mangiavano e allora, caro mio, ci facevo per fare anche prima due pezzi di gnocco grandi come la padella, due così, con quattro uova fritte in mezzo, due gnocchi fritti così e loro mangiavano, ma vacca. [...] E poi durante la ritirata con i tedeschi in sei eravamo: uno di San Felice, uno di Vignola, eravamo in cinque o in sei, una notte siamo scappati perché quando le SS venivano in ritirata volevano la strada libera, era piena di tutte le qualità di prigionieri: polacchi, russi e allora delle volte non avevano la strada libera mitragliavano e li ammazzavano. Noi una notte siamo scappati noi cinque o sei sopra là al bacino della Ruhr proprio c’era un promontorio siamo stati lì otto giorni e otto notti aspettare gli americani lì. [...] Là si dominava la strada laggiù allora vediamo un giorno, oh, un rumore di ferro, erano tutti carri armati e poi il primo aveva anche il bandierone grande americano e vediamo ‘sta colonna di carri armati che avanzava e chiudeva proprio l’accerchiamento intorno a questa … e poi hanno cominciato a sparare lì su da noi allora noi siamo scappati giù, cioè siamo andati giù in due, avevamo una camicia, tanto era già strappata e rotta bianca e con un pezzo di bastone siamo andati giù a ruzzoloni perché delle volte che non ci sparassero. [...] E poi ci portavano il mangiare, ce lo portavano come quello che davano ai suoi militari: pagnotte bianche, scatolame, oh, ce n’era anche troppo. Eravamo anche così deboli che bisognava mangiare poco. ANNIBALE TINTORRI - 1927 Sono stato deportato in Germania il 4 luglio del ’44: ero in casa, mio fratello invece stava andando su in montagna a fare la legna. Non avevo ancora 17 anni. I tedeschi sono arrivati in casa e hanno portato via me e mio papà. [...] Quale fu il motivo del rastrellamento? Il motivo fu che i partigiani presero possesso del paese e allora sa tra i repubblichini e una cosa e l’altra. Da Pavullo partirono i repubblichini, poi tutti i tedeschi hanno accerchiato il paese. Io ho cercato di scappare con il cavallo verso la rocca, poi mi hanno sparato e sono tornato indietro e ho preso la strada del Cimone. Arrivato in cima avevo i tedeschi che arrivavano da una parte e dall’altra una fila di partigiani col fucile spianato. Così cominciarono a sparare tutte e due le parti e io passai in mezzo ai due fuochi e tornai a casa. Da lì sono arrivati in casa e hanno preso me e mio padre, ci hanno tenuto un po’ qui in veranda, poi ci hanno portati a Pieve per due giorni ed infine a Fossoli. [...] Quando presero il presidio in paese i partigiani, i tedeschi non ci videro più e ne partirono da tutte le parti e accerchiarono il paese. [...] [a Fossoli] Si doveva filare. Coi tedeschi non si poteva parlare. C’erano tutti i recinti e le sentinelle ogni dieci, quindici metri.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
335
Quanto tempo è rimasto a Fossoli? Due mesi. [...] E da lì dopo due mesi vi hanno portato in Germania? Sì, io sono andato fino ad Hennsdort, vicino a Berlino. Lì l’hanno messo a lavorare insieme a suo padre? Sempre insieme a mio padre; lui come saldatore con delle presse. Io, insieme ad un italiano civile che era là, davo via gli attrezzi che servivano agli operai: chi aveva bisogno di un martello, di una sega, di una lima, di una chiave. Loro mi davano una medaglia e io gli davo tutta questa roba. [...] Alla notte ci portavano inquadrati nel campo e alla mattina a lavorare. Dopo è venuto un periodo in cui ci chiamavano lavoratori civili, ma non cambiava niente. Almeno in quel periodo eravamo liberi anche di andare fuori anche per prendere una zuppa, un bicchiere di birra. Questo nel ‘44? No, questo nel ‘45. [...] Voi eravate stati messi insieme agli internati? Si. Lì di deportati civili c’eravamo solo io e il mio povero papà. [...] La disciplina, era da non credere. Mio padre ha rischiato due o tre volte di andare a Mauthausen. Come mai? C’era un guardiano polacco che lo faceva sempre arrabbiare: maccheroni qui e maccheroni là, lui non ne poteva più. Era nervoso ed esaurito, poi non sapeva il polacco e faceva sempre arrabbiare le guardie perché non capiva. Queste, vedendo mio papà esaurito che non andava più, lo torturavano perché dicevano che faceva finta di essere esaurito. Una volta lui reagì e con una chiave inglese spaccò la fronte di un civile che lavorava con lui e lo trattava male. Fortuna che c’era un civile che lavorava lì con me che lui era nato lì, l’ha salvato lui. È andato dal capo reparto e gli ha spiegato la situazione e cioè che prendevano in giro mio padre e lui non potendone più aveva reagito. Lui è stato creduto, ma se lo avessimo detto noi internati, allora non ci avrebbero creduto e ci avrebbero punito tutti assieme a mio padre. La punizione era andare nei campi di sterminio? Si, una volta là non si salvava nessuno, a Mauthausen non si salvava nessuno. Lei ha lavorato sempre nella stessa fabbrica? Si, da lì non ci siamo più mossi. Siamo arrivati là e ci hanno messo lì dentro. [...] Avevamo fatto un buco nel recinto e alla notte andavamo a rubare e se ci beccava qualcuno ci lasciavamo la pelle. Morire di fame o prendere una fucilata per noi ormai era uguale. C’era gente che si impiccava, perché non ne poteva più. [...] Si, per la fame. Non erano cose strane. Io mi sono salvato con dello spirito a 95 gradi per mio papà e con le poche patate che si rubavano, poi avevamo un forno in questo magazzino, si tagliavano sottili e si mettevano li sopra a bruciare un po’ e poi si mangiavano. Una fettina di pane e quest’alcool qua che mi ha ristretto lo stomaco. [...] Poi c’era un tedesco buono, anziano, che ci portava un po’ di pane, aveva la mia età ed era venuto in Italia a fare il militare. Tutte le mattine mi portava due fettine di pane con lo strutto dentro. Lui ci ha salvato la vita a me e a mio papà.
336
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Freddo era freddo là, perché era in Prussia. [...] Io avevo i vestiti con cui sono andato via. La mia fortuna è stata che uno che abitava a Sestola si è buttato dal treno, facendo una brutta fine, e ha lasciato lo zaino. Lui aveva il giaccone, un paio di scarpe, un golf. Ci siamo salvati per quello. [...] Sempre quella roba lì. Non c’era mica nient’altro. Ci si lavava alla sera, pidocchi e così via. [...] Quando vi hanno permesso di andare liberi? Dopo tre mesi che eravamo dentro. [...] Cioè, alla fine del ‘44? Sì, invece prima ti controllavano, le fabbriche erano recintate. Alla fine del ‘44, invece uscivi dal lavoro, giravi per il paese prima di entrare. [...] Qualcuno di voi aveva la possibilità di aiutare in cucina? Sì, ma in quel campo lì hanno fatto una brutta fine. Io sono scappato. C'erano due cuochi italiani, che avevano fatto piazza pulita a tutti i militari, per una fetta di pane, per un mestolo di zuppa in più. Loro volevano le catenine e quando sono arrivati i russi, il 9 aprile, la gente anziana che c'era dentro lì, i militari e così, li hanno accerchiati, sapevano dove dormivano, erano pronti per scappare, ma li hanno beccati con cinque valige piene di oro e orologi. Dopo averli consegnati ai russi, ci ha spiegato un maresciallo della marina, che parlava abbastanza bene l'inglese, insomma si faceva capire. Quando li hanno portati là c'era un quercione, li tiravano su tutti in mutande, con quel freddo. [...] Erano italiani deportati o internati che erano in cucina perché erano cuochi. [...] I russi come sono arrivati c'era da stare attenti perché erano ubriachi duri, sono arrivati una domenica mattina con dei carri armati, si sentiva una confusione. Poi sono arrivati lì e avevamo paura che ci sparassero. Poi non hanno fatto niente. La mattina dopo hanno trovato resistenza da parte di carri armati tedeschi. [...] Quel mattino lì nessuno ha detto niente, poi si sentiva tutto questo silenzio, ci hanno lasciato a casa dalla fabbrica. Comunque lo sapevano che erano in zona, ma non ci hanno detto niente. Nel suo campo c'erano solo italiani? Ebrei anche. Quindi nel suo campo c'erano italiani sia deportati come lei sia internati militari, poi c'era uno spazio con l'alta tensione e dall'altra parte c'erano gli ebrei. Quanti erano? Erano in tremila, uomini e donne. Poi li hanno fatti fuori nei forni crematori, nella camera a gas. E voi lo sapevate quello che avveniva? Lo abbiamo saputo dopo, quando abbiamo visto tutti questi indumenti e tutte ‘ste cose. Voi non vedevate quello che succedeva nel campo? No, era tutto recintato e stavano a due o tre chilometri. Gli ebrei maschi lavoravano con voi? No, tutti a parte, non avevamo nessun rapporto con loro. Sono arrivati i russi e lei è stato liberato? Sì, però la fame continuava ancora. I russi non ne avevano neanche per loro. Quanto tempo è stato con i russi? Dunque, dal 9 aprile al 10 settembre.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
337
[...] Ci hanno fatto fare più di trecento chilometri a piedi. [...] [rientrati a Modena] dovevamo essere riconosciuti per la prigionia, poi non lo siamo stati. Mi hanno fatto sparire tutta la documentazione che me l'hanno spedita a Roma. [...] Sembrava che dovessero stanziare dei soldi, ma poi... Lei è stato riconosciuto deportato politico? No, eravamo lì come rappresaglia. ROMOLO TINTORRI - 1928 Io avevo appena finito le scuole a Bologna perché studiavo a Bologna, io sono nato nel bolognese, ma ho vissuto sempre a Sestola perché mio padre aveva un negozio di ferramenta a Sestola. [...] Ero appena arrivato da Bologna e stavamo facendo le vacanze perché io praticamente avevo la famiglia qui quando il paese è stato occupato: è stato occupato da una piccola formazione di Tommaso della Rocchetta, Tommasino anzi della Rocchetta che faceva parte della grossa formazione di Armando da Pavullo che agiva in questa zona qui. Il paese è stato occupato da dei partigiani e durante la vita partigiana abbiamo vissuto dei bellissimi giorni perché anche il Comune, insomma era stato fatto un nuovo Sindaco al posto del vecchio podestà, erano stati affissi manifesti che inneggiavano alla libertà e penso che sia stato uno dei primi paesi che abbia avuto la liberazione partigiana assieme a Montefiorino, ma poi invece una mattina, la mattina del quattro luglio del 1944, al mattino prestissimo un reparto non si sa di SS o di Feldgendarmerie di quelli che avevano quella piastra qui davanti sono smontati tre, quattro chilometri prima del paese e hanno occupato piano piano il paese venendo a piedi hanno occupato il paese e si è svolta una grandissima battaglia per le strade del paese e io, data la mia giovane età, avevo sedici anni ho pensato di non andare, di rimanere in casa, molti sono scappati anche dei miei amici, ma io sono rimasto in casa pensando che i giovani non li prendessero e invece abbiamo sentito battere fortemente nei portoni della ferramenta, perché esistevano ancora i portoni di legno nella ferramenta non avevamo ancora le serrande e allora mio padre ha tardato a venire giù e allora i tedeschi appena mio padre ha aperto lo hanno colpito qui dietro con il calcio dei fucili e gli hanno rotto due costole o tre costole adesso non ricordo precisamente e io sono rimasto in casa e sono venuti su nella camera dove mi ero appena alzato, che c’era anche mia madre e mi hanno trascinato giù e mi hanno trascinato, mi hanno portato come tutti gli altri qui dove c’era adesso la veranda, ci hanno messo tutti in fila aspettando non so che cosa. Per fortuna che durante questa battaglia che si è protratta per parecchie ore: hanno incendiato anche l’albergo Roma, anche alcune case, vedevo che portavano via gli apparecchi radio dalle case, non c’è stato nessun morto: né da una parte, né dall’altra, quindi poi abbiamo avuto... insomma perché forse pensavano che se qualcuno, qualche tedesco fosse stato ucciso ci sarebbe stata una rappresaglia, come ci sono state in tutti i posti, purtroppo, dove sono passati. E, dopo qualche ora, che siamo rimasti io pensavo ci liberassero e ci rimandassero a casa, invece ci hanno caricati su dei camion, [...] allora mio padre, che non era stato preso, è voluto venire via con me, pensi.
338
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Siamo arrivati fino al ponte del... vicino a Roncoscaglia. [...] Lì a Roncoscaglia hanno caricato il parroco don Crovetti, che anche lui è stato deportato con noi e purtroppo lui è andato a Mauthausen, ed è tornato in condizioni veramente disperate è tornato, e mi ricordo che lo hanno picchiato, urlavano contro di lui: “Bastardo!” tutte le diverse cose perché gli avevano trovato in casa della miccia, miccia che serviva solo per i lavori della chiesa ma non per aiutare né i partigiani né altre cose, ma lo avevano incolpato di detenere questa miccia per eventuali attentati fatti, che i partigiani avrebbero fatto. Poi ci hanno portato a Pievepelago, nella famosa prigione della “Direttoria” la chiamavano era una prigione della Gestapo, lì siamo restati tre giorni. [...] Mi ricordo che ci interrogavano, ci interrogarono sul... su che cosa avevano fatto i partigiani, se noi eravamo dei partigiani, se avevamo aiutato partigiani [...], noi siamo stati portati nel campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Carpi. [...] L’impatto con il campo... Ma io non ho... proprio nei primi momenti non pensavo proprio, pensavo che ci avessero portati lì, ma che poi ci ritornassero a liberare e non pensavo proprio alla gravità della cosa, ero lontano un miglio proprio dal pensare a quello che sarebbe poi successo dopo, e nel campo di concentramento forse ho vissuto l’esperienza peggiore della mia vita perché il 12 luglio del 1944 la sera famosa dell’11 luglio del 1944, perché c’era l’appello della sera... [...] Durante l’appello chiamarono 71 persone me lo ricordo benissimo, voi lo saprete, 71 persone e mio padre quasi presagisse, quasi prevedesse quello che forse sarebbe capitato a questi disgraziati mi disse: “Guarda Romolo se chiamano il tuo numero ci vado io!”, pensi una cosa meravigliosa. Quasi prevedesse quello che succedeva. Questi 71 poi sono stati messi da parte e rinchiusi nella baracca, in una baracca rinchiusi. Di questi 71 poi se ne salvarono… dunque si salvò Dresio Livelli che si nascose nella fogna della baracca, si nascose nella fogna... molti dicono nella fogna della baracca, altri, don Ligeri nel suo libro Triangolo Rosso, un uomo meraviglioso di Milano, racconta invece che si nascose nella baracca dei pagliericci, comunque riuscì a non partire quella volta lì... poi Jemina e Fasoli che si salvarono proprio sull’orlo del... sull’orlo della fossa che riuscirono a scappare prima che partisse la raffica finale. Gli stessi tedeschi rimasero stupiti dell’atto che fecero questi due: riuscirono a scappare e si unirono poi alle formazioni partigiane. E poi un altro, un certo Carenini che era l’uomo che era adibito ai piccoli lavori del campo di concentramento: a dipingere, a intonacare, ai piccoli lavori di muratura e all’ultimo momento, dal maresciallo Haage tirato via dal gruppo tanto che noi considerammo questo Carenini sempre un traditore fu considerato... e fu proprio da noi emarginato questo uomo che fu tirato fuori all’ultimo momento, invece sembra che non ci entrasse niente che lo avessero salvato, che il maresciallo Haage lo avesse salvato perché aveva bisogno di quest’uomo per i lavori del campo: quindi di questi 71 ne furono uccisi al poligono di Cibeno soltanto 67; 67 ne furono uccisi. [...] Poi nel giugno del ‘44 hanno ucciso anche Gasparatto. [...] Poi siamo rimasti lì nel campo di concentramento che nel campo di concentramento di Fossoli non si lavorava [...] Era considerato un campo di smistamento, era l’avamposto purtroppo della deportazione nei campi di concentramento; è un campo dove nel
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
339
febbraio era già partito Primo Levi con uno dei transport era partito nel febbraio, quindi non è vero che le deportazioni dal campo di Fossoli fossero iniziate con l’occupazione da parte... con il passaggio dal sistema della repubblica ai tedeschi... già nel febbraio, sotto la Repubblica sociale questo transport era partito per Auschwitz, era già partito con Primo Levi. Poi verso la fine del mese, questo non ricordo proprio... è stato il penultimo transport il nostro, siamo stati trasportati verso la fine di luglio; siamo arrivati al Po; al Po siamo stati trasbordati con dei barconi, perché tutti i ponti erano distrutti, caricati su dei camion e portati a Verona, nelle prigioni di Verona. Lì siamo rimasti, credo, due giorni o un giorno, non ricordo bene. [...] Si parlava anche con gli altri perché siamo venuti poi a contatto della realtà quando abbiamo parlato con quelli che erano già nel campo tipo Focherini, che mio padre conosceva benissimo che poi purtroppo è morto in campo di concentramento a Köthen a Flossenburg, e allora lì abbiamo cominciato a capire che veramente dato che c’erano tutti i politici che sarebbe stato difficile tornare a casa. Qui [a Fossoli] ricevevamo ancora i pacchi, lì mia madre ci veniva a trovare, io non l’ho mai vista però, eh! Ma potevamo avere attraverso la rete dei bigliettini, anche attraverso Focherini, ha capito? E poi dopo... ma non eravamo ancora arrivati proprio a capire veramente la realtà di quello che ci stava succedendo ma già ci parlavano perché praticamente dopo l’uccisione di quei 67 regnò proprio il terrore, ci fu una specie di silenzio praticamente nessuno parlava più perché tanta gente che avevamo conosciuto con i quali io avevo parlato non c’erano più quindi era un dolore enorme ha capito? Molti pensavano che sarebbe stato meglio andare in Germania che finire purtroppo in quella rappresaglia lì. [...] Allora arrivammo a Verona e non mi ricordo se rimanemmo lì un giorno o due, poi incolonnati attraversammo, mi ricordo, la città e ci portarono verso la ferrovia, verso la stazione per caricarci sui vagoni e lì alcuni riuscirono anche a... la gente cercava di prenderci dentro alle porte, aprivano le porte perché riuscissimo a entrare dentro per salvarci, perché avessimo la possibilità di salvarci, ma ben pochi riuscirono, perché praticamente avevamo i tedeschi che ci seguivano. Poi fummo caricati su un vagone, mi ricordo, e andammo verso il Tarvisio. [...] Nei carri bestiame, nei carri bestiame. E prima di arrivare al Tarvisio però riuscirono, alcuni nostri compagni, ad aprire una porta di questo vagone, leggermente, alcuni si buttarono giù. [...] Alcuni riuscirono a salvarsi, poi dopo, tre o quattro riuscirono a buttarsi che poi non so se si sono salvati, si sono buttati nella scarpata, non so poi che fine abbiano fatto, ma quando noi abbiamo cercato anche noi, io e mio padre, di buttarci giù abbiamo sentito le mitragliatrici, i colpi delle mitragliatrici, abbiamo richiuso il vagone, abbiamo ritirato quel po’ di apertura che avevamo fatto e abbiamo seguito la nostra sorte e siamo arrivati nel campo di Berlino. [...] È stato un viaggio di tre, quattro giorni, dove poi ci si fermava perché c’erano bombardamenti. [...] Erano tutti politici, partigiani. [...] Era un campo enorme alla periferia di Berlino. Mi ricordo che mi rimase impresso perché fuori la città era tutta distrutta, sembrava... c’erano solo le pareti esterne, sembravano le scene di un teatro, dietro
340
L. BERTUCELLI (a cura di)
non c’era più niente, non c’era. Una cosa stranissima, colpita casa per casa. E arrivammo in questo enorme campo, spaventoso, enorme e lì dove arrivavano: era l’agosto del ’44. [...] Berlino era già molto colpita specialmente... anche, me lo ricordo benissimo, anche nella periferia... mi ricordo queste villette addirittura colpite una per una. [...] Le strade quelle che abbiamo visto erano... c’erano parecchie macerie ma erano... certi palazzi erano ancora su. Perché non era ancora stata distrutta completamente. In questo campo enorme, spaventoso arrivava questa umanità disperata, da tutte le parti del mondo, dell’Europa: dalla Russia, dalla Cecoslovacchia, dalla Bulgaria, dalla Romania. [...] Era un campo di raccolta, ma non so se erano solo politici, non lo so perché arrivavano queste famiglie russe anche coi bambini. [...] Adesso non mi ricordo, ma non so se ci hanno sistemato proprio in una maniera, nelle baracche oppure... so che lì è successo che un lavoratore libero, uno che lavorava nel campo, un italiano mi si è avvicinato e mi ha detto: “Tu sei studente?”, e io: “Sì, sono studente”, e lui: “Guarda che gli studenti sono trattati male qui perché non sono considerati elementi capaci di lavorare. Sei con tuo padre?”, e io: “Sì, sono con mio padre!”. e allora lui: “Cercano di dividerle le famiglie, cercano di dividere le madri dai figli...”, e io: “Che cosa devo dire?”, e lui: “Dì che sei falegname!”; e così, quando ci hanno interrogato, gli abbiamo detto che eravamo falegnami, ma questo penso non abbia... il fatto che poi siamo restati insieme penso che non sia stato questo, è stato forse la fortuna. [...] Ci hanno portato a Wittenberge. Wittenberge era uno dei sessanta sottocampi di Neuengamme. È a venti chilometri da Amburgo. [...] Quindi a Berlino poco tempo? Poco tempo, poco tempo. Siamo rimasti solo il tempo dello smistamento. Lì a Berlino abbiamo subito due o tre bombardamenti che è una cosa spaventosa, terribili i bombardamenti di Berlino: la terra tremava proprio. [...] Praticamente dentro al nostro campo erano quasi tutti politici, forse ci saranno state anche delle persone prese dalle prigioni anche penso... perché c’erano anche cinque o sei elementi probabilmente che non erano dei politici... tanto che ci sono stati anche degli episodi terribili quando uno ha rubato il pane... che praticamente poi la solidarietà nei primi tempi è stata splendida perché fra di noi così... poi dopo negli ultimi momenti si badava solo ad avere quel pezzettino di pane, a scambiare e basta, non ci si guardava mica più, ha capito? [...] Noi, appena arrivati in questo campo naturalmente ci hanno adibito al lavoro, noi eravamo accompagnati a lavorare, accompagnati a lavorare verso questa fabbrica che era stata trasformata in industria di guerra. Fabbricavamo, si fabbricavano i pezzi delle mitragliatrici e già in quella fabbrica lì esistevano le catene di montaggio; io non ero abituato, ero studente, mio padre non lo so, ma lui era più abituato a lavorare; però esistevano già le catene di montaggio quindi un lavoro indefesso, pauroso, pazzesco che non smetteva mai perché si facevano i turni di dodici ore di giorno e dodici ore di notte... secondo, mese per mese. [...] Era tutto programmato in Germania. Con quella furia maniacale che avevano loro di programmare tutto e anche quando ci facevano andare cinque per cinque, cinque per cinque, una forma maniacale proprio di questo numero cinque.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
341
[...] Eravamo di varie nazionalità. E, anzi eravamo quelli che eravamo trattati peggio di tutti perché eravamo considerati doppiamente traditori, purtroppo: voi lo sapete. ‘Maccherone’ non l’ho mai sentito dire: non lo so, sarà venuto dopo. Ma eravamo considerati dei traditori. Mentre invece avevano quasi un privilegio sugli altri i lavoratori francesi. [...] I francesi erano talmente già dentro al lavoro che praticamente avevano anche dei privilegi rispetto a noi italiani, erano molto più considerati rispetto a noi, anche perché erano lì da più tempo, loro continuavano a ricevere... noi non abbiamo mai ricevuto pacchi, mentre invece loro continuavano a ricevere pacchi, lettere ancora eh, i francesi mentre invece gli italiani praticamente erano esclusi da questi privilegi. [...] Le condizioni di vita non erano affatto facili a partire dall’igiene: al mattino si lavorava dalle cinque d’estate e dalle sei d’inverno quindi praticamente bisognava alzarsi, “Via via, partire partire”, allora bisognava alzarsi, darsi quella lavatina veloce, perché avevamo tre, quattro docce insomma, e tutta questa povera gente che si accalcava lì, e quindi ci si lavava per modo di dire; avevamo però in fabbrica, avevamo le docce e ogni tanto venivamo portati per la disinfezione degli abiti nostri perché eravamo pieni di pidocchi, una cosa tremenda, le cimici proprio prosperavano in questi letti a castello, ogni tanto li portavamo fuori noi di nostra spontanea volontà e si bruciavano, ci si passava con la fiamma, cercavamo di pulirli. [...] Niente cibo assolutamente niente cibo. E quelle che mi sono rimaste impresse sono le lunghe camminate che facevamo dal campo alla fabbrica che era un po’ lontana dovevamo attraversare la città e allora mi ricordo che tutti, specialmente nel ritorno, perché al mattino andavamo via molto presto e le famiglie tedesche dormivano forse ancora e io guardavo, ad esempio, la sera attraverso queste finestre se c’era uno sguardo, qualcuno che ti, non so, uno sguardo di compassione, che capissero, insomma, la nostra tragedia e così... perché passavamo attraverso la città e attraverso queste finestre, con queste tendine tutte ben addobbate con i fiori pensavamo che ci fosse un’umanità che poi non c’è mai stata e non ci sarà mai. Ecco. Pensavo che qualcuno ci pensasse, che pensasse alla nostra condizione invece non abbiamo mai visto uno sguardo che ci potesse rasserenare oppure ci potesse dare... e dei bambini durante specialmente nel ritorno mi ricordo che ci sputavano addosso, pensi un po’ che cosa. [...] Mangiavamo una brodaglia fatta di rape e di altre cose e fortuna che qualche volta che ci galleggiasse qualche patata dentro che era una cosa al di fuori della realtà quando... per me il mangiare quello che praticamente aspettavo proprio era il mangiare della sera, chiamiamolo mangiare fra virgolette: ti davano due pezzettini di pane nero qualche volta ammuffito e duro, ma per te era moltissimo e poi ti davano un triangolino, anzi un quadratino di margarina, e due fette del famoso salame di sanguinaccio fatto di sangue di maiale con dei lardelli bianchi dentro e quello per noi era il massimo; sembrava veramente che tu mangiassi chissà che cosa. Questo nei primi tempi poi dopo verso la fine praticamente calò anche quello. [...] Riuscivo a parlare con qualche polacco così, una qualche parola perché era difficilissimo io il polacco non lo sapevo, anche il tedesco lo avevo imparato, poi l’ho voluto assolutamente dimenticare. Adesso però mi
342
L. BERTUCELLI (a cura di)
sarebbe servito perché accompagno i ragazzi in Germania, però ho voluto assolutamente abbandonare. E parlavamo della situazione e loro parlavano sempre dei russi che stavano arrivando: “I russi vedrai che riusciranno a vincere la battaglia”, nonostante i primi tempi fossero in condizioni non molto buone e poi parlavano anche dell’avanzata degli alleati verso la Francia, dall’altra parte: qualche notizia ce l’avevamo. [...] Perché i polacchi erano da tanto tempo che erano là e allora molti andavano a lavorare anche presso... li mandavano a lavorare presso dei negozianti, dei grossi magazzini e da questi proprietari di magazzini. Anche mio padre è stato mandato è riuscito ad andare una volta a lavorare in uno di questi magazzini... con il padrone di casa che addirittura non sembrava che fosse proprio un grande nazista perché praticamente qualche notizia gliela dava a mio padre... dice: “Presto sarete liberi!”. [...] Sinceramente degli ebrei non ho mai saputo niente. Ho saputo qualche cosa lì a Fossoli... che lì a Fossoli eravamo divisi da questa parte qui erano le baracche degli ebrei e dall’altra parte erano le baracche nostre, ha capito? Ma non abbiamo mai saputo veramente del trattamento inumano che facevano agli ebrei. Dopo poi lo abbiamo saputo alla liberazione. [...] Siamo poi stati liberati dai russi, eh! Si stavano avvicinando e speravamo tutti in questa liberazione, ci credevamo, verso la fine veramente ci credevamo perché notavamo anche certi segni nello stesso trattamento di questi tedeschi che erano più malleabili verso la fine nei nostri riguardi, anche il nostro capo campo, quindi avevamo già avuto il sentore che qualcosa stava cambiando, che gli alleati si avvicinavano e che la Germania poi stava veramente perdendo i colpi. [...] E poi ci hanno rinchiuso, mi ricordo che sentivamo i russi che avanzavano sentivamo i cannoni russi che sparavano: ci hanno rinchiusi in un appezzamento di terreno recintato. [...] Dopo ci hanno incolonnati che nessuno lo ha saputo, ma quella era la colonna della morte che veniva da Stettino e ci hanno messi tutti in questa famosa colonna che in un primo tempo era guidata da tedeschi, da SS e poi dopo era stata data in mano alla Volksturm che era quella dei riservisti, quelli che praticamente non erano più adatti a combattere e che avevano solo compiti di polizia, tedeschi anziani [...], ci hanno messo in questa colonna che per me era la colonna della morte perché praticamente questa povera gente, che non riusciva ad andare, che cadeva per terra veniva abbandonata. [...] La Germania era quasi tutta occupata, di campi di concentramento ancora attivi ce ne erano pochissimi, tipo Bergen Belsen e altri ancora non ancora occupati, ma ci portavano, nonostante tutto non ci lasciavano liberi ancora forse volevano portarci in altri campi non ancora liberati, con questa famosa colonna e lì, durante questa marcia forzata, lì non si mangiava assolutamente, non si mangiava... e questa povera gente veniva abbandonata lungo le strade... quei vecchi che non ce la potevano più fare venivano abbandonati lungo le strade ed era una confusione terribile perché i tedeschi avevano una paura mortale dei russi, con l’indottrinamento e con quello che ci avevano fatto sapere questi nazisti che i russi uccidevano facevano... eccetera, praticamente scappavano, scappavano. Noi trovavamo queste case tutte abbandonate praticamente... avevano i russi lì a pochi chilometri e questa gente scappava e poi
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
343
quello che mi ha fatto, una cosa strana, che c’erano questi ragazzi della Hitlerjugend, i ragazzi della gioventù hitleriana, talmente indottrinati che erano ancora dentro a delle buche scavate nel terreno con i bazooka che aspettavano, pensa te, da soli i carri armati russi. Mi ha fatto un impressione pensare come erano indottrinati perché quella era la morte. Perché i russi quando passavano non facevano più prigionieri eh, dalle nostre parti venivano tutti uccisi. Facevano bene. Perché il trattamento che hanno fatto ai prigionieri russi era una cosa indescrivibile eh! [...] In condizioni disperate tutti questi poveri russi, addirittura vivevano con la segatura degli alberi, gli hanno fatto delle cose atroci. Poi abbiamo saputo dopo il trattamento che hanno avuto nei campi e poi loro li ammazzavano i russi praticamente, nei campi di concentramento, li stremavano dal lavoro e poi venivano in massima parte, specialmente a Mauthausen quasi tutti fucilati, li fucilavano appena arrivavano al campo. Quindi i russi alla fine non facevano più prigionieri, eh verso la fine. E poi dopo siamo stati chiusi, una notte mi ricordo tutti, tutti quelli che partecipavano a questa famosa colonna in una grande... sarà stata una fattoria abbandonata, non lo so e dentro a una stalla enorme, non lo so, mi ricordo che c’erano delle gran balle di paglia c’erano... allora eravamo tutti abbandonati lì per terra così, chiusi lì dentro e io e mio padre cosa che non farei neanche... abituato come sono abituato... siamo scappati, pensate. Io e mio padre siamo scappati. [...] Era aprile sicuramente, forse anche maggio. [...] Abbiamo camminato per parecchio tempo in mezzo a un bosco. [...] Ci siamo nutriti con delle patate [...], delle volte riuscivamo a trovare certe case abbandonate, trovavamo un po’ di fuoco e le cuocevamo anche. Lì siamo rimasti due o tre giorni, lì mio padre ha avuto, chissà non lo so, una febbre altissima [...], vaneggiava mi ricordo e io pensavo: “È finita, non riesco mica a portarlo a casa. Cosa farò io?”, e così e dopo tre giorni di questo febbrone, chissà se il fato, il destino, se il destino vuole che una persona debba... è guarito e abbiamo ripreso e lì abbiamo fatto alcuni chilometri ancora, poi abbiamo incontrato dei prigionieri militari, pensi che erano fuggiti da un campo militare. [...] Italiani, soldati italiani, erano tre o quattro militari siamo rimasti insieme lì con loro, anzi abbiamo anche mangiato carne di cavallo perché abbiamo trovato una cavallo ucciso, un cavallo ucciso in mezzo a una strada e allora lo abbiamo portato in mezzo al bosco... loro eh, perché io non … lo hanno squartato e poi dopo con il fuoco lo abbiamo... è stata la prima volta che siamo riusciti a mangiare un po’ di carne. [...] Dunque siamo stati liberati un mercoledì alle ore dieci del mattino abbiamo sentito un rumoreggiare, un passaggio di carri, un passaggio di cavalleria: erano i russi: allora siamo venuti fuori con le mani alzate, abbiamo visto passare questo enorme... hanno continuato a passare per un’intera giornata tra cavalleria, carri armati russi allora ci hanno visto assieme e ci hanno rifocillati e così ci hanno detto: “Andate nelle case, andate a procurarvi il mangiare”, e lì hanno organizzato un campo, ci hanno messo dentro una caserma; i russi [...] ci hanno detto di andare nelle case a procurarci il cibo e anche se avessimo voluto vendicarci potevamo benissimo farlo, ma noi italiani non siamo capaci, non siamo stati capaci di fare niente, di vendicarci tanto più poi che eravamo già un po’
344
L. BERTUCELLI (a cura di)
lontani dal nostro campo di Wittenberge e allora entravamo nelle case per procurarci solo del cibo. [...] Ce l’hanno fatto capire che potevamo. Dato che i russi ai prigionieri russi hanno dato la libertà di vendicarsi e lì si sono veramente vendicati. Lì, i prigionieri russi quando entravano nei villaggi e praticamente si vendicavano veramente. Ma noi non siamo stati capaci però ci hanno dato la possibilità, ha capito se volevamo? Infatti ci sono state delle vendette nei campi specialmente nei riguardi dei kapò praticamente sono stati uccisi quasi tutti perché le SS sono riuscite a fuggire. [...] Siamo rimasti nel campo organizzato dai russi che ci si stava benissimo perché praticamente i russi continuavano ancora perché tornavano indietro che avevano ancora da combattere. Erano combattimenti sporadici perché ormai era a terra insomma la Germania... e lì siamo rimasti una decina di giorni poi dato che poi la Germania è stata divisa in zone, siamo passati sotto gli americani quando la zona occupata dai russi è passata sotto gli americani, anche lì siamo stati bene e poi siamo passati sotto una zona inglese e lì stavamo un po’ peggio. [...] Perché con i russi andavamo dentro le case tranquilli, facevamo le nostre cose, quelli americani ci davano da mangiare, con gli inglesi ci davano da mangiare, ma non erano molto prodighi nel mangiare: insomma stavamo così così e poi non ci mandavano mai a casa. [...] Allora con mio padre e tanti altri insomma abbiamo preso... siamo riusciti a venire via e prendevamo i diversi treni che passavano, si montava, si chiedeva un pochino dove andavano e facevamo queste marce di avvicinamento all’Italia. [...] Il reinserimento... sì i rapporti... non è che la nostra sofferenza, la nostra odissea ci abbia portato a dei grandi... ha capito? Perché sì, anche quando si raccontavano le cose che avevamo subito non ci credevano mica. Perché erano cose proprio al di fuori dalla realtà non pensavano la gente che avessimo subito certe cose, quindi non ti credevano... sì, stavano ad ascoltare poi la guerra era finita, avevano bisogno di divertirsi, di ritornare alla vita e quindi non avevano più i problemi di sentire uno che era stato in prigionia per tanto tempo perché noi ci siamo stati quasi un anno. ALBERTO MARIO VESCOVINI - 1918 Non sono mica state cose giuste. Io non mi sono mai interessato di niente e basta. Adesso poi non ne voglio sapere più niente. Io ho fatto sette anni e sette anni a mio modo di vedere sono abbastanza. Sono andato via che ci avevo 19 anni. Ero via di leva perché poi allora facevamo 18 mesi. Ho fatto tre mesi a Brescia e poi quando mi hanno mandato a Osoppo eravamo guardie di frontiera, poi da là abbiamo fatto la guerra della Francia e poi dalla Francia ci hanno tolto da là e ci hanno mandato in Jugoslavia. [...] Io erano 17 mesi che non venivo a casa. E allora quando si è giovani si ha la testa che non è mica tanto a posto. E infatti mi è venuta voglia di andarmi a sposare e allora ho chiesto la licenza, tutti i permessi e sono venuto a casa. [...] Ci hanno preso a Mestre. Io stavo scappando a casa. Era un po’ dopo l’8 settembre, adesso non mi ricordo bene il giorno so che avevamo deci-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
345
so di scappare e di tornare verso casa, erano circa 15 giorni che giravamo a piedi e dalla Jugoslavia ci hanno accompagnato, sempre a piedi, e eravamo arrivati a Mestre perché noi altri non avevamo voluto collaborare con i partigiani là, con quelli della Jugoslavia e allora ci hanno portato via tutto quello che avevamo comprese le scarpe dai piedi e poi ci hanno accompagnato a Mestre. Prima di Trieste ci hanno mollato lì che noi non sapevamo neanche dov’eravamo e allora abbiamo girato lì intorno spaesati di qua e di là, abbiamo girato lì in mezzo ai boschi che forse se stavamo lì nascosti ci risparmiavamo tutto il resto. Chissà. E allora lì in mezzo a questi boschi c’era una canonica e allora siamo andati a domandare se c’erano dei tedeschi in giro e il prete ci ha detto di no. E allora ci ha ospitato lì, ci ha fatto fare la barba e noi ci siamo fidati insomma, invece siamo saliti sul treno e ci hanno preso subito. Noi eravamo in otto. [...] E dopo da Trieste siamo andati a finire a Monaco. Là siamo arrivati là all’una o alle due dopo mezzanotte ci hanno dato un po’ di roba da mangiare che non si sapeva bene che cosa fosse che se la davano ai maiali loro non la mangiavano mica. E dopo ci hanno fatto dormire in cima al cemento fino al giorno dopo. Alla mattina ci hanno fatto fare il bagno con l’acqua gelata. Prima ci hanno dato della roba che non so neanche adesso che cosa fosse: so solo che addosso bruciava come il fuoco, forse era una specie di disinfettante; cioè, prima siamo andati a consegnare quel po’ di roba che avevamo. [...] C’era una grossa doccia, ci saremo stati in 100 o 200 là sotto e un po’ era fredda e un po’ era calda l’acqua. E se uno veniva fuori, perché era quello l’istinto soprattutto quando l’acqua veniva giù molto calda uno cercava di venire via da sotto il getto dell’acqua, c’erano lì i tedeschi che ti davano giù delle legnate. Cioè picchiavano. E quando era fredda era gelata e se uno faceva anche solo l’atto di venire via succedeva la stessa cosa perché loro a menarti non ci pensavano mica tanto. [...] A me mi hanno mandato a Dachau. [...] E dopo abbiamo cominciato a lavorare, abbiamo cominciato a costruire i capannoni dove ci facevano i motori degli apparecchi, e allora noi andavamo a lavorare là, dalla mattina alla sera, poco da mangiare, tanto lavorare. E lavorare, mica fare finta perché se no avevi sempre dietro la celere, mica quella italiana, quella tedesca che ti dava giù. La celere erano poi le SS. E allora si lavorava, si mangiava poco, quando si poteva si andava a mangiare qualche patate, dell’erba perché io ho proprio mangiato anche l’erba. [...] Alla mattina ti davano un po’ di tè e basta. E poi fino a mezzogiorno non ti davano altro. Quando uscivi per andare a lavorare ti inquadravano e facevano l’appello poi quando si tornava dentro ti inquadravano ancora e tornavano a fare l’appello e se per caso c’era qualche cosa che non andava non ti facevano mica andare a dormire ti facevano stare fuori tutta la notte. [...] Ma io avevo troppo freddo e allora mi fasciavo con la carta dei sacchi mi fasciavo le gambe perché là c’era un gran freddo, e anche lì mi hanno visto e mi hanno dato giù. [...] Loro a picchiarti non ci pensavano neanche un attimo: te le davano e basta. Insomma dovevi filare come dicevano loro, lavorare, tacere e fare tutto quello che loro ti ordinavano e soprattutto non prendere neanche un’iniziativa per conto tuo. Non c’era niente da fare era così, loro erano
346
L. BERTUCELLI (a cura di)
abituati così e allora tutti i giorni si andava a lavorare, per un certo periodo la domenica ci hanno mandato a lavorare a casa dei civili. [...] Eravamo i loro servi. Andavamo a lavorare nell’orto: era lì che mangiavo un po’: un po’ di verdura riuscivamo quasi sempre a mettercela in bocca. [...] Poi ci facevano pulire i giardini, i prati dietro casa, e così, facevamo tutto quello che c’era da fare [...] A mezzogiorno ci facevano tornare dentro in tempo per metterci in fila con gli altri e presentare la nostra gamella che non si sapeva mai che cosa c’era dentro perché davano della roba da mangiare. Della zuppa che i maiali, i porci, mi avete capito? Beh neanche loro la avrebbero mangiata. La sbroda che davo ai miei quando ce li avevo era molto più bella anche da vedere di quella che mi davano a me da mangiare in Germania. Comunque, ce l’abbiamo cavata lo stesso. Siamo ancora qui. A lei hanno messo il triangolo? Sì, quando mi hanno mandato a Dachau me lo hanno messo anche a me. Il mio era rosso perché dicevano che eravamo dei partigiani e allora ci avevano messo il triangolo rosso e sotto la I di italiani. Ecco questa è stata la spiegazione che ci hanno dato: ci hanno messo un numero di matricola che ci chiamavano con quello: io non mi chiamavo mica più Vescovini Alberto, ma mi chiamavo con un numero che ce lo avevano messo qui a noi [indica una manica] che io la casacca la avevo portata a casa ma lei qua [la moglie] ha bruciato tutto. [Interviene la moglie] Ma no che non ho bruciato. Io non ho bruciato proprio un bel niente. Quando mi è nata la figlia non avevamo mica i soldi per comprarle la stoffa da farle un pigiamino, niente e allora ho visto che c’era questa casacca vecchia e ho detto: “Aspetta che uso questo!”, che cosa volete che tenessi per ricordo? Ricordo di cosa della fame e delle botte? E allora ci ho fatto un paio di braghine, una tutina perché non avevo mica i soldi da andare a prendere un pigiama e neanche quelli per andare a comperare della stoffa nuova da lavorare che adesso ne hanno 25 per uno di pigiami, camice da notte, vestiti ma allora era più sottile la vita. Adesso ne hanno 25 d’estate e 30 d’inverno. [...] [Riprende Vescovini] Noi ci prendevano e ci facevano la riga, per fare vedere a tutti che noi eravamo italiani, ci facevano la riga con il rasoio qui in mezzo alla testa che sembravamo degli indiani e noi italiani allora eravamo sempre tosati di fresco. E allora ci avevano dato anche il numero di matricola e io allora me lo ricordavo mica come adesso. [...] Comunque là in Germania di brutte cose ne abbiamo viste tante, ma proprio tante. Là c’era anche il forno crematorio. [...] Mi avevano messo il triangolo rosso perché secondo loro ero un partigiano. Ma io di partigianato non ne sapevo niente, ma niente per davvero e poi io ero a militare. Ero a militare in Jugoslavia, però forse ci hanno detto dei Partigiani perché non me lo hanno messo mica solo a me ma anche a quegli altri sette od otto che ci hanno preso insieme, e allora forse perché non ci hanno preso al fronte, non ci hanno preso in Jugoslavia ma su un treno che tornavamo poi a casa noi ... ma loro magari hanno pensato che eravamo dei banditi e allora ci hanno detto che eravamo dei partigiani e così ci hanno sistemato per le feste. [...] Mah noi abbiamo visto delle robe che sembrano impossibili e invece sono proprio capitate. Cioè quelli che erano là come c’ero io le hanno
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
347
viste e vissute anche loro quelle robe lì perché invece delle volte quando si discute, si parla con qualcuno di queste cose qui ti dicono: “Mah, mah! Non è mica vero!”, oppure ti dicono che siamo stati degli... come degli stupidi perché, secondo loro, saremmo dovuti scappare. [...] Sono sempre stato a Dachau. Mi sono fatto 18 mesi a Dachau. Quando ci ripenso mi viene freddo e non riesco a capire come ho fatto a resistere per tanto tempo. Perché mi creda 18 mesi che da dire così non sembrano mica niente 18 mesi da fare là nelle condizioni come ce li hanno fatti fare a noi sono lunghissimi. [...] Dopo poi quando i tedeschi quando hanno cominciato a vedere che stavano perdendo la guerra, che avevano cominciato a bombardare che stavano arrivando gli americani la notte ci hanno portato a fare delle trincee, cioè ci facevano fare dei buchi per potercisi sdraiare poi loro perché se no rischiavano di essere bombardati anche loro, rischiavano di essere accoppati anche loro, e poi quando hanno capito che non c’era più niente da fare sono scappati via. [...] E allora noi quando abbiamo visto che le SS erano andate via abbiamo cominciato a girare a piedi e a tutti quelli che incontravamo ci chiedevamo dov’era la strada buona per tornare in Italia: loro non so se capivano, ci rispondevano, ma eravamo poi noi che non capivamo mica, però un po’ presso, poi qualcuno che si spiegava meglio, qualcuno che ci faceva segno con la mano; abbiamo fatto fatica, ma ce l’abbiamo fatta; ci hanno instradato un po’ e ce l’abbiamo fatto a tornare in Italia. Siamo riusciti a tornare poi fino a casa. [...] [Interviene la moglie] Quando è arrivato a casa era un lavoro, era un lavoro che non si poteva neanche guardare: aveva le piaghe nei piedi che ci veniva fuori il sangue, aveva delle piaghe dappertutto e delle cimici addosso che erano una cosa che faceva paura. [Riprende Vescovini] Avevo dei pidocchi... anche dei pidocchi avevamo preso che erano lunghi così e che ti camminavano addosso e ti facevano grattare via la pelle dal fastidio. [...] Di giorno non avevo mica più paura, vedevo che non c’era più da avere paura, ma la notte tornava in sogno, e facevo sempre dei sonni agitati. E anche quando non dormivo, se non c’era più la paura ero comunque sempre agitato. [...] La salute dopo la Germania non è più stata la stessa, ce la siamo rovinata là. [...] Sono magro adesso, ma allora ero diventato ancora più magro ancora. Mi erano rimaste solo le ossa. A paragone di quello che è stato dopo le dirò che la guerra della Francia è stata niente. È stata niente anche perché è durata 15 giorni. Quindi quella lì è stata niente. Ma invece quella della Jugoslavia è stata cattiva e poi il peggio è successo in Germania. Che è lì che ne abbiamo visto davvero di tutti i colori insomma. [...] Io sono tornato a casa disfatto, ma sono tornato a casa. Perché sono venuto a casa, ma tutti quelli che siamo tornati dalla Germania siamo venuti a casa che eravamo dei derelitti. Eravamo gialli, gialli come dei limoni. Perché non mangiavamo mica tanta roba con dentro della sostanza, delle rape, delle patate marce, dell’erba. Una brodaglia che neanche i miei maiali, quando li tenevo, la mangiavano. E quando si poteva mangiavo delle pelli di patate che i tedeschi le buttavano via e noi andavamo a tirarle su da in mezzo ai rifiuti, ma dovevamo stare attenti che
348
L. BERTUCELLI (a cura di)
non ci vedessero se no erano botte. Ecco! Eravamo ridotti così, a cercare fra l’immondizia. Quando si andava fuori a lavorare qualche cosa da mangiare erba soprattutto si adocchiava sempre, ma però c’era da stare attenti perché altrimenti erano legne. Perché io di legne ne ho prese, ne ho prese fin troppe. Fumare si fumava un po’ di nascosto e fumavamo anche la carta di giornale, quando si poteva, perché poi non ne davano mica da fumare, ma la fame era la cosa più brutta. [...] Appena ho visto Dachau mi è venuto freddo e non mi è più andato via. C’eravamo io e un altro che stava qui vicino a Novi che mi ha guardato e mi ha detto: “Mario, ma dove siamo venuti a finire”? [...] E quelli lì, quelli lì delle SS, erano tutti giovani, tutti, ragazzetti, secondo me dovevano essere tutti volontari, non so mica io, tutti degli squilibrati. Cioè loro quelle cose lì le facevano proprio come se fosse una fede, ha capito? [...] Quando sono tornato a Dachau il forno crematorio c’era ancora, me lo ricordavo che era là in mezzo a dei pini e appena siamo arrivati siamo andati a vedere se c’era e c’era ancora. Subito ci sono rimasto male, mi sentivo di svenire, ma poi sono tornato in mezzo alla gente e mi è passato, ma me l’ero vista di cadere lì per terra. E poi sono andato nel posto dove c’era la mia baracca che però adesso non c’è più ma anche lì ho passato cinque minuti mica tanto belli. Uno che c’è stato dentro lo può anche credere, ma differentemente se lei lo racconta a un altro non ci crede mica. La gente pensa che non è mica successo. [...] Lei ha mai pensato di non riuscire a tornare a casa? Oh! L’ho pensato tante di quelle volte. Delle volte ci dicevo con quegli altri ragazzi: “Noi a casa non ci andiamo più!”, questa qui era una roba che si pensava spesso. Ti guardavi intorno e non pensavi che ce l’avresti fatta. Specialmente la sera, la notte. La notte ci si pensava dietro a quelle cose lì. E poi si pensava anche a come se la passavano loro, ma ci pensavano poi anche quegli altri mica solo io e allora poi si facevano ognuno i suoi gruppetti e si scambiavano due parole. Di che cosa parlavate? Auguravamo dei cancheri ai tedeschi e alle SS. Ce n’era poi uno delle SS che sarà stato un quintale e mezzo e era quello che ci veniva a dare la sveglia la mattina con un nerbo, una frusta. A lui ci abbiamo tirato tanti di quegli accidenti che... Poi parlavamo anche dell’Italia, delle nostre famiglie, delle nostre case, ma poi non è che parlavamo sempre, ogni tanto due parole ma per la maggior parte era lavoro, lavoro, lavoro. Poi dicevamo stavamo meglio in Jugoslavia, stavamo meglio in Francia, stavamo meglio a casa e maledicevamo la guerra, il re, Mussolini, tutti. [...] Ma speriamo solo che non succedano più di questi brutti lavori, guardi anche a parlarne con lei mi è tornato freddo. Ma però la gioia più grande è stata quando sono arrivato qua. [...] Io davvero non ci speravo più di tornarci a casa. ERNESTO VUCK - 1926 I tedeschi il 2 ottobre del ‘43 attaccavano i partigiani vicino a Capodistria e da Trieste sparavano giù verso il mio paese proprio tanto che le granate
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
349
hanno colpito proprio il mio paese: alla mattina viene un militare che era scappato ai tedeschi da Pola. [...] Io ero a lavorare, ero andato nel bosco a tagliare la legna per l’inverno perché, come le dicevo, era il 2 ottobre del ‘43 e ormai l’inverno era alle porte, questo ragazzo si chiamava... mah, adesso non mi viene il nome... Rosalino, si chiamava Rosalino. Il cognome non lo so, è stato con noi un po’ di tempo, ma poi quel giorno è stato preso, ci hanno presi i tedeschi, quel giorno lì ci sono stati anche dei morti. I tedeschi erano già in giro dall’8 di settembre, cioè da quando è arrivato l’armistizio, eravamo appena arrivati a casa quando cominciano ad arrivare i militari che erano un po’ di tutte le parti, sono appena arrivato a casa e dopo un rastrellamento ne avevano uccisi un bel po’, li hanno uccisi in un bosco vicino al mio paese, li conoscevo io. Erano tutti ragazzi, tutti ragazzi italiani, ne hanno uccisi nove, due sono scappati e un partigiano che sparava dal monte, da una collina davanti a Capodistria. Io ero già stato preso dai tedeschi lì e con me c’erano degli altri ragazzi, rastrellati come me, per rappresaglia contro i partigiani, li hanno messi in fila e gli hanno sparato a tutti, ma quel partigiano lì doveva essere ubriaco perché mettersi a sparare contro una colonna. Non è stata una cosa normale, lei cosa ne dice? E allora li hanno uccisi tutti. E sono stati nove morti tutti del mio paese. Tutti, tutti contadini lì delle mie valli e poi nel ‘43 quel giorno mi hanno portato a Sicciole; a Sicciole c’era una miniera di carbone perché anche i tedeschi avevano poi paura delle rappresaglie, degli attacchi dei partigiani e allora prendevano degli ostaggi, come ad esempio me e quel soldato lì, Rosalino. A me e lui ci facevamo camminare in mezzo alla strada, a lui gli facevano portare una cassetta di munizioni davanti, e lo avevano messo in prima linea eravamo a Corte d’Isola e lì davanti a noi è stato ucciso un partigiano, lo hanno preso e lo hanno buttato per terra, gli hanno sparato sette colpi... e quello lì l’ho visto anch’io. E dopo siamo ripassati da lì dopo due giorni, siamo ripassati di lì e era ancora là per terra. [...] Avevo 17 anni. [...] Quei tedeschi lì che ci hanno preso erano delle SS e della Gestapo e poi siamo andati ancora avanti fino alla miniera e lì ci siamo fermati la sera e alla mattina presto, l’appello lo hanno fatto lì di fuori e c’era un capitano, un ufficiale dei fascisti, un italiano che ci ha fatto una predica e ci dice: “Se vedete qualche partigiano, prima che ci sia spargimento di sangue inutile, dovete denunciarlo”. E poi basta, ci hanno rimandati a casa. Dopo che ci hanno fatto portare le armi e le munizioni, con il pericolo che i partigiani ci sparassero addosso e dopo averci fatto la predica quella volta ci hanno fatti tornare a casa. [...] E poi del ‘44, il 2 di ottobre ritornano i tedeschi lì in paese a cercare ancora i partigiani che però non ci stavano mai in paese e quando poi sapevano che c’erano i tedeschi in rastrellamento scappavano, non stavano mica lì... e allora lì non ne hanno trovati, però ci hanno bloccati in un po’ di persone del paese e ci hanno preso la carta d’identità, mi prendono la carta d’identità anche a me e ci dicono che ci portano a lavorare sopra a Postumia, sul Carso, ci avevano detto che dovevamo andare a lavorare sotto la Todt... perché molti del mio paese li hanno presi non è che ci sono andati volontari, li hanno presi su i tedeschi questa è la verità. E dopo qualcuno è riuscito a scappare qualcuno è andato a finire anche nei partigiani tanti.
350
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Io invece non ci sono mai andato con i partigiani, mi hanno lasciato fuori perché ero malato. [...] E poi invece sono arrivati i tedeschi che invece per loro andavo bene. Ero anche un po’ guarito, stavo un po’ meglio ma loro mi hanno preso e mi hanno portato a Trieste e mi hanno detto che ci portavano a lavorare, ma c’era uno lì che abitava in uno dei paesi lì della zona che ha detto: “No. Io non vado mica più avanti. Io mi faccio ammazzare qui, ma non vado avanti. Perché io lo so che non ci portano a lavorare. Ci portano a Trieste in carcere e poi da lì ci mandano nei campi di concentramento” [...] Lui sapeva dei campi perché era già stato sotto ai tedeschi. E quindi lui aveva visto la gente partire verso la Germania e non tornare più indietro nessuno. Dopo dal 2 ottobre intanto era arrivato il 10 di ottobre sì... partenza per... a disposizione delle SS c’era scritto... e via per la Germania! Noi siamo arrivati sul confine tra Tarvisio e l’Austria che è subito lì. Siamo arrivati lì la mattina accompagnati, però, e questo ci tengo a dirlo, sempre dai fascisti italiani, perché erano loro che facevano la sponda ai tedeschi, erano loro che facevano... cioè che guidavano i rastrellamenti, che facevano le spiate, erano loro che facevano gran parte del lavoro sporco. Erano i servi, facevano proprio i servi. È per questo motivo che non li posso vedere io. E ci hanno portato fino a lì e lì ci hanno dato da mangiare per tre giorni, mi hanno dato un pezzo di formaggio, due kg di pane nero che ci doveva bastare per tre giorni avanti. E quelli della classe del ‘20, delle classi lì attorno, 1ì ’18, ‘19 erano andati lì come liberi lavoratori, negli anni anche prima, andavano a lavorare lì in Austria e noi invece... io forse ho pensato allora che ci facessero fare quello lì, magari non proprio liberi, però a lavorare normalmente come quelli lì che c’erano andati prima in Austria e invece a noi ci hanno mandato a Buchenwald. [...] Io lì ci sono stato poco circa 30 giorni. [...] Lì abbiamo trovato un professore triestino era, professore di lingue, lui ha detto: “È meglio che dite che siete slavi sapete. Perché i tedeschi non possono vedere gli italiani!”. [...] Poi mi hanno spedito a Batladerstadt [sic] sempre nella Germania dell’Est e lì ho lavorato in una fabbrica di aerei fino ai primi di aprile del ’45, quindi io il grosso l’ho fatto lì dentro e lì, in verità, non era tanto, tanto male. Cioè, era male perché si andava a dormire senza cena e si lavorava dodici ore al giorno: una settimana di giorno e una settimana di notte. Quello che avevamo noi non lo abbiamo più visto. [...] Poi da lì a piedi siamo ritornati davanti al fronte perché il fronte venivano gli americani e ci hanno fatto ritornare a piedi di nuovo verso a Buchenwald e la sera il capitano, perché devo essere sincero per essere un capitano delle SS non era mica cattivo, e la sera ci ha messo a dormire in una chiesa di protestanti lì in un paese prima di arrivare a Buchenwald. [...] Poi andiamo a Buchenwald, lì siamo arrivati verso sera, siamo restati due... sì, mi sembra che ci siamo fermati due giorni nella baracca 58, questa volta nella 58 e nella 57, ci hanno messi in queste due baracche che fra tutte e due eravamo in 5.000 circa. E lì c’era di tutto, lì ho visto di tutto, i morti per terra anche. Perché a Buchenwald c’erano moltissimi prigionieri 60.000, 65.000 prigionieri nelle baracche e una mensa sola che doveva cucinare, diciamo così, per tutti. Lei può capire perché quando ci sono arrivato io là dentro c’erano 35.000 persone in ottobre del ‘44 e
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
351
quando ci sono tornato in aprile c’erano più di 100.000 prigionieri, perché era così soprattutto verso la fine: Buchenwald era pieno, pieno di gente, andavano dentro e fuori... nel senso che moltissimi morivano per la fame, gli stenti, le malattie, perché le SS li uccidevano, ma altrettanti se non di più erano quelli che venivano messi dentro al campo. [...] Era il 5 di aprile, era ormai la fine della guerra: c’era la porta centrale e poi una porta che portava al crematorio e lì vi era sempre i mucchi della gente lì per terra perché soprattutto agli ultimi tempi non ci tenevano neanche più dietro a bruciarli. Perché poi alla fine sembravamo tutti morti che camminavamo da tanto che eravamo ridotti male, e gli addetti al crematorio erano anche loro dei prigionieri come noi che passavano nelle baracche, guardavano negli occhi e se eri morto via al crematorio. Quelli che stavano in piedi invece andavamo fuori e via: cinque, cinque, cinque e loro con i bastoni a farci filare perché poi c’erano sempre le guardie: fuori dalle baracche, ma anche fuori dal campo, perché noi andavamo a lavorare anche fuori dal campo, noi ad esempio dovevamo fare otto km a piedi per andare a lavorare e se la gente non camminava perché poi eravamo tutti denutriti e molti erano ammalati e allora le SS se erano in giornata storta magari ti sparavano lì e te cadevi morto lì in un fosso e arrivederci e grazie. Perché loro sparavano anche così, non è che dovessero giustificare niente a nessuno: ti sparavano in testa e via. [...] E anche il 5 aprile quando ci hanno fatto uscire e ci hanno fatto incamminare verso Weimar moltissimi sono stati uccisi dalle SS in quel modo lì e poi ci hanno fatto prendere un treno. [...] E una mattina, 8 giorni dopo circa, arriviamo in Cecoslovacchia, eravamo tutti sporchi, [...] prima di arrivare nella città attraversiamo anche dei ponti e la gente si fermava sopra i ponti per buttarci un po’ di roba, questo lo devo dire perché c’era anche solidarietà, ma c’erano soprattutto dei vagoni chiusi, di quelli bestiame, io invece ero in un vagone abbastanza aperto: lì pioveva dentro, ci nevicava, ci avevo quattro dita di acqua dentro. E si pensi lei com’è stato essere chiusi lì dentro per 23 giorni, dormire in mezzo all’acqua per 23 giorni. Poi è morto anche uno, è morto poveretto perché il comandante gli ha spaccato la testa, non è mica morto di malattia. [...] E poi arriviamo a Dachau il 27 di aprile. [...] Abbiamo portato con noi 2 vagoni pieni di morti. Il 27 di aprile a Dachau perché poi quei morti lì, quelli che erano morti in viaggio li mettevano tutti dentro a due vagoni e quelli lì gli americani li hanno trovati tutti perché quelli lì non sono riusciti a bruciarli. Perché le ho viste io dopo le foto di quei morti... tanti di quelli erano persone che lavoravano lì con me, quella gente lì... [...] Ma la gente moriva anche dalla fame, mi ricordo un povero italiano che diceva solo: “Mamma mia! Mamma mia”, perché lui non poteva mangiare più non deglutiva più neanche l’acqua. Perché l’acqua ce la davano andavano a prenderla fuori dentro i mastelli della marmellata... prima ci si facevano i bisogni dentro poi si vuotava, si lavava e si portava dentro l’acqua. Io comunque mi sono fatto 23 giorni senza mettere un piede fuori dal vagone. Senza lavarmi la faccia. A raccontare quello che abbiamo patito noi uno non ci crede. [...] Appena arrivo a Dachau la sera prima, come le raccontavo, ho chiesto un goccio di acqua pulita e la guardia mi ha risposto: “Stai zitto, i morti
352
L. BERTUCELLI (a cura di)
non parlano”, erano in due, due ungheresi impestati. Che erano poi le guardie dei campi, i kapò, che non erano poi mica solo ungheresi erano anche polacchi, ucraini, francesi, italiani, ce ne erano di tutte le razze di guardie. Io avevo 19 anni, ma alla guardia gli ho detto: “Sparami”, e lui mi ha detto: “Stai zitto morto, domani siamo a Dachau”, meno male che il giorno dopo siamo arrivati davvero a Dachau, ma io avevo le gambe così gonfie e allora con un coltellino piccolissimo me le sono incise e veniva fuori l’acqua e così anche nei piedi perché io non riuscivo a tenere su neanche gli zoccoli. Non mi stavano ai piedi gli zoccoli. E allora avevo solo le calze. Arriviamo lì e allora chi poteva camminare si dovevano fare 500 m dalla stazione al campo, arriviamo lì e i miei compaesani mi volevano aiutare a camminare e siamo restati io e un altro uno dei due cugini che neanche lui poteva camminare che poi poveretto è morto cinque anni fa. E allora io e lui siamo rimasti per terra, ma non avevamo più neanche male perché ormai il sangue non c’era più, eravamo carichi di pidocchi, e sono arrivati lì due ragazzi, due SS due ragazzini che ci sono venute le lacrime agli occhi perché poi in quelle condizioni non eravamo mica solo io e il mio compaesano, in quelle condizioni, in tutto il treno ci saranno stati 200, 300 persone che camminavano l’una con l’altra, che si trascinavano e poi cadevano. Io ho detto: “A me mi devono ammazzare qua. Io non mi alzo. Io me ne sto qua”, perché quell’altro lì che aveva un po’ più di forza di me mi voleva tirare e mi diceva: “Ma dai che siamo giovani e ce la facciamo”. Io avevo 19 anni: mi prendono e mi portano dentro al campo e lì veniamo a sapere che gli americani erano a 30 km e ho trovato un dottore forse non so, un prigioniero comunque che mi ha detto: “Anche se hai sete non bere. Bagnati solo la bocca, ma non bere perché altrimenti sei fritto.”. Perché io non avevo più fame, avevo solo sete, ma anche una guardia, un vecchio ucraino che mi portò un po’ d’acqua mi disse di bagnarmi le labbra, ma di non bere perché altrimenti ero spacciato perché poi anche a loro ci dispiaceva di vederci morire così, perché poi anche loro erano prigionieri, stavano meglio di noi ma erano pur sempre prigionieri dei tedeschi. E poi mi portano in un bagno, ma io non avevo più forza: se non fossero arrivati gli americani sarei morto, io ormai ero solo pelle e ossa, ero tutto nero, non c’era niente più, eravamo dei cadaveri che ancora respiravamo, ma per il resto eravamo morti. E poi sono arrivati gli americani e mi sono salvato. [...] Il 27 siamo arrivati a Dachau e il 29 sono arrivati gli americani a liberarci altrimenti né io né lui saremmo mai potuti tornare a casa. Questa è la verità. E io quel giorno lì, quello della liberazione non me lo scorderò mai perché quando si è aperta la porta della baracca ed è entrato questo soldato americano… nessuno di noi parlava americano e siamo riusciti solo, quelli che camminavano a baciarlo, chi le mani, chi la faccia: abbiamo capito che era finita. E lui con questo elmetto, armato, così di tutto punto ci ha guardati e poi si è messo a piangere, piangeva come un bambino a vederci ridotti così. Io sono arrivato il 17 di luglio a casa. E già mi avevano rimesso un po’ in forze. [...] Alla fine sono tornato a casa che pesavo 50 kg. Mentre prima ero arrivato a pesarne 35. Io una cosa però ci tengo a dirla: i tedeschi mi hanno fatto del male, ma anche i fascisti italiani... i bravi fascisti mi hanno fatto del male e come lo hanno fatto a me lo hanno fatto anche a tanti altri. Anche lì dalle mie parti in Jugoslavia non è vero che i soldati italiani si
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
353
sono comportati male, ma i fascisti italiani sì. Hanno commesso tante violenze anche sulla popolazione civile. [...] Io ero un tipo che me ne fregavo di tutto e forse è proprio per questo che sono venuto a casa. Perché sono tornato a casa nonostante le due sigarette, la razione misera di pane, quel po’ di broda che ti davano a mezzogiorno e lavorare dodici ore. E un po’ di caffè nero senza niente, neanche senza zucchero che ti davano alla mattina, eppure sono tornato a casa. E poi con mio figlio, sono tornato a vedere Dachau, sì, ma non c’è più praticamente niente, non c’erano più le baracche, ma il crematorio quello c’è ancora, però mi ha fatto un effetto, un effetto brutto che pensavo di morire. [...] Quando lei è arrivato a Buchenwald le hanno subito messo il triangolo rosso? Sì. Appena sono arrivato mi hanno messo il numero e il triangolo rosso: ero un prigioniero politico, un partigiano secondo loro, ma come le ho detto non è vero perché i partigiani non mi hanno preso perché ero malato. Quando siamo arrivati a Buchenwald i fascisti italiani ci hanno lasciati ai tedeschi, alle SS e lì subito botte e poi ci hanno spogliato, rasato, picchiato ancora e poi ci hanno messo il triangolo e il numero. E da quel momento e fino alla fine sono stato 5.189. Ci hanno rasato come le pecore, ti trattavano come le bestie, peggio delle bestie e solo per umiliarti. Solo per umiliarti. E poi ci hanno messo la roba a righe e poi ci mandano in questa baracca dove c’erano tutti politici mi sembra. Io posso ringraziare il Signore che sono ancora abbastanza in salute. Anche se ci ho messo un bel po’ di tempo prima di tornare ad essere così. Dopo la liberazione quando vedevo tutta la gente contenta, che si abbracciava... io non ci potevo credere, io non ci riuscivo. Non mi veniva per niente l’allegria. SILVANA FORMIGGINI - 1926 Sono Silvana Formiggini, nata a Modena il 19 dicembre 1926 di una famiglia modenese da diversi secoli e molto legata alla mia città. Mio padre era anche molto conosciuto, lui aveva uno studio di ragioneria, era un commercialista eccetera, molto amato perché era molto capace nella sua professione e notoriamente onesto, antifascista da sempre. Infatti non si è mai iscritto al Partito fascista. Come tutti quelli della mia generazione, nel ‘38 con la campagna razziale noi ragazzi siamo stati estromessi dalle scuole e questo fatto di non aver potuto seguire, in una classe normale la scuola è un fatto che l’ho rimpianto tutta la vita. [...] Forse la preparazione essendo da soli o in due o tre, seguendo delle lezioni private era sotto un certo punto di vista più completa, ma ci mancava il contatto con gli altri e soprattutto poi capivamo con fatica perché poi, soprattutto noi ebrei italiani, noi ci siamo sempre sentiti molto italiani: infatti anche la mia famiglia, non so, avevamo un nostro zio garibaldino che aveva perduto una gamba... la mia famiglia eravamo italianissimi, però sempre legati alle nostre tradizioni, ai nostri usi ebraici e questa nostra esclusione dalla vita pubblica italiana è sempre stata... anche perché non ritenevamo che fosse giusta. Intanto gli anni passarono, e dal ‘38 si arrivò al ‘43: 8 settembre ‘43 qui le cose erano... non è che si avessero delle idee chiarissime in ogni modo le cose erano... la situazio-
354
L. BERTUCELLI (a cura di)
ne era diventata abbastanza pericolosa e allora anche noi lasciammo la nostra casa e, dato che avevamo molti amici, naturalmente tutti non ebrei perché essendo sempre stata una piccola comunità. [...] Noi eravamo molto mischiati alla città anche perché, adesso io parlo di Modena, c’erano delle famiglie osservanti, per esempio la mia famiglia noi eravamo tradizionalisti ma il nostro modo di vivere, di vestire, di comportarci non è che ci fosse una differenza sensibile. Certamente durante le feste non so, il giorno di Kippur o così, mio padre teneva chiuso l’ufficio e veniva in Sinagoga, seguivamo i periodi pasquali, eccetera, ma altrimenti nel nostro modo di vivere non è che ci fosse questa grande differenza, e noi non è che abbiamo mai nascosto di essere ebrei, ma non è che la gente capisse o si annotasse questa differenza: “Guarda quelli sono ebrei, non vanno a messa”, eccetera. In ogni modo avevamo appunto molti amici, mio padre era molto ben voluto, dei nostri amici il professore Sergio Ferrari, il padre di Ferrari il chirurgo, infatti io conosco l’attuale chirurgo da quando era piccolino così, allora ci disse di andare presso una famiglia di loro contadini e allora noi, in poco tempo, facemmo la valigia, allora avevamo una casa molto grande e una parte degli oggetti li portammo su in granaio, che poi non sapevamo niente di quello che sarebbe successo... è successo in seguito. [...] La gente non si rendeva conto delle conseguenze. Adesso questa cosa l’espulsione da tutti gli impieghi pubblici tipo gli insegnanti eccetera, che furono mandati via... questo qui più insomma, non è che si rendessero conto che quando un insegnante, padre di famiglia, perdeva il posto c’era poi anche una famiglia da mantenere e infatti tanti anche noi, mio padre era perito in tribunale, eccetera soltanto una volta in tribunale qualcuno gli ha detto: “Ma lei è ebreo non può testimoniare!”, nel senso che... allora era tornato a casa, dato che insomma non ci pensava invece quella volta lo hanno rifiutato e allora... perché poi avrebbe potuto esercitare la sua professione soltanto per gli ebrei e, ma con delle piccole Comunità così noi non avremmo potuto vivere e poi dopo queste leggi razziali non si poteva avere personale, non erano possibili dei matrimoni misti. Tanto è vero che l’editore Formiggini avevano adottato un bambino che era rimasto orfano durante il terremoto di Messina. Però lui non ha potuto dargli il nome tanto è vero che ha preso il nome della moglie Santamaria eccetera. Allora in ogni modo in tante famiglie c’erano dei grandi problemi, dei grandi drammi, allora tanti, quelli che avevano anche le possibilità materiali lasciarono l’Italia come la famiglia Levi. I genitori di Arrigo Levi che loro, nel ‘40, partirono per l’Argentina perché c’era uno dei figli, erano sette figli, Arrigo era partito per il Sudafrica, nel ‘38, non poteva più terminare l’università, non poteva, così è partito lì e poi dal Sudafrica era andato in Argentina. [...] Alcuni andarono già in Palestina, tipo Castelbolognesi eccetera e altri cercarono, come mio padre, anche noi si pensava: “Ma come si farà, come non si farà!”, perché c’era proprio il problema di guadagnarsi onestamente il pane quotidiano. Allora insomma, in ogni modo, si riuscì ad andare avanti fino al ‘43. Lì andammo in questa casa di campagna di proprietà del professor Ferrari verso Castelnuovo Rangone. [...] Allora noi ci nascondemmo lì in campagna, intanto la situazione peggiorava, cominciavano anche a Modena ad esserci la caccia agli ebrei, ad essere arrestati e mio padre appunto dato anche per il suo mestiere,
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
355
per il suo lavoro lui era sindaco dei caseifici, delle cooperative, delle associazioni, in seguito poi c’è stata tutta una trasformazione, e lui, allora, era molto conosciuto anche in quella zona dove noi eravamo nascosti ed era anche molto stimato, allora un giorno intanto arrestarono un suo amico, Guido Melli, che anche lui insomma era anche stupido nel senso che gli dicevano: “Dai, nasconditi!”, e lui: “Che cosa? Me! Io, modenese, nessuno mi farà niente”, e invece un giorno, lui antifascista da sempre, conosciuto, era andato a farsi tagliare i capelli, usciva dal barbiere, l’hanno preso e poi lo hanno mandato ad Auschwitz e poi da Auschwitz questo non è più tornato. Dopo che hanno arrestato Guido Melli mio papà che era convinto: “Ma come, io ho tante prove di solidarietà, di simpatia, che cosa vuoi che qualcuno venga ad arrestarmi? Ma nessuno. Perché tutti mi vogliono bene!”, perché lui poi era anche un carattere molto gioviale, molto alla buona, molto così. E invece lì poi avvisano mio padre che c’era stato al mattino un camioncino di fascisti che si era fermato al bar del paese vicino, adesso non so più se era Castelnuovo o insomma lì proprio vicino dove noi eravamo nascosti e hanno chiesto: “Sentite so che qui c’è il ragionier Formiggini sapete dire esattamente dove?”, e loro: “No, noi non ne sappiamo niente!”. Dopo hanno immediatamente avvisato mio padre e allora abbiamo deciso di partire per la Svizzera. [...] C’era questa organizzazione della Resistenza che si stava organizzando che aveva preparato delle strade per riuscire a fare attraversare loro clandestinamente, in quel periodo, il confine con la Svizzera. E uno di questi di questa organizzazione era proprio un mugnaio, amico di mio padre; mio padre sapeva che logicamente in gran segreto che questo aveva degli appoggi allora mio padre andò da questo mugnaio di cui mi ricordo il viso ma non il nome e questo mugnaio gli diede le istruzioni ossia la base era appunto a Sondrio e poi da lì, man mano, ci davano gli altri indirizzi, c’era appunto un prezzo da pagare ma mio padre non aveva questi denari e allora gli amici glieli ... credo che forse non so aveva bisogno di diecimila lire, che in quel momento era una grossa somma mio padre non le aveva queste diecimila lire e allora ci fu un nostro amico, l’avvocato Giacomo Cuoghi che adesso è mancato che diede questi denari a mio padre. E così, un mattino presto noi dalla campagna andammo alla stazione di Modena, abbiamo preso il treno per Sondrio. Intanto la nostra casa che avevamo lasciato l’avevamo messa a disposizione di una famiglia di rifugiati che venivano ... ebrei che venivano dalla Cecoslovacchia che erano al confino qui vicino a Modena. [...] E poi anche questa famiglia, in seguito riuscì ad andare in Svizzera. [...] E allora loro erano rimasti sempre molto legati a Modena perché sono stati aiutati molto perché si erano salvati nascondendosi a casa nostra e poi avevano lasciato lì le loro cose che hanno ritrovato e anche lì in questo paesino avevano trovato molta solidarietà, molto affetto e allora erano rimasti sempre molto legati all’Italia e in particolare a Modena. Allora quello che mi riguarda ecco siamo al dovere lasciare in fretta l’Italia e lì siamo arrivati era... io mi ricorderò sempre questa data, era il 23 novembre... me lo ricordo perché era inverno. [...] Siamo andati in stazione con giusto una valigetta perché non c’era la possibilità di portare delle cose, allora ognuno di noi aveva una piccola sportina, un sacco da montagna al massimo e tremando perché c’era tutta questa nostra incertezza, la nostra paura e lì in stazione c’erano degli
356
L. BERTUCELLI (a cura di)
Avanguardisti armati, che erano poi dei ragazzini così, ma a noi, ad ogni modo, non ci dettero fastidio, non chiesero le nostre generalità, così. Anche loro insomma erano proprio dei ragazzini di quindici - sedici anni non più di tanto. Siamo saliti su questo treno freddo, super affollato, uno sull’altro e siamo arrivati a Sondrio. A Sondrio avevamo questo indirizzo di un bar e dovevamo cercare il proprietario. Allora andammo lì, dicemmo le parole di riferimento che dovevamo dire e il proprietario mise in contatto mio padre con i contrabbandieri che ci avrebbero guidato attraverso la montagna. [...] Allora alla mattina presto dormimmo in casa di un sacerdote allora ci fecero salire, io mi ricordo c’era tanta neve, ci fecero salire, c’era una chiesina di montagna, verso Tirano lì ci fu questa canonica che ci accolse, ci diede una minestra calda, dormimmo lì e proprio molto, molto gentili, adesso poi noi non pagammo niente perché era già tutta una cosa organizzata e dopo cominciammo la salita di questa montagna. [...] Ad un certo momento, siamo entrati in una casa di proprietà dei contrabbandieri. [...] C’era il fuoco ci scaldammo proprio davanti alla fiamma, poi ce ne andammo, mangiammo qualche cosa e dopo intanto anche queste nostre guide ogni tanto cambiavano perché c’era tutta un’organizzazione e poi da lì ... tanto poi la giornata passava e da lì andammo, ci portarono in un’altra baita più su e poi ci dissero: “Aspettate!”. [...] A un certo momento arrivano due bambini che ci fanno: “Guardi dobbiamo noi condurvi perché ...”, e poi ci raccontano tutta una storia: un contrabbandiere era stato arrestato, insomma una cosa così e mio padre esitava ad affidarci a questi due bambini e allora mio padre dice: “No, mandaci un adulto!”, e allora il bambino va via e intanto noi siamo lì, sono già passate delle ore e dopo torna il bambino che ci fa: “No, guardi, non c’è nessuno vi dovete affidare a noi!”, e allora a questo punto non possiamo mica passare lì la notte che fa anche molto freddo che c’era poi fuori tanta neve, c’era fuori ... avevamo qualche cosina probabilmente, adesso non mi ricordo, ma da mangiare con noi, ma non è che noi avremmo potuto rimanere lì la notte al freddo. E allora siamo usciti, questi ragazzi erano due bambini, ma di otto, nove anni non più di tanto allora ci fanno camminare ancora un pochino e poi, ad un certo momento, vediamo un filo per terra spinato e ci dicono: “Ecco, quello è il confine. Noi non possiamo avvicinarci!”, e loro ci lasciano lì sul confine. [...] Lì ci sono le guardie svizzere e dopo avvisa che appunto noi siamo su e allora c’è un gruppo di guardie che salgono e intanto era venuta la notte e allora loro avevano poi della luce, delle pile e ci prendono per mano, pian pianino ci conducono fino a giù e così eravamo arrivati in Svizzera. Allora la prima stazione era Campo Cologno [sic], lì c’erano già moltissime persone rifugiate e dopo c’era allora un fienile ci hanno dato una tazza di minestra calda e tutti lì uomini, donne, giovani, vecchi tutti nel fienile per passare la notte, dove c’erano i topi. [...] Abbiamo passato la notte, ma ancora non sapevamo niente: “Ci tengono, non ci tengono, ci mandano in dietro”, perché questo era ancora tutto da vedere perché loro accoglievano tutti dopo c’era poi lo smistamento. [...] Da lì andiamo vicino a Saint-Moritz, e prendiamo il trenino che da Campo Cologno va su, una meraviglia perché era anche una giornata di sole, tutto ghiacciato. [...] E questo è stato il primo campo sempre militare. Allora lì era un campo di raccolta però ancora non è che si sapesse
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
357
niente: “Ci mandano in dietro, ci tengono?”. Allora loro hanno cominciato tutte le domande, mica domande... date di nascita, tutto questo, dopo poi lì rimanemmo non mi ricordo più quanto, ma anche lì eravamo sempre sotto i militari per cui se dovevi andare in bagno c’era il militare che ti accompagnava. [...] Siamo rimasti lì una quindicina di giorni. [...] Ci mandarono a Basilea dove c’era un campo di quarantena. [...] Lì siamo stati un mese. [...] C’era poi gente della città di Basilea che dall’alto ci gettava dentro delle sigarette, della cioccolata, insomma non si riusciva a comunicare però perché poi qui c’era un gran numero di... c’erano di tutti, c’erano per esempio molti militari russi, giovani russi che si erano rifugiati in Svizzera, c’era della gente del mondo intero. [...] Allora lì c’era già la prima... chi veniva mandato via e chi rimaneva. Ad ogni modo noi siamo rimasti. Siamo stati lì un mese e dopo questo periodo di Basilea, che era sempre un campo militare; allora da lì noi fummo mandati vicino a Lucerna al Gucche [sic] che è un meraviglioso albergo sopra Lucerna, sopra il lago di Lucerna, un posto stupendo perché poi gli svizzeri avevano requisito molti alberghi dove mettere questi rifugiati perché c’erano tante centinaia di persone perché arrivavano a lì da tutte le parti e da lì incominciarono a fare le divisioni, allora dividere in tanto gli ebrei dai non ebrei e poi magari i militari quelli italiani allora li riunivano, [...] allora poi avevamo tanto tempo libero e si giocava, si giocava a carte, si ballava, si leggeva, si studiava, si chiacchierava, si discuteva di tutti i problemi, della ragione dell’esistenza, di tutto. Sì, sì, sì perché poi anche c’era un rapporto umano molto diverso e per noi giovani non deludente ma vedere queste persone che magari una settimana prima tu avresti potuto incontrare in città, educati che ti lasciano entrare... adesso non tanto verso noi ragazzi ma verso, diciamo, una signora che ti offrono il caffè, che si tolgono il cappello eccetera lì che ti esaminano tutto: “Tu hai preso un pezzettino di pane un pochettino più grosso del mio. Tu hai preso la scopa per pulire la tua stanza prima di me!”, ma delle cose così. Tutta una meschineria, tutta una cosa così che allora non c’era più questa vernice della buona educazione che ti... allora lì tu toccavi la gente come era. [...] E poi c’erano tutte le diverse associazioni: la Caritas per i cattolici, le associazioni ebraiche per i ragazzi ebrei che si sentivano in dovere di non far perdere tutto questo tempo e allora cominciarono ad organizzarsi dei corsi, e allora c’erano una certa scelta di corsi: corsi di cucito, di cucina, di decorazione: questi erano i corsi più essenziali. [...] Prima di questi corsi ci mandarono a Friburgo, un collegio vicino a un collegio di suore cattoliche e avevamo i cortili vicini...c’era giusto una barriera e quando non so, noi scendevamo in giardino e c’erano delle ragazzine di là: scendevano le suore e: “Via, via, via!”, le facevano rientrare perché già con la nostra vicinanza chissà che cosa sarebbe successo! E allora lì cominciavamo già... c’erano già delle persone che tenevano dei corsi culturali di storia, insomma di qualche cosa così molto superficiali però anche già per tenerci occupati. [...] Allora lì c’era il corso di decorazione e il corso di cucina, però il corso di decorazione ancora non era pronto allora intanto ci mandarono due signori che erano maestri tessitori e cominciammo un corso di tessitura che fu molto, molto interessante.
358
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] In un secondo tempo, ci accompagnarono a Zurigo a visitare questo grande... tipo Standa, tipo Rinascente, dove ci sono delle persone apposta lì per fare i cartelloni per scrivere. [...] E dopo ci insegnavano a “imparare a guardare”. Il che è stato molto interessante, mi è servito, è la cosa che mi è servita di più nella vita. [...] Lì eravamo in questo castello stupendo, una sessantina di giovani, dove c’era la piscina dove lì si era liberi ossia liberi nel senso che non è che si fosse liberi però si poteva anche uscire, fare una passeggiatina ma avevamo degli orari da rispettare perché poi alla sera non si poteva uscire, chiudevano il cancello, eccetera. Ma è stata per me un’esperienza anche a livello umano perché poi si formavano dei gruppetti di amici con cui il più delle volte si discuteva... quante notti passate seduti sulle scale a discutere, sempre dei misteri della vita. Anche perché poi ognuno aveva le sue angosce, i suoi problemi. Mi ricordo una delle mie amiche veniva dalla Polonia, aveva avuto i genitori deportati, non sapeva niente. Dietro ad ognuno c’era un suo dramma insomma perché... però c’era anche del cameratismo. [...] C’erano delle amicizie molto profonde che poi non ho mai più ritrovato a questo livello forse anche perché si viveva insieme, si soffriva insieme, si sperava insieme, altrimenti nella vita normale, civile, come adesso ci sono sempre dei grandi limiti, più di tanto insomma. [...] Ricordo quando sono andata la prima volta in kibuz da mia sorella con le amiche dico: “Guarda qui mi sembra di essere ritornata lì nel campo...”, non lo avessi mai detto. Non lo avessi mai detto: “Che cosa? Tu paragoni il kibuz al campo?”, e invece io mi sono trovata molto bene [...] Io non ho mai patito la fame, [...] ho sempre cercato di rendermi utile, delle volte, mi ricordo quando eravamo a Friburgo, chiedevano dei volontari perché anche in campagna gli uomini erano sotto le armi ed erano rimaste le donne in campagna allora c’erano dei periodi: la raccolta del fieno, la raccolta della frutta, chiedevano dei volontari allora, il nostro piccolo gruppetto era sempre disponibile e andavamo a rastrellare il fieno o a raccogliere le noci o la frutta che poi questi contadini ci offrivano una tazza di cioccolata e un pezzo di pane: insomma, ma non lo facevamo solo per quello che ci davano, ma anche per sentirci utili, e dopo anche questa cioccolata ci faceva anche piacere, anche perché poi alla fine della giornata si tornava a casa seduti su questi carri, con il bue che li tirava ed era un po’ una festa. E mi ricordo il primo lavoro ricompensato, ero a Lucerna, c’era una signora che traslocava e hanno chiesto se c’era un qualche volontario per aiutare e io ho alzato la mano e mi hanno presa. Allora lì sono andata, perché poi c’erano quelli che trasportavano, io facevo solo piccole cose, però dopo ho dovuto lavare le scale, che non le avevo mai lavate in casa mia in vita mia e dopo ho ricevuto due franchi svizzeri. Allora sono tornata nel campo e li ho subito dati a mio padre, quello è stato il mio primo guadagno. Delle cose così, e insomma così passarono un anno, due anni. Sua sorella era più grande di lei? Sì, era più grande di me, ma eravamo sempre nello stesso gruppo, abbiamo fatto lo stesso corso, siamo state insieme, siamo sempre state insieme fino a quando io ho chiesto di seguire una scuola di infermiere a Losanna che aveva organizzato l’Ose, l’Ose, è Organissation Secure Enfants che è un’organizzazione ebraica di assistenza e allora aveva organizzato e
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
359
pagava lei questo corso con un duplice scopo: primo dare un mestiere a noi ragazzi, e poi formare del personale di cui loro avevano bisogno. [...] Allora intanto appunto sono andata a Losanna e ho seguito questo corso di infermiera presso la scuola della Croce Rossa svizzera evangelica “La Souce” che è una delle migliori scuole svizzere e lì è stato per me anche un periodo molto importante della mia vita e ho incontrato delle persone meravigliose. Queste nostre insegnanti generalmente erano delle missionarie, erano evangeliche e allora noi il mattino. .. il direttore era un pastore protestante... incominciavamo con una funzione religiosa e quando mangiavamo, prima di mangiare c’era sempre un momento di preghiera. [...] Anche lì ho incontrato delle persone veramente di grande valore umano. [...] È stato un periodo della mia vita molto importante e sono sempre grata a Iddio di avermi dato questa formazione. Intanto, nel ‘45 è terminata la guerra e i miei genitori tornarono in Italia e mia sorella dalla Svizzera partì, via Francia, per la Palestina. [...] Terminato questo periodo sono tornata in Italia, sono tornata nel ‘46 in Italia e nel ‘46 ho approfittato delle facilitazioni che davano anche nelle scuole per i giovani che erano stati in servizio militare e anche noi, come perseguitati razziali, avevamo potuto usufruire di queste facilitazioni e allora ne ho approfittato e ho dato la licenza liceale. [...] Allora gira e rigira sono tornata in Svizzera perché poi in Italia non mi trovavo più bene. [...] Sono rimasta lì per una ventina di anni. Dopo poi sono andata in Belgio e sono stata alcuni anni in Belgio e dopo poi intanto mio padre era morto e mia mamma era andata avanti negli anni e ho ritenuto mio dovere tornare a casa comunque con l’idea di prendere la mamma e andare tutti in Palestina; intanto la Palestina era Israele e dopo poi intanto avevo avuto dei problemi ho dovuto farmi operare allora sono tornata nel ‘71, nel ‘72 mi hanno operata poi appunto nel ‘73 sono andata in Israele per vedere di trovare una sistemazione, per comperarmi una casa, per vedere con il lavoro mio, eccetera, come vede tutte cose molto pratiche, molto terra terra. Poi ho cominciato a incontrare le mie amiche, [...] e allora pensando pensando, anche perché lì io ho girato un pochino tutto Israele e non ho sentito quella cosa qui [si tocca il petto]; mia sorella sì, lei era scappata, lei era in kibuz, poi mia sorella è religiosa: mia mamma, se avesse voluto, avrebbe potuto andare a vivere con mia sorella perché in questi kibuz loro prendono i genitori. Sì però mia mamma non aveva nessuna intenzione di andare in un kibuz religioso perché noi siamo osservanti, ma non religiosi come sono lì. Perché ci sono delle regole molto rigide e allora che cosa? Andare non so a Gerusalemme? Andare a cento chilometri da mia sorella? Con tante difficoltà? Allora gira e rigira ho detto: “Rimaniamo a casa nostra!”. E così abbiamo fatto. Poi quando mia madre è morta... le mie nipoti vorrebbero che andassi giù, ma adesso è troppo tardi.
LUISA MODENA - 1923 Io sono ebrea e faccio parte della Comunità ebraica di Modena.
360
L. BERTUCELLI (a cura di)
[...] Noi non eravamo deportati ma eravamo emigrati provvisoriamente e messi in questi campi di raccolta in Svizzera. [...] Noi siamo stati aiutati, salvati, portati in Svizzera da un prete, don Dante Sala, [...] dietro di lui, non lo sapevo, che c’era Odoardo Focherini, di cui ho saputo poi soltanto quando sono tornata, [...] e io ricordo sempre questi personaggi perché, diciamo così, che Odoardo Focherini era la mente e don Sala era il braccio perché era lui che correva. Ha corso anche dei grossi pericoli, è stato anche lui imprigionato. Io ero allora segretaria della Comunità, all’epoca, intorno alla fine del ‘42 ho sostituito una mia zia che era segretaria della Comunità, la quale era impiegata all’Intendenza di Finanza e quindi col ‘38 è stata mandata via ed era andata a fare la segretaria della Comunità. È caduta, nell’inverno del ‘42, si è rotta il femore e quindi ho chiesto di sostituirla dato che io non facevo niente perché non potevo né studiare, né lavorare né, a momenti, neanche vivere. C’è poco da dire, ma le leggi razziali, in Italia, sono state altrettanto dure di quelle naziste, non c’era il pericolo di vita immediata come sterminio, dal punto di vista diciamo delle leggi razziali, però non potevi lavorare, non potevi, insomma possedere, non potevi fare niente, quindi voleva dire morire, in poche parole, o emigrare perché era previsto una decina d’anni in cui dall’Italia dovevano sparire tutti gli ebrei. Questo era l’intendimento di Mussolini. [...] Io durante quell’anno lì, fino al settembre del ‘43, ero nella segreteria della Comunità. Nel settembre del ‘43, l’8 settembre del ’43, c’è stato il famoso armistizio. Me lo ricordo come ora, sono venuta a casa che era già tardi, ho sentito il segnale orario delle ore otto mentre mi lavavo le mani prima di andare a cena così e il giornale radio diceva di questa cessazione della guerra, no non diceva così, comunque diceva che i reali sono fuggiti eccetera, eccetera e però: “La guerra continua!”, mentre invece noi lì per lì abbiamo sperato che le cose si risolvessero. Ora invece una cosa di cui voglio dire subito quando Umberto II° venne in Italia risalendo, dopo che gli Alleati avevano occupato Napoli, avrebbe dovuto, oppure anche il Governo Badoglio, perché il governo era rimasto in mano a Badoglio, avrebbero dovuto, per prima cosa, abolire le leggi razziali: invece si sono dimenticati completamente che c’erano queste leggi razziali e come hanno lasciato allo sbando tutti i militari altrettanto hanno lasciato allo sbando tutti, [...] nessuno sapeva che cosa fare e questo senso di smarrimento è stato una delle cose che tuttora mi ricordo, smarrimento perché: “Che cosa sarà, che cosa ci avverrà!”. Per prima cosa ci siamo nascosti. La mia famiglia ci siamo nascosti in una casa di cura su viale Tassoni dove c’era la levatrice Leonora che era la levatrice di tutti i bambini ebrei dell’epoca. [...] Siamo stati lì soltanto due giorni o tre, non mi ricordo esattamente, e poi di sera, già durante il coprifuoco, siamo usciti di nascosto e poi rasentando i muri siamo ritornati a casa nostra. [...] Durante il giorno io sono ritornata in Comunità a fare la segretaria poi come idea luminosa, debbo dire, cioè veramente con un’ingenuità che, d’altronde, ero anche una ragazza, non avevo nessuno, perché tutti i capi della Comunità erano spariti, non si sono fatti più vedere, hanno abbandonato la Comunità, almeno apparentemente, poi avevano qualche personaggio che faceva da trade d’union di cui adesso non ricordo neanche chi; comunque ho dovuto prendere delle decisioni io stessa, da sola così per certe cose. Quindi io sono ritornata in Comunità e per sicu-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
361
rezza mi sono spostata: invece che entrare dalla porta centrale, tuttora la porta da cui si entra per entrare nell’ufficio, ho spostato l’ufficio dove dopo il ‘38 era stata istituita una scuoletta, una scuola cioè quella che poi è diventata l’abitazione del rabbino nel dopoguerra, entrando da via Coltellini, ecco! Quindi grande trovata, quella di entrare da un’altra parte con l’idea che se fossero venuti a cercarmi, se non altro avevo una via di scampo, però non avevo il telefono lì per cui come mi potevano avvertire? Ecco una cosa così. Ad ogni modo sono andata proprio con la coscienza di aiutare quelli che fuggivano perché nella provincia di Modena erano stati accolti moltissimi ebrei stranieri erano stati messi, con una specie di domicilio coatto, in vari paesi: Medolla, Bastiglia, in molti paesi della provincia della Bassa soprattutto, avevano concesso di fermarsi, avevano solo l’obbligo di presentarsi ai Carabinieri non so quante volte al giorno, e queste famiglie ricevevano un piccolo contributo dallo Stato, cosa che non sarebbe mai successa in Germania e poi ricorrevano a noi che, attraverso la Delasem, assistevamo queste famiglie. [...] Io sono ritornata in ufficio e come ho potuto, con l’intervento, l’aiuto di un cristiano che aveva sposato un’ebrea. [...] Mi ha aiutato a realizzare dei soldi, perché i soldi della Comunità erano bloccati, [...] lui è riuscito a prendere fuori dei soldi perché questa gente veniva a chiedere poi c’erano degli altri di passaggio che chiedevano assistenza, aiuto, eccetera e io non avevo con chi parlare e facevo quello che potevo. [...] Una sera, alla fine di novembre, è venuto a casa nostra Manlio Campagnano, figlio del presidente della Comunità Campagnano ad avvertirci che era stato a sua volta avvertito che l’indomani mattina ci sarebbero venuti a prendere all’alba. Di mezzo c’era anche un certo Stern il quale era uno di questi ebrei immigrati che era molto religioso, molto istruito nel campo religioso e che evidentemente aveva stretto una certa conoscenza, diciamo amicizia, con qualcuno della Questura, se non erro è stato lui ad avvertire, è stata una specie di catena. [...] Dunque, a quel punto avvisati di questo fatto, e cioè che sarebbero venuti la mattina seguente a prenderci, abbiamo preso su due valige, due valigette, anzi due valigette piccole e una valigia più grande, messo dentro qualche cosa, noti che eravamo già d’inverno, indossato due tre cose una sull’altra, e non sapevamo come fare perché eravamo d’accordo con questo prete, con don Dante Sala, di incontrarci non il giorno dopo, ma due giorni dopo, mi pare, quindi era sfasato, non sapevamo come fare. Allora siamo andati alla sera a dormire in un albergo di bassa categoria il cui nome adesso non ricordo, comunque c’è ancora e credo che adesso si chiami Albergo del Sole, così, quello dietro a Piazzale Natale Bruni, quello sotto il cavalcavia, era al principio di via Piave. Ecco, mio padre ha avuto questa idea: siamo andati lì: era obbligatorio presentare i documenti. Un momento, faccio un passo indietro: abbiamo telefonato immediatamente a mio fratello che stava a Torino. Questo è stato anche uno dei motivi per cui non si poteva immediatamente spostarci perché gli abbiamo detto di venirci a raggiungere immediatamente, di trovarsi alla stazione il giorno dopo, e così è stato. Quindi alla notte io, mio padre e mia madre siamo andati in questo albergo, a noi hanno chiesto i documenti com’era d’obbligo, io e mia madre non possedevamo documenti, non era obbligatorio avere i documenti invece per gli uomini era obbliga-
362
L. BERTUCELLI (a cura di)
torio e lui ce li aveva però, naturalmente, c’era scritto di razza ebraica aveva avuto già in precedenza la furberia, l’accortezza di fare finta che si fosse versato una goccia di inchiostro, allora si usava l’inchiostro, una goccia di inchiostro bella spiccicata sopra la parola “di razza ebraica” per cui non si leggeva più. [...] Al mattino dopo siamo partiti, siamo usciti molto presto e poi siamo partiti per Milano proprio in vista di incontrare il prete, però il prete doveva prima trovarci a Modena e poi dovevamo incontrarci alla stazione di Milano dopo di esserci messi d’accordo, si vede che c’era una buona stella su di noi perché non lo so. Fatto sta che arriviamo a Milano, naturalmente i treni erano quelli che erano, e che cosa facciamo andiamo in un albergo, per non girare tanto per la città, andiamo in un albergo vicino alla stazione di Milano e lì siamo stati per la notte. [...] Al mattino, come dico, forse una stella ci proteggeva, andiamo alla stazione incontriamo il prete: “Che cosa fate qui a Milano dovevamo vederci domani!”, e allora gli abbiamo spiegato. Lui non sapeva niente perché era di ritorno dall’aver portato altre famiglie sopra Como come infatti siamo andati poi noi e quindi non sapeva di questo imprevisto eccetera che poi invece sui giornali è apparso questo “Arresto di tutti gli ebrei”. Ma lui non era informato. No, devo fare un passo indietro: alla stazione, prima del prete, incontriamo Stern con la famiglia: “Cosa fate qua? Noi andiamo là, venite con noi!”, dice Stern, “venite tutti con noi io sono sicuro va benissimo, si paga poco, sono sicuro, sono tranquillo”, e andavano da tutt’altra parte, credo dalla parte di Ponte Tresa. [...] La mattina seguente troviamo il prete che ci dice: “No, voi aspettate qui che io ritorno!”. Molto dibattuto fra noi cosa facciamo, cosa non facciamo, cioè seguiamo il prete o seguiamo Stern che ci assicura e che partiamo un giorno prima. Abbiamo pensato di fidarci di più del prete, di don Sala perché ormai avevamo avuto già vari incontri, varie assicurazioni: sapevamo che già aveva portato dell’altra gente quindi abbiamo deciso di seguire questo prete, mentre invece poi abbiamo saputo che gli Stern sono passati pagando quasi niente facendo un percorso brevissimo, mi pare che fosse Ponte Tresa, [...] mi pare, loro sono passati... ma non lo so con esattezza, non voglio dire, non mi ricordo, comunque bisogna chiederlo a loro. E insomma in conclusione abbiamo aspettato il prete il quale ci ha portati prima ci ha detto: “Adesso io vado per conto mio, voi andate per conto vostro, ci troviamo alla stazione di Como”. Nel frattempo a Milano incontriamo un’altra famiglia modenese, la famiglia Corinaldi. [...] Evidentemente erano stati informati anche loro che sarebbero venuti ad arrestarli e quindi avevano preso su il treno ed erano fuggiti così senza avere una base e quindi quando hanno saputo da noi quello che era il nostro programma: “Ah, noi vogliamo venire con voi!”. Il bello è che quando abbiamo incontrato il prete questa famiglia che si era appiccicata a noi che non volevamo che si appiccicasse perché era talmente... poi erano... avevano un modo di fare veramente... insomma particolare per cui bastava che qualcuno li osservasse che... e noi non volevamo stare insieme perché noi avevamo un atteggiamento normale, chiamiamolo così, loro no! Non erano capaci di dominare la loro emozione, la loro agitazione, la loro paura.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
363
[...] Arrivati a Como, prendiamo due taxi e ci portano in una località di cui non saprei proprio il nome comunque su, in collina, insomma un po’ verso la montagna e poi ci conduce in casa di questi contrabbandieri. [...] Allora arrivati là ci hanno fatto pernottare e eravamo noi quattro in una camera, gli altri in un’altra, ci hanno fatto lasciare lì tutta la roba, farci portare via due piccolissime valigette di fibra che avevamo preso con noi con lo stretto necessario proprio. Abbiamo indossato alcune cose una sull’altra e poi sul fare della sera ci hanno fatto incamminare quando già imbruniva. Salire sulla montagna non eravamo naturalmente né abituati né attrezzati con le scarpe perché mai più pensavamo a cose di questo tipo e mio padre a un certo momento è stato preso da dei crampi. [...] Allora a 69 anni una persona era già vecchia. Comunque gli presero i crampi alle gambe e cominciò a dire: “Andate avanti voi, lasciatemi qua, lasciatemi qua io non posso proseguire, non posso proseguire!”. E allora questa scena drammatica anche se lui cercava di non drammatizzare però questo mi è rimasto impresso. Allora mio fratello lo ha fatto sdraiare, poi lo ha massaggiato, massaggiato, massaggiato nelle gambe fino a che, passato il dolore dei crampi, si è rimesso in cammino e non ne ha avuti più. [...] E ci siamo addentrati in località assolutamente non individuabili che non saprei neanche dove e come e in che modo, al buio pesto... prima dall’alto vedevamo delle luci sparse nella vallata, perché era tutta in salita, tutti sentieri di montagna, probabilmente erano casolari e poi nel buio più pesto ricordo: “State a sinistra, state a sinistra, perché a destra c’è il burrone”, noi non vedevamo nulla, tanto che io allora per mettere un contrappeso mi sono messa ... avevo un sacco da montagna di corda, me lo sono messa sulla sinistra per contrappeso, sulla sinistra: “State a sinistra!”, ma potevamo mettere un piede in fallo e non avremmo visto assolutamente niente e così è successo, lo abbiamo saputo, di una signora che è passata la volta seguente, credo, che è precipitata nel burrone e non è stata più recuperata naturalmente e poi mi ricordo: “Silenzio, silenzio, silenzio, siamo vicino alla caserma”, o robe di questo genere. Insomma una notte da tregenda, proprio tremenda ecco, di notte, in mezzo alla montagna non so dire le ore, ma tante, tante e tante. [...] A un certo momento, come Dio vuole, ci fanno scendere un po’ e poi uno ci fa: “Ecco qui c’è la rete, silenzio più assoluto”, c’era un foro nella rete e ci hanno fatto strisciare e passare sotto e poi ci fanno: “E adesso andate avanti”, ma dico: “Dove andiamo?”, e loro: “Arrangiatevi”. Era già qualcosa, avevamo passato il confine senza sapere niente, non abbiamo sentito campanelli, nulla quindi evidentemente la zona scelta era una zona sicura, abbastanza lontana dalle guardie di confine e quindi erano persone che di mestiere facevano i contrabbandieri per cui espertissime, andavano ad occhi chiusi per questi sentieri. Come Dio vuole ci siamo trovati di là della rete a quel punto abbiamo detto: “Che cosa facciamo?” Ah, tra parentesi, ha cominciato a nevicare. [...] Eravamo ormai in dicembre [...] ci siamo avviati per questo sentiero e ci è sembrato di vedere fra gli alberi, sempre in mezzo al bosco, una luce, ma lontana però e allora abbiamo cominciato tutti, a turno a gridare: “Aiuto, aiuto!”, e evidentemente c’era una pattuglia di soldati svizzeri, ma noi non sapevamo che fossero svizzeri, in un primo momento abbiamo avuto proprio la sensazione che fossero guardie italiane sì perché lei sa
364
L. BERTUCELLI (a cura di)
che avevano una divisa che anche le guardie di frontiera italiana avevano, una loro divisa, quindi non era detto che si conoscesse, ma il modo in cui ci hanno quasi aggredito abbiamo pensato: “Qui ci hanno riportato in Italia”. [...] Allora questa pattuglia ci ha raccolti e ci ha detto che erano svizzeri, eravamo nella Svizzera italiana, quindi parlavano bene, abbastanza bene l’italiano; mio padre non ne poteva più, non ce la faceva ad andare avanti, allora un soldato è andato a chiamare un contadino con un carretto e su questo carretto sono saliti mio padre, mia madre i due signori Corinaldi anche loro mica giovani. [...] E ci hanno portato nella stazione di frontiera, in uno stanzone, prima in una stanzina poi in uno stanzone abbiamo dato le generalità, perché era anche pericoloso girare con i documenti, però io mi ero procurata anche un documento, prima cioè mi ero fatta un documento con la carta intestata della Comunità ebraica di Modena che attestando i miei genitori, eccetera, eccetera, la mia famiglia e poi un altro della Delasem che attestava che io avevo lavorato per conto della Delasem e quindi avevo ... incredibile perché se mi avessero pescato con quei documenti già ero... Comunque non si pensava ... assolutamente non era noto nel modo più assoluto tutto quello che era già avvenuto e che purtroppo, devo dire, anche le nostre autorità ebraiche italiane che in parte erano, almeno in buona parte erano a conoscenza della realtà non hanno avvertito. Forse per non spaventare, per non creare del panico, non lo so. Comunque è stato un gravissimo errore perché siamo restati tutti alla sprovvista. Forse i miei capi, i capi della Comunità ebraica di Modena forse sapevano perché dopo i fatti dell’8 settembre non sono più riapparsi in Comunità, non c’è stato più nessuno che è tornato a farsi vedere in Comunità. [...] Si erano nascosti in case private, erano rimasti nella zona. Dopo però ognuno ha la sua storia e io non lo so. [...] Arrivati a questo posto ci hanno detto: “Adesso aspettate qui”, ma intanto era venuto giorno, ci hanno dato del latte per rifocillarci del latte caldo, un pezzo di pane e non credo altro, non lo so. [...] Finalmente, non ricordo l’ora, ma sarà stata la mezza mattinata viene l’ufficiale della postazione e ci ha detto che avremmo dovuto essere ricacciati, rinviati, mandati indietro. Gli abbiamo chiesto il perché, gli abbiamo fatto vedere i nostri documenti, e lui ha detto che no, c’era l’ordine di rimandarci indietro. Vi rendete conto di quello che rappresenta per noi? Non avevamo più una lira, non sapevamo dove andare, che cosa sarebbe successo... sarebbe successo quello che è successo ad altre famiglie che sono state mandate in dietro. Questa è una gravissima colpa di questi svizzeri. [...] Praticamente un giorno sì e un giorno no aprivano e chiudevano le frontiere così senza un motivo specifico. Intanto, per esempio il mio futuro marito, che non lo conoscevo mica anche lui è stato mandato indietro. [...] Voglio dire che questo giochetto lo hanno fatto spesso e forse perché c’era stato questo grande afflusso e quindi dovevano forse controllare, non lo so, fatto si è che però quando uno si presenta, erano tutti civili... è ben vero che quando poi, con la fine della guerra, si sono precipitati tutti i fascisti non c’è stato il giochetto di chiudere le frontiere, le hanno chiuse quando ormai già erano entrate un sacco di persone.
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
365
[...] Ad ogni modo quando è avvenuto questo fatto la nostra disperazione è stata enorme, chiaramente, ma mentre i miei, io, noi la mia famiglia ci siamo chiesti smarriti che cosa avremmo potuto fare; insomma di fronte a questa autorità non abbiamo avuto il coraggio di protestare, cioè di protestare sì, ma di opporci con tutte le nostre forze insomma, in fondo eravamo degli stranieri che avevamo passato il confine abusivamente. [...] Comunque, invece il signor Corinaldi e, devo dire, forse grazie a lui, ha fatto una scena di disperazione, dire scena forse non è la parola giusta perché era una cosa, non era uno sceneggiato, non era una cosa recitata era veramente una cosa sentita, gli atti di disperazione profonda: si è buttato in terra abbracciando le gambe, anzi gli stivali dell’ufficiale, piangere, straziante, veramente straziante cioè in un certo senso proprio questa sua emotività l’ha espressa quale noi nel nostro carattere, non era nel nostro carattere. E quindi supplicare, piangere eccetera l’ufficiale ha detto: “Adesso state qui perché ormai è tardi: se ne parlerà domani mattina”. [...] Comunque l’indomani mattina fosse che avessero riaperto le frontiere, noi non lo sapremo mai il perché fatto sì è che eravamo lì in uno stato di angosciosa attesa, viene l’ufficiale e dice: “Va bene restate”, e siamo restati. [...] Posso fare un passo indietro? [...] Il fatto di essere stati avvertiti: una cosa assolutamente unica si è verificata a Modena, quindi le autorità o qualcuno delle autorità che comunque aveva conoscenza dei fatti e che comunque ha potuto disporre; quindi a Modena non è stato deportato nessuno, tutti sono potuti tranquillamente fuggire, salvo il Melli che non ha voluto. [...] Evidentemente c’erano delle autorità che erano filo-semite o se non filo-semite comunque che umanamente non accettavano questo tipo di repressione. [...] Cioè c’era una situazione sicuramente particolare perché quello che è avvenuto a Modena non è avvenuto in nessun’altra parte, si può dire, questa accettazione, questa umanità, anche questi stranieri che venivano erano poi anche liberi, venivano, giravano per la città insomma non c’è stato nessun atto di violenza né verbale, né materiale dalle autorità. [...] Degli atti diretti non ci sono stati e da parte della popolazione direi che, al di fuori di qualche caso così, però per esempio questi Uzielli sono stati per mesi e mesi in casa di una famiglia non ebrea del Centro e quindi hanno rischiato la pelle. [...] Ecco allora... vediamo un po’ cosa scriveva mio padre [legge dal diario]: 29 novembre 1943, albergo Stella d’Italia di Modena; 30 novembre, albergo Piemontese; 2 dicembre, Como, Cernobbio. Ecco arriviamo il 3 cioè la notte, passiamo il confine ed arriviamo a Bruzzella, non me lo ricordavo mica. Bruzzella è questo posto di guardia dopo di che ci mandano a Chiasso, poi da Chiasso ci dividono, andiamo a Bellinzona [...] Il giorno 13 dicembre veniamo riuniti a Lugano all’Hotel Majestic che era un bellissimo hotel sgombrato da tutti i mobili e messo a disposizione dei profughi. Noi dormivamo in terra, sulla paglia, ma su un bellissimo pavimento di parquet con una magnifica sala di soggiorno che guardava sul lago, con tutte le vetrate e il pianoforte. C’era un bellissimo pianoforte a coda. Quindi cioè c’erano dei contrasti di cose molto forti. Lì abbiamo incontrato delle altre persone che conoscevamo. [...] Fino al 21 gennaio [1944] ci siamo fermati a Lugano, che anche come clima era
366
L. BERTUCELLI (a cura di)
buono, comunque l’hotel offriva appunto anche il riscaldamento a termosifone, cioè era un bellissimo hotel che era stato requisito per quest’uso. Da lì, il 21 gennaio ci mandano a Ringlikon non distante da Zurigo, non so quanti chilometri, mettiamo una ventina di chilometri da Zurigo quindi in mezzo alla montagna, al freddo, un freddo cane in baracche di legno con invece dei letti, come nei campi di concentramento tedeschi, c’erano due o tre, non mi ricordo bene, piani di assi, di tavolacci su cui c’era la paglia con una, mi pare, coperta, una o due coperte, adesso non ricordo, comunque freddo, un freddo veramente sconsolante in tutti i sensi. C’era il coso in cui si dormiva, la baracca dove si dormiva con un piccolo… una piccola parte avanti, insomma una specie di ingresso dove si entrava e lì c’era una stufa, generalmente erano stufe a legna, poi c’era la baracca dove si andava a mangiare. Mangiare?! È incominciata subito la fame perché quel che riuscivamo ad arraffare oltre a quello che... magari delle patate che mettevamo fra la cenere per farle cuocere e mangiarcele con la buccia. Cioè subito abbiamo visto il trattamento che ci era riservato, ma tenga conto che eravamo già nella Svizzera Tedesca e, nella Svizzera tedesca il trattamento era veramente pessimo, ecco! Con una severità e l’intransigenza, la violenza verbale che quasi quasi non dico che era come essere nei campi di concentramento tedeschi, ma erano campi di raccolta che erano campi di concentramento in realtà. Ecco! Senza nessun conforto, nessuna possibilità di contattare nessuno perché c’erano le guardie, c’erano i soldati armati, eravamo in recinti, intendo dire chiusi in recinti con le guardie armate, vietato qualunque tipo di spostamento, anche se avevi qualche necessità potevano forse prenderti la lista e procurartela, ma non era permesso uscire dal campo. Quindi la vita non era assolutamente piacevole. [...] Il 17 febbraio ci hanno mandati a Ghirembad, cioè sempre nella zona; era una vecchia filanda, quindi con questi capannoni di vetro, altissimi. Dormivamo in altri locali. Io, di quei momenti lì, non ricordo tanto bene perché mi sono ammalata e sono stata messa in quarantena. [...] Mio padre e mia madre sono usciti e si sono incontrati con dei cugini di mia madre che erano liberi perché loro avevano pagato per liberarsi, cioè si poteva pagare per liberarsi oppure dimostrare che avevano abbastanza soldi per mantenersi fuori dai campi. [...] Dovevamo urinare, ma con una frequenza incredibile, siccome i gabinetti non c’erano chiaramente nella baracca, c’erano dei bidoni coi manici e tutta notte dovevamo accostarci a questi bidoni e urinare tutti nello stesso contenitore. Al mattino, più di una volta, era talmente stracolmo, che a turno eravamo incaricati di portar fuori questo bidone, senza coperchio. Portarlo fuori e versarlo nelle baracche che servivano da gabinetto: c’era un buco... baracche come quelle che lei avrà visto nei filmati, anche nei campi di concentramento. Quindi questo è il modo come ci trattavano, va bene? E non eravamo mica né delinquenti né niente. Comunque. Va beh. Che quando, per esempio, una volta mi ricordo perfettamente perché era toccato a me, era talmente colmo che mentre lo portavamo via mi sono tutta bagnata di urina, con un senso tale di non solo schifo, ma di umiliazione... umiliazione di quello che ci... dunque posso immaginare, che questo era nulla, quali potevano essere queste umiliazioni, questi tormenti, questi dolori, questa perdita quasi di sé che avve-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
367
niva nei campi di concentramento tedeschi, cioè nazisti, è sbagliato dire tedeschi. Nazisti! [...] Era un freddo cane e poi ci obbligavano… noi avevamo delle donne c’erano le guardie femminili che avevano una divisa e che erano ancora più fetenti, non so come dire. Fetenti erano, ci obbligavano ad andare a lavarci in questi grandi capannoni di vetro dove c’erano questi ghiaccioli di ghiaccio che scendevano giù: eravamo sotto zero abbondantemente a lavarci in questi lavatoi che servivano evidentemente un tempo per i servizi della fabbrica, c’erano tante cannelle, dell’acqua gelida, naturalmente e nude. Dovevamo lavarci nude. [...] Il 3 aprile siamo andati a Churwalden: era un bellissimo, è tuttora un meraviglioso luogo di villeggiatura, con delle abetaie straordinarie a 1.500 metri, l’albergo era bellissimo. [...] C’era il riscaldamento a termo, bellissime sale, le camere però senza niente. Finalmente mio padre che era il più vecchio di tutti i confinati, finalmente ha avuto lui il letto, dopo poco ha avuto un letto poi lo abbiamo avuto anche noi, una branda mia madre poi un letto. Dopo, nel tempo, si sono organizzati. E lì ci siamo rimasti fino alla fine praticamente. [...] C’era questa signora la quale ha cominciato a simpatizzare verso di me. Io non è che avessi una particolare ... cercavo piuttosto la compagnia dei giovani, va beh, e combinazione volle che era... che anche lei, con la sua famiglia, salvi i maschi, i due figli maschi ... no, un figlio maschio era con loro, l’altro figlio maschio no. Furono assegnati anche loro a Churwalden in un altro albergo che era dall’altro capo del paese. [...] C’eravamo in tre per la verità di ragazze nel campo dove ero io, oltre tutto, erano tutte persone o anziane, come mio padre, o semi-anziane cioè tutte persone adulte, non avevamo nemmeno un minimo di compagnia della nostra età, facevamo i lavori più pesanti, ma anche non avevamo nessuno svago, mentre invece in quell’altro campo c’era qualche giovane di più, però non è che sempre ci si andasse ecco, e quindi quando lui ha avuto le sue ferie è venuto a trovare i suoi genitori, immediatamente è venuto a trovarci, ecco e poi dopo il resto è storia personale. Ecco, tra l’altro era talmente incredibile e io proprio non ci pensavo a cose di questo tipo perché ero così angosciata da quello che poteva essere il futuro, a quello che avrei potuto trovare tornando in Italia, a quello che sarebbe stato il mio futuro che non aveva mai potuto avere una... non era mai stato, diciamo, frutto del mio volere, era stato sempre condizionato dalle situazioni: dal ‘38 al ‘45 sono stati sette anni, la mia gioventù quindi non potevo avere neanche pensato a quello che poteva, cioè avevo pensato, ma sempre in modo pessimistico. [...] Dopo questo incontro, sia mio fratello che questo ragazzo che poi sarebbe diventato mio marito, hanno chiesto di venire trasferiti. Mio fratello più per l’insistenza dei miei genitori, ma anche perché avevano organizzato a Churwalden dei corsi tanto per far fare qualche cosa. Io ho fatto un corso di modisteria. [...] Studiavamo ebraico, studiavamo anche lingue, chi voleva, cioè si erano organizzati abbastanza con ... e, tra l’altro, avevano fatto dei corsi di chimica, dei corsi di... adesso non ricordo, comunque altri corsi che potevano avere una certa apertura, diciamo, per un domani. Quello che poi diventò mio marito proprio non gli piaceva assolutamente però ha chiesto di essere iscritto al corso di chimica, mio fratello lo stesso: chimica e
368
L. BERTUCELLI (a cura di)
tintoria. Perché deve sapere che una delle tradizioni ebraiche, anche a Modena e per esempio a Carpi, quello della tintoria della lana era prettamente ebraica, tradizionale ebraica, sì! Tingere i filati di lana, tingere il truciolo è uno dei grandi, che hanno preso molto sviluppo con il truciolo: sì a Carpi erano anche gli ebrei che hanno dato impulso allo sviluppo. [...] Nella primavera successiva, cioè nel ‘45, quando ho sentito che c’era la possibilità di essere chiamati per andare a fare dei lavori presso i contadini ho chiesto subito di andare perché questo mi consentiva di mangiare bene e di guadagnare qualche cosa di più. Perché lì ricevevamo, chi lavorava riceveva un piccolo soldo, diciamo così, che poi ci è servito per andare a fare qualche piccolo viaggio, naturalmente accumulando, io sono andata a Zurigo, poi sono andata a Coira. [...] Mi sono presa quattro o cinque giorni di vacanza, sono andata sola, finalmente senza neanche i miei genitori sono andata a Lenzerheide. [...] Sono stata lì come in una specie di albergo, diciamo così, una specie di albergo: ho pagato per stare lì qualche giorno sono stata sdraiata, finalmente libera, su questo lungo lago bellissimo. [...] Comunque la nostra vita si svolgeva così insomma: giocavamo qualche volta a carte, facevamo della musica, facevamo degli spettacoli, hanno fatto venire dei musicisti. [...] E così quindi le giornate trascorrevano per noi giovani al lavoro, chiaramente, alla sera si organizzava qualche cosa, veniva organizzata qualche cosa, persino qualche volta si ballava. Che noi saremmo stati per ballare sempre senza... noi non abbiamo mai pensato che non era nemmeno giusto ballare, cioè avere momenti di gioia, di allegria quando c’era gente che... ma tutto questo non si sapeva... in realtà che cosa fossero i lager non lo sapevamo. [...] Si ballava, qualche volta avevamo il grammofono, avevamo la radio e quindi le notizie per lo più le volevano ascoltare quelli lì in tedesco e per noi italiani non c’era spazio abbastanza, ecco! Quindi c’era anche un clima non certo di simpatia fra i vari gruppi etnici ebraici, non c’era solidarietà perché i tedeschi erano sempre tedeschi, c’è poco da dire, c’è poco da dire. Noi italiani siamo sempre stati ‘gli italiani’ quali siamo tuttora, il nostro carattere, con la bonomia, con la... non la prepotenza, o Dio, ci sono anche in Italia ma insomma, nella massa no. [...] [Nella tarda primavera del 1944] C’è stato un momento in cui tutti si credeva che la Svizzera sarebbe stata invasa dai nazisti, dai tedeschi, la situazione in Germania non era più rosea, non era più molto buona per la guerra, probabilmente c’era un motivo politico per occupare la Svizzera e probabilmente anche per far fuori tutti gli ebrei che c’erano perché lo sapevano tutti che in Svizzera c’erano gli ebrei, era una cosa risaputa da tutti che c’erano gli antifascisti... perché tantissimi antifascisti sono stati in Svizzera no? Gli antifascisti e gli ebrei, tutti, ebrei italiani e non italiani, quindi a quel punto serpeggiava veramente la paura. [...] Era venuto un ragazzo che faceva parte di una associazione ebraica [...] ad avvertirmi perché lui abitava in valle, giù non so esattamente dove, non mi ricordo più, comunque più verso la valle per avvertirmi che se ci fosse stata l’invasione tedesca della Svizzera io dovevo recarmi immediatamente a piedi, o con qualche mezzo comunque io sola, abbandonare i genitori, io soltanto avrei potuto trovare alloggio e assistenza e ricovero presso un indirizzo, una persona che era poi lui... e quindi io avevo dovuto memorizzare, che naturalmente adesso non ricordo, memorizzare nome, co-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
369
gnome e indirizzo per fuggire dal campo e recarmi immediatamente là per potermi salvare abbandonando tutto. Mi avrebbe potuto salvare, ma che non pensassi, nel modo più assoluto, di riferire ai miei genitori o cose di questo genere. Questo è stato per me molto scioccante anche se avevo avuto dei grossi contrasti con mio padre perché avevamo dei punti di vista molto diversi, e che non mi ha permesso assolutamente di uscire dal campo e andare a fare qualche cosa di utile, imparare qualche cosa. [...] Poi quando abbiamo saputo che finalmente il 25 aprile... la storia di Mussolini e compagnia bella... hanno aperto le frontiere e immediatamente mio fratello e questo ragazzo, questo Marini, che poi è diventato mio marito, sono partiti, sono riusciti a passare la frontiera e ad entrare in Italia; poi le hanno richiuse immediatamente dopo due o tre giorni hanno richiuso le frontiere e noi siamo potuti tornare alla fine di luglio del ‘45, quindi tutti quei mesi lì, in quel frattempo abbiamo potuto ricevere posta, ricevere notizie, scrivere, potere avere qualche notizia. Abbiamo saputo che i miei zii erano stati deportati. VITTORIO SACERDOTI - 1920 Io una cosa che ci tengo a fare sapere molto esplicitamente: è che noi siamo stata gente sempre apolitica, non ci siamo mai interessati di politica alcuna e anche dopo la guerra non ci siamo messi in politica, forse abbiamo sbagliato perché avremmo guadagnato molto di più e, essendo apolitici, che cosa è successo? È successo che noi fin all’8 settembre siccome eravamo senza il babbo che è morto molto giovane, aveva 44 anni e morì di nefrite, noi eravamo in quattro fratelli, la mamma e così ci siamo trovati un po’ allo sbaraglio perché, in definitiva, bisogna che lo dica, non abbiamo avuto istruzioni da nessuno quando siamo scappati, siamo restati qui fino all’ultimo momento, l’8 settembre eravamo ancora a Modena noi. Poi abbiamo deciso, perché avvertiti da degli amici della Questura, perché c’erano delle persone buone anche lì, perché non è detto che fossero tutti ... la politica è una cosa un po’ ambigua ... Noi siamo scappati in montagna e siamo andati qui su a Ligorzano, con la mamma: in un primo tempo ce la siamo tirati dietro, ma però aveva degli anni. Siamo stati nascosti lì un periodo poi sono cominciate queste ... perché una volta non erano i partigiani, il nome partigiano è sorto dopo prima erano chiamate bande armate; infatti non c’era neanche ancora il Comitato di Liberazione quando noi siamo andati in montagna, è sorto dopo, credo, a meno che non ci fosse e non dicessero niente a nessuno. Noi però non lo sapevamo e difatti noi eravamo calcolati dei, come si può dire, dei banditi diciamo, è vero? Eravamo calcolati dei banditi. Cosa che invece dopo diventò regolare e abbiamo saputo, lei lo leggerà anche su quello che ho scritto, che era sorto ‘sto Comitato di Liberazione che dava ordini perché loro davano solo gli ordini, non facevano mica niente. Ha capito? Ecco, erano bravi, davano ordini, ad ogni modo quello era il suo compito e nessuno lo discute. [...] In montagna è inutile dire hanno fatto tutti gli uni o gli altri, c’erano tutti, c’erano tutti. C’erano comunisti, c’erano democristiani, socialisti. Io e mio fratello eravamo nel Partito d’Azione che era un’associazione apolitica, eravamo un’associazione mista: c’erano di quelli che la pensavano
370
L. BERTUCELLI (a cura di)
in una maniera e quelli in un’altra e non ne abbiamo mai fatto una questione politica abbiamo sempre pensato a fare le cose fatte al meglio possibile. [...] Quando eravamo sul Monte della Castagna ci hanno detto che c’erano delle armi in arrivo a Marano sul Panaro, in Casa Bonettini. Ci siamo messi in sei, sette persone e siamo scesi, abbiamo girato tutta la giornata per arrivare alla notte e fermarci là. Dovevamo attendere queste armi, abbiamo fatto un errore grandissimo, non abbiamo montato la guardia nessuno, errore gravissimo. Alla mattina ci siamo trovati circondati, ci hanno presi tutti. E difatti abbiamo passato cinque o sei mesi nelle carceri di Castelfranco Emilia, sì. [...] La questura di Modena, dobbiamo anche in un certo qual modo ringraziarla, ci ha tenuto nascosti a me e mio fratello, perché i tedeschi... la questura di Modena doveva denunciarci ai tedeschi in quanto ebrei. Eh, sì. Invece la questura di Modena ci ha tenuto lì come partigiani, non come ebrei e allora da questo punto di vista dobbiamo ringraziare. C’era allora il questore... dunque, quando ci presero, c’era il questore Grassi poi invece è cambiato, successivamente che noi eravamo ancora in prigione e c’era De Santis, che è stata una persona ... sì anche loro facevano quello che potevano... è stato una persona grande perché quella volta lì che ne volevano venti è riuscito, eravamo già pronti lì per essere fucilati è riuscito a farne fucilare solo cinque. [...] Io ho fatto le commerciali. [...] [Mia madre] Mi mandò a studiare a Reggio Emilia, alla scuola agraria e lì ho fatto due anni e poi ci hanno buttato a casa. Perché mi chiamarono in presidenza. Il preside ci chiamò in direzione tutti e ci disse: “Voi siete ebrei e noi ci abbiamo l’ordine...”, non era mica colpa sua, “... ci abbiamo l’ordine e voi non potete più venire”, e così. Mio fratello invece ragioneria anche lui, ma però era agli inizi perché era il più giovane frequentavamo lo sport perché allora non c’erano tutte queste cose di balli, di queste cose sì, noi andavamo a ballare anche noi, ma era un ballo normale non è il ballo che c’è adesso... e alla Società Panaro, di ginnastica e scherma mio fratello faceva ginnastica, io facevo la scherma... anche lì ci hanno chiamati in direzione e ci hanno detto: “Non possiamo più tenervi. Ci dispiace ma dovete andare via!”. E così abbiamo dovuto venire anche via di lì, insomma non potevamo più andare da nessuna parte. In nessun locale pubblico. Per quale motivo? Lo sa lei? Non lo so neanche io. È la cattiveria umana. E così era così la nostra vita. Dopo abbiamo cercato di stare lì a Modena, cosa che forse abbiamo sbagliato bisognava scappare prima, perché molti sono stati presi: dunque Melli lo hanno preso che girava lì, sotto il portico del Collegio S. Carlo, e quello lì è stato... non credeva, non ci credeva, era incredulo e diceva: “Ma non può succedere una cosa tanto brutta!”, era anche uno che... Melli aveva fatto la guerra, era un capitano eh, poi c’è stato il rabbino, dottor ... il rabbino di Modena allora era Levi... con la moglie e le due figlie e il figlio sono scappati a Firenze. A Firenze lui girava, lo hanno fermato e lui inconsciamente ha detto: “Sì, sono il rabbino così e così”, e loro: “Venga con noi!”, e lui: “Mi lasci andare a salutare le mie figlie e mia moglie”, e allora sono andati là e li hanno presi tutti. L’unico che si è salvato è stato il figlio che era chirurgo, che c’è ancora credo, penso che sia in pensione ormai, e lui non è stato deportato, invece sono stati deportati loro quattro e non sono più tornati. Difatti se lei va in Comunità ebraica, nella lapide com-
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
371
memorativa, ci sono loro quattro, ci sono dei partigiani, che c’è anche mio cognato era un ufficiale che era venuto fuori dall’Accademia qua di Modena: De Benedetti Leone, lui era andato in montagna, si era nascosto con mia sorella qui a Faeto. Loro erano nascosti a Faeto e poi a un certo momento visto che noi eravamo andati in questi partigiani, in queste bande armate perché avevamo conosciuto uno che ci aveva detto: “Venite!”, allora ci siamo fatti forza e siamo andati perché poi non eravamo dei gran patrioti. Lo siamo diventati un po’ dopo ma... e allora lui [il cognato] andò nei partigiani dopo quattro o cinque giorni è rimasto ucciso. È rimasto ucciso in un combattimento lo portarono giù a Sassuolo dove è stato operato però non c’è stato niente da fare lo avevano preso al fegato e allora non c’è stato niente da fare. E così… [...] A Modena, non a Modena, in tutta Italia gli ebrei erano come gli altri non c’era questione di razza, e anche proprio la Comunità ebraica di Modena era ben integrata nella città. Perbacco se era ben inserita... sì, sì, sì ma ci volevano tutti bene anzi molti si sono salvati perché lo devono a dei modenesi perché molti li hanno aiutati se no non si salvavano mica, eh! [...] Ora ci sarebbero tante cose da dire perché, cosa vuole, lei si può immaginare in due anni che siamo stati in montagna dopo poi successivamente siamo riusciti ad andare... perché ci sono venuti a chiedere siccome il fronte era vicino ormai sono venuti in prigione a chiederci, ha capito? Ad aiutare i tedeschi... non c’è voluto altro... noi ci siamo subito presentati abbiamo detto: “Solo che ci mettano fuori, dopo vedremo... in qualche maniera si fa!”. Infatti hanno accettato le domande, ci hanno portato all’Accademia di Modena, un brutto posto, all’Accademia di Modena qui abbiamo detto: “Oddio qua va a finire male”, invece ci caricano alla sera su dei camion ci portano a Mestre vicino a Venezia là c’era un campo di addestramento che c’era un comandante tedesco e noi siamo entrati a fare parte della Flak, era chiamata la Flak una volta... ci hanno vestiti da tedeschi, con quei pantaloni alla zuava, cosa vuole, cercavano di fare quello che era possibile per fermare questa avanzata, ma gli americani ... lì ne scappava tutte le sere, perché erano tutti partigiani. [...] Voi due fratelli Sacerdoti andate presso i tedeschi, voi ebrei andate dai tedeschi? Si capisce, si capisce. Ma non ci hanno mai scoperto, abbiamo giocato con il fuoco, sì perché poi noi giravamo sempre con il nostro nome. [...] Saremo stati lì un mese, un mese e mezzo: ci hanno fatto andare a Venezia perché c’erano i combattimenti a Rimini perché c’era la Linea a Rimini eh, ci hanno fatti andare a scaricare una nave di tedeschi che erano stati colpiti, va bene, e lì siamo stati a scaricare ‘sta nave con ‘sti tedeschi ha capito? Dopo siamo rientrati... una cosa che mi è restata impressa questa nave tutta luminosa, tutta illuminata ha capito? Abbiamo detto: “Ma ormai qui, ormai è finita eh”, poi cosa hanno fatto? A un certo momento ci hanno detto: “Adesso preparatevi che vi mandiamo da un’altra parte”. Tutti in treno non so quanti eravamo ma una tradotta, sa che cosa sono le tradotte, allora? Tutti in treno, alla notte e si andava in Germania... perché te andavi in Germania ad aiutarli a fare delle cose di difesa, quelle cose lì. Fortunatamente è arrivato “Pippo”, l’aereo, il famoso “Pippo” che ci ha bloccato il treno e ci hanno detto: “Scendete tutti”, beh, non è più tornato su nessuno. Va beh, siamo riusciti a scappare, siamo venuti via tutti. E avevamo noi... c’eravamo preparati per la fuga
372
L. BERTUCELLI (a cura di)
perché non siamo scappati così perché scappare così, allo sbaraglio non c’era niente da fare, eravamo in sei, c’eravamo preparati alla fuga: dunque in ufficio lì al campo c’era uno che distribuiva, di nascosto tutti i permessi e poi li caricavamo noi, allora abbiamo caricati ‘sti permessi e siamo scappati. Il problema è stato quando siamo arrivati al Po perché arrivati al Po bisognava attraversarlo... eh, c’erano la Milizia o i tedeschi... ci siamo presentati lì da ‘sti militi ci abbiamo fatto vedere ‘sti permessi e ci hanno portato di là dal fiume. No, abbiamo avuto una grande fortuna, eh! E poi finalmente dopo peripezie alla notte abbiamo dormito in stalle dove c’erano anche dei tedeschi perché era così, quella era la vita e siamo riusciti ad arrivare a Mirandola dove a Mirandola abbiamo trovato un carro che ci ha portati a Modena. A Modena ci siamo fatti scaricare prima perché a Modena potevamo essere conosciuti, siamo andati a casa da degli amici che c’erano i quali hanno avuto una paura tremenda e allora abbiamo detto: “No, state tranquilli che andiamo via subito. Dateci da mangiare e poi andiamo”; difatti siamo partiti e siamo andati in montagna un’altra volta. Arrivati a Ligorzano ci vediamo circondati dai partigiani, ma guardi che è una cosa pazzesca da raccontare però è così. Allora a questi qui ci ho detto: “Guardate che noi siamo così, così, così ... io sono Sacerdoti... eravamo partigiani abbiamo fatto questo e quello, siamo stati presi ...”; fortunatamente c’era uno che dice: “Ma io so dov’è sua mamma!”. [...] Poi siamo ritornati nei partigiani che siamo stati un altro periodo in formazione e poi siamo arrivati vicino a San Pellegrino d’Alpe e lì abbiamo poi attraversato il fronte che abbiamo preso il canalone, con una guida che ci ha portati su alla notte, abbiamo girato tutta la notte, con della neve, giù nel canalone e siamo arrivati a Barga e ci hanno fermato: “Mani in alto”, abbiamo consegnato le armi, non vedevamo nessuno, era un negro, però non hanno sparato, potevano anche sparare, non hanno sparato perché sapevano che di lì passavano tutti i partigiani. E da lì, da Barga ci siamo fermati, che ci hanno rifocillato, siamo stati bene, trattati sempre bene, dopo ci hanno chiesto se volevamo tornare perché il Comando generale era Lizzano in Belvedere. [...] Siamo rimasti di là e abbiamo preso contatti con la Comunità ebraica di Lucca, quindi c’erano gli inglesi che ci aiutavano perché ci hanno dato dei soldi gli inglesi a noi ebrei. [...] Adesso siamo rimasti in pochi anche perché molti giovani vanno in Israele, io però la penso diversamente. Io non ho mai voluto andare in Israele. Mai. Io le dico una cosa e difatti i fatti mi danno ragione. Se tutti gli ebrei si fossero radunati in Israele saremmo morti. Avremmo perso la forza che abbiamo. Perché, essendo in tutto il mondo ci possiamo aiutare. Da tutte la parti del mondo collaborano per dare un aiuto a Israele e invece molti hanno piacere di andare là, ma secondo me è uno sbaglio. [...] Voi immaginavate che cosa succedeva alle persone che venivano deportate in Germania? Dio, in un primo tempo no. In un secondo tempo si è cominciato a pensare a delle cose poco belle e allora abbiamo detto qui bisogna fuggire perché non si sa come si va a finire, ma ormai noi eravamo già troppo avanti: quando abbiamo pensato di scappare, non si riusciva più ad andare in Svizzera, perché ti prendevano di sicuro... e allora abbiamo deciso
Deportati e rastrellati. Quindici interviste
373
di andare in montagna... perché ormai era chiaro che se ci avessero preso ci avrebbero deportati, poi ci siamo ancora convinti di più che era meglio morire con un’arma in mano che rimanere proprio presi così come stupidi, e allora siamo andati in mezzo ai partigiani, ecco!
Parte seconda DEPORTAZIONE E INTERNAMENTO MILITARE IN GERMANIA LE PROVINCE DI MODENA E REGGIO EMILIA Modena-Carpi 14-15 ottobre 1999
DEPORTAZIONE E INTERNAMENTO NOTE INTRODUTTIVE di Giorgio Rochat
Questo convegno presenta e studia vicende italiane parallele, ma pure diverse: la deportazione degli ebrei e degli antifascisti verso i campi di sterminio del Reich, la prigionia di circa 650.000 militari italiani, il trasferimento coatto in Germania di civili inviati al lavoro forzato. Queste vicende hanno elementi comuni dominanti. Il tempo innanzi tutto, dal momento del crollo italiano dell’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, i 20 mesi di occupazione tedesca di buona parte dell’Italia. Soprattutto la barbarie nazista, che perseguiva lo sfruttamento, l’umiliazione e la morte dei vinti con una violazione consapevole delle leggi della guerra e dell’umanità, nel quadro di un programma scientifico di distruzione che coinvolse milioni di uomini e donne. Infine il lager, che apriva la via a destini molto diversi, ma costituiva per tutti una dimensione di sopravvivenza coatta, precaria, sofferta e umiliata, che domina la memoria dei sopravvissuti. In questo quadro si registrano però differenze profonde. In primo luogo le cause della deportazione. Per gli ebrei, il solo fatto di essere ebrei, di appartenere a una minoranza religiosa che il nazismo aveva classificato come categoria da eliminare, senza altro motivo che la follia di morte di un regime che voleva dominare il mondo. Per gli antifascisti, la scelta di combattere il nazifascismo, attraverso destini individuali diversi, dal militante politico attivo nella resistenza al ragazzo che aveva osato un gesto di protesta. Per i soldati fatti prigionieri all’8 settembre, il bisogno di schiavi che lavorassero per la macchina bellica tedesca, ma anche l’esigenza di fornire uomini allo stato fantoccio di Mussolini. Per i civili rastrellati secondo dinamiche largamente casuali, an-
378
G. ROCHAT
cora la necessità di alimentare i milioni di schiavi necessari per la continuazione della guerra nazista. Diversi poi i destini programmati. Gli ebrei e gli antifascisti deportati erano condannati a morte, una morte da raggiungere attraverso l’esaurimento fisico prodotto dalla fame, dai maltrattamenti, dal lavoro in condizioni disumane, entro un termine di poche settimane o pochi mesi. Per i militari prigionieri e i civili rastrellati la morte non era programmata perché il loro destino era il lavoro coatto, ma era pur sempre in agguato perché questi schiavi valevano poco per i tedeschi, che non si curavano di dare loro condizioni di sopravvivenza sufficienti e per risparmiare il personale di custodia ricorrevano a un regime terroristico che arrivava fino all’assassinio. Anche le situazioni concrete potevano variare: il quadro erano sempre l’oppressione e lo sfruttamento, ma un lavoro meno distruttivo o un vitto meno insufficiente (era il caso di chi era assegnato a lavori agricoli) potevano garantire una sopravvivenza meno precaria. Un altro elemento di diversità è molto più difficile da trattare, a livello di schemi generali come di studi: le reazioni individuali dei deportati. Per quanto riusciamo a sapere, la rezione dominante fu l’incapacità di capire le ragioni e le dimensioni della barbarie nazista — da parte degli ebrei che non potevano comprendere che il solo fatto di essere ebrei li condannasse alla morte, come da parte dei civili prelevati quasi a caso per il lavoro coatto per il Reich o dei soldati che da prigionieri erano ridotti a bestie da soma. Forse soltanto gli antifascisti che avevano maturato una piena consapevolezza della barbarie nazifascista potevano aspettarsi un trattamento di vendetta. Nessuno poteva però immaginarsi una realtà così allucinante come il lager con i suoi infiniti orrori e un programma di depersonalizzazione, di privazione non solo della vita ma della dignità di uomini. Pur nella varietà di situazioni che abbiamo accennato, la deportazione nel Reich nazista era qualcosa di così mostruoso da schiacciare le possibilità di reazione — e che rimane impossibile da comprendere appieno anche per noi che la studiamo. E tuttavia le reazioni ci furono, tutte le testimonianze dei sopravvissuti dicono che uno stimolo necessario alla lotta per la vita venne dai rapporti di solidarietà che malgrado tutto si stabilivano nei lager, precari e indispensabili. Per ragioni di brevità e di competenza accenno soltanto alle reazioni dei 650.000 militari
Deportazione e internamento. Note introduttive
379
fatti prigionieri all’8 settembre, subito sottoposti a un trattamento brutale e umiliante e pur capaci di difendere la loro dignità di uomini e di soldati. Caso unico nella storia della prigionia e della deportazione, costoro ebbero la possibilità di uscire dai lager in cambio dell’adesione alla Repubblica di Mussolini e in forte maggioranza la rifiutarono, optando per la fame e il lavoro forzato. La loro resistenza al nazifascismo fu resa possibile dai legami di solidarietà che si crearono in tutti i lager, pur attraverso crisi e debolezze individuali.1 Una vicenda assai diversa da quella degli ebrei e degli antifascisti avviati alla morte e dei civili deportati per il lavoro coatto, ma che attesta la sopravvivenza di valori e rapporti umani anche nell’inferno dei lager. Sono molto diverse anche le dimensioni della deportazione. Circa 44-45.000 deportati per morire nei lager (dove infatti caddero per il 90 per cento), di cui 7.000 ebrei, gli altri antifascisti attivi nell’organizzazione della resistenza, per metà partigiani non fucilati dopo la cattura. Circa 650.000 militari giunti nei lager dei Reich dopo l’8 settembre, di cui scelsero la repubblica di Mussolini forse il 10 per cento dei soldati e il 30 per cento dei 30.000 ufficiali, come risulta dalle accurate ricerche di Claudio Sommaruga. Non ho invece dati sui civili rastrellati per il lavoro coatto in Germania, una categoria praticamente dimenticata. Ritroviamo un elemento comune a tutte queste vicende nella difficoltà del ritorno, l’incapacità dei reduci di riuscire a comunicare la tragica esperienza dei lager e insieme la delusione per la scarsa attenzione del paese per le loro sofferenze. Le differenze tornano invece se guardiamo ai decenni successivi; la memoria della deportazione razziale e politica ha acquisito una forza e una diffusione notevoli, anche se oggi il carattere internazionale e le dimensioni terrificanti del genocidio ebraico portano a lasciare in secondo piano le sorti della deportazione degli antifascisti. L’attenzione per i 650.000 militari nei lager è stata scarsa fino agli anni ‘80, poi ha conosciuto una forte ripresa di studi, memorie e
1 Come indicazione per difficili ricerche comparative, si può ricordare che i 600.000 militari italiani prigionieri di austriaci e tedeschi nella prima guerra mondiale in condizioni durissime ebbero perdite assai più alte dei prigionieri nei lager nazisti in condizioni altrettanto dure (100.000 morti contro 40.000). Si può supporre che sulla mortalità del 1915-1918 incidesse la crisi morale di prigionieri dimenticati e ripudiati dalla patria, che non potevano difendere una loro dignità di uomini e di soldati come i prigionieri del 1943-1945? Un interrogativo non facile da risolvere.
380
G. ROCHAT
cerimonie. Nullo fino a oggi l’interesse per i civili lavoratori coatti, mi rallegro che finalmente se ne parli in questo convegno.
GLI ITALIANI IN GERMANIA 1938-1945 UN UNIVERSO COMPLESSO E RICCO DI SFUMATURE di Brunello Mantelli
Una premessa: “deportazione” e “deportati”. Per una definizione del concetto Nel periodo che va dalla crisi dell’estate 1943 alla Liberazione circa ottocentomila italiani (nella stragrande maggioranza maschi, ma non mancarono alcune migliaia di donne) vennero trasferiti (per la quasi totalità a forza) nel territorio del Terzo Reich. Lì i loro destini si incrociarono con quelli di altri centomila connazionali, giunti in Germania negli anni precedenti (dal 1938 in poi) sulla base di intese intergovernative tra Roma e Berlino, ma ormai — dopo il 25 luglio 1943 — trattenuti contro la loro volontà dalle autorità nazionalsocialiste. Dal maggio 1945, crollato il regime nazista e conclusasi la guerra in Europa, questi novecentomila esseri umani, o meglio quelli di loro che erano ancora in vita, condivisero le traversie di un lento e difficile ritorno in una patria che spesso era poco interessata ad ascoltare le loro vicende, tra loro per altro assai diversificate, ed a farle diventare parte integrante della storia nazionale. Fu così che nella pubblica opinione si diffuse un uso generico dei termini “deportati” e “deportazione”, divenuto quest’ultimo sinonimo di trasferimento coatto dall’Italia occupata alla Germania; successivamente la circolazione di notizie sul sistema concentrazionario nazista e la diffusione dei nomi di alcuni dei suoi campi (in particolare Auschwitz, Dachau, Mauthausen — storpiato quest’ultimo di frequente in Italia in “Mathausen”, pronunciato scorrettamente il secondo “Dachàu” e non “Dàchau”) provocarono una seconda — e più grave — deformazione concettuale: tutti coloro che erano stati “deportati” (nel significato estensivo a cui ho accennato) avrebbero conosciuto i Lager (termine tedesco — sta per “deposito” — entrato nell’uso
382
B. MANTELLI
comune dopo la seconda guerra mondiale ed utilizzato scorrettamente come sinonimo di Konzentrationslager, abbreviato KL o KZ, cioè “campo di concentramento”); di conseguenza, si originò un corto circuito in base al quale si presumeva che chiunque fosse stato in Germania dall’autunno del 1943 alla fine della guerra avesse conosciuto gli orrori del KL; inoltre (ulteriore inesattezza), quest’ultimo era inteso come immediatamente identico a “campo di sterminio”. Vale perciò la pena, prima di entrare nel vivo della ricostruzione storica, dedicare un po’ di spazio alla precisazione del concetto stesso di “deportazione”. Come si è detto in precedenza, dei circa novecentomila italiani ed italiane presenti in territorio tedesco negli ultimi venti mesi della Seconda guerra mondiale, solo ottocentomila vi erano stati trasferiti dopo l’8 settembre 1943; gli altri centomila erano arrivati prima, in seguito agli accordi economici bilaterali che avevano previsto l’invio nel Reich di manodopera agricola ed industriale italiana (complessivamente, dal 1938 al 1943, circa cinquecentomila lavoratori — uomini e donne — erano stati assorbiti dall’economia di guerra tedesca. Il 27 luglio Heinrich Himmler, nella sua qualità di capo della polizia tedesca, bloccò i rimpatri di coloro che erano ancora al lavoro in Germania). Lo status degli operai e dei braccianti italiani precipitò a quello di lavoratori coatti. I membri di questo gruppo non possono in alcun modo essere definiti “deportati” anche nel senso più estensivo possibile, in quanto il loro trasferimento nel Reich non fu attuato tramite misure coattive. Gli altri ottocentomila potrebbero invece (con un’eccezione, sia pur numericamente esigua, di cui dirò oltre) essere considerati tali, tuttavia la loro collocazione all’interno delle complesse articolazioni del sistema nazionalsocialista e della sua multiforme attrezzatura concentrazionaria fu talmente diversificata (e, dal cruciale punto di vista della sopravvivenza, la loro sorte fu così disomogenea) da far diventare la categoria di “deportazione” troppo generica, e perciò di scarsa utilità analitica e conoscitiva. Il gruppo più numeroso all’interno degli ottocentomila era rappresentato dagli internati militari italiani (abbreviato in IMI), termine affibbiato dalle autorità militari e politiche del Terzo Reich a ufficiali, sottufficiali e soldati delle forze armate del Regno d’Italia catturati dalla Wehrmacht nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, in territorio metropolitano, nella Francia
Gli italiani in Germania 1938-1945
383
meridionale e nei Balcani. Classificandoli in tal modo, invece che — come di consueto — “prigionieri di guerra“ (Kriegsgefangenen), Berlino poté sottrarli al patrocinio della Croce rossa internazionale (CICR) di Ginevra e nello stesso tempo mantenere in vita con maggior spessore simbolico l’idea dell’Asse tra le due maggiori potenze fasciste (Germania ed Italia, quest’ultima sotto le vesti della RSI). Gli IMI, in tutto seicentocinquantamila, vennero detenuti fino all’agosto 1944 in campi di prigionia militare dipendenti dalle regioni militari (Wehrkreise) in cui era suddiviso il Reich; gli ufficiali nei cosiddetti Oflager (campi per ufficiali), i sottufficiali e i soldati nei cosiddetti Stammlager (campi-madre). Nell’agosto 1944 gli IMI vennero trasformati, con atto d’imperio, in lavoratori civili coatti, e vennero trasferiti nei cosiddetti Arbeiterlager (campi per lavoratori stranieri, sottoposti ad un regime di coazione). I campi di prigionia militare erano sottoposti all’autorità del comando supremo delle forze armate tedesche (Oberkommando der Wehrmacht, abbreviato in OKW) e non avevano nulla a che fare (come del resto quelli per lavoratori stranieri, di cui si dirà più oltre) con i KL, che dipendevano invece dall’apparato SS, ormai strettamente intrecciato con le strutture di polizia dello Stato (dal 1936 Heinrich Himmler era infatti sia comandante supremo della SS, sia capo della polizia tedesca; nell’agosto 1943 sarebbe diventato anche ministro degli Interni). Oltre il novanta per cento degli IMI riuscì a sopravvivere alla prigionia: i caduti furono circa quarantamila. A mio parere è più corretto e più utile analiticamente definire la loro vicenda “internamento militare”, e riferirsi a loro con il termine IMI. Un secondo gruppo, di circa centomila, comprende i lavoratori portati in Germania dopo l’8 settembre 1943; di costoro un piccolo nucleo (alcune migliaia) aveva accettato le proposte di assunzione nel Reich propagandate dagli uffici aperti nell’Italia occupata dal Plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera (Generalbevollmächtigter für den Arbeitseinsatz, abbreviato in GBA) Fritz Sauckel, perciò nel suo caso non si può parlare di coazione diretta. Gli altri (la maggioranza) furono catturati durante rastrellamenti operati dalle unità tedesche e dagli apparati armati di Salò nelle retrovie del fronte o nel corso di azioni antipartigiane e vennero trasferiti in Germania per essere utilizzati nella produzione di guerra come lavoratori coatti. Giunti a destinazione, furono alloggiati negli Arbeiterlager, dipendenti di norma dalle
384
B. MANTELLI
imprese che li impiegavano oppure dagli Uffici del lavoro (Arbeitsämter). Mi pare che per definirli sia corretto servirsi dei concetti di “rastrellati” e “lavoratori coatti”. Un terzo e numericamente più ridotto gruppo, di circa quarantamila persone in tutto, comprende infine coloro che vennero deportati dall’Italia avendo come destinazione il sistema concentrazionario nazista vero e proprio, dipendente dalla struttura SS. Di loro appena il dieci per cento (circa quattromila) riuscì a sopravvivere. Ritengo opportuno attribuire solo a questo gruppo l’appellativo di “deportati”, restringendo perciò il senso del termine “deportazione” a quello di “deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti”. In tal modo è possibile collocare al posto giusto ogni tassello del quadro generale, assai complesso, che raccoglie le vicende degli italiani e delle italiane trasferiti coattivamente in Germania nel periodo successivo all’armistizio. Due ulteriori precisazioni si impongono: prima di tutto la categoria “deportazione”, così come ho cercato ora di definirla, deve essere in realtà scomposta ulteriormente, poiché il sistema concentrazionario nazista era diventato, dalla seconda metà del 1941 in poi, la somma di due distinti apparati governati da logiche differenti. Al sistema dei KL, avviatosi nel 1933 con Dachau e poi sviluppatosi negli anni successivi (parossisticamente dal 1939 in poi) con l’obiettivo di mettere fuori gioco e tendenzialmente eliminare oppositori politici (dal 1933), non conformisti e potenziali oppositori sociali (dal 1936), persone in grado di coagulare resistenza nel territori occupati dalla Wehrmacht (dal 1939), si aggiunse il sistema dei campi di sterminio (Vernichtungslager, abbreviato VL), pensati come installazioni deputate ad eliminare fisicamente in massa ed in tempi brevi gli ebrei d’Europa. I VL erano concepiti sul modello dei KL; amministrativamente legati ad essi, ne differivano però per finalità e funzionamento. Collocati tutti (erano complessivamente sei) in territorio polacco occupato, quattro VL (Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka) funzionarono fino al 1943, quando vennero chiusi (Chelmno venne riaperto brevemente nell’estate del 1944 allo scopo di uccidere gli ebrei ancora in vita del ghetto di Lodz, gli altri tre furono smantellati subito dopo la chiusura); degli altri due Majdanek (piazzato all’interno del KL omonimo nei pressi di Lublino) operò soltanto nell’estate del 1942, Auschwitz II (cioè Birkenau, che era una sezione del gigantesco KL di Auschwitz) continuò invece la sua atti-
Gli italiani in Germania 1938-1945
385
vità sterminatrice fino alla fine di gennaio 1945, quando il campo fu liberato dalle truppe sovietiche. Tra i quarantamila deportati italiani occorre perciò distinguere tra i circa diecimila ebrei gettati nelle spire della “soluzione finale” e perciò mandati in gran parte (circa ottomila, di cui meno di quattrocentocinquanta i sopravvissuti) ad Auschwitz (dove nei mesi precedenti il genocidio era stato centralizzato), mentre i restanti finirono — per motivi che esamineremo più oltre — in KL (Bergen Belsen, Ravensbrück, Buchenwald, Flossenbürg); e gli altri trentamila che, classificati dagli occupanti e dai loro alleati fascisti repubblicani tra gli oppositori politici o sociali, vennero inviati in KL (Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Ravensbrück, Flossenbürg). In secondo luogo, la distinzione che ho proposto tra lavoratori coatti rastrellati, IMI, e deportati ha in qualche misura anche un carattere idealtipico: è necessario non confondere vicende e percorsi tra loro molto diversi, ma anche tenere presente da un lato che il confine tra una categoria e l’altro poteva essere, in casi particolari, non così netto (ci furono per esempio campi di punizione per internati militari non disposti a collaborare in alcun modo e campi di punizione per lavoratori riottosi che erano ben poco differenti dai KL), dall’altro che vicende di vario genere (dal comportamento personale giudicato ostile dai carcerieri, a scelte attuate dalle autorità naziste per motivi di carattere assolutamente estraneo alla vita del campo) potevano far sì che il lavoratore coatto o l’internato militare finisse in KL.
Excursus A: il sistema concentrazionario nazista nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale. Com’è noto, solo dopo l’8 settembre 1943 l’Italia fu coinvolta appieno nel sistema concentrazionario nazista, che dalla sua costituzione coeva al regime si era profondamente trasformato. Non soltanto dal 1941 ai KL si sarebbero affiancati i VL, ma con lo scoppio della guerra il numero dei deportati in KL sarebbe paurosamente aumentato; si sarebbe passati dai trentamila circa del periodo 1933-1937, quando a finire in campo erano essenzialmente tedeschi antinazisti, ai sessantamila registrati nel 1941 (tra cui numerosi stranieri e tedeschi arrestati semplicemente perché giudicati dalla polizia “asociali”, troppo critici verso Hitler ed i
386
B. MANTELLI
suoi paladini, colpevoli di scarso rendimento nel lavoro), ai centoventitremila del gennaio 1943 che sarebbero diventati duecentoventiquattromila sette mesi dopo e ben cinquecentoventiquattromila dopo altri dodici mesi per poi toccare la punta di settecentocinquantamila nel gennaio 1945 (si tenga conto, per meglio valutare queste cifre, che la mortalità annuale, calcolata sugli otto principali KL e naturalmente escludendo dal computo i VL, fu del quarantasei per cento). È dal 1943 che i KL diventarono la babele di lingue e nazionalità descrittaci da Primo Levi nelle sue opere, e fu dall’anno precedente — in conseguenza del prolungarsi della guerra e dell’acuta carenza di manodopera che afflisse in misura via via crescente l’economia di guerra del Terzo Reich — che l’apparato SS prese in seria considerazione l’idea di servirsi dei deportati come di una grande riserva di braccia a bassissimo costo. Fino ad allora infatti nei KL il lavoro aveva avuto un carattere essenzialmente afflittivo, ancorché — dal 1938 — la SS avesse costituito proprie imprese economiche che utilizzavano come lavoratori schiavi proprio i KL-Häftlinge (denominazione ufficiale dei deportati). Si trattava però essenzialmente di mansioni di fatica in attività di scavo, sterro, sfruttamento di cave e così via. Nel 1942 invece all’ordine del giorno era impiegare i deportati nella produzione industriale, appaltandoli alle imprese private che avevano ricevuto commesse dallo Stato e che — per sfuggire ai bombardamenti alleati — stavano dislocando le loro officine fuori dalle aree urbane, non di rado privilegiando le zone rurali attorno ai KL. Non per caso il 1° marzo 1942 Heinrich Himmler aveva disposto la costituzione dell’Ufficio centrale della SS per le questioni economiche ed amministrative (Wirtschafts und Verwaltungshauptamt, abbreviato WVHA), alla cui testa avrebbe collocato, il 16 seguente, il generale della SS Oswald Pohl. Nello stesso mese al neocostituito WVHA sarebbe stato sottoposto l’Ispettorato per i campi di concentramento, ufficio SS da cui dipendevano la gestione e l’organizzazione della rete dei KL. Il 30 aprile successivo Pohl avrebbe diramato a tutti i comandanti dei campi una lettera circolare in cui fissava le linee dell’impiego nel lavoro dei deportati; in essa si raccomandava di sfruttarne il più possibile e senza alcun limite le capacità produttive. In tal modo veniva codificata la prassi di “annientamento mediante il lavoro” (Vernichtung durch Arbeit), considerate le condizioni abitative e di (sotto)alimentazione degli ospiti dei campi di concentramento. Sa-
Gli italiani in Germania 1938-1945
387
rebbe stato in applicazione della stessa logica che, un anno più tardi, sarebbero stati chiusi i quattro VL dove gli ebrei deportati erano uccisi indiscriminatamente, a prescindere dalla loro età e dalle loro condizioni di salute. Da allora in avanti il luogo del genocidio sarebbe stato Auschwitz, dove si sarebbe provveduto ad un’accurata selezione convoglio dopo convoglio, separando chi era destinato all’eliminazione immediata perché giudicato non idoneo a produrre (vecchi, bambini, donne incinte, malati, ecc.) da chi invece appariva in possesso di sufficienti forze per essere — almeno per qualche mese — utilizzato come lavoratore schiavo. È in questo sistema concentrazionario trasformato in un’immensa riserva di braccia praticamente gratuite (per la SS) che giunsero i deportati dall’Italia.
Excursus B (assai meno noto): il sistema concentrazionario fascista Il fatto che il fascismo mussoliniano non abbia costruito una rete di campi di concentramento paragonabile a quella nazionalsocialista e — ancor di più — non abbia attuato misure di annientamento così radicali come quelle messe in pratica dal Terzo Reich ha contribuito in misura decisiva a far passare in secondo piano sia le responsabilità del fascismo salodiano nella deportazione degli ebrei verso Auschwitz e di coloro che erano classificati come oppositori politici verso i KL, sia l’esistenza di un apparato concentrazionario edificato dal regime monarchico fascista nell’ultimo periodo della sua ventennale esistenza. Eppure esso giocò un ruolo importante nella deportazione propriamente detta: non pochi dei campi di concentramento in funzione prima dell’8 settembre 1943 vennero riutilizzati; da alcuni di essi — come vedremo — partirono i primi trasporti diretti oltre Brennero; infine, le strutture e gli apparati predisposti in precedenza si dimostrarono ottimi supporti per gli occupanti e per i loro alleati di Salò. Dal giugno 1940 all’agosto del 1943 il ministero degli Interni aveva disposto l’apertura di oltre cinquanta campi di concentramento; circa la metà era collocata nelle Marche e negli Abruzzi, regioni montagnose e mal collegate e perciò considerate particolarmente idonee, gli altri si trovavano in Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Lucania, Calabria e nelle isole
388
B. MANTELLI
di Lipari, Ponza, Tremiti, Ustica e Ventotene.1 Negli anni 1941 e 1942 entrarono inoltre in funzione numerosi campi di concentramento dipendenti dalle autorità militari, situati per la quasi totalità nell’Italia centrosettentrionale.2 Nella rete del ministero degli Interni furono rinchiusi oppositori politici, ebrei stranieri (circa seimilacinquecento nel 1943), ma anche ebrei italiani giudicati come particolarmente pericolosi per motivi politici o sociali; nel maggio 1940, infatti, il ministero indirizzò alle prefetture due circolari in cui sollecitava la compilazione di elenchi di cittadini “di razza ebraica” da internare, disposizione che venne prontamente eseguita. Ad essere rinchiusi nei campi gestiti dai militari (di per sé la cosa era contraria alle disposizioni in vigore, che sancivano essere l’internamento competenza esclusiva del ministero degli 1 Al sistema concentrazionario gestito dal Regio Ministero degli Interni dell’Italia monarchico-fascista appartenevano i seguenti campi: Montechiarugolo (Parma); Scipione di Salsomaggiore (Parma); Bagno a Ripoli (Firenze); RovezzanoMontalbano (Firenze), Civitella della Chiana (Firenze), Fabriano (Ancona); Sassoferrato (Ancona); Urbisaglia (Macerata); Petriolo (Macerata); Pollenza (Macerata); Treia (Macerata); Colfiorito-Foligno (Perugia); Castel di Guido (Roma); Ponza (Littoria); Ventotene (Littoria); Farfa Sabina (Rieti); Civitella del Tronto (Teramo); Corropoli (Teramo); Isola del Gran Sasso (Teramo); Nereto (Teramo); Notaresco (Teramo); Tortoreto (Teramo); Tossicia (Teramo); Città Sant’Angelo (Pescara); Chieti (Chieti); Casoli (Chieti); Istonio (Chieti); Lama dei Peligni (Chieti); Lanciano (Chieti); Tollo (Chieti); Agnone (Campobasso); Boiano (Campobasso); Bonefro (Campobasso); Casacalenda (Campobasso); Isernia (Campobasso); Vinchiaturo (Campobasso); Ariano Irpino (Avellino); Monteforte Irpino (Avellino); Solofra (Avellino); Campagna (Salerno); Manfredonia (Foggia); Tremiti (Foggia); Alberobello (Bari); Gioia del Colle (Bari); Pisticci (Matera); Montalbano Jonico (Matera); Ferramonti di Tarsia (Cosenza); Lipari (Messina); Ustica (Messina); cfr. C. Spartaco Capogreco, L’internamento degli ebrei stranieri ed apolidi dal 1940 al 1943: il caso di Ferramonti di Tarsia, in Italia Judaica. Gli ebrei nell’Italia unita 1870-1945, Roma 1993, tabella a p. 565. 2 La rete dei campi gestiti dalle autorità militari comprendeva le seguenti strutture: Na Kapeli (Gorizia); Sdraussina (Gorizia); Cinghino di Tolmino (Gorizia); Tribussa Inferiore (Gorizia); Gorizia (Gorizia); Podgora (Gorizia); Visco (Udine); Monigo (Treviso); Chiesanuova (Padova); Grumello (Bergamo); Cairo Montenotte (Cuneo); Campiello (Mantova); Rocca di Spoleto (Perugia); Monteleone di Spoleto (Perugia); Fraschette (Frosinone); Alatri (Frosinone); Fabriano (Ancona); Pollenza (Macerata); Sforzacorta (Macerata); Urbisaglia (Macerata); Renicci di Anghiari (Arezzo); Avezzano (L’Aquila); Celano (L’Aquila); Servigliano (Ascoli Piceno); Nereto (Teramo); Pisticci (Matera); Montalbano Jonico (Matera); Gioia del Colle (Bari); Trani (Bari); Altamura (Bari); Tremiti (Foggia); Manfredonia (Foggia); Oria (Brindisi); Pulsano (Taranto); Grottaglie (Taranto); Lecce (Lecce); Gallipoli (Lecce); Paola (Cosenza); Belvedere Spinello (Catanzaro); Lipari (Messina); Siracusa (Siracusa); Caltanissetta (Caltanissetta); Monreale (Palermo); Butera (Caltanissetta); Monte d’Oro (Nuoro); San Gavino (Nuoro); Castiadas (Cagliari); Inglesiente (Nuoro); Olbia (Sassari); Porto Torres (Sassari); Chilivani (Sassari); Alghero (Sassari); Elmas (Cagliari); Golfo Aranci (Sassari); Vena Fiorita (Sassari); Santa Teresa di Gallura (Sassari); Poetto (Cagliari); Badde Salighes (Nuoro); Sanluri (Cagliari); ad esse si aggiungevano analoghe installazioni nel territori balcanici occupati: tra le più note (e famigerate) quella dell’isola di Rab (in italiano Arbe), che aveva una capacità di 15.000 deportati. Cfr. L. Ricciotti, La Decima Mas, Milano 1984, pp. 293-294.
Gli italiani in Germania 1938-1945
389
Interni, ma ciò non impedì affatto al ministero della Guerra di costruire una propria rete concentrazionaria) furono quasi esclusivamente civili slavi, provenienti sia dai territori jugoslavi occupati, sia dall’Istria, dove si sviluppò molto presto un considerevole movimento partigiano. Solo dalla cosiddetta provincia di Lubiana (la porzione di Slovenia annessa al Regno d’Italia) furono circa venticinquemila i deportati nel sistema concentrazionario fascista; tra i campi più noti quello di Gonars, in Friuli, e quello — terribile — di Rab, nell’isola omonima (in italiano Arbe), dove furono internati anche ebrei jugoslavi. Come per altri aspetti, anche per quanto riguardava il sistema concentrazionario fascista il 25 luglio 1943 fu ben lungi da segnare una svolta; oltre a mantenere in vigore le leggi razziste del 1938 il governo Badoglio non toccò la legislazione sull’internamento, limitandosi a disporre (con una circolare emanata dal capo della polizia Carmine Senise il 29 luglio) la liberazione dei reclusi ad esclusione dei comunisti, degli anarchici, e degli “allogeni” (cioè degli slavi) della Venezia Giulia e dei territori (jugoslavi) occupati, nonché di quegli italiani ebrei che avessero “svolto attività politica” o avessero commesso “fatti [di] particolare gravità”, formula come si vede ben lungi dall’essere chiara. Per quanto riguarda gli ebrei stranieri ogni decisione fu rinviata, e quando la loro liberazione fu decisa era troppo tardi: il telegramma giunse alle prefetture solo il 10 settembre 1943… All’annuncio dell’armistizio alcuni campi aprirono i loro cancelli, altri invece continuarono l’attività; tutto dipese dalle scelte dei direttori. Al 26 novembre 1943 risultavano ancora funzionanti dodici delle installazioni concentrazionarie fasciste costruite nel corso della guerra: Fabriano, Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Notaresco, Tossiccia, Fraschette di Alatri, Civitella della Chiana, Montalbano di Rovezzano, Bagno a Ripoli, Scipione di Salsomaggiore. Se ne aggiunsero, come vedremo, numerosi altri, a quel punto con la funzione non più di luogo di detenzione, ma di struttura di transito verso la rete dei KL e — per gli ebrei — verso il KL-VL di Auschwitz.
L’emigrazione organizzata di braccia italiane nell’ambito dell’Asse 1938-1943 Alla metà di aprile 1937 giunge all’Ambasciata italiana di Berlino la richiesta da parte tedesca di assumere un piccolo contin-
390
B. MANTELLI
gente di braccianti, 2.500 in tutto. Le autorità del Reich preferirebbero venissero dal Sudtirolo. È poca cosa, ma l’Italia ha circa 150.000 disoccupati nel settore agricolo,3 e perciò conviene alle autorità aderire all’invito nella speranza, l’anno successivo, di poter aumentare il contingente con braccianti provenienti dalle regioni più colpite dalla disoccupazione (Veneto, Emilia). Il 28 luglio si giungerà ad un primo accordo, poi integrato da un protocollo addizionale il 3 dicembre successivo;4 si conviene che “nell’anno 1938 la cifra dei lavoratori potrà raggiungere il numero di 10.000 e fino a quello di 30.000”. Nel 1938 partirono 31.071 braccianti,5 che divennero 36.000 nel 1939; dal 1940 il totale annuale si stabilizzò attorno alla cifra di 50.000. Nel 1943 non si ebbero partenze. Accanto ai braccianti, il Terzo Reich chiede all’alleato italiano anche edili e minatori.6 Dei primi, dall’autunno del 1938 a tutto il 1939, ne passeranno il Brennero 9.500, 3.000 destinati alla costruzione delle officine Volkswagen a Fallersleben, gli altri diretti a Salzgitter, dove è aperto il cantiere della grande acciaieria della Hermann-Göring-Werke. La questione dei minatori resta per il momento in sospeso; sarà ripresa più avanti. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra. Obiettivo iniziale del gruppo dirigente di Roma è condurre una “guerra parallela”7. Le velleità del regime devono però ridimensionarsi in fretta, visti i rovesci militari sia nell’Africa del Nord sia in Grecia: in entrambi i casi solo l’intervento di forze tedesche evita la sconfitta. Alla dirigenza nazionalsocialista diviene chiaro che l’alleato mediterraneo è di scarsa utilità dal punto di vista militare ma richiede enormi rifornimenti in materie prime e carbone. Conviene, quindi, cerca-
3 Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in poi ASMAE), Roma, Affari Politici (d’ora in poi AP), b. 40, verbale del 22 luglio 1937. 4 Si veda, in proposito, A. Dazzi (a cura di), Accordi fra l’Italia e la Germania in materia di lavoro e assicurazioni sociali 1937-1942, Roma 1942, pp. 9 e ss.; inoltre ASMAE, AP, b. 40, nonché Bundesarchiv (d’ora in poi BA), Berlin, Reichsnährstand, R 16, bb. 167-168, e Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes (d’ora in poi PA/AA), R V, AR 11, Italien/1. 5 Cfr. Rurali di Mussolini nella Germania di Hitler, Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura, Ufficio Propaganda, Roma 1939. 6 Si vedano le note dell’Ambasciata tedesca di Roma, in PA/AA, Bonn, Botschaft Rom-Quirinal, W 1a/1. 7 Rinvio a E. Collotti, L’Italia dall’intervento alla “guerra parallela” in F. Ferratini TosiG. Grassi-M. Legnani (a cura di), L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Milano 1988, pp. 15-43.
Gli italiani in Germania 1938-1945
391
re di utilizzarne al massimo il potenziale produttivo, in modo particolare per quanto riguarda la manodopera. È così che, all’inizio del 1941, arrivano alle autorità fasciste richieste consistenti e dettagliate: nel gennaio si discute l’assunzione di 54.000 lavoratori industriali (edili e minatori, questi ultimi destinati alla Ruhr); pochi giorni dopo le trattative si riaprono su una richiesta tedesca di altri 200.000 lavoratori industriali; le autorità italiane ne offrono in tutto 150.000, così suddivisi: 50.000 dell’industria metallurgica, siderurgica, meccanica, 30.000 da altri settori ma suscettibili di essere impiegati in quei tre rami, 70.000 da altre branche produttive. Ed ancora non basta: con una nota del 19 giugno successivo il governo del Reich chiede altri 100.000 operai industriali.8 Roma non può che acconsentire; viene così messo in piedi un complicato meccanismo di estrazione di manodopera dalle fabbriche, gestito congiuntamente dal ministero delle Corporazioni, da quello dell’Interno e dalla CFLI. Provincia per provincia, gli Ispettorati Corporativi e le Prefetture invitano ogni industria a fornire un elenco di tutti i dipendenti; su questa base verrà richiesto ad ogni azienda di fornire una quota proporzionale di lavoratori da mandare in Germania, se possibile [sic] su base volontaria e scelti, ovviamente, fra le classi di età non soggette alla leva. Dall’aprile 1941 cominciano a partire, dai centri di raccolta di Milano, Verona e Treviso, i primi treni speciali. Quale fu la rilevanza dei lavoratori italiani per l’apparato produttivo tedesco, negli anni 1941 e 1942? Secondo un metro quantitativo, non eccessiva: 271.667 in totale, nel settembre 1941, che segnò il tetto massimo; il 12,7% del totale degli stranieri “liberi”. Erano sempre il secondo gruppo nazionale, di gran lunga però meno dei polacchi (1.007.561 alla stessa data). Se consideriamo, però, la sola industria, gli italiani sono 216.834 su un totale di 1.085.157, cioè il 21,5%. Poco più di un anno dopo, al 10 ottobre 1942, i lavoratori industriali italiani risulteranno 170.575, pari all’8,4% degli stranieri.9 Nello scarto fra queste due percentuali si 8 Cfr. A. Dazzi, Accordi fra l’ Italia e la Germania in materia di lavoro e assicurazioni sociali 1937-1942, cit., p. 182 e ss.; nonché BA, Reichsanstalt für Arbeitsvermittlung und Arbeitslosenversicherung, 39.03/353-Italien; inoltre Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Roma, Presidenza Consiglio Ministri, 18/4.21117, del 14 luglio 1941. Cfr. anche G. Thomas, Geschichte der deutschen Wehr-und Rüstungswirtschaft (19181943/45), Boppard a/R, 1966, pp. 279-280. 9 Da “Ergebnisse der Erhebung über die ausländische Arbeiter und Angestellten”, del 25 settembre 1941 e del 10 ottobre 1942.
B. MANTELLI
392
coglie certamente quel passaggio da “economia della guerra lampo” a “economia della guerra d’usura” sanzionato dall’ordinanza “Armamento 1942”, emanata da Hitler il 10 gennaio 1942, che comporterà l’assunzione di un sempre maggiore potere da parte del ministero delle Armi e Munizioni, retto da Albert Speer, e la nomina, nel marzo seguente, di un plenipotenziario per l’impiego della manodopera nella persona di Fritz Sauckel; gli italiani hanno da un lato rappresentato, nel 1941, un anello fondamentale nella copertura del fabbisogno di manodopera da parte delle industrie tedesche, dall’altro costituito anche in seguito una quota di manodopera importante in tutta una serie di lavorazioni. A giudizio delle autorità militari, gli italiani erano gli unici stranieri che si potevano adibire ad alcune mansioni presso aziende dove si facessero produzioni particolarmente delicate, dal punto di vista militare, o presso cantieri navali. Particolare importanza, poi, ebbe l’arrivo di lavoratori italiani nei cantieri dove si lavorava alla costruzione dei grandi impianti chimici e per la lavorazione dei metalli leggeri, previsti dal Karin Hall Plan, e dove essi rappresentano pressoché l’unica fonte per coprire il fabbisogno di manodopera;10 nel periodo 16 aprile — 31 luglio 1941 su 49.424 stranieri nuovi arrivati, ben 40.430 vengono dall’Italia: saranno loro a coprire interamente il fabbisogno in edili e metalmeccanici; altri trentamila sono attesi per la fine dell’anno. Quali furono le reazioni, i comportamenti, tanto produttivi quanto sociali di questi emigrati? Da che cosa vennero determinati? Che cosa raccontavano quando tornavano a casa, per le ferie o per fine contratto? Quale fu l’impatto, in Italia, delle loro parole? È meno facile di quel che sembra rispondere a domande del genere, che pure hanno un valore chiave. Le fonti ci forniscono un quadro complesso. Per quanto riguarda il rendimento e la “disciplina” sul lavoro, le reazioni delle aziende appaiono contraddittorie: alcune protestano violentemente con i responsabili di zona e chiedono che gli italiani vengano sostituiti; altre appaiono soddisfatte e continuano a reclutarli. Certamente disagi, tensioni e conflitti non mancarono; per spiegarli, occorre tener presente che l’universo dei più che duecentomila operai industriali di nazionalità italiana è tutt’altro che omogeneo: ci sono, infatti, lavoratori 10
BA, Reichsamt für Wirtschaftsaufbau, R 25, bb. 102-107.
Gli italiani in Germania 1938-1945
393
qualificati e specializzati che vengono dalle aree industrializzate del Centro Nord, tra di loro però alcuni sono volontari ed altri no; ci sono disoccupati che mai erano stati in fabbrica e che patiscono quindi un doppio disadattamento; ci sono lavoratori reclutati nella Francia occupata; fra di loro alcuni, non pochissimi, antifascisti che, perso il lavoro, preferiscono andarsene in Germania piuttosto che in Italia, dove avrebbero da temere ritorsioni.11 A giudicare dalle lettere censurate reperibili12 i motivi di lamentela più frequenti furono: il mancato rispetto delle promesse fatte prima di partire, le condizioni di vita al di fuori della fabbrica (il campo, ecc.), i rapporti con i delegati del sindacato fascista, accusati spesso di non difendere a sufficienza gli italiani e di essere corrotti, la lentezza con cui le rimesse giungevano alle famiglie, infine il cibo: a questo proposito ciò che non andava non era la quantità, piuttosto la qualità. Gli italiani non riuscivano ad adattarsi al cibo tedesco; la questione era stata tenuta presente anche dagli accordi fra i due paesi, dove infatti si prevedeva che i generi alimentari fossero importati dall’Italia e venissero preparati, nelle cucine dei campi, da personale italiano, ma il grande afflusso del 1941 aveva messo in crisi il meccanismo. La forma di “indisciplina” di gran lunga predominante fu, comunque, la fuga dal campo e dalla fabbrica, con conseguente rottura del contratto di lavoro. Indubbiamente ciò segnalava un’insofferenza ed una protesta; spesso però conteneva in sé anche l’aspirazione a trovare un posto di lavoro migliore: non tutti coloro che fuggivano intendevano tornare in Italia; non pochi, appoggiandosi a parenti od amici anch’essi emigrati nel Reich, cercavano di farsi assumere, a migliori condizioni, da altri imprenditori.13 Ciò diede origine ad una sorta di mercato grigio di manodopera, che dovette essere, per certi versi, ben accetto, a numerosi imprenditori tedeschi, in particolare medi e piccoli. Stando a quanto segnalavano le spie della polizia italiana,14 ciò che raccontavano i lavoratori di ritorno dalla Germania non 11 Molti casi del genere si trovano in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza (d’ora in poi DGPS), Ufficio di Collegamento con la Germania. 12 BA, Reichsarbeitministerium, R 41, bb. 263-268, per quanto riguarda la censura postale tedesca; per quella italiana ACS, Ministero dell’Interno, DGPS, PS 1941, 1942, 1943. 13 Parecchi casi si riscontrano in ACS, Ministero dell’Interno, DGPS, PS 19411942-1943. 14 Ivi, Polizia Politica, b. 223.
394
B. MANTELLI
era fonte di tranquillità per il regime: la maggioranza lamentava disagi di cui finiva col rendere responsabile il governo italiano, per aver mandato alla ventura concittadini senza essersi sufficientemente cautelato. Anche chi dava un’immagine positiva della Germania, magari secondo lo stereotipo del “paese dove le cose funzionano”, finiva poi col fare un paragone poco elogiativo verso le cose d’Italia.
Il lavoro coatto degli italiani nella fase finale del conflitto 1943-1945 All’inizio del 1943 le autorità italiane, incalzate dalla crisi incipiente, chiedono il rimpatrio degli immigrati in Germania, ma i tedeschi si oppongono; pretendono anzi altri 249.000 lavoratori, e minacciano ritorsioni. La situazione è sbloccata da una decisione di Hitler, motivata da considerazioni politiche: il desiderio di non peggiorare i rapporti con il fragile alleato fascista. Il 5 aprile 1943 viene siglato, a Berlino, presso il ministero del Lavoro, un accordo che prevede il rimpatrio, a scaglioni di 12.000 al mese, dal maggio successivo. Numerose aziende però fanno resistenza; le autorità tedesche chiedono allora una riduzione del contingente mensile. Alla fine di giugno Mussolini acconsente a ridurlo a 4.000. Di lì a poco, il 25 luglio 1943, egli viene deposto. È questo il vero punto di svolta: già il 26 luglio nel quartier generale di Hitler si prevede che il prossimo passo dell’Italia sarà l’uscita dalla guerra e che questa circostanza consentirà di attingere liberamente al vasto serbatoio di manodopera rappresentato dall’Italia ed in primo luogo dalle sue forze armate, di cui si prepara il disarmo.15 La mossa successiva sarebbe stato il reclutamento di manodopera in Italia, l’unica zona, nell’Europa sotto controllo tedesco, che non fosse ancora stata percorsa dagli emissari del GBA Sauckel. Il 3 agosto il ministero del Lavoro di Berlino informa l’ambasciata italiana che, essendo nel mese passato rimpatriati ben 12.652 lavoratori, vanno intesi come compresi in tale cifra i contingenti dei mesi a venire, agosto, settembre, in parte ottobre. Si riparlerà di rimpatri a novembre. L’8 settembre bloccherà ovviamente tutto. 15 H. Heiber (a cura di), Hitlers Lagebesprechungen. Die Protokollfragmente seiner militärischen Konferenzen 1942-1945, Stuttgart 1962, p. 345.
Gli italiani in Germania 1938-1945
395
Dal punto di vista dell’economia di guerra tedesca l’armistizio italiano fu effettivamente un buon affare, come osservava Goebbels nel suo diario.16 In quel momento c’era un’acuta carenza di manodopera straniera, causata soprattutto dal progressivo inaridimento della principale fonte di manodopera straniera, i territori occupati dell’URSS, a causa del retrocedere del fronte orientale. Le modalità di utilizzazione di questo capitale umano furono oggetto del contrasto fra Speer e Sauckel, allora particolarmente aspro, sulla riorganizzazione dell’economia di guerra. Speer sosteneva la necessità di dare priorità assoluta all’industria bellica, limitando la produzione di beni di consumo in Germania e quindi sottraendo manodopera a questo comparto produttivo, che invece Sauckel riteneva necessario sostenere. Già il 16 settembre Speer, forte dell’appoggio di Hitler, si affretta a reclamare per sé il controllo su questi nuovi lavoratori coatti diffidando Sauckel dall’assegnarli altrimenti che all’industria bellica.17 L’esigenza di battere sul tempo la “concorrenza” è talmente forte da fargli anteporre consapevolmente l’assegnazione immediata e all’ingrosso all’industria bellica dei militari italiani alla loro suddivisione secondo le specializzazioni, che sarebbe stata la via più logica, anche se più lenta, per ottimizzarne il rendimento.18 Per quanto riguarda la celerità dell’impiego degli IMI e la loro assegnazione all’industria bellica egli ottenne certamente ciò che voleva. Statistiche dell’ufficio di Sauckel19 mostrano infatti che nel febbraio del 1944, quando sul territorio del Reich si trovavano 496.824 IMI, il 56% di loro era impiegato nell’industria mineraria, metalmeccanica e chimica, il 35% in altri comparti industriali e appena il 6% nell’agricoltura. Solo i prigionieri di guerra sovietici erano presenti in una percentuale così alta nel settore dell’industria bellica, col 50% del totale. Quanto al settore primario, dove fra l’altro le condizioni di vita erano relativamente migliori, gli IMI erano presenti in percentuale irrisoria. 16 J. Goebbels, The Goebbels Diaries 1942-1943 (edited, translated and with an introduction by Louis P. Lochner, The Infantry Journal Press), Garden City, N.Y. 1948. 17 BA, R 3/1597: Fernschreiben della Zentrale Planung a Sauckel, Nr. M.5084/43, Berlin, 16.9.1943, p. 1. 18 Ivi, p. 2. 19 Si veda la rielaborazione fattane da J. Billig, Le rôle des prisonniers de guerre dans l’èconomie du IIIe Reich, “Revue d’histoire de la deuxième guerre mondiale”, a. X, n. 37, 1960, p. 58.
396
B. MANTELLI
Ai militari italiani venne attribuita la qualifica giuridica di Internati Militari Italiani e non quella di prigionieri di guerra; oltre che per motivi politici, derivanti dal rapporto fra il Terzo Reich e la neofascista Repubblica sociale italiana, questa figura giuridica venne adottata perché sottraeva i militari italiani alla tutela e al controllo del Comité international de la Croix-rouge (CICR) e quindi ne agevolava l’impiego nell’industria bellica, interdetto dalla Convenzione di Ginevra. Quale fu il profitto che l’economia tedesca ricavò dagli IMI? A giudicare da numerose fonti, esso fu molto basso, al limite del fallimento. Le ragioni furono molteplici. In primo luogo l’affrettata assegnazione, che ne impedì una selezione professionale e attitudinale, tale da consentirne l’impiego ottimale. In secondo luogo, l’esclusione dell’intervento del CICR privò gli IMI di un’assistenza alimentare che rappresentava per i prigionieri di guerra occidentali in mano tedesca un apporto fondamentale.20 Pertanto gli IMI, come i prigionieri di guerra sovietici, esclusi a loro volta dall’assistenza del CICR, furono dipendenti dalle razioni alimentari fornite dai tedeschi, assolutamente insufficienti. Già dopo due o tre mesi dalla cattura lo stato di salute degli IMI risultava generalmente cattivo, quando non pessimo, e il loro rendimento lavorativo, di conseguenza, era molto basso, il più basso fra tutti i stranieri e i prigionieri di guerra. Gli IMI erano, insieme ai sovietici, una della categorie più deboli di questa massa di manodopera. Di fronte alla scarsa produttività, le reazioni delle dirigenze aziendali furono di due tipi: alcune accusarono gli IMI di pigrizia e indisciplina, e quindi per punirli e obbligarli a lavorare di più ricorsero alla riduzione delle razioni alimentari, col risultato di aggravare ulteriormente il loro stato di salute; altre invece si resero conto che la causa principale della scarsa produttività era la de-
20 Il CICR valutò questo apporto al 60% delle calorie (cfr. Rapport du Comité international de la Croix-Rouge sur son activité pendant la seconde guerre mondiale (1er septembre 1939 - 30 juin 1947), I, Genève 1948, p. 257). Va ricordato che l’assistenza degli IMI venne assunta dalla Repubblica sociale italiana, ma i primi soccorsi arrivarono con enorme ritardo, alla fine del maggio 1944, e in misura talmente scarsa da essere praticamente inutili: cfr. L. Cajani, Appunti per una storia degli Internati Militari Italiani in mano tedesca (1943-1945) attraverso le fonti d’archivio, in N. Della Santa (a cura di), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Atti del convegno di studi storici promosso a Firenze il 14 e il 15 novembre 1985 dall’Associazione Nazionale Ex Internati nel 40’ anniversario della liberazione, Firenze 1986, pp. 97-98.
Gli italiani in Germania 1938-1945
397
nutrizione, e che quindi era necessario dar loro dei supplementi alimentari. Questa seconda posizione, portata avanti, ad esempio, dalla Krupp, ha una rilevanza che trascende la particolare vicenda degli IMI e si inserisce nel dibattito sull’impiego della manodopera straniera, allora in corso all’interno del gruppo dirigente nazionalsocialista. L’impossibilità di drenare nuova manodopera favoriva infatti le posizioni di chi sosteneva la necessità di razionalizzare l’impiego di quella già disponibile, superando sulla base di principi produttivistici l’impostazione razzistica prevalsa fino ad allora. Finalmente, il 28 giugno 1944, viene deciso l’aumento generalizzato delle razioni fornite agli IMI, ai prigionieri di guerra sovietici ed ai civili reclutati nelle aree occupate dell’URSS, fino ad allora i più svantaggiati.21 Subito dopo iniziava la trasformazione degli IMI in lavoratori civili, decisa in occasione dell’incontro fra Hitler e Mussolini il 20 luglio. Questo provvedimento era stato caldeggiato sia da Mussolini per ragioni di immagine politica interna, sia da Sauckel, che contava di aumentare la produttività degli IMI attraverso un impiego più flessibile e un trattamento migliore, quale quello dei lavoratori civili.22 La trasformazione sarebbe dovuta avvenire su base volontaria, ma, con sorpresa sia delle autorità tedesche che di quelle fasciste repubblicane, la stragrande maggioranza degli IMI rifiutò di firmare il contratto di lavoro. Questo rifiuto va interpretato come una manifestazione collettiva del forte risentimento antitedesco sviluppatosi nell’animo degli IMI in tanti mesi di durissime privazioni, spesso accompagnate da violenze e disprezzo per i “traditori badogliani”. Le autorità tedesche cercarono di convincere gli IMI con minacce e punizioni; ma la repressione di un movimento così vasto si rivelò troppo impegnativa, per cui agli inizi di settembre esse decisero di trasformare automaticamente tutti quanti in civili, senza più chiedere firme a nessuno. Così la vicenda degli IMI veniva a confluire in quella dei lavoratori civili italiani. Dai civili italiani trasferiti in Germania dopo l’8 settembre 1943 (pressocché centomila) vanno tenuti ben distinti i circa qua21 Cfr. C. Streit, Keine Kameraden. Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen, Bonn 1991, p. 250. 22 Cfr. L. Cajani, Appunti per una storia degli Internati Militari Italiani in mano tedesca (1943-1945) attraverso le fonti d’archivio, cit., p. 96.
398
B. MANTELLI
rantamila deportati politici e razziali che ricadevano nella sfera di competenza della SS e che vennero inviati in Konzentrationslager (quasi sempre Auschwitz per gli ebrei,23 in prevalenza Mauthausen e Dachau per i politici maschi, Ravensbrück per le donne), ancorché la quasi totalità dei politici ed una parte degli ebrei siano stati utilizzati come lavoratori coatti. La storiografia ha sottolineato che il totale dei civili arruolati dopo l’8 settembre rappresenta una cifra tutto sommato limitata se confrontata con i piani elaborati da Sauckel subito dopo l’uscita dell’Italia dalla guerra, che prevedevano il trasferimento nel Reich di 1.500.000 italiani. La considerazione è esatta, anche se occorre tenere conto che gli arruolati rappresentano l’8% circa di tutti gli stranieri (prigionieri di guerra esclusi) che la Germania riesce a recuperare nei territori d’Europa ancora sotto il suo controllo (nel 1944, 1.200.000). Nella primavera 1944 il governo della RSI dispone, su pressione dei delegati di Sauckel, che gli appartenenti alle classi 1920 e 1921 nonché al primo semestre 1926 vengano reclutati per il lavoro obbligatorio in Germania.24 La destinazione dei precettati non avrebbe dovuto essere affatto casuale, ma avvenire secondo precisi parametri: edili specializzati e manovali avrebbero dovuto essere destinati alle aziende impegnate nel programma di costruzione di aerei da caccia; i metalmeccanici avrebbero dovuto essere suddivisi fra le costruzioni aeronautiche, le imprese che producevano carri armati, il settore chimico, le fabbriche di munizioni. La chimica avrebbe altresì dovuto ricevere tutti gli operai esperti del settore, come pure la cantieristica. Gli addetti ai trasporti erano destinati al ministero dei Trasporti del Reich, e gli agricoltori esperti avrebbero dovuto essere impiegati nelle campagne. La precettazione diede risultati di gran lunga inferiori alle aspettative per la renitenza della maggioranza dei giovani che vi si sottrassero affluendo nelle file della Resistenza.25 I tedeschi reagirono intensificando i rastrellamenti: una misura che si rivelò infruttuosa. Ciò li spinse a puntare di nuovo sul coinvolgimento delle au23 Cfr. per la deportazione razziale L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 1991. 24 National Archives (d’ora in poi NA), Washington DC, JAIA, T 501, bobina 340, circolare inviata ai comandi tedeschi di distretto nella RSI (Militärkommandanturen-MK) il 25 aprile 1944 dal segretario di Stato Landfried, capo dell’amministrazione militare tedesca in Italia (Militärverwaltung-MV). 25 Cfr. E. Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945, Milano 1963, pp. 206-217.
Gli italiani in Germania 1938-1945
399
torità della RSI; si giunse così nell’ottobre 1944 agli accordi di Bellagio, con i quali i tedeschi dichiararono di rinunciare a metodi coercitivi indiscriminati e ed estesero ai lavoratori italiani reclutati e rastrellati dopo l’8 settembre 1943 l’equiparazione salariale e normativa con i tedeschi; essa era stata sancita nelle trattative svoltesi prima dell’uscita dell’Italia dalla guerra ma non più rinegoziata dopo la costituzione della RSI.26 Di fatto, però, le autorità d’occupazione si dichiarano pronte a trasferire in Germania gli operai che fossero eventualmente rimasti disoccupati, per “assicurare così il loro futuro”27. Questi piani sarebbero comunque stati travolti dall’imminente collasso dei due regimi. Con la fine della guerra la quasi totalità degli italiani rimpatriò abbandonando la Germania.
26 Cfr. M. Viganò, Il ministero degli Affari esteri e le relazioni internazionali della Repubblica sociale italiana (1943-1945), Milano 1991, pp. 553-554. 27 E. Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945, cit., p. 191.
CONDIZIONI DI VITA E CONDIZIONI DI LAVORO DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI NELL’AREA DI POTERE TEDESCA FRA IL 1943 E IL 19451 di Gabriele Hammermann
Dopo l’8 settembre 1943, il disarmo delle forze armate italiane, ma anche la prigionia e la deportazione di circa 600.000 soldati e ufficiali italiani nelle aree poste sotto il controllo tedesco, si rivelarono fattori decisivi per la politica tedesca dell’impiego di forze lavorative. I soldati e i sottufficiali furono destinati soprattutto ai settori dell’industria pesante, dell’industria degli armamenti, dell’edilizia e dell’industria mineraria. Nel giro di poche settimane essi furono relegati a una fascia estremamente bassa della gerarchia sociale; particolarmente all’inizio della prigionia, vennero trattati poco meglio dei prigionieri di guerra sovietici e degli altri paesi dell’est, i cosiddetti “Ostarbeiter”. La presente relazione si concentra sulle condizioni di vita e su quelle lavorative dei soldati internati, ponendo in risalto le seguenti questioni: per quale motivo i prigionieri in area tedesca vennero definiti “internati militari”? Perché essi fecero parte dei gruppi stranieri peggio trattati negli ultimi anni di guerra? Può essere ricondotto ciò al loro atteggiamento ostruzionistico nelle imprese? Quali fattori caratterizzarono le condizioni di lavoro? Mutò la loro quotidianità nel corso della prigionia? Infine, si poté realizzare un miglioramento della loro situazione quando, nell’autunno 1944, i prigionieri furono inquadrati nella struttura civile?
1 G. Hammermann, Die Arbeits-und Lebensbedingungen der italienischen Militärinternierten in Deutschland 1943-1945, Phil. Diss, Trier 1995. Queste pagine sono una sintesi di un mio articolo: G. Hammermann, Die italienischen Militärinternierten im deutschen Machtbereich 1943-1945, in R. Wörsdorfer (a cura di), Sozialgeschichte und soziale Bewegungen in Italien 1848-1998: Forschungen und Forschungsberichte, Bochum 1998, pp. 184-206. Per la traduzione dell‘articolo ringrazio G. Casale (Trier).
Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani
401
L’introduzione del termine “internati militari” Poco dopo l’armistizio italiano, i prigionieri italiani vennero considerati prigionieri di guerra e assegnati al comando superiore delle forze armate competente.2 L’ipotesi che il 20 settembre 1943 costoro venissero definiti “internati militari”3, al fine di sottrarli all’assistenza della Croce rossa internazionale, punirli con le cattive condizioni alimentari e usarli come forza lavoro nell’industria degli armamenti, non è sostenibile in questi termini. Il loro nuovo appellativo fu piuttosto una conseguenza della liberazione di Mussolini, dell’imminente formazione di un governo fascista nell’Italia del nord e della strategia tedesca di una politica di occupazione “moderata” nelle regioni dell’Italia centrosettentrionale. Diversamente da quanto accadde in Polonia e nei territori occupati dell’Unione Sovietica, motivi di ordine politico e ideologico spinsero i tedeschi a esercitare una politica dell’occupazione che funzionasse sostanzialmente al di là di una collaborazione forzata, pur restando legata a meccanismi di sfruttamento e di coercizione.4 L’imposizione del nuovo nome si rivelò necessaria per superare la contraddizione di riconoscere il governo fascista di imminente formazione come unico Stato italiano legittimo e, al contempo, di impiegare la manodopera dei soldati considerati come militari ostili all‘alleanza.5 Pertanto, l’appellativo servì soprattutto a mantenere valido il nuovo patto fittizio, pur integrando questo grande gruppo di nuova forza lavoro nell’industria degli armamenti. La parte tedesca diede a intendere, a Mussolini e alla popolazione civile italiana, che il cambiamento fosse un segnale di nuovi privilegi assegnati a questi prigionieri. Gli effetti di questo imbroglio, basato su meccanismi propagandistici, furono 2 PAAA Bonn, Büro Staatssekretär, Akten betreffend Italien, vol. 16, f. 111-112: Telegramm OKW/Chef des WFSt, Keitel, an AA, 9.9.1943. 3 P.E. Schramm (a cura di), Kriegstagebuch des Oberkommandos der Wehrmacht (Wehrmachtführungsstab 1940-1945), vol. III, Frankfurt a.M. 1963; vol. III/2, p. 1124. Kurt Mehner, Die geheimen Tagesberichte der Deutschen Wehrmachtführung im Zweiten Weltkrieg 1939-1945, vol. 8: 1 September 1943-30 November 1943, Osnabrück 1988; 20.9.1943, p. 109. 4 L. Klinkhammer, Zwischen Bündnis und Besatzung. Das nationalsozialistische Deutschland und die Republik von Salò 1943-1945, Tübingen 1993 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts, Bd. 75); p. 69 ss.; L. Klinkhammer, Gli internati militari nei lager tedeschi 1943-1945. Riflessioni su un dibattito recente, “Ricerche Storiche”, 1988, 18/2, pp. 297-321, p. 300. 5 PAAA Bonn, Büro Staatssekretär, Akten betreffend Italien, vol. 17, fogli. 017018: Telegramm, 24.9.1943.
402
G. HAMMERMANN
l’esclusione dell’assistenza della Croce rossa e, con essa, un radicale peggioramento delle condizioni di vita degli internati militari italiani (IMI). Hitler e il comando supremo dell’esercito tedesco (“Oberkommando der Wehrmacht” - OKW) accettarono e approvarono tali conseguenze, giustificandole con le loro mire di vendetta per il “tradimento”.
Caratteristiche del trattamento degli internati militari italiani Per il trattamento degli internati militari italiani fu di primaria importanza l’intreccio delle intenzioni di ritorsione e di sfruttamento espresse nei loro confronti in ogni settore dell’amministrazione pubblica e privata, ai vertici del Reich, a livello regionale e nelle aziende. Per un verso, sono da individuare i gruppi che volevano vedere espiato il “tradimento” in modo esemplare, attraverso la punizione e la “rieducazione al lavoro” degli IMI. Essi non si curavano, tuttavia, dei criteri di rendimento. Dall’altro lato ebbe un certo peso la posizione di coloro che, mossi dai criteri di aumento della produzione economica e dei guadagni, puntavano al maggiore sfruttamento possibile della manodopera straniera. Queste due prospettive antitetiche ebbero come esito l’impartizione di ordini altrettanto contraddittori relativi al trattamento degli internati militari. Le ripercussioni sulle condizioni di vita e di lavoro di costoro resero la loro situazione di poco migliore rispetto a quella dei prigionieri di guerra sovietici. Soprattutto nei primi mesi di prigionia, sulle considerazioni di carattere pragmatico si imposero le intenzioni di rivalsa, basate sul giudizio morale cui erano soggetti gli internati militari italiani. A ciò si aggiunse che le prime ordinanze e notificazioni vennero fortemente influenzate dalle considerazioni di opportunità in politica estera e interna. Questo uso funzionale degli internati militari italiani ebbe come effetto una stabilizzazione del regime. In politica interna, esso si manifestò nella campagna propagandistica contro il presunto “tradimento”, mentre, rispetto alla politica delle alleanze, giovò il cambiamento di status. L’improvvisazione, con cui vennero prese le decisioni basilari relative a questi prigionieri, influenzò in modo decisivo la qualità della loro alimentazione, del loro trattamento e alloggiamento. Peraltro, essa de-
Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani
403
terminò in gran misura l’atteggiamento diffamatorio nei loro confronti nel periodo a venire. Come nel caso degli altri prigionieri di guerra, fu lo stesso Hitler a dare pochi ma decisivi impulsi al trattamento degli IMI. Egli ordinò il cambio della loro denominazione in quella “internati militari”,6 scelta operata sulla base di motivi prevalentemente politici. Il suo secondo ordine del febbraio 1944 fu apertamente determinato dal suo desiderio di vendetta. Per quanto le condizioni degli IMI fossero prossime al minimo di sussistenza, egli impose ai distaccamenti di lavoro poco produttivi la punizione collettiva della cosiddetta “alimentazione da rendimento” (“Leistungsernährung”). Mancando l’assistenza della Croce rossa, tale pena dovette peggiorare la situazione di sopravvivenza degli IMI, già assolutamente insostenibile.7 Effetti altrettanto vistosi sulle condizioni di lavoro degli internati militari italiani si ebbero quando Hitler rifiutò per mesi di corrispondere alle proposte di considerare gli internati come “lavoratori civili”, rivoltegli da Mussolini e dalle autorità tedesche del lavoro e dell’economia.8 La punizione esemplare, la rivalsa e “l’educazione” degli internati militari al lavoro furono le soluzioni praticate, destinate a contrastare le correnti pragmatiche del governo del Reich. L’OKW appoggiò gli intenti di rappresaglia di Hitler nei confronti degli internati militari. Tale tendenza emerge dalle direttive per il loro trattamento, redatte il 5 novembre 1943 e divulgate, quanto meno in forma abbreviata, anche nelle aziende industriali. Nella “nota” si prese atto, su un piano politico, della criticità dell’internamento dei soldati italiani: “Il trattamento degli internati militari italiani è, ancor più di quello dei prigionieri di guerra di altre nazioni, una questione di importanza politica.”9 Da ciò derivò anche la discrepanza espressa dalle direttive per il trattamento: da un lato si affermò la prospettiva educativa e disciplinare, la 6
Schramm, KTB/OKW, III/2, p. 1124, 20.9.1943. BAMA Freiburg, RH 49/101: OKW, Chef Kriegsgef./Allg., an die Wehrkreiskommandos, 28.2.1944. BA Berlin, R 3, 1820, foglio 114: OKW, Chef Kriegsgef./ Allg., 28.2.1944. 8 BA Berlin, R 3, 1509, fogli. 49-51, qui foglio 50: Niederschrift, betr. Arbeitseinsatz in Italien und Frankreich, 27.4.1944. BA Berlin, R 43 II, 651, fogli 158-169, qui foglio 163. BA Berlin, R 43 II, 682 b, fogli 62-63: OKW, Chef Kriegsgef., Allg., betr. Entlassung der im Reichsgebiet befindlichen italienischen Militärinternierten, 12.8.1944. 9 BAMA Freiburg, RW 6, v. 8 OKW/AWA Kriegsgef. Allg./WFSt/Wpr (IV), Merkblatt für die Behandlung der italienischen Militärinternierten, 5.11.1943. 7
404
G. HAMMERMANN
costrizione ad una “disciplina e ad un ordine tedeschi” (“deutsche Zucht und Ordnung”); dall’altro, restava valido il riguardo per l’alleanza con lo Stato satellite fascista che, anche se in condizioni mutate, continuava ad esistere. Tuttavia, l’OKW si vide costretto ad operare valutazioni di carattere pragmatico, quando le perdite di internati militari minacciarono di raggiungere proporzioni massicce. Così, immediatamente dopo l’ordinanza “dell’alimentazione da rendimento”, fu impartito “l’ordine di rinforzamento” (“Aufpäppelungserlaß”), che prescriveva di destinare all’agricoltura gli internati più debilitati.10 Inoltre, all’inizio di giugno del 1944, l’OKW permise l’applicazione “dell’alimentazione da rendimento” solo per gli internati dalle condizioni di salute stabili, mentre, nell’estate dello stesso anno, la concessione di razioni alimentari aggiuntive pose dei limiti a tale pratica.11 Le spinte e gli ordini del ministro della guerra Speer miravano unicamente ad aumentare l’intensità di sfruttamento della manodopera dei prigionieri di guerra e dei lavoratori stranieri, possibilmente senza incidere sulle capacità finanziarie dell’industria degli armamenti. Pertanto, favorendo una considerevole autonomia delle responsabilità delle industrie (“Selbstverantwortung”), il ministro tentò di ridurre sensibilmente le competenze delle direzioni d’azienda nell’ambito dell’attività lavorativa di stranieri e prigionieri di guerra, nonché di arginare la funzione di controllo della Wehrmacht. Il plenipotenziario per l’impiego di forze lavorative (“Generalbevollmächtigter für den Arbeitseinsatz” - GBA) Sauckel dimostrò, in un primo momento, poco interesse per la questione del trattamento di prigionieri di guerra e IMI: la sua condotta mutò quando diminuì il numero dei convogli di stranieri, fra l‘altro a causa del ricorso a metodi sempre più terroristici. Fu allora che si rivelò necessario un diverso atteggiamento nei confronti di quella manodopera straniera già impiegata in Germania. Sauckel optò quindi per la linea della conservazione a lungo termine dei lavoratori. Nonostante la sua posizione nel governo del Reich si fosse indebolita per i modesti successi riportati nel reclutamento di operai stranieri, Sauckel riuscì a migliorare la condizione degli internati militari italiani. A seguito di numerosi tenta10 Haniel Archiv, 4001482/23: OKW, Kriegsgef., Org. III b, betr. Abgabe nicht arbeitsfähiger ital. Militärinternierter an landwirtschaftliche Unternehmer innerhalb des Reichsgebietes, 16.2.1944. 11 STA Augsburg, Arbeitsamt Kempten, vol. 8, OKW, Chef W. San., betr. Gesundheitliche Überwachung bei italienischen Militärinternierten, 1.6.1944.
Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani
405
tivi, egli riuscì, infatti, ad assegnare la competenza degli internati alle autorità civili.12 Il trattamento degli IMI da parte delle amministrazioni aziendali dipendeva esclusivamente dalla loro effettiva produttività. La politica delle imprese era orientata alla massima del maggior sfruttamento possibile degli stranieri con il minor impiego di altri mezzi. Tuttavia, le condizioni degli internati militari italiani si differenziavano in base al ramo industriale in cui erano impiegati, alla politica adottata dalla direzione e alla grandezza della ditta. La legislazione lacunosa e contraddittoria lasciava spazio a iniziative arbitrarie assai rigide da parte delle imprese. Con l’obiettivo di aumentare le prestazioni degli internati militari italiani, già prima delle ordinanze ufficiali del governo le aziende e le autorità per il lavoro sanzionarono il ricorso a punizioni fisiche disciplinari13 e alla diminuzioni delle razioni alimentari.14 Tali misure erano state adottate precedentemente solo per gli “Ostarbeiter”, i prigionieri di guerra polacchi e sovietici. Comunque, anche se in misura differente di volta in volta, è possibile stabilire una serie di cambiamenti che arrivarono all’applicazione, funzionale e orientata a un maggior rendimento, di incentivi per gli internati militari italiani.15 Al fine di aumentare la scarsa produttività degli IMI, 12 BA Berlin, R 43 II, 651, foglio 57, Protokoll einer am 25.4.1944 im Beisein von Lammers, Sauckel, Ley, Fischböck, Abetz und Speer bei Hitler abgehaltenen Besprechung, 27.4.1944. BA Berlin, R 3, 1509, fogli 49-51, Niederschrift, betr. Arbeitseinsatz in Italien und Frankreich, 27.4.1944. PAAA Bonn, Nr. 9, d. 13, Arbeitsrecht, Italien, Aufzeichnung, 14.6.1944. BA Berlin, R 43 II, 651, fogli 158-159, Chefbesprechung vom 11.7.1944, 12.7.1944. 13 NdsHSTA Hannover, Nds 300/27/71-71, XXI-38, Arbeitsgemeinschaft Blomberg-Melle, Bauunternehmung an den Reichstreuhänder der Arbeit, Arbeitsamt Watenstedt, betr. Leistungen ausländischer Kriegsgefangener, 4.11.1943. NdsHSTA Hannover, Nds 300/27/71-71, XXI-38, Arbeitsamt Goslar, Nebenstelle ClausthalZellerfeld, an das Arbeitsamt Goslar, 5.4.1944. NdsHSTA Hannover, Nds 300/27/7171, XXI-38, Reichstreuhänder der Arbeit, Hannover, an die Gruppe Verwaltung des Kriegsgef. Mannsch. Stammlagers XI B, 31.5.1944. 14 NdsHSTA Hannover, Nds 300/27/71-71, XXI-38, Der Präsident des Arbeitsamtes Watenstedt an den Präsidenten des Gauarbeitsamtes und Reichstreuhänder der Arbeit Südhannover-Braunschweig, 17.11.1943. LA Magdeburg, Rep J, BunaWerke, Nr. 450, foglio 65, Gefolgschaftsabteilung, Mitteilung Nr. 129/43 an die Betriebe und Firmen, 24.11.1943. STA Bremen, NSDAP 7, 1066-271, Gewerksleiter der DAF für Handwerk, Handel und Gewerbe in Bremen an die Deutsche Arbeitsfront, Reichsleitung, 8.12.1943. IfZ, MA 441/9/2761127, Der Chef der Sicherheitspolizei und des SD, Amt III, Berlin, SD-Berichte zu Inlandsfragen, 9.12.1943. 15 BAMA Freiburg, RW 21-14/17, S. 60, S. 71, Kriegstagebuch des Rüstungskommandos Dortmund, 1.1.-31.3.1944. BAMA Freiburg, RW 21-22/19, Kriegstagebuch des Rüstungskommandos Gießen, Anfang 1944. Hoesch Archiv, G/7/C 2,2, 2. Weltkrieg, Ostarbeiter und Kriegsgefangene, Lagerverwaltung Italienerlager, Unnaer Straße, Arbeitskommando 3009 an Hoesch AG. Hoesch Archiv, G/7/C, 2. Welt-
406
G. HAMMERMANN
dall’inizio del 1944 alcune ditte garantirono momenti di tempo libero, organizzarono manifestazioni culturali e migliorarono la qualità degli alloggi.16 Nel complesso, risulta evidente che, negli ultimi due anni di guerra, il trattamento dei lavoratori stranieri fu dettato non solo da visioni razziste, ma sempre più dalla considerazione della loro rispettiva funzione economica nel processo lavorativo. La loro posizione all’interno delle imprese dipendeva dal loro campo di competenza e dalla loro facilità di parola, dal grado di formazione e dalla durata dell’occupazione. Tuttavia, gli internati militari italiani furono interessati solo gradualmente da questo cambiamento. In un primo momento, quanto meno nell’industria pesante e in quella mineraria e edilizia, essi si trovarono a un livello basso della gerarchia delle prestazioni. Proprio in questi settori industriali caratterizzati da grandi fatiche fisiche, i metodi disciplinari degradanti erano all’ordine del giorno.17 La tesi dei maltrattamenti sugli internati, in seguito ad una generale insubordinazione di natura politica, non trova riscontro negli incartamenti processuali o negli atti aziendali. È pur vero che, degli internati militari già rinchiusi nei campi di prigionia, circa l’85 % rifiutò ogni collaborazione militare con la Germania o con la Repubblica sociale italiana.18 Gli episodi di resistenza sul krieg, Ostarbeiter und Kriegsgefangene, Lager Gemeinschaftsküche Krankenhaus Nord, Gutachten über die Verträglichkeit des im Lager Unnaerstraße an das ital. Arbeitskommando 3009 ausgegebene ”Sämigmark”, 16.9.1944. STA Hamburg, Behörde für Ernährung und Landwirtschaft, A b IV 7 k: Das Gewerbeaufsichtsamt Hamburg an das Landes-und Haupternährungsamt, Abt, B, betr. Lebensmittelzulagen für italienische Militärinternierte, beschäftigt bei der Firma Gutmann AG, Hamburg-Altona, 19.1.1944. STA Hamburg, Behörde für Ernährung und Landwirtschaft, A b VIII, 4a, Die Deutsche Arbeitsfront, Gauwaltung Hamburg, Hauptabteilung Arbeitseinsatz, an alle Kriegsgefangenen-und Ital. Mil. Interniertenlager, 4.5.1944. 16 SächsHSTA Dresden, Autounion 704, Entwicklung der Belegschaft vom 1.11.1943-30.4.1944 bei den Autounion-Werken. IfZ, ED 187/2: Sonderführer (Z) Täuber Landesschützenbataillon 715 Wolfenbüttel, Bericht über Außenarbeit vom 9.-16.1.1944, 17.1.1944. 17 Haniel Archiv, 4001482/1, Über den Einsatz, Leistung, Entlohnung, Unterbringung und Betreuung der Fremdarbeiter während der Jahre 1943/44 bei der GHH Sterkrade. Haniel Archiv, 400100/47, Geschäftsbericht der Oberhausener Hüttenbetriebe 1943/44, 1.7.1944, p. 9. Wolfgang Jonas, Das Leben der MansfeldArbeiter 1924-1945. Eine Dokumentation, Berlin-Ost 1957; p. 396. BayHSTA München, Wi 9135, Bericht des Oberbergamtes München zur wirtschaftlichen Lage des Bergbaus im Oktober 1943 an den RWM, 19.11.1943. STA Münster, Bergamt Dortmund A 4 48, Oberbergamt Dortmund an den Herrn Reichswirtschaftsminister, 19.11.1943. 18 Al contrario, fu sensibilmente piú alto il numero complessivo di chi era disposto all’alleanza; di coloro, cioè, che, dopo il disarmo, si offrirono come volonta-
Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani
407
posto di lavoro furono rari e tuttavia fenomeni individuali e non collettivi.19 Rispetto agli altri gruppi di stranieri, gli internati militari italiani non si distinsero per comportamenti contrari all’ordinamento del lavoro, anche dopo il loro passaggio alle competenze delle autorità civili.20
Le condizioni di lavoro degli internati militari Al momento in cui gli IMI vennero incorporati nel processo lavorativo, le condizioni occupative si stavano inasprendo a causa dei crescenti orari di lavoro. Oltre agli aumenti di ore settimanali, essi furono costretti a prestazioni straordinarie, come operazioni di carico e scarico, durante i giorni festivi.21 Anche gli attacchi aerei, che si quintuplicarono fra il 1943 e il 1944, influirono negativamente sul tipo di vita degli internati militari, creando nuove sostanziali disparità fra le condizioni nelle piccole città e in campagna e, dall’altro lato, nelle metropoli e nei grandi agglomerati urbani. Altri peggioramenti si ebbero per la scarsa qualità dell’assistenza. La posizione giuridica degli internati militari non permetteva loro di beneficiare dell’opera della Croce rossa internazionale (CRI), che costituiva fino al 60 % dell‘alimentazione dei prigionieri di guerra.22 Perciò minacciava un circolo vizioso di deri, o di coloro che si dichiararono pronti a combattere ancora al fianco dell’aeronautica tedesca, delle SS e delle nuove milizie della RSI. Schreiber arriva a contare 186.000 volontari, vale a dire il 23% dell’esercito italiano disarmato (Schreiber, Militärinternierte, cit., pp. 336-338). Rispetto al grado di servizio, nei campi di prigionia si riscontra un maggiore consenso fra gli ufficiali, che nella truppa (Schreiber, Militärinternierte, cit., p. 383). 19 G. Hammermann, Militärinternierte, cit., pp. 269-276. Cajani, Die italienischen Militärinternierten im nationalsozialistischen Deutschland, in U. Herbert (a cura di), Europa und der Reichseinsatz. Ausländische Zivilarbeiter, Kriegsgefangene und KZ-Häftlinge in Deutschland 1938-1945, Essen 1991, pp. 295-316; p. 302. 20 STA Münster, Polizeipräsidium Dortmund, Haftbücher: Ausländische Arbeitskräfte, 23. HessHSTA Wiesbaden, Gefangenenbücher, 408/186: Aufnahmebücher des Polizeigefängnisses Wiesbaden, 28.4.1944-23.1.1945. NdsHSTA Hannover, Hann 87, Hann Nr. 259, Acc 43/68: Wöchentliche Meldungen der Geheimen Staatspolizei Hannover an den Herrn Polizeipräsidenten in Hannover, 5.8.1944-28.2.1945. 21 STA Leipzig, Erla-Maschinenwerke GmbH Leipzig, 277, foglio 169 sgg., Kriegsgef.-Mannschaftsstammlager IV F, Gruppe Verwaltung, Hartmannsdorf, Abschrift der Abrechnungsliste für die Zeit vom 1.6.-30.6.1944 über die beschäftigten italienischen Kriegsgefangenen bei der Auxid GmbH in Aue/Saale. BrandLHA Potsdam, Rütgerswerke AG, Werk Erkner, Rep 75, Nr. 12, Aktennotiz des Betriebsführers und Betriebsobmanns, 26.5.1944. 22 L. Cajani, Internati, cit., in N. Labanca, Fra sterminio e sfruttamento, cit., p. 160.
408
G. HAMMERMANN
nutrizione, insufficienti prestazioni e riduzione delle cure. Inoltre, la quantità ufficiale dei rifornimenti, e in particolar modo delle razioni di patate, fu sensibilmente ridotta nell’autunno del 1943 per i prigionieri di guerra, fatto di cui particolarmente gli internati militari e i prigionieri sovietici ebbero molto soffrire.23 Queste stesse razioni alimentari sempre minori non furono del tutto distribuite, a causa delle strette regionali, della scarsa qualità delle derrate e delle malversazioni. Anche l’approvazione di supplementi, dettata da considerazioni sulle prestazioni dei lavoratori, e la pratica “dell’alimentazione da rendimento” furono fra le cause principali di ciò. L’espressione “alimentazione da rendimento” (“Leistungsernährung”) stava a indicare una riduzione delle consuete razioni alimentari, tesa a costringere gli internati ad aumentare la loro produttività. È documentato che tale misura punitiva fu adottata dalle imprese, in un primo momento, solo per i prigionieri di guerra sovietici. Ciononostante, prima che il governo la ufficializzasse con un’ordinanza rivolta a tutto il mondo imprenditoriale, essa venne allargata da alcune ditte anche agli internati.24 Quando poi le perdite di internati militari italiani indussero le aziende a scelte di segno contrario, l’ordine di Hitler del 29 febbraio 1944, relativo all’alimentazione da rendimento, fu divulgato come un puro strumento punitivo. Esso interpretava lo scarso rendimento come un evidente rifiuto di lavorare, come atto di resistenza. Pertanto, secondo l’impostazione mentale di Hitler, era necessario punirlo. L’applicazione indiscriminata di questo metodo disciplinare mirava a sciogliere i legami di gruppo e i sentimenti di solidarietà all’interno delle unità di lavoro italiane, chiudendo un occhio sul fatto che anche gli individui più cooperativi potessero 23 STA Leizig, Fa. Rudolf Sack, Nr. 384, p. 95: Verpflegungssätze für nichtsowjetische und sowjetische Kriegsgefangene ab dem 31.5.1943. StadtA Rüsselsheim, VIII, 35/17: Verpflegungssätze für nichtsowjetische Kriegsgefangene, 31.5.1943. StadtA Rüsselsheim, VIII 35/16: Der Landrat von Groß-Gerau an die Bürgermeister im Kreis, betr., Erlaß des Reichsernährungsministers vom 20.10.1943, 11.11.1943. Thyssen Archiv, VSt 14: Vereinigte Stahlwerke, Sozialwirtschaftliche Abteilung über den Erlaß des Reichsministers für Ernährung und Landwirtschaft v. 9.12.1943, 17.2.1944. STA Leipzig, Fa. Grahneis & Börner, Zipsendorf, Nr. 264: Die Deutsche Arbeitsfront, Gauwaltung Halle-Merseburg, Rundbrief an die Betriebsführer und Leiter der Werksverpflegung sowie Lagerführer, 22.12.1943. 24 LA Magdeburg, Rep J, Buna-Werke, Nr. 450, foglio 60, Gefolgschaftsabteilung, Mitteilung Nr. 129/43 an alle Firmen, betr., Einsatz von italienischen Militärinternierten und französischen Kriegsgefangenen, 24.11.1943. Buna-Werke, Mitteilung Nr. 32/44 an alle Betriebe und Firmen, 8.3.1944. IfZ, MA 441, 92761124: Der Chef der Sicherheitspolizei und des SD, Amt III, 9.12.1943.
Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani
409
finire nel vortice di denutrizione, riduzione delle prestazioni e punizione.25 Globalmente, si può affermare che, nella primavera del 1944, settori della grande industria e delle rappresentanze degli interessi industriali assunsero, nell’ambito della questione alimentare degli internati militari italiani, una posizione moderata, orientata alla conservazione della manodopera. È peraltro evidente che tale inversione di tendenza poté completarsi solo nell’estate di quell’anno, soprattutto a causa della rigida posizione del ministero dell’alimentazione. Da un’analisi dei racconti di singole esperienze, risulta che i rapporti fra gli internati militari e i dipendenti delle imprese tedesche sul posto di lavoro furono più differenziati di quanto non lascino presumere i protocolli delle ditte. A giudicare dalle testimonianze, il trattamento da parte dei colleghi tedeschi cambiava in base alla posizione di costoro nella gerarchia aziendale: il rapporto con i capisquadra era spesso molto peggiore di quello con i lavoratori tedeschi meno qualificati.26 Più che da interesse, empatia e solidarietà, le relazioni con il resto del personale erano contraddistinte da una percettibile indifferenza. Evidentemente ebbe buon seguito lo strumento di dominio sostenuto dalla propaganda nazionalsocialista e adottato nelle imprese, vale a dire il metodo della concessione di privilegi ai lavoratori tedeschi accompagnata dal costante controllo e dalla minaccia di punizioni. Inoltre, indipendentemente dalla posizione dei lavoratori tedeschi, sembra sussistere una correlazione fra la loro età e il rapporto che essi instaurarono con gli internati. Più spesso dei giovani, i dipendenti anziani vengono descritti in termini umani. Anche il sesso ebbe a determinare grandi differenze. I diari relativi all’esperienza di internamento evidenziano, infatti, che gli internati militari subirono un trattamento migliore da parte delle donne impiegate nelle imprese. Fondamentalmente, molti testimoni diretti constatarono, nel corso della loro prigionia, un continuo miglioramento dei rapporti sul posto di lavoro e una sempre maggiore integrazione. Tuttavia, questi sviluppi furono collegati in gran parte alle sconfitte dell’esercito e al peggioramento delle condizioni della popolazione tedesca.27 25 BAMA Freiburg, RH 49/101: OKW, Chef Kriegsgef./Allg., an die Wehrkreiskommandos, 28.2.1944. BA Berlin, R 3, 1820, foglio 114, OKW, Chef Kriegsgef./ Allg., 28.2.1944. 26 G. Hammermann, Militärinternierte, cit., p. 295. 27 G. Hammermann, Militärinternierte, cit., pp. 299 ss.
410
G. HAMMERMANN
Il passaggio degli internati militari al sistema dei rapporti civili nell’autunno del 1944 Già a partire dalla fine del 1943, le autorità italiane sostennero il cambiamento dello status eccezionale degli internati militari introdotto per motivi politici.28 Ad opera di Sauckel, contro una prima violenta resistenza di Hitler, poterono imporsi presso i vertici del Reich considerazioni di carattere economico, a favore di un rilascio degli IMI alla condizione di “lavoratori civili”. Speer, il ministro della guerra, appoggiò Sauckel nel dibattito. Le iniziative delle imprese miravano soprattutto ad accrescere i loro diritti di intervento sugli internati militari, ai quali si attribuiva ancora una rilevante capacità produttiva. Dal punto di vista dell’imprenditoria, numerosi fattori avevano impedito un impiego efficiente degli internati. La situazione di mantenimento completamente insufficiente era la prima delle concause alla quale si ascriveva la loro produttività limitata. La seconda era da ricercare in direttive di politica di sicurezza. Il terzo impedimento ad un ricorso redditizio alla manodopera degli internati — dal punto di vista dell‘imprenditoria - era l’impossibilità delle ditte di estendere, anche a loro, il sistema degli incentivi e delle punizioni legati alle prestazioni. Per quanto questa consuetudine venisse da tempo applicata ai lavoratori stranieri, essa non poté essere allargata agli internati militari, perché per costoro era competente l’esercito. Infine, una quarta importante considerazione era quella relativa al sistema del salario a tempo, adottato per lo più per gli internati. Esso infatti non costituiva alcuno stimolo, visto che la retribuzione avveniva in “Lagergeld”, denaro riconosciuto solo negli spacci poveramente riforniti dei campi di prigionia principali e di quelli succursali. Secondo il parere dei rappresentanti degli industriali, incentivi per i prigionieri di guerra e gli internati militari similmente strutturati sarebbero stati di grande utilità, soprattutto in considerazione della situazione assai critica della manodopera.
28 ASMAE, RSI 1943-1945, b. 31, Germania 1/1: Anfuso an Mussolini, 10.12.1943. PAAA Bonn, Büro Staatssekretär, Italien, vol. 19, fogli 422-424: Italienische Botschaft, Leiter der Betreuungsstelle, Vaccari, 21.3.1944. ASMAE, RSI 19431945, b. 203, pos. 1/13, Note sulla situazione economica della Germania, 11.4.1944.
Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani
411
Il 20 luglio 1944, in occasione di una visita di Mussolini, Hitler diede il suo assenso alle proposte di un cambiamento di status degli internati militari. Pochi giorni dopo, il 25 luglio 1944, nell’ambito della dichiarazione di “guerra totale” del Führer, veniva proclamato il loro passaggio allo status di manodopera civile.29 Tale cambiamento non fu comunque un atto isolato. Nel 1943, con l’assegnazione dei prigionieri di guerra francesi al cosiddetto “statuto agevolato” (“erleichtertes Statut”), era infatti iniziato l’abbandono da parte dell’esercito delle competenze per i prigionieri. Ciò avvenne, per un verso, al fine di favorire un loro impiego orientato ai criteri di rendimento, mentre, per l’altro verso, servì a rendere disponibile il maggior numero di militari addetti alla custodia. In questo contesto, due elementi sono degni di nota: il primo è l’assunzione, in principio volontaria, poi spesso accompagnata da misure coercitive, di ufficiali italiani come forze di manodopera; il secondo è l’impossibilità di praticare il cambiamento di status dei prigionieri di guerra sovietici, a partire dall’inizio del 1945, per motivi organizzativi.30 Da parte degli IMI stessi, una certa resistenza fu rivolta contro le formalità di rilascio, iniziate nei campi principali e succursali. Tale reazione nasceva dal timore che i prigionieri potessero essere presi in consegna dalle SS o dall’esercito, oppure che venissero costretti a lavori forzati di lunga durata. Perciò, il passaggio ai “liberi lavoratori” avvenne, in seguito, senza che fossero interpellati gli internati militari.31 La qualità della vita degli ex internati ebbe a migliorarsi, per lo meno a breve termine, verso la fine dell’anno. Alcuni incartamenti delle ditte mostrano chiaramente che gli exIMI ricevettero giornalmente dalle 200 alle 500 calorie in più rispetto al passato.32 Testimonianze dell’epoca tendono a sottolineare gli aspetti positivi del minore controllo e di una maggiore 29 BA Berlin, R 43 II, 664 a, fogli 126-130: Erlaß des Führers über den totalen Kriegseinsatz, 25.7.1944. 30 HessHSTA Wiesbaden, 482, 48 a Beurlaubung von 250 000 franz. Kgf. zum ”Erleichterten Statut”, 17.9.1943. Il cambiamento di status provocò presso i prigionieri francesi un chiaro miglioramento delle prestazioni (IHK MünchenOberbayern, WA K1 (Kammerakten)/XXIII 446 b, Akt 83 Bericht der Firma Klöpfer & König, Sägewerke und Holzhandlung, an GWK, 28.8.1943. BA Berlin, R 3 1820, fogli 367-368, Reichsministerium für Rüstung und Kriegsproduktion, 6.6.1944. 31 H. Mommsen-M. Grieger, Das Volkswagenwerk und seine Arbeiter im Dritten Reich, Düsseldorf 1996, p. 726. 32 ThürHSTA Weimar, Fa. C. & F. Schlothauer GmbH, Ruhla, Nr. 272: Verpflegungssätze für die 68. Zuteilungsperiode. BrandLHA Potsdam, Pr Br Rep 75 C, Lehmanns Gubener Wolle, Nr. 124, Nr. 125.
G. HAMMERMANN
412
libertà di movimento. Tuttavia, il miglioramento dato dal cambio di condizione fu di breve durata, poiché, già dal 1945, la situazione alimentare tornò a peggiorare.33
Conclusioni Quanto è stato illustrato in queste pagine dimostra che la prigionia degli internati militari italiani e il loro impiego nell’economia bellica tedesca non possono essere ricondotti esclusivamente al concetto di “resistenza senz’armi”. È peraltro fuori luogo un’equiparazione dei campi di prigionia, amministrati dall’esercito, con i campi di concentramento e di sterminio.34 Fu piuttosto la condanna esemplare per il “tradimento” a costituire un motivo forte di discriminazione nei loro confronti. Inoltre, l’appellativo di “internati militari”, destinato ai prigionieri italiani, pregiudicò in modo decisamente negativo il loro trattamento, soprattutto per quanto riguarda l’alimentazione. Conseguenze di pari portata furono prodotte dalle differenti direttive relative al modo di rapportarsi con gli internati: vendetta, da un lato, e maggior sfruttamento possibile della manodopera, dall’altro. Nell’ultima fase della guerra, le intenzioni di rivalsa, perseguite da Hitler e dall’OKW nei confronti degli internati militari italiani, si rivelarono, dal punto di vista della politica del lavoro, sempre più anacronistiche. Esse si scontravano poi con i principi di uno sfruttamento generale di tipo qualitativo della manodopera straniera. È appurato, tuttavia, che, dalla primavera del 1944, ebbe luogo un’inversione di tendenza orientata ad un impiego razionale degli internati. Con i bisogni della politica del lavoro, si creò così uno stretto legame, il quale presupponeva un miglioramento delle condizioni materiali degli internati. Tale miglioramento fu 33
H. Mommsen-M.Grieger, Volkswagenwerk, cit., p. 726. Il tentativo di paragonare la condizione di vita degli IMI nei campi di prigionia a quella di chi era rinchiuso nei campi di concentramento si scontra con i racconti degli stessi ex internati militari. A riguardo, viene confermato il valore allora attribuito agli internati, trattati, per lo meno all’inizio della prigionia, poco meglio dei soldati sovietici. Per contro, gli internati reagivano terrorizzati alla vista dei reclusi nei campi di concentramento. Di grande impatto emotivo erano il loro fisico provato, l’abbigliamento del tutto insufficiente, la negazione di ogni dignità umana, i continui maltrattamenti e il completo isolamento. Tali fattori erano per gli internati un’eloquente testimonianza di quanto estrema potesse essere la privazione di umanità inflitta ai detenuti (G. Hammermann, Militärinternierte, cit., pp. 437-38). 34
Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli internati militari italiani
413
realizzato, anche se per poco, quando gli IMI vennero assegnati alle autorità civili. Una stima seppur approssimata dei decessi di internati militari italiani nell’area di potere tedesca risulta assai difficile. In effetti, non è possibile risalire con esattezza al loro numero complessivo, né esistono statistiche precise relative agli arrivi e alle partenze. Le fonti a tutt’oggi accessibili permettono di formulare solo delle ipotesi: pertanto si può affermare che fra i 20.000 e i 25.000 internati militari morirono in stato di prigionia.35 Nel numero, tuttavia, non sono compresi gli internati morti nei campi di concentramento. Per quanto i dati relativi agli altri gruppi di prigionieri non offrano riferimenti sicuri sulla mortalità, si può affermare con relativa sicurezza che la quota dei decessi fra gli internati militari fu più alta di quella relativa ai prigionieri di guerra francesi, inglesi e americani. Solo fra i russi si registrano valori sensibilmente più alti, riconducibili prevalentemente a condizioni di sopravvivenza drammatiche, imposte loro per un periodo assai lungo.36 La situazione generale dei prigionieri di guerra non è peraltro paragonabile a quella dei deportati nei campi di concentramento. Qui, infatti, proprio sul finire della guerra, aumentò in misura massiccia il tasso di mortalità.37
35 Stime tratte da Istituto Centrale di Statistica, Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-1945, Roma 1957, pp. 22-25. BAMA Freiburg, RW 6/v. 451, 452: Bestand an Kriegsgefangenen im OKW-Bereich, 1.10.1943-1.12.1944. PAAA Bonn, R 40840, Notiz, 13.9.1944. ACS, SPD, b. 2, f. 25, sf. 4, p. 5, Ambasciata d‘Italia Berlino, Ispettorato sanitario per i lavoratori ex-Internati in Germania, Relazione sull‘attività assistenziale della CRI, gennaio al 31 marzo 1945. Schreiber, Militärinternierte, cit., p. 507. Lops ritiene che 30.000 siano stati i decessi nell’area di potere tedesca. (“Quaderni del Centro di studi sulla deportazione e l`internamento”, a. II, pp. 63-67). 36 C. Streit, Keine Kameraden. Die Wehrmacht und die sowjetischen Kriegsgefangenen 1941-1945, Stuttgart 1978, pp. 246-247. 37 P. Falk, Häftlinge unter SS-Herrschaft. Widerstand, Selbstbehauptung und Vernichtung im Konzentrationslager, Hamburg 1978 (“Historische Perspektiven“, a. XII), pp. 181-187.
LA DEPORTAZIONE NEI LAGER NAZISTI RIFLESSIONI SULLA TESTIMONIANZA di Bruno Vasari
La testimonianza ha molteplici aspetti che presuppongono la conoscenza di numerose discipline: memoria, storia, psicologia, sociologia, diritto e anche psicoanalisi e si presta al cosiddetto esame “clinico”. L’ANED nelle iniziative rivolte alla raccolta della testimonianza attinge alle competenze e alle consulenze specifiche. Gli obiettivi della raccolta della testimonianza da parte dell’ANED sono: tramandare la memoria, combattere il revisionismo, lavorare per la storia. Le iniziative di maggiore rilievo dell’ANED nel campo della raccolta della testimonianza sono: l’estensione della testimonianza per renderla corale, la raccolta delle Storie di vita, la raccolta e la classificazione degli Scritti di memoria.
Testimonianza corale La raccolta della testimonianza corale è così annunciata da Piero Caleffi, deportato, Presidente ANED, nella prefazione al libro Un mondo fuori dal mondo (La Nuova Italia, 1971): “… convenimmo non essere sufficiente che solo alcuni di noi avessero affidato alla penna le loro memorie individuali, ma che si rendesse necessaria una testimonianza “corale”, da trasmettere soprattutto alle giovani generazioni presenti e future…”. Nel medesimo libro Pierpaolo Luzzatto Fegiz, eminente statistico, presidente della DOXA, ci dà le coordinate scientifiche: al fine di superare delle limitazioni, “la soluzione prescelta fu dunque quella di utilizzare un questionario ‘semi-direttivo’, tale cioè da coprire un’ampia serie di fatti e di problemi, pur lasciando agli interrogati piena libertà di sviluppare l’argomento delle singole
La deportazione nei Lager nazisti
415
domande. Tale questionario fu usato per un numero rilevante di interviste (esattamente 317)”. La ricerca DOXA, promossa dalla Presidenza nazionale dell’ANED, ha consentito la compilazione di tavole statistiche e la raccolta di notizie, impressioni, considerazioni di ex deportati liberamente espresse di grande rilevanza per la ricerca e lo studio.
Storie di vita Verso la fine degli anni ‘70, affacciandosi nel campo degli studi storici il metodo della storia orale, l’ANED riparte con l’appoggio morale e materiale del Consiglio regionale del Piemonte e con la consulenza del Dipartimento di Storia dell’Università di Torino. Nulla è improvvisato: viene costituito un comitato scientifico, istituito un corso per istruire i giovani intervistatori (fecero lezione Primo Levi e Andrea Devoto). Con apposita circolare agli iscritti, l’ANED precisò anche gli scopi seguenti, in precedenza non così espliciti: poter archiviare in ogni comune (sostituito poi da Istituti storici della Resistenza) la storia trascritta del deportato locale, in modo da rendere più efficaci le testimonianze di persone conosciute; dare a ogni famiglia di ex deportato un documento atto a rafforzare la tradizione resistenziale e antifascista. Per pubblicizzare l’impegno della raccolta delle Storie di vita, saggiare la propria esperienza e attingere il maggior numero possibile di informazioni, l’ANED indice, trovando piena conferma dei metodi adottati, nell’ottobre ‘83 un convegno, significativamente denominato Il dovere di testimoniare, al quale partecipano 28 relatori di cui 10 stranieri. Tra gli intervenuti mi è caro ricordare Leo Valiani. Laura Marchiaro che presiedeva una delle sessioni del convegno rileva l’importanza dell’azione dell’ANED, “perché la minaccia della riduzione, della sottovalutazione e del silenzio, si intreccia alla minaccia della falsificazione sistematica e dello stravolgimento della storia”. Simon Wiesenthal inviò il seguente messaggio: “Le vostre ricerche rappresentano nel nostro tempo, in cui esistono organizzazioni che negano tutti i crimini dei nazisti e dei fascisti, un importante contributo alla affermazione della verità. Salutiamo il
416
B. VASARI
vostro impegno relativo alla creazione in ogni comune di un archivio degli ex deportati locali, e nel rilascio di una documentazione alle famiglie degli ex deportati. Le nostre ricerche devono mirare alla documentazione più completa. Ringrazio i membri dell’ANED per questa importante iniziativa”. Nella conclusione del convegno Il dovere di testimoniare il prof. Nicola Tranfaglia sostiene “il dovere di fondo degli storici: quello di andare avanti non solo nella raccolta delle testimonianze, ma soprattutto nel senso di utilizzare vecchie e nuove fonti per una ricerca storica più completa ed attendibile sul nazismo e sull’universo concentrazionario”. La raccolta delle Storie di vita ha dato un risultato che non esito a definire splendido. Le interviste, in numero di 217, occupano circa 10.000 pagine e hanno una durata di circa cento ore di registrazione. Non essendo possibile una pubblicazione integrale, si è ricorsi ad una antologia (438 pagine) dal titolo La vita offesa, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla (Franco Angeli / Storia 1986). La critica è stata entusiasta e così gli studiosi. Guido Quazza mi scrisse: “Resterà, resterà”. Da una mia nota su “Nuova Antologia” dell’aprile-giugno 1992: “L’aggettivo ‘straordinario’ si trova in tre recensioni di diversi giornali: Lietta Tornabuoni su ‘La Stampa’ di Torino, Marco Revelli su ‘Il Manifesto’ e su ‘L’Unità’ Enzo Collotti. Norberto Bobbio così si è espresso su ‘L’Indice’: ‘Con tutti i libri che abbiamo letto sull’argomento credevamo di sapere tutto, di avere capito tutto, di non avere bisogno di sapere e capire altro. E invece ogniqualvolta ci riaffacciamo ci accorgiamo che c’è ancora qualcosa che non sappiamo e non abbiamo capito e forse non riusciremo mai a sapere e a capire”. Dall’antologia è stato ricavato un testo più ridotto, rappresentato al Teatro Carignano di Torino con la regia di Ronconi. Una replica con la regia di Avogadro è stata registrata dalla RAI in una video cassetta. Le Storie di vita sono depositate in un Archivio presso l’Istituto di storia della Resistenza di Torino e vengono frequentemente consultate da studenti e ricercatori.
Scritti di memoria Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993 formano un Archivio, anch’esso oggetto di frequenti consultazio-
La deportazione nei Lager nazisti
417
ni, presso l’Istituto Gramsci di Torino. La bibliografia a cura di Anna Bravo e di Daniele Jalla è contenuta in un volume di 544 pagine dal titolo Una misura onesta (Franco Angeli / Storia, 1994). La bibliografia ha inteso, secondo i curatori, “raccogliere e rendere disponibili per la ricerca tutti gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia stesi dal 1944 ai giorni nostri. Non solo le monografie e le antologie specifiche, ma anche i contributi presenti in raccolte dedicate ai temi affini e in una cinquantina di riviste storiche e di periodici dell’antifascismo e della resistenza, e infine gli inediti che è stato possibile reperire. Si tratta nel primo caso di 146 titoli, nel secondo di 488 spogli, nel terzo di 37 dattiloscritti e manoscritti: nell’insieme una mole di informazioni e suggestioni cui si deve gran parte delle conoscenze sulla deportazione”. È nostro massimo desiderio completare la raccolta degli scritti di memoria con quelli numerosi e anche molto significativi comparsi dopo il ‘93. Nella Testimonianza corale, nelle Storie di vita e negli Scritti di memoria sono presenti testimonianze di donne e di uomini. Per svolgere un’impresa come la nostra rivolta alla testimonianza, era necessario studiare attentamente l’opera di Primo Levi, il più grande dei testimoni. A Primo abbiamo dedicato due libri: Primo Levi. Il Presente del Passato. Atti delle giornate internazionali di studio (Franco Angeli / Storia, 1993) e Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, a cura di Alberto Cavaglion (Franco Angeli, 1997), e ora stiamo organizzando un convegno con la supervisione del prof. Marziano Guglielminetti, dai cui atti trarremo un terzo libro sul tema Al di qua del bene e del male: ricerca della visione del mondo di Primo Levi. I nostri sono degli approfondimenti critici lontani dalla retorica e alieni da intenti meramente celebrativi. Abbiamo studiato particolarmente, come risulta in sintesi dalla nostra introduzione al libro Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, l’impulso a testimoniare, la memoria, il complesso del sopravvissuto, le cause della sopravvivenza, i caratteri e l’impatto della testimonianza. Le conclusioni di Primo sulla sopravvivenza e sull’impatto della testimonianza sono state da noi raccolte nei due specchietti che seguono: Sopravvivenza; le cause della sopravvivenza ne I sommersi e i salvati: — la fortuna e la forza di sopravvivere
418
B. VASARI
— coloro che in prigionia hanno fruito di qualche privilegio — i prigionieri privilegiati, minoranza entro la popolazione del Lager, forte maggioranza tra i sopravvissuti — salvati dalla fortuna… buona salute iniziale — opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate — prevaricazione, abilità e fortuna. Testimonianza; in Primo Levi la testimonianza ha diverse sfaccettature, diversi aspetti, fini differenziati: — obbligo morale e civile — bisogno primario liberatorio — promozione sociale — occasione unica e memorabile — fattore di sopravvivenza — ogni testimone è tenuto (anche per legge) a rispondere in modo completo e veritiero — ammonizione religiosa (in senso laico) — un atto di guerra contro il fascismo — taglio giuridico — atto di accusa — diritto dovere — assolvere un debito nei confronti dei miei compagni morti e nel medesimo tempo soddisfare un mio bisogno. Veniamo ora alla attività culturale dell’ANED torinese nel complesso, a partire dall’inizio degli anni ‘80 al ‘99. Costituzione di: 2 archivi, 17 pubblicazioni di cui 7 atti di convegni, 3 atti di tavole rotonde, 7 volumi di studi, 3 Quaderni del Triangolo rosso; atti del convegno del 4 aprile ‘98 in preparazione. Come è stata possibile una simile mole di lavoro e risultati così significativi? Enzo Collotti nella prefazione agli atti del convegno Storia vissuta (1986), così si esprime: “…la collaborazione tra l’ANED, il Dipartimento di storia dell’Università di Torino e il Consiglio regionale piemontese si pone con un carattere di esemplarità che non trova ancora riscontro in alcun’altra parte d’Italia”. Lo sviluppo del nostro lavoro ha comportato l’impiego di personalità già affermate, ma anche di giovani, agli inizi, oggi brillantemente maturati.
La deportazione nei Lager nazisti
419
Il nostro compito personale è stato organizzativo: predisporre le infrastrutture e curare la logistica. Un eccezionale riconoscimento, che si aggiunge a quelli già citati di altri autori, per la raccolta della testimonianza, la mole, la tenacia, la qualità del nostro lavoro viene da Anna Rossi Doria ed è contenuto nel libro Memoria e storia: il caso della deportazione (Rubbettino Editore, 1998). Dice Anna Rossi Doria: “…la sezione torinese dell’ANED, presentando nel 1983 il suo primo convegno internazionale, Il dovere di testimoniare, dichiara per bocca di Bruno Vasari, anche lui exdeportato, autore di uno dei primi libri di memorie su Mauthausen e infaticabile animatore di tutte le iniziative di ricerca storica promosse dall’associazione, che quest’ultima si prefigge un compito anzitutto scientifico, esulando da ogni proposito commemorativo”. E al congresso nazionale di Prato dell’ANED del 1990, lo stesso Vasari espone “il programma dei prossimi anni che coinvolgerà tutte le Sezioni in un’appassionata collaborazione e concentrazione per dare al paese la storia della Deportazione politica italiana che ancora manca”. Esprimiamo la nostra più viva riconoscenza ad Anna Rossi Doria con il rammarico che la tirannia del tempo non ci consenta più estese citazioni del contenuto del libro, in tutte le sue parti del massimo interesse. Veniamo ai complessi, alle preoccupazioni, alle timidezze del testimone consapevole di compiere un delicato lavoro. Vediamo: — il dolore di dover richiamare alla memoria un dolore sofferto e in certi limiti di patirlo una seconda volta: “Infandum regina jubes renovare dolorem”; — l’angoscia del sopravvissuto di comparire al cospetto dei familiari dei caduti. Un episodio narrato da Erodoto — citato nel mio A ciascuno il suo — poteva far pensare che il senso di colpa avesse lontana origine nel timore di una reazione violenta dei familiari alla delusione per il mancato ritorno del congiunto, quasi che il sopravvissuto fosse per loro la causa, con la sua presenza, del rinnovarsi di un insopportabile dolore. L’unico superstite della spedizione di Atene contro Egina, raccontava Erodoto, così aveva trovato la morte: “Raggiunta Atene, egli annunciò il disastro e a questa notizia le donne dei combattenti inviati contro Egina, indignate che egli soltanto si fosse salvato, lo circonda-
420
B. VASARI
rono e lo straziarono con i fermagli delle loro vesti, chiedendogli dove si trovavano i loro mariti”. Mi è caro riportare a questo proposito il finale della poesia Il superstite: “Indietro, via di qui, gente sommersa, Andate. Non ho soppiantato nessuno, Non ho usurpato il pane di nessuno, Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. Ritornate alla vostra nebbia. Non è mia colpa se vivo e respiro E mangio e bevo e dormo e vesto panni”. Primo Levi - 4 febbraio 1984
— il timore che l’uditore o gli uditori abbiano l’impressione che il testimone si atteggi ad eroe; — il pudore di rappresentare se stesso in atteggiamenti o in momenti delicati e riservati (esempi Lausekontroll o rasatura integrale…); — il disappunto di trovare un uditorio impreparato e disattento. Gli approfondimenti psicologici di Massimo Martini e Ilda Verri Melo (vedi bibliografia) si soffermano particolarmente su questi stati d’animo del testimone. Ma non c’è soltanto la confessione di Enea, ma anche quella di Andromaca. Incominciamo da Edith Bruck nel suo libro Signora Auschwitz, in cui racconta come difficoltà, fatica, tensione del testimone, disattenzione dell’uditore, possono causare un disagio fisico e influire negativamente sulla salute. La condizione delle donne nel Lager è così sensibilizzata da Anna Bravo nell’introduzione agli atti del convegno La Deportazione femminile. Dalle sue parole possiamo dedurre le specifiche femminili della testimonianza: “Certo è una tortura della femminilità. Essere prigioniere vuol dire dover esporre in pubblico, a sguardi di aguzzini, corpi abituati dal costume di cinquant’anni fa a un pudore rigoroso; vedere quelli di altre, magari anziane, e restarne turbate; non potersi più riconoscere nella propria immagine fisica. Vuol dire vivere con bambini destinati a sparire, con compagne che arrivano incinte in Lager e si affannano per nutrire un figlio che verrà ucciso appena nato; scoprire nelle donne, anche in se stesse, una distruttività che non si sarebbe mai immaginata; subire, spinta all’estremo, una vita promiscua di cui non si ha alcuna espe-
La deportazione nei Lager nazisti
421
rienza, neppure quella che agli uomini viene dall’aver fatto il servizio militare e la guerra. Le protagoniste hanno scritto e parlato di questi e di molti altri aspetti della loro vicenda. Hanno ricostruito le diverse fasi della politica concentrazionaria, l’organizzazione e il funzionamento dei campi — quelli dell’est e quelli tedeschi —, la condizione delle deportate ebree e di quelle politiche. Hanno raccontato dei rapporti in Lager, smentendo con coraggio lo stereotipo per cui le donne sarebbero naturalmente estranee alla violenza. Ma hanno testimoniato anche dei tanti casi in cui quei rapporti hanno aiutato a non morire”. Una particolare citazione merita l’Archivio di testimonianze soltanto femminili raccolte con il metodo del questionario, spesso arricchite da aggiunte spontanee delle intervistate, a cura dell’ANED di Milano, di cui è stata data notizia al convegno La deportazione femminile nei Lager nazisti, 20-21 ottobre 1994, da Miuccia Gigante, segretaria generale dell’ANED. Le storie di cinque donne deportate residenti a Firenze sono raccolte nell’antologia della Deportazione toscana — La speranza tradita, 1992 — lavoro coordinato dal compianto prof. Andrea Devoto con la collaborazione di Ilda Verri Melo, che ne ha dato notizia al convegno sopra citato. Sempre in tema di memorialistica femminile, ci è caro ricordare i libri di Maria Massariello Arata Il ponte dei corvi, di Giuliana Tedeschi C’è un punto della terra… e le testimonianze di Lidia Rolfi e di Anna Cherchi. La testimonianza, come si deduce dagli scritti di Primo Levi, consiste nella rigorosa esposizione della cose viste individualmente, a fini di documentazione nonché a fini, direi, religiosi, anche in senso laico, di esorcizzare il pericolo che il danno si ripeta. Certo gli avversi avvenimenti recenti in corso in Somalia, Bosnia, Serbia, Cecenia, Timor, vaste zone dell’Africa nera: Congo, Ruanda, Nigeria, Liberia, non sono incoraggianti, ma tuttavia attenuare la testimonianza sarebbe tradire il giuramento di Buchenwald. L’annientamento del nazismo nelle sue radici è il nostro impegno. L’edificazione di un mondo nuovo, di pace e di libertà è il nostro scopo.
422
B. VASARI
Coltivo tuttavia la utopistica speranza che la sempre più estesa conoscenza e riprovazione dei crimini contro l’umanità possa avere nel tempo un effetto positivo di ripulsa. Parlare della testimonianza è come avventurarsi in un oceano. Sempre nei limiti di una rigorosa comunicazione è inevitabile traspaia la personalità del testimone, nelle risposte alle domande e nella scelta degli argomenti. C’è chi si sofferma sugli aspetti più crudeli e terrificanti del Lager, chi invece ama ricordare civilissimi rapporti interpersonali, contenuti negli scambi intellettuali nelle pause che precedono il sonno: vari aspetti della Resistenza interna al Lager, che implica un eccezionale coraggio. Sullo sfondo della promozione della testimonianza c’è l’ammonizione biblica: “Scrivi questo su un libro come un ricordo” (Esodo 17), ma anche l’incitamento del grido echeggiato durante la guerra di Spagna: “Raccontatelo ai vostri figli”. Infine con emozione vi porto due testimonianze in senso evangelico, di due giustiziati: uno ad Auschwitz (da Primo Levi) che sul patibolo grida Kameraden Ich bin der lezte (Compagni sono l’ultimo), e di un altro di Gusen che sul patibolo grida Dobre notzca kamerad! (Compagni buona notte) (da Perché ricordare, di Quinto Osano), note di sublime eroismo nell’orrore del Lager.
Bibliografia AA.VV., Un mondo fuori dal mondo. Indagine DOXA fra i reduci dai campi nazisti, presentazione di P. Caleffi, Firenze 1972. AA.VV., Il dovere di testimoniare perché non vada perduta la memoria dei campi di annientamento della criminale dottrina nazista, Torino 1983. AA.VV., Storia vissuta. Dal dovere di testimoniare alle testimonianze orali nell’insegnamento della storia della seconda guerra mondiale, Milano 1986 (con una prefazione di E. Collotti). A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria dalla deportazione all’Italia 1944-1993, Milano 1994. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano 1986. E. Bruck, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Venezia 1999. A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi per l’ANED. L’ANED per Primo Levi, Milano 1997. A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi. Il Presente del passato, Milano 1993.
La deportazione nei Lager nazisti
423
P. Levi, Se questo è un uomo, Torino 1983. P. Levi, Ad ora incerta, Milano 1984 (seconda edizione 1988). M. Martini, Il trauma della deportazione. Ricerca psicologica sui sopravvissuti italiani ai campi di concentramento nazisti, Milano 1983. M. Massariello Arata, Il ponte dei corvi. Diario di una deportata a Ravensbrück, Milano 1995. L. Monaco (a cura di), La deportazione femminile nei Lager nazisti, Milano 1995. Q. Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato, Alessandria 1992. A. Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro 1998. G. Tedeschi, C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau, Torino 1989. I. Verri Melo, La sindrome del sopravvissuto. Le conseguenze dell’internamento nei campi di concentramento nazisti, Firenze 1991. B. Vasari, “A ciascuno il suo”. Ricordo di Luigi Cosattini deportato, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Trieste 1997. B. Vasari, La vita offesa: storia e memoria dei Lager nazisti, “Nuova Antologia”, n. 2182, Aprile-Giugno 1992, Firenze 1992.
NÉ MORTI… NÉ VIVI… DOPO CEFALONIA E CORFÙ. LA DIASPORA DEI SOPRAVVISSUTI DELLA “ACQUI” TRA PARTIGIANI, LAGER, BTL E GULAG (1943-1947) di Claudio Sommaruga
Introduzione Questa ricerca si fonda, come altre dell’autore, a numeri inevitabilmente approssimati ma orientativi, tuttavia adeguati a ricostruzioni storiche obiettive, non a spanne o emozioni. In assenza di dati esaurienti ed affidabili, si è fatto ricorso a stime ragionate, riscontri incrociati e mediati, somme e differenze, tarati sui pochi dati-base, iniziali, intermedi e finali più attendibili. Alla fine i conti devono quadrare, ma le cifre non sono che ordini di grandezza. Il barbaro massacro della “Acqui”, perpetrato nel settembre del ‘43 dalla Wehrmacht (senza SS!) a Cefalonia e Corfù per ordine del Fuhrer, denunciato in Italia fin dal luglio del ‘44 dal cappellano padre Formato, moderatamente riecheggiato al processo di Norimberga, è stato ricostruito tardi da poche testimonianze, molte rimozioni e nel disinteresse di un popolo che voleva dimenticare una guerra. Eppure a Cefalonia e Corfù, come a Lero, era stata scritta la prima pagina della Resistenza, ma sottovalutata dai media e ignorata nelle scuole, non diversamente della “resistenza senz’armi” dei “600.000 volontari dei lager” e diversamente di altre risonanze come l’Armir, i campi di sterminio, l’epopea partigiana, le Ardeatine… Ma meno noti sono la diaspora e il calvario dei sopravvissuti della “Acqui” frazionati, dopo il massacro, tra collaboratori d’autorità del Reich e della RSI (pochi volenti, molti nolenti!), i veri prigionieri (KGF, “resistenti”) e gli internati (IMI, che hanno ceduto le armi), poi scampati a naufragi, mitragliamenti e decimazioni, quindi sfruttati nei battaglioni-lavoratori (BAU-BTL) dei fronti balcanico (senza retrovie!) e orientale, oppure datisi “alla macchia” o evasi dai lager e BTL e finiti, anche in ruoli alterni, come prigionieri o combattenti dei partigiani greci e
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
425
slavi (monarchici e titini, contrapposti), per finire coi molti KGF già sfruttati dalla Wehrmacht e catturati dall’Armata rossa e che subirono una immeritata seconda prigionia (con ritardato rimpatrio) nei gulag di Bielorussia, Ukraina, Russia e Siberia. Quella del “dopo Cefalonia” è una storia paradossale e agghiacciante, lacunosa e ignorata, intricata e confusa… L’accesso, dopo la “caduta del muro di Berlino”, agli archivi di Mosca dell’ex-NKVD (poi KGB), ci fa scoprire e immaginare le insospettate peripezie di 12.250 prigionieri (KGF) dei tedeschi, ricatturati dai sovietici e schedati in cirillico, con pressapochismo fonetico dei cognomi (ed ora di ritrascrizione e riscontro in italiano) ma con molti dati anagrafici e militari, luoghi e date di cattura e di eventuale decesso che, sia pure incompleti, permettono di ricostruire pagine ignorate della storia. Sommando i rimpatriati (11.080, cfr. Min. difesa 1984/95) ai deceduti (1.136, dagli elenchi russi, cfr. Vicentini/UNIRR, 1999) e considerando i reparti, si ottengono i catturati dai russi (12.250) e molti dati parziali. Nel caso della “Acqui”, partendo da 188 (probabili) deceduti (145 certi) si possono presumere, per estrapolazione proporzionata, 2.050 catturati (con nessun ufficiale) in accordo con altri dati e dei quali 1.700 sul fronte orientale (1100 ex-Cefalonia e 600 ex-Corfù) e 330 sul fronte balcanico (tutti ex-Corfù). Detratti 200 deceduti, ne rimpatrieranno più o meno 1850. Con la stessa procedura si scoprono, tra l’altro, forse 850 “combattenti” e “ausiliari” del Reich e RSI, rimpatriati confusi negli 11.000 ex-IMI/KGF e i quasi 10.000 superstiti dell’Armir. Gli elenchi russi comprenderebbero in tutto 45.000 nomi di prigionieri (superstiti e deceduti) dell’Armir e degli ex-prigionieri dei tedeschi: sono in corso le laboriose trascrizioni e riscontri nei nostri archivi militari e anagrafici, condotte con encomiabile abnegazione dall’UNIRR (Un. naz. reduci dalla Russia) ed in particolare dal vice presidente Carlo Vicentini. Per gli ex-prigionieri dei tedeschi deceduti, i dati sono in corso di interpretazione anche da parte dello scrivente. Questa documentazione consente, per esempio, di chiarire che i 5.365 IMI, dati per dispersi dalla Wehrmacht nel luglio 1944 (molti della “Acqui”) e considerati probabilmente morti1 si erano invece salvati, catturati dall’Armata rossa, tranne forse 200 caduti per cause belliche. 1 Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), Roma 1992 (seconda edizione 1998); G. Schreiber, Italienischen Militarinternierten im Deutschen Machtbereich 1943 bis 1945, Munchen 1990; C. Sommaruga, Dati
426
C. SOMMARUGA
La resistenza nelle Ionie Le forze contrapposte — I dati sono molto vaghi per la perdita dei diari dei reparti. I presìdi italiani delle Ionie contavano, al 13 settembre 1943, circa 25.000 uomini dei quali forse 16.600 della 33a Div. di Fanteria di Montagna “Acqui” (con unità aggregate): 11.560 a Cefalonia (con 525 uff.), circa 4.500 a Corfù (con 160 uff.) e poche centinaia nelle isole minori (forse 3-400 a Zante e 71 a Itaca). Le altre divisioni contavano 8-9.000 uomini. Zante ne aveva 4.250, per lo più non della “Acqui” e si arrese la mattina del 9 settembre:2 dai conteggi sembra che 300 prigionieri siano rimasti nell’isola mentre 3.950 prigionieri vennero trasferiti sul continente (1.700 direttamente al Pireo e 2.250 imbarcati a Cefalonia). Dagli archivi di Salò3 risulterebbero 200 combattenti e 543 ausiliari (probabilmente prigionieri di Zante e S. Maura). Il presidio di S. Maura (Leuca), si arrese il 10 settembre e doveva contare oltre 1.000 uomini, non della “Acqui” (un gruppo di artiglieria, due battaglioni di fanteria e unità di servizi). Ad accrescere lo scoordinamento delle unità italiane, dal 15 agosto la “Div. Acqui” era stata spezzata tra il XXVI° C.d.A. (Cefalonia e S. Maura) e l’VIII° C.d.A. (Corfù). Dal 12 settembre, erano affluiti a Corfù, dall’Albania e nel vano tentativo di raggiungere l’Italia, almeno 3.500 militari (non della “Acqui”), con 120 ufficiali, le sole armi individuali, poche munizioni e la voglia del “tutti a casa!”: queste truppe non vennero coinvolte nella battaglia di Corfù, tanto che i tedeschi li considerarono, dopo la resa (25 settembre) e per loro fortuna, come disertori del nemico, ebbero salva la vita e vennero internati, come IMI, nei lager dei Balcani e dell’Europa Orientale, assieme ai catturati di Zante e S. Maura. L’ordine di Hitler era di “non far prigionieri” nella battaglia delle Ionie, perché “traditori”. Tuttavia, alla fine, vennero graziati a Cefalonia, tra i “resistenti”, i collaboratori d’autorità (CC.NN., quantitativi sull’ internamento in Germania, Bergamo 1999 (sono gli Atti del convegno “Internati, prigionieri e reduci”, Bergamo, 16-17 ott. 1997). 2 Cfr. G. Rochat-M. Venturi (a cura di), La Divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, Milano 1993. 3 F. Duca (a cura di), Rapporto segreto sulle Forze Armate della Rsi (al 31 dic. 1944), “Storia del XX° Secolo”, ago. 1997, giu./set./dic. 1998; SME, Uff. Operazioni e Servizi, Sez. Situazione, fasc. 2,3,4, copia 9, genn. 1945: “Relazione complessiva della situazione della forza dell’esercito nazionale repubblicano e sue variazioni dal settembre 1943 al 31 dicembre 1944”.
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
427
sud-tirolesi, friulani, istriani, dalmati e sloveni) inquadrati come “combattenti” e “ausiliari” della RSI al servizio dei tedeschi. Coi 400 muli, preda bellica, vennero graziati e trasferiti subito sul continente i loro conducenti; vennero graziati anche molti artiglieri e genieri inquadrati in battaglioni-lavoratori (BAU-BTL) a Cefalonia, Zante e nel continente, con lo status eccezionale di KGF (prigionieri di guerra senza tutela né facoltà di optare, perché “badogliani” e inaffidabili) al diretto servizio della Wehrmacht. Ma gli IMI e tanto più i KGF, testimoni dei soprusi, non dovevano aver contatti con la popolazione né con gli altri IMI. Inoltre, i testimoni diretti delle fucilazioni e delle sepolture vennero a loro volta fucilati. Tuttavia, i 132 ufficiali “graziati” di Corfù, dopo i 28 trucidati, finirono negli oflag IMI della Polonia, dove ci riferirono dell’epopea della “Acqui”: pertanto nessun ufficiale finì nei lager sovietici. All’8 settembre le forze tedesche contavano appena 2.000 uomini, con 25 ufficiali,4 rinforzati a più di 3.000 al 15 settembre. Le perdite — Italiane: oltre ai caduti sul campo, in rappresaglia o nei trasporti (oltre 10.100, menzionati) e alle armi pesanti e leggere: 2 cacciatorpediniere e 5 aerei (dei quali 4 della CRI). Tedesche: 18 aerei, 17 natanti, 1.500 militari (di cui a Corfù: 200 caduti e 441 prigionieri5) trasferiti in Italia su pescherecci greci e che saranno gli unici prigionieri tedeschi, della guerra di liberazione, in mano a Badoglio. Altri prigionieri tedeschi furono liberati a Cefalonia, alla resa degli italiani. Nell’autunno del ’44, dei 1.076 soldati tedeschi in ritirata da Cefalonia sembra ne siano giunti a Linz solo 87, per i continui attacchi dei partigiani.6 Si ignora se con loro vi fossero anche “combattenti” della RSI. I caduti sul campo — Dal 9 settembre si cercò di prender tempo, in mancanza di istruzioni e aiuti, cercando un compromesso onorevole e dopo aver respinto gli ultimatum tedeschi di consegnare le armi. Fu anche indetto un referendum nella truppa (il primo 4 Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), cit.; G. Schreiber, Italienischen Militarinternierten im Deutschen Machtbereich 1943 bis 1945, cit. 5 Cfr. C. Sommaruga, in E. Zampetti, La resistenza a Corfù (9-26 settembre 1943), Roma 1995. 6 Cfr. O. G. Perosa, Cefalonia 1943 e dintorni: Archivio COREMITE (Comm. Resistenza Militare Italiana all’Estero dopo l’8 sett.43), 3/202, 1986.
428
C. SOMMARUGA
della democrazia italiana!). Il 13 settembre iniziò la resistenza di Corfù, mentre a Cefalonia, per iniziativa di alcuni ufficiali (I. Caporali, R. Apollonio, A. Pampaloni e altri), il 13 mattina vennero affondate due motozattere tedesche, con un nutrito fuoco di artiglieria e morti e feriti da entrambe le parti: furono i prodromi della battaglia di Cefalonia (15-22 settembre) che seguiva quella di Corfù, iniziata prima e conclusa dopo (13-25 settembre). Fu una resistenza spontanea e disperata, affrontata con dignità e senza mezzi e scorte, con ordini ambigui e tardivi dall’Italia, senza piani, aiuti e rifornimenti italiani e alleati, in attuazione dell’ambiguo proclama di Badoglio, in uno status delicato di guerra non dichiarata: per i tedeschi, i resistenti italiani non erano che dei “franchi tiratori” (da “giustiziare” secondo le leggi di guerra tedesche) e non invece dei combattenti in divisa di un esercito legalitario nemico. Nelle battaglie delle Ionie cadranno in combattimento, o “giustiziati” alla cattura, 1.940 nostri militari: 1.315 (65 ufficiali) a Cefalonia e 603 a Corfù e poche decine nelle altre isole. La rappresaglia tedesca — Dei 14.500 superstiti delle battaglie, 5.200 prigionieri catturati dai tedeschi (5.170, di cui 420 uff., a Cefalonia e 28 uff. a Corfù) vennero barbaramente trucidati fino al 27 settembre, in ottemperanza all’ordine personale di Hitler di “non far prigionieri”. Alla fine, i caduti della sola ”Acqui” furono 7.130 (al 27 settembre), privati di sepoltura regolare, arsi o infoibati o sepolti in fosse comuni o sotto frane o “zavorrati” in mare (soprattutto gli ufficiali, e senza piastrina); a questi vanno sommati i circa 2.966 affogati in naufragio o mitragliati o decimati (100) nei trasporti marittimi. Molte spoglie spiaggiarono e vennero pietosamente sepolte dalla pietà greca. Alle rimostranze di un cappellano, che invocava la sepoltura dei fucilati, un maggiore tedesco osservò: “dopotutto non sono che degli italiani!”. I “graziati” — Dopo il bagno di sangue, vennero “graziati” i superstiti: 9.400 della “Acqui” (e gli 8.500 delle altre divisioni catturate) e qualificati dai tedeschi, per loro fortuna di sopravvivenza, come disertori arresi senza combattere: in realtà non poterono combattere, specie i 3.500 affluiti a Corfù dall’Albania al 12 settembre, perché male armati, senza munizioni o non coinvolti nelle linee di fuoco. Tranne un paio di centinaia dei citati “collaboratori d’autorità”, i prigionieri vennero inquadrati in battaglioni di lavoratori militarizzati (BAU-BTL, ARB-BTL) di IMI (internati senza tutele, con facoltà di “optare”) o di KGF (prigionieri di guerra, pu-
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
429
re senza tutele né facoltà di “optare”, perché “inaffidabili”) a seconda del loro comportamento resistente, passivo o attivo. Comunque furono tutti inquadrati a disposizione delle forze armate tedesche, a Cefalonia o nei Balcani e, in un secondo tempo, sul fronte orientale a scavare trincee o ripristinare linee ferroviarie, affiancati a una minoranza di ausiliari volontari della RSI. Differenziati dagli IMI, i KGF italiani in mano al Reich, sembra siano stati 21.000: 3.000 impiegati al fronte occ., 6.000 al fr. balcanico (con 2.200 ex-partigiani catturati senza armi e considerati disertori) e 12.000 transitati al fronte or. e per metà catturati dai russi. A Cefalonia saranno trattenuti 900 prigionieri e collaboratori inquadrati in BTL del genio, per manovalanza e manutenzione dell’artiglieria costiera e come sanitari negli ospedali da campo. Dalle poche testimonianze disponibili, sembra che lo sfruttamento dei prigionieri trattenuti a Cefalonia fosse pesante, ma non inumano come nei lager del Reich. I casi di morte sono limitati a malattia, postumi di ferite o incidenti.
Dopo il massacro I rimasti nelle isole: collaboratori “obbligati”, prigionieri e partigiani — Gli “optanti” volontari, dopo il massacro, furono certamente pochi: gli altri furono costretti con minacce o di autorità perché oriundi dei due nuovi Governatorati orientali germanici dei territori italiani nord-orientali (sud-tirolesi, friulani, istriani, dalmati e sloveni), nonché i presunti “fascisti” (ex-MVSN, CC.NN, ma qualcuno esibì, a prova, la tessera, col fascio, del dopolavoro!), poi sanitari e cappellani, considerati in missione umanitaria. Degli ufficiali di Cefalonia, tutti condannati a morte, vennero graziati in extremis solo “i 37 della ‘casa rossa’, per intervento di padre Formato e dopo una firma di impegno moralmente non valida perché estorta dopo due giorni davanti a tre plotoni di esecuzione e cataste di cadaveri: i firmatari vennero trasferiti in Germania, a Munsingen, in addestramento nella divisione “Monterosa” della RSI e quindi rimpatriati, a metà del ’44, in Italia dove una metà disertò e tutti, per anni, rimossero la memoria e cucirono la bocca anche coi commilitoni, complessati dall’aver dovuto “aderire” sia pure in stato di necessità. A Corfù vennero graziati 132 ufficiali della “Acqui”, “non optanti” e poi internati in Polonia (con
C. SOMMARUGA
430
gli ufficiali della resistenza nell’Egeo (Lero, Rodi, ecc.) negli Oflag degli IMI e che ci informarono della resistenza delle isole, rafforzando quella nostra, morale! Dagli archivi della RSI7 figuravano nelle Ionie, al servizio delle forze armate germaniche, 4 battaglioni della RSI per complessivi 3.000 uomini (2.000 “combattenti” + 1.000 “ausiliari”) senza precisazione di provenienza: in realtà le Ionie erano state abbandonate dal settembre 1944 e la citata registrazione poteva risentire di ritardi burocratici. In particolare sono menzionati, tra i “volontari” e “reparti vari”, 632 artiglieri, genieri e sanitari a Cefalonia, 48 sanitari a Corfù e 756 artiglieri e mitraglieri a Zante. Questa “forza” sembra fornita per lo più da “graziati” della ”Acqui”, volontari, obbligati e soprattutto da prigionieri (KGF), ma considerati, forse per propaganda, combattenti e ausiliari dalla RSI. In realtà i prigionieri (e forse anche dei collaboratori d’autorità) svolsero un doppio gioco clandestino di sabotaggi, d’intesa coi partigiani greci e dei “Banditi Acqui”. Questo raggruppamento comprendeva oltre 100 uomini sfuggiti alla cattura (con 10 uff.), diversi evasi e vari nuclei clandestini tra i prigionieri: li coordinava il cap. Renzo Apollonio, già condannato a morte dai tedeschi (per avere anticipata la resistenza di Cefalonia, fin dal 13 settembre, affondando due motozattere tedesche), poi graziato e coordinatore di due compagnie ausiliarie di artiglieri addetti a manovalanza e manutenzione. Ma Apollonio era anche il fondatore dei “Banditi Acqui”. I prigionieri alloggiavano nei campi di Argostoli (carceri e caserma), Chelmata, Pessades, Capo Munta, Fiscardo, Minies, ecc. Il raggruppamento partigiano “Banditi Acqui”, così battezzato dai tedeschi, operò a Cefalonia e sul continente, coi partigiani greci dell’ELAS, dell’EDES e la Missione segreta inglese in contatto col Comando alleato del Cairo: col doppio gioco dei KGF in mano tedesca, i “Banditi Acqui” compirono sabotaggi e presero parte alla liberazione di Cefalonia: il 17 settembre vi issarono il tricolore e il 14 novembre 1944 sbarcarono a Taranto in 1.286 superstiti come “Div. Partigiana ‘Acqui’“ e, caso unico, con armi e bandiera. Il trasporto dei prigionieri sul continente e il loro sfruttamento tra lager e partigiani — 8.300 prigionieri della “Acqui”, vennero fortunosamente trasportati sul continente, in ottobre e novembre, in acque minate e con navi e natanti anche di fortuna. Ne perirono quasi 7
Cfr. F. Duca (a cura di), Rapporto segreto sulle Forze Armate della Rsi, cit.
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
431
3.000, affogati in mare o per chiusura dei boccaporti o mitragliati: 1.264 da Cefalonia (navi “Ardena” e “Marguerita”), 1.302 da Corfù (nave “Rosselli”), altri probabili 200 con la nave “Alma”, un centinaio su natanti di fortuna e un altro centinaio decimati allo sbarco.8 I 5.300 sbarcati (della “Acqui”), vennero sfruttati come manovali, ferrovieri, genieri, mulattieri e minatori, al fronte senza retrovie greco-balcanico, per il 45% come IMI nei lager greci di Agrinion, Patrasso, Atene e Salonicco e per il 55% in quelli serbi di Bor, Zaiciar, Kracovaz, ecc., e nei BAU-BTL itineranti di KGFlavoratori. Si può presumere ne siano deceduti almeno 400 (il 7,5%) per fame, malattie, violenze e postumi di ferite. Dalla detenzione tedesca evasero in diversi, finendo come prigionieri-lavoratori o come combattenti (o in successioni alterne) in questa o quella fazione di partigiani balcanici in competizione anche tra loro (“ustascia” fascisti, “cetnici” nazionalisti e monarchici, “titini” comunisti, ecc.) ed anche tra i partigiani greci vi erano i “nazionalisti” (Edes) e i “comunisti” (Elas). Se catturati dai tedeschi, i partigiani armati venivano giustiziati come “banditi”, mentre i disarmati, considerati disertori, venivano inquadrati KGF (in tutto 2.200); poi qualcuno rievadeva. Si può presumere che gli evasi della “Acqui” siano stati oltre un centinaio. È emblematica, fra tutte, la testimonianza del fante Remigio Albenga, del 17° F. “Acqui”9, che rievoca l’eroica resistenza della “Acqui” a Cefalonia, la resa, la cattura, il naufragio di mille prigionieri nel trasporto sul continente, la sua fuga e l’arruolamento nei partigiani greci; poi, nuovamente catturato senz’armi dai tedeschi e graziato come “disertore partigiano”, rifiuta la collaborazione armata e civile e viene deportato nei BTL di KGF a Linz, Budapest, Bucarest e Skopje. Segue una nuova fuga romanzesca, prima “alla macchia”, poi imprigionato dai partigiani e infine partigiano lui stesso per otto mesi, prendendo parte a duri combattimenti e ricoprendo incarichi di fiducia. Finalmente il rimpatrio. Di queste numerose e tutte diverse peripezie individuali, mancando i documenti, si hanno solo rare e casuali testimonianze e per lo più inedite: i reduci non parlano e tanto meno confessano 8 Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), cit.; G. Schreiber, Italienischen Militarinternierten im Deutschen Machtbereich 1943 bis 1945, cit.; ma esistono anche altre fonti. 9 Testimonianza di R. Albenga, in C. Sommaruga, Uno dei tanti. Diario di un superstite di Cefalonia, inedito, in Arch. IMI.
432
C. SOMMARUGA
eventuali comportamenti fraintendibili se non si conoscano le circostanze, lo stato di necessità e la debolezza di uomini soli e tanto provati. I prigionieri in Polonia e nelle retrovie del fronte orientale — Nella primavera del ’44, una parte dei KGF venne trasferita dal fronte balcanico alle retrovie del fronte orientale in ritirata. Molti furono catturati dall’Armata rossa: almeno 5.650 IMI/KGF (distinzione spesso indefinita) furono catturati sul fronte orientale, a Vilno, Minsk ma anche a Lida, Glukol, Veleika, Tolocino, Grodno e altre località, durante le battaglie dall’aprile all’agosto del ’44. In questo periodo, dalle statistiche Wehrmacht sono registrati, nel solo luglio 1944, 28 decessi, 45 evasioni e 5.365 IMI (forse KGF) dispersi in azioni belliche, forse deceduti10. Ma, dagli archivi russi risultano quasi tutti catturati, “in rieducazione” oppure al lavoro coatto, per es. nelle piantagioni di cotone della Siberia o in lager-ospedali; ma separati in genere dai prigionieri della “guerra fascista” dell’Armir, come la consideravano i russi. Fra i “superstiti… dei superstiti… dei superstiti…” almeno 2.050 prigionieri risulterebbero della “Acqui” (con nessun ufficiale): 1.700 catturati sul Fronte Orientale (1.115 ex-Cefalonia e 575 ex-Corfù) e 330 nei Balcani (tutti da Corfù); 188 si calcolano i deceduti (145 accertati dagli elenchi) per malattie o postumi di ferite. Nella battaglia di Minsk (luglio 1944), 152 IMI/KGF delle Ionie e dell’Egeo (58 della “Acqui”, dei quali 40 ex-Cefalonia e 18 exCorfù), guidati dal serg. mag. Franco Trusso Zima, superstite di Cefalonia, evasero dal lager tedesco 240 di Borisov, raggiunsero i russi dai quali ottennero di farsi armare (dati i loro precedenti di Cefalonia, Corfù, Lero e Rodi), collaborarono nella vigilanza dei prigionieri tedeschi e chiesero di combattere. Non sembra confermata11 una loro partecipazione alla battaglia di Berlino, come alcuni vorrebbero, addirittura “con armi e bandiera”, fino a 60 km da Berlino, leggenda che potrebbe nascere da confusione col rimpatrio da Cefalonia dei “Banditi Acqui” con “armi e bandiera”. Per contro, i prigionieri non coinvolti in atti di resistenza antitedesca ed in particolare quelli non della “Acqui”, considerati disertori di Badoglio, vennero internati (IMI) in lager dei Balcani 10 Cfr G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), cit..; C. Sommaruga, Dati quantitativi sull’ internamento in Germania, cit.. 11 Cfr. Ministero della Difesa-COREMITE (Comm. Resistenza Militari Italiani all’Estero dopo l’8 sett. 1943), La resistenza dei militari italiani all’estero, v. II, Grecia continentale e isole dello Jonio, Roma 1995.
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
433
(molti come minatori a Bor) e poi in parte trasferiti in Polonia. Quando li liberarono, i russi li consegnarono agli anglo-americani che li rimpatriarono nell’autunno del ’45. In definitiva gli IMI della “Acqui” furono i 132 ufficiali graziati di Corfù (che ritrovai negli oflag di Deblin, Oberlangen, straflager di Colonia, Wietzendorf, a cui vanno aggiunti Sandbostel e Fallingbostel); 3.200 soldati e sottufficiali (ridottisi a fine guerra a 2.800, considerando un 7,5% di decessi) e non contando gli 8.000 IMI delle Ionie non appartenenti alla “Acqui” (i 3.500 affluiti a Corfù e gli altri di Zante e S. Maura). La “seconda prigionia” dei KGF dei tedeschi, catturati dai russi — Nel 1946 (e qualcuno l’anno dopo), con i quasi 10.000 superstiti dell’Armir, rimpatriarono dalla Russia (dato ufficiale) 11.080 dei 12.220 italiani, già prigionieri dei tedeschi (KGF) o loro collaboratori (forse 850) catturati dall’Armata rossa nel 1944, sui fronti orientale e balcanico ed avviati come “ausiliari”-Wehrmacht (anche se i più non lo erano) nei lager e lazzaretti della Bielorussia, Ukraina, Russia e Siberia. L’accesso, oggi possibile, agli archivi segreti di Mosca (allora NKVD, poi KGB) consente di far luce su questa paradossale e poco nota seconda prigionia che coinvolge quasi 2.000 sopravvissuti della “Acqui”. Si tratta di elenchi redatti in cirillico, con lacune, ripetizioni e approssimazioni fonetiche, che l’UNIRR (Ass. Naz. It. Reduci Russia) ha trascritto in italiano e sta pazientemente vagliando, riscontrando i cognomi (inevitabilmente distorti) con quelli degli archivi anagrafici e militari italiani12, grazie alla abnegazione del vice presidente Carlo Vicentini che ha trasmesso l’elenco degli ex-prigionieri dei tedeschi deceduti, per una loro analisi. Oltre che all’UNIRR, gli elenchi dei dispersi in Russia (exArmir + ex-KGF dei tedeschi) sono esistenti presso Onorcaduti (Min. difesa, Roma) e presso il “Museo permanente del combattente” di Palazzolo Milanese (Mi) con 20.000 nomi. L’elenco dei KGF deceduti in Russia comprende, spesso incompleti ma variamente sfasati, i dati anagrafici, militari, di cattura e di decesso di 1.136 nominativi (637 con dati completi), tutti di uomini di truppa e di nessun ufficiale; 1.052 con la divisione e/o il reparto, 94 campi e date di decesso (48 campi più 46 ospe12 Cfr. C. Vicentini-UNIRR, I prigionieri italiani in Urss negli archivi russi, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 51, Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Bergamo 1999 (sono gli atti del convegno “Internati, prigionieri e reduci”, Bergamo, 16-17 ott. 1998).
434
C. SOMMARUGA
dali, sui 189 — 117 campi più 72 ospedali — che hanno, anche in tempi diversi, ospitato anche prigionieri dell’Armir)). Sono precisati inoltre 585 luoghi e date di cattura, di cui 266 sul fronte orientale (lug-ago ’44), 247 nei Balcani (ott. 44), 32 rastrellati nei territori orientali, 40 “combattenti” e “ausiliari” Wehrmacht/RSI (molti dalla Romania) e perfino un partigiano titino. Per inciso, tutti i KGF in mano tedesca, ma non sempre amministrativamente distinti dagli IMI, sono dell’ordine di 21.000 così distribuiti: 3.000 al fronte occidentale, 6.000 a quello balcanico (con 2.200 ex-partigiani catturati senza armi) e 12.000 transitati al fronte orientale. Tutti quelli catturati dai sovietici risulterebbero 12.220, somma dei rimpatriati (11.080) e dei deceduti (1.136) compresi 840 (calcolati) combattenti e ausiliari del Reich/RSI. I rimpatriati vennero inizialmente confusi, nelle statistiche, coi 10.000 superstiti dell’Armir. Nella casistica delle doppie prigionie, è clamoroso il caso decennale del ten. Enzo Boletti del V° Alpini, catturato dai tedeschi in Balcania, internato (IMI) a Deblin, evaso il 13.3.44 dalla tradotta per Oberlangen, combattente coi partigiani polacchi, “eroe della Resistenza” polacca e tenente colonnello dell’esercito polacco, arrestato nell’aprile 1945 dai sovietici, sospettato di essere “al servizio della borghesia occidentale, spia e agente provocatore anticomunista”. Tenuto in isolamento per un anno e mezzo alla Lubianka, poi relegato ai lavori forzati nel gulag di Vorkuta (Siberia, oltre il circolo polare), venne infine rimpatriato, tra gli ultimi prigionieri, il 26 novembre 1954. Dopo il suo rientro, il Boletti fu per 17 anni sindaco di Castiglione delle Stiviere e fondatore, in quella città, del Museo internazionale della Croce rossa; ma non ha mai voluto scrivere la sua drammatica decennale esperienza, per altro registrata agli amici. Militari e lavoratori “ausiliari” della Wehrmacht e della Rsi catturati dai sovietici — I tecnici minerari dell’AGIP, fino al 1942, si erano fatte le ossa nei campi petroliferi della Romania, allora i più importanti d’Europa dopo quelli del Caucaso (URSS). Dal 1940 al settembre 1944 i campi romeni, in particolare quello di Ploesti, passarono sotto il diretto controllo tedesco. Dagli elenchi dei militari italiani ex-prigionieri (KGF) o “ausiliari” dei tedeschi, ma poi deceduti nei lager sovietici, ne figurano 23 catturati a Ploesti tra il 26 agosto e il 3 settembre 1944. In particolare uno della Wehrmacht, tre delle CC.NN./MVSN, quindici
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
435
“ausiliari” dei BTG-LAV. della RSI e sei possibili IMI/KGF, a presidio delle strutture petrolifere o rastrellati. Fuori Romania risultano altri 2 italiani della Wehrmacht deceduti, uno catturato al fronte orientale (Beresina, 3.7.44) e uno a fine guerra, in Cecoslovacchia (9.5.45). Altri 15 uomini della RSI risultano catturati al fronte orientale, Ungheria, Jugoslavia e in località imprecisate. In totale sono 40 accertati i “collaboratori” del Reich/RSI deceduti. Considerando un rapporto deceduti/catturati del 9,3% ed estrapolando i dati anche ai senza reparto, si possono stimare 830 possibili “collaboratori” catturati (quasi 600 a Ploesti) e rimpatriati confusi coi KGF.
Il dopoguerra I reduci e la memoria della “Acqui” — Tra il ’44 e il ‘46 rimpatriarono, dalla Germania, dalle Ionie, dai Balcani, dall’Europa orientale e dalla Siberia, arrotondando le cifre, 6.000 superstiti, dei 16.500 militari della “Acqui” essendone deceduti 10.500 in combattimento o come prigionieri massacrati per rappresaglia, o affogati nei trasporti marittimi o deceduti nei lager e nella guerra partigiana balcanica, o nelle retrovie del fronte orientale od infine in una seconda prigionia in Russia o in Siberia. Indicativamente ne sarebbero rimpatriati almeno 1.850 dalla seconda prigionia nei gulag sovietici, 1.400 ex-partigiani dalle isole ioniche e dai Balcani (“Banditi Acqui”, ecc.), 2.800 ex-IMI dei lager dell’Europa orientale e dei Balcani, non considerando gli 8.000 superstiti di altre divisioni delle Ionie. Perché “l’Italia sapesse” ed onorasse i “martiri di Cefalonia”, per iniziativa del cappellano padre Formato fu costituita l’Ass. Naz. Div. “Acqui”, proposta già avanzata il 4 luglio 1944, e realizzata nel settembre 1945, dai superstiti e dai familiari dei caduti. L’associazione nel 1984 comprendeva 29 sezioni, su tutto il territorio nazionale e 5.360 soci (reduci e familiari), ormai ridotti a un terzo. Nel 1948 (22 ott.- 4 nov.), si è potuta svolgere la “Missione militare governativa” a Cefalonia, ritardata per la crisi interna greca. Ma contravvenendo ai divieti tedeschi, fin dal 1943 don Luigi Ghilardini si era dedicato all’individuazione dei caduti e delle sepolture. Accantonata l’idea, nel ‘51, di realizzare un ossario a Cefalo-
C. SOMMARUGA
436
nia, fu possibile effettuare nel ‘52 la ricognizione e nel ‘53 la traslazione delle salme nel Sacrario militare di Bari (sistemazione definitiva nel 1967), dove riposano con gli altri caduti d’Oltremare. Ma fu possibile ricuperare solo una parte delle spoglie di Cefalonia: i tedeschi, infatti, negando la sepoltura ai “traditori della Acqui” e per fare sparire le prove, tentarono prima di bruciare le salme (operazione presto sospesa perché visibile dalla popolazione), poi li gettarono in fosse, foibe o sotto frane o li affondarono “zavorrati” (gli ufficiali senza piastrina) in mare, dove finirono pure i 3.000 annegati nei trasporti, solo in parte spiaggiati nelle isole ioniche e quindi sepolti dalla pietà greca. Nella sola località Francata vennero estratte da cinque fosse i resti oramai irriconoscibili di 500 italiani. Le decorazioni concesse alla memoria o a viventi furono 114: cinque medaglie d’oro alle bandiere del 17°, 18° e 317° Fant., allo stendardo del 33° Art., alla bandiera del 1° Battaglione della Guardia di Finanza e medaglie ai singoli combattenti: 20 d’oro, 53 d’argento, 29 di bronzo, 7 Croci di guerra, tutte al V.M., 4 promozioni M.G. e l’Encomio solenne alla memoria dei caduti ed ai superstiti delle battaglie di Cefalonia e Corfù. Tra i monumenti ai ”Martiri della Acqui” si ricordano quelli di Cefalonia (a Punta S. Teodoro, Argostoli, del 1953 e 1979), di Acqui Terme (alla “sua” Divisione), quello “Nazionale della Div. Acqui” a Verona (1966) e gli altri in molte città d’Italia: a Parma, Bologna, Bergamo, Brescia, Budrio, Cremona, Milano, Palermo, Pisa, San Remo, ecc. e numerose vie intitolate ai “Martiri di Cefalonia”. La bibliografia essenziale è riportata in appendice e comprende meno di 50 titoli, omettendo le testimonianze brevi, gli articoli di stampa e le scarse fonti d’archivio statali italiane e tedesche. La memorialistica (molto limitata) e la saggistica iniziarono sommessamente fin dal ’46, con 15 titoli nei primi 35 anni (meno di uno ogni due anni) e si svilupparono tardivamente negli anni ’80 e ‘90 con 35 titoli (quasi due all’anno). Negli anni ’50, alcuni familiari di vittime di Cefalonia denunciarono, al Tribunale militare territoriale di Roma, il cap. Renzo Apollonio e altri ufficiali, per avere innescata la resistenza italiana e perciò la rappresaglia tedesca, che si sarebbe evitata con la resa e la consegna delle armi. È una tesi che riapre discussioni, riaffiorata ancora di recente,13 come se il dovere di un soldato fosse 13
M. Filippini, La vera storia di Cefalonia, Casteggio 1998.
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
437
quello di consegnarsi con le armi al nemico per salvare la pelle, vanificando il fine stesso di un esercito. Comunque, dopo lunga istruttoria, l’8 dicembre 1957 veniva depositata la sentenza che ricostruiva la battaglia di Cefalonia, che dimostrava che nessun ufficiale fu reo di “rivolta continua, cospirazione, insubordinazione con minacce ai superiori” e riabilitava Apollonio. In Germania, invece, l’istruttoria avviata dalla Procura generale di Stato di Dortmund, per individuare e processare i responsabili tedeschi dei massacri finì nel nulla, con molta burocrazia, dilazioni e l’archiviazione, nel ’69, dopo aver interrogato solo due testimoni italiani (uno indiretto), due greci e 227 ex-militari tedeschi ovviamente evasivi. Ogni commento è superfluo.
Un commento Le vicende agghiaccianti degli scampati al massacro della “Acqui”, ricostruite da scarse fonti e aride cifre, si commentano da sole, ma proviamo a immaginare il trauma di chi, sopravvissuto anche sei-otto volte, prima in battaglia, poi non “giustiziato” sul campo e poi al massacro di rappresaglia dei prigionieri, ebbe la fortuna — o la sfortuna? — di non affogare o venire decimato nei trasporti marittimi dalle isole, quindi di sopravvivere nei lager e BTL dei Balcani, alternando magari il lavoro coatto sotto i tedeschi con evasioni e prigionie od arruolamenti in contrapposte fazioni partigiane balcaniche, nazionaliste o comuniste, per poi venire trasferito al fronte orientale dove scampa alla battaglia di Minsk e conclude la lunga e traumatica odissea in un gulag, o peggio un ospedale siberiano e finalmente rimpatria con un anno di ritardo, miracolosamente “non morto”… Poi, finalmente in patria ammutolisce e si chiede “perché?” nel disinteresse degli altri, stufi di sentir parlare di guerra… Eppure a Cefalonia fu scritta la prima pagina emblematica della Resistenza armata ma che non fa notizia, sottovalutata come quella “senz’armi” dei 600.000 volontari dei lager. “Se questo è un uomo”, direbbe Primo Levi; ogni altro commento non trova parole; c’è solo da chiedersi se più fortunati siano stati i “martiri di Cefalonia” o i sopravvissuti, “né morti… né vivi…”.
C. SOMMARUGA
438
Tabella 1. 33a Div. Fant. Mont. “ACQUI” + aggregati: FORZA COMPLESSIVA: 16.560 uomini circa - Cefalonia 11.560 - Corfù 4.500 - Zante 400 (?) - Itaca 71 I CADUTI: 7.130 (13-25 settembre 1943): 1.940 di cui 1.300 a Cefalonia, 600-700 (?) a Corfù, 10 a S. Maura 5.190 quasi tutti a Cefalonia
nei combattimenti prigionieri massacrati:
I SUPERSTITI: 9.400 [a] In Germania (Div. Montero- 37 ufficiali sa – addestramento Rsi) [b] Trattenuti 900 ca (200 collaboratori d’autorità e 686 prigionieri KGF e sanità, Cefalonia e Corfù; questi trattenuti, insieme ad alcuni non catturati, daranno vita al raggruppamento partigiano Banditi Acqui) [c] Non catturati (alla 100 ca macchia e partigiani) [d] Imbarcati 8.300 di cui 2.966 morti nei trasporti [1] e 5.300 sbarcati nel continente. Dei 5.300 sbarcati: 2.100 KGF (BTL, Balcani e fronte orientale); 3.200 IMI (Lager e BTL, Balcani, Grecia e Europa orientale). Di questi prigionieri un centinaio riusciranno ad evadere e ad unirsi ai partigiani greci e slavi. dei 3.200 IMI: 400 morti [2], 2.800 liberati dai Russi dei 2.100 KGF: >50 morti [3], 2.050 catturati dai Russi (1.690 sul fr. orientale, 330 sul fronte balcanico, 40 altrove. Di questi < 200 morti [4]) TOTALE DECEDUTI TRA I SUPERSTITI ([1]+[2]+[3]+[4]): 3.400 ca TOTALE DECEDUTI (caduti nei combattimenti e prigionieri massacrati + deceduti tra i superstiti): 10.500 - Lager-BTL (’45) - Dalla Germania (’44) - Dalla Russia (‘46-’47) - Da Cefalonia (’45) - Dai Balcani (’45)
RIMPATRIATI: >6.100 2.800 (Polonia, Bielorussia, Grecia, Balcani) 37 (combattenti RSI) 1.850 (seconda prigionia, Bielorussia-Siberia) 1.286 (componenti del raggruppamento partigiano “Banditi Acqui”) > 100 (partigiani)
Altre divisioni: - Zante: - S. Maura: - Corfù: trattenuti: trasferiti - morti (combattimento e Lager) - superstiti TOTALE
3.850 -resa 9.9.43 1.000 / (2.000?) - “ 10.9.43 3.500 affluiti 8-12.9 - “ 25.9.43 (Zante:743 KGF e ausiliari RSI) nei Lager: > 6.750 IMI (ln Grecia, Balcani, Europa Orientale) >700 ca 8.000 8.500-9.000
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
439
440
C. SOMMARUGA
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
441
442
C. SOMMARUGA
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
443
444
C. SOMMARUGA
Appendice (V. Tab. 3) I militari delle province di Modena e Reggio Emilia già prigionieri dei tedeschi e deceduti in 2a prigionia nei lager russi Come esempio, si sono stralciati i dati degli archivi russi, dell’NKVD (1944-46), riguardanti i prigionieri di guerra dei tedeschi e deceduti in seconda prigionia nei lager sovietici. In particolare si sono individuati 36 militari (22 della provincia di Modena e 14 di Reggio Emilia), 12 dei quali della Div. “Acqui” e catturati dall’Armata rossa nella battaglia di Minsk-Vilno e in Galizia (giu.-lug. ’44) e in Serbia (lager di Bor e Kracovaz, ott. ’44), considerati dai russi, anche erroneamente, non come prigionieri dei tedeschi ma “ausiliari” della Wehrmacht, reimprigionati in Ukraina, Russia e Siberia e deceduti, tra l’ottobre del ’44 e l’ottobre del ’45, in 13 gulag di lavoro e ospedali, per malattie e postumi di ferite. Se vale il rapporto tra deceduti e rimpatriati, si può stimare che circa 400 militari modenesi e reggiani, potrebbero aver subita la doppia prigionia tedesco-russa.
Bibliografia AA.VV., La battaglia della “Acqui”. Cefalonia e Corfù settembre 1943. Commemorazione dei caduti, Firenze 1973. C. Abaleo, Misfatto nazista a Cefalonia, Roma 1986. R. Albenga (testimonianza), in C. Sommaruga, Uno dei tanti. Diario di un superstite di Cefalonia, inedito, in Arch. IMI. L. Airoldi, Zeithain. Campo di morte, Milano 1962 (era l’ex cappellano 18°F., Corfù). R. Apollonio, La battaglia e il sacrificio della divisione di fanteria di montagna “Acqui” a Cefalonia e Corfù, in 8 settembre 1943. Italia e resistenza europea, Treviso 1983. R. Apollonio, La Divisione da Montagna “Acqui” a Cefalonia e Corfù, 1943, Torino 1986. R. Apollonio, La divisione di montagna “Acqui”, nelle isole ioniche di Cefalonia e Corfù, in B. Dradi Maraldi-R. Pieri, Lotta armata e resistenza delle forze armate italiane all’estero, Milano 1991. Associazione nazionale divisione Acqui — Comune di Firenze, La battaglia della “Acqui”. Commemorazione dei Caduti, Firenze 1973.
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
445
Associazione nazionale divisione Acqui, La tragedia di Cefalonia, audiovisivo, regia di D. Bernabei, 1973 (durata 88’). Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito (SME), fondo H/5 b. 35, Min. Difesa, Roma. A. Bartolini, Per la patria e la libertà, Milano 1986. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana (8 settembre-25 aprile 1945), Torino 1953 (seconda edizione 1964). W. Battistini, Cefalonia 1943, Milano 1984. G. Caleffi, Da Cefalonia alla Siberia: un superstite due volte prigioniero racconta, Verona 1991. A. Colombai, Quei giorni di settembre tra Cefalonia e Corfù, Sarno 1987. A. Colombai, Cefalonia e Corfù... quei giorni di settembre, Poggibonsi 1990. Comune di Bologna et al., La divisione Acqui a Cefalonia e Corfù, Bologna 1975. S. Corvaja, Gli eroi di Cefalonia, “Storia Illustrata”, sett. 1984. F. Duca (a cura di), Rapporto segreto sulle Forze Armate della RSI (al 31 dic. 1944), “Storia del XX° Secolo”, Casteggio, ago. 1997, giu./set./dic. 1998; “Relazione complessiva della situazione della forza dell’esercito nazionale repubblicano e sue variazioni dal settembre 1943 al 31 dicembre 1944”, SME, Ufficio Operazioni e Servizi, Sezione Situazione, fasc. 2,3,4, copia 9, genn. 1945. F. Ferrari, Cefalonia, settembre 1943, Parma 1953. M. Filippini, La vera storia di Cefalonia, Casteggio 1998. R. Finati, Le giovani generazioni del fascismo nel ventennio e in guerra. Tra cronaca e storia, tra diari e ricordi, (introduzione di C. Sommaruga), Roma 1999. G. Fioravanzo, La Marina Italiana, Roma 1971. R. Formato, L’eccidio di Cefalonia, Roma 1946 (seconda edizione Milano 1968, terza edizione 1996); (era l’ex-cappellano 33° Art., Cefalonia). G. Fricke, Le azioni di guerra del XXII Corpo d’armata di montagna contro le isole di Cefalonia e Corfù nel quadro dell’ operazione “Asse” (settembre 1943), in Relazioni di storia militare, f.1/67, Friburgo (traduzione SME), 1967. D. Gentilomo, I giorni di Cefalonia (9-23 settembre 1943), Reggio Calabria 1981. L. Ghilardini, Sull’arma si cade ma non si cede. I martiri di Cefalonia, Milano 1952 (seconda edizione 1965, terza edizione 1982); (era l’ex-cappellano 37° O.C., Cefalonia). G. Giraudi, A Cefalonia e Corfù si combatte, Milano 1982. G. Giraudi, Nella tempesta verso la libertà, Milano 1984. G. Giraudi, Raggruppamento “Banditi Acqui”, in B. Dradi Maraldi-R. Pieri, Lotta armata e Resistenza delle forze armate italiane all’estero, Milano 1991. Ministero della difesa-Onorcaduti, Sacrari e cimiteri italiani all’estero, Roma 1984.
446
C. SOMMARUGA
Ministero della difesa-COREMITE (Comm. Resistenza Militari Italiani all’Estero dopo l’8 sett. 1943), La resistenza dei militari italiani all’estero, v. II, “Grecia continentale e isole dello Jonio”, Roma 1995. G. Moscardelli, Cefalonia, Roma 1946. A. Pampaloni, testimonianza in N. Della Santa (a cura di), Resistenza senz’armi, ANEI, Firenze 1984 (seconda edizione 1989). G. Pampaloni, Resa a Corfù, Firenze 1976. V. Palmieri, Quelli delle Ionie e del Pindo. “Acqui” e “Pinerolo”. Divisioni martiri nella bufera del settembre 1943, Firenze 1983. R. Pasarola, Camminare o morire, in N. Vicino, “Uomini e reticolati”, 1985. O. G. Perosa, Cefalonia 1943 e dintorni, “Archivio Coremite”, 3/202, 1986. RAI TRE (a cura RAI e ANPI), La resistenza dei militari italiani all’estero, audiovisivo, “Videosapere”, 1996 (durata 45’). G. Rochat-M. Venturi (a cura di), La Divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, Milano 1993. C. U. Schminck Gustavus, I sommersi di Cefalonia, Firenze 1995. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), Roma 1992 (seconda edizione 1998). G. Schreiber, Italienischen Militarinternierten im Deutschen Machtbereich 1943 bis 1945, Munchen 1990. C. Sommaruga, Per non dimenticare (Bibliografia), Milano 1997. C. Sommaruga, Dati quantitativi sull’internamento in Germania, Bergamo 1999. (sono gli Atti del Convegno “Internati, prigionieri e reduci”, Bergamo, 16-17 ott. 1997) G. C. Teatini, Diario dall’Egeo. Rodi, Lero: agosto-novembre 1943, Milano 1990. M. Torsiello, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma 1975. G. Vaccarino, La partecipazione degli italiani nella resistenza nei Balcani, in E. Collotti-T. Sali-G. Vaccarino, L’Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mondiale, Milano 1967 (testo presso COREMITE). G. Vaccarino, La Grecia tra resistenza e guerra civile 1940-1949, in INSMLI (Istituto Nazionale Storia Movimento Liberazione in Italia), Milano 1988. M. Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, Milano 1963 (seconda edizione, 1964, terza edizione 1972, quarta edizione 1976). C. Vicentini (a cura di), Soldati italiani internati nei oflager tedeschi, “liberati” dai russi e morti successivamente nei lager staliniani (fonte: Arch. NKVD, Mosca), Centro Studi UNIRR, Roma (dattiloscritto). C. Vicentini-UNIRR, I prigionieri italiani in Urss negli archivi russi, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 51, Istituto Bergamasco Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, Bergamo 1999 (sono gli atti del convegno “Internati, prigionieri e reduci”, Bergamo, 16-17 ott. 1998).
Né morti... né vivi... Dopo Cefalonia e Corfù
447
E. Zampetti, La Divisione Acqui a Corfù, app. a Fede e amore nel Lager, diario d’epoca e saggi, opera inedita depositata nelle principali biblioteche, 1984, partim in R. Finati, op. cit. E. Zampetti, in C. Sommaruga (a cura di), La resistenza a Corfù (9-26 settembre 1943), Roma 1995. A. Zane, Resistere. La resistenza degli italiani all’estero, (audiovisivo), Ondastudios-Ondavideo, Milano 1995 (durata 94’). R. Zavatti, I 9.000 di Cefalonia, Modena 1946.
FIGURE SPETTRALI COME I NUMERI NEGATIVI IL RITORNO DEI DEPORTATI EBREI IN ALCUNE TESTIMONIANZE (1945-1948) di Alberto Cavaglion
La mia comunicazione non intende analizzare l’atteggiamento assunto da parte di tutta quanta la cultura italiana, ma soltanto alcuni giudizi che nel momento in cui vennero pronunciati furono ritenuti scandalosi sia per l’autorevolezza di chi li pronunciò sia per l’imbarazzo che essi determinarono (o possono ancora determinare). Sul periodo che è oggetto di questa sessione del convegno, ossia gli anni della riconquistata libertà, almeno per ciò che concerne la deportazione razziale gravano le conseguenze di perduranti luoghi comuni, di uno in modo particolare. Secondo questo diffuso luogo comune gli ultimi anni Quaranta sarebbero gli anni della rimozione, del silenzio. A sostegno di questa tesi viene di solito esibito, quasi ad ammonirci della vanità d’ogni indagine ulteriore, il rifiuto di Einaudi nei confronti di Se questo è un uomo, quasi un emblema, si suole dire, della sordità nei confronti dell’esperienza concentrazionaria. Non sono convinto che sia così. La mia tesi è che nel periodo 1945-1949 si riservò al problema un’attenzione che poi non si riscontrerà più, per molti anni. Di solito si pensa il contrario, ma non penso sia del tutto vero: in questo mi conforta vedere, nell’ultimo libro di Enzo Traverso, che anche per la Francia si possano esprimere delle perplessità.1 Come ho detto non ritengo l’episodio del no einaudiano a Levi indispensabile per capire l’atteggiamento dell’opinione pubblica italiana nei confronti dell’ebraismo all’indomani della Shoah. Ritengo anzi questo episodio del tutto marginale rispetto ad altri interventi di cui desidero parlare (penso per esempio al coraggio 1
E. Traverso, L'histoire déchiréé. Essai su Auschwitz et les intellectuels, Paris 1997.
Figure spettrali come i numeri negativi
449
di chi nel 1947 volle tradurre il libro di David Rousset sull’universo concentrazionario). Per farmi capire meglio vorrei partire dall’onestà intellettuale di un personaggio oggi dimenticato, un poeta ed un critico, Giacomo Noventa, il quale, poco prima di morire, aveva progettato di scrivere un’introduzione alla Silerchia del Saggiatore dove sarebbe stato inserito Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, il testo nel quale, a mio giudizio, meglio si ritrova il clima che si respirava nell’Italia appena liberata. Noventa, ai limiti quasi dell’ingenuità, “si poneva il problema di come gli Ebrei, dopo le persecuzioni, avessero la capacità di ricominciare a vivere”2. La capacità di “ricominciare a vivere” rimane il problema centrale nell’immediato dopoguerra: un problema che Noventa espone con un candore che sfiora l’ingenuità, ma rimane “il” problema su cui, bene o male, si è fondata la ricostruzione dell’identità ebraica dopo la Shoah, non solo in Italia. Se lo poneva, a modo suo e con immensa dottrina, un grande filologo come Giorgio Pasquali, il quale, per una faccenda editoriale assai meno sensazionale di quella che vide coinvolto Primo Levi, ebbe anche lui a subire alcuni dinieghi, per un libretto uscito solo pochi anni fa: i Ricordi di giovinezza di un professore tedesco di Marc Lidzbarski. Prima di rassegnarsi Pasquali batté l’uscio di quattro o cinque editori. Invano. Nel 1949 sulla “Rassegna d’Italia” pubblicò allora un lungo saggio che è qualcosa di più di una recensione a Lidzbarski: è una vera e propria rievocazione dell’ebraismo orientale massacrato da Hitler, un appassionante affresco di storia culturale e letteraria scritto una trentina di anni prima che avvenisse, con Magris, la scoperta italiana degli ost-juden. Segno evidente che, volendo, disponendo dei mezzi adeguati, anche nel ‘47-‘49 si poteva analizzare con equanimità l’ebraismo polacco e darne conto, in un articolo, che certo avrà avuto circolazione solo accademica, ma ha un suo spessore umano notevole.3 2 G. Debenedetti, Nota a 16 ottobre 1943 e Otto ebrei, Roma 1977, p. 66. A Noventa, che fu amico di Fortini, dedica pagine assai precise G. Fubini, Viaggio attraverso il pregiudizio, Torino 1996, pp. 72-73 e 82-83. 3 Bene ha fatto Marino Raicich a ristampare il saggio di Pasquali come postfazione ai Ricordi di M. Lidsbarski finalmente usciti nell'88 per i tipi di Passigli (ivi anche un bel saggio introduttivo dello stesso Raicich, con acute osservazioni sul clima del secondo dopoguerra e i reiterati rifiuti che ebbe Pasquali). Il saggio, Autobiografia anonima di un Giudeo polacco, primamente uscito su "La Rassegna d'Italia”, 1949, IV, n. 10, pp. 981-992, fu poi raccolto in G. Pugliese Caratelli (a cura di), Pagine stravaganti, vol. II, Firenze 1968, pp. 397 e ss. Di Pasquali non si dimentichi la
450
A. CAVAGLION
Vorrei pormi anch’io il problema di Noventa, sia pure lievemente modificandolo — ossia vorrei chiedermi come, e in quali termini, alcuni intellettuali italiani di grande prestigio, dotati di altissima tensione etico-civile, come Cajumi (che fu il primo a recensire sulla “Stampa” l’edizione antonicelliana di Se questo è un uomo) o Pasquali, si siano posti la domanda fatidica sul come gli Ebrei potessero ricominciare a vivere. Per svolgere questo compito vorrei prendere il discorso alla lontana, citando, quasi ad epigrafe, un passaggio a modo suo “scandaloso” ma al solito lungimirante dell’autobiografia di Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma: in questi giorni in cui, pressoché nel silenzio generale dei media, Valiani se ne è andato, preparando questa breve comunicazione, l’occhio mi è caduto su una sequenza di quel suo straordinario libro. Si tenga presente che, al momento della prima edizione, eravamo nel 1947: “Dai campi di concentramento sono stati rimossi i forni crematori e i seviziatori, ma son rimasti campi di concentramento per le nazioni vinte e per gli individui indifesi. Metà dell’Europa si è trasformata in una nuova razza ebraica, priva di diritti politici e spesso anche civili, che deve essere contenta, se le si concede il nutrimento”4. Accanto alla spietata inattualità di un passaggio come questo di Valiani vorrei accostare un passaggio della Storia di Elsa Morante, che è di parecchi anni dopo, sulle storie dei reduci e sulla loro volontà di ricominciare a vivere: Presto essi [gli ebrei] impararono che nessuno voleva ascoltare i loro racconti: c’era chi se ne distraeva fin dal principio, e chi li interrompeva prontamente con un pretesto, o chi addirittura li scansava, quasi a dirgli: “Fratello, ti compatisco, ma in questo momento ho altro da fare”. Difatti i racconti dei giudii non somigliavano a quelli di capitani di nave, o di Ulisse l’eroe di ritorno alla sua reggia. Erano figure spettrali come i numeri negativi, al di sotto di ogni veduta naturale, e impossibili perfino alla comune simpatia. La gente voleva rimuoverli dalle proprie giornate come dalle famiglie normali si rimuove la presenza dei pazzi o dei morti. E così, avviene alle figure illeggibili brulicanti nelle loro orbite nere, molte voci accompagnavano le solitarie passeggiatine dei giudii, riecheggiando enormi dentro i loro cervelli in una fuga a spirale, al di sotto della soglia comune dell’udibile.5 precoce presa di posizione contro il razzismo tedesco nel mirabile articolo I purosangue, in Pagine stravaganti, cit., vol. I, pp. 281 e ss. ora riprodotto anche in A. Cavaglion, Gli aratori del vulcano, Milano 1994, pp. 35 ss. 4 Cito dalla prima edizione L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze 1947, p. 357. 5 E. Morante, La storia, Torino 1974, pp. 376-377.
Figure spettrali come i numeri negativi
451
Una descrizione pressoché perfetta, un capolavoro di penetrazione psicologica, sia per ciò che concerne le “figure illeggibili brulicanti nelle loro orbite nere”, sia per ciò che concerne i loro distratti interlocutori. Una situazione storica, quella del ‘45-‘49, oggettivamente “illeggibile”, anzi collocabile “al di sotto della soglia comune dell’udibile”. Illeggibile, inudibile sì, è vero. A meno che non si possedessero le speciali antenne ricettive di un Noventa o di un Pasquali o di Valiani. Non tutti le possedevano però, queste particolari antenne ricettive. Qualcuno, constatata l’illeggibilità, passò oltre. La maggior parte degli intellettuali italiani nel 1945 preferì non voltarsi indietro. Presi dall’euforia della Liberazione, guardarono avanti. Altri, furono pochissimi — ma è di loro che si deve parlare — dimostrarono più coraggio proprio perché ebbero la fermezza di riflettere. Certo, così come si configurava nel ‘45, il problema era un vero rompicapo; per seguire la traccia della Morante, erano mesi in cui gli ebrei e la loro storia dovevano proprio configurarsi come “numeri negativi” per comprendere i quali ci voleva forte coraggio. I più preferirono nascondersi dietro un cordoglio lacrimoso, questo sì molto udibile, molto leggibile (perdura fino ai nostri giorni). Se si eccettuano le Scorciatoie e raccontini di Umberto Saba,6 il primo esempio di questa capacità, nonostante tutto, di cercare di capire i numeri negativi, di questa capacità di inchinarsi ad ascoltare racconti situati “al di sotto della soglia comune dell’udibile” riguarda l’anziano sacerdote modernista, Ernesto Buonaiuti, caduto vittima delle persecuzioni contro i novatori che all’inizio del secolo avevano osato sfidare le autorità ecclesiastiche. Buonaiuti pubblica, come è noto, proprio nel 1945, la sua bellissima autobiografia, il Pellegrino di Roma. Ascoltate quello che scriveva a proposito del processo di emancipazione che nell’Ottocento aveva equiparato i diritti della minoranza ebraica ai diritti di tutta quanta la cittadinanza. Un giudizio spietato: “Usciti dalla clausura dei ghetti, ammessi alla libera circolazione della vita nel mondo (gli ebrei emancipati) si erano dati a speculare sui cavalli e sui carri in mezzo a cui vivevano, a cercare 6 Non mi sembra che sia stato rilevato quanto sia importante questo libricino di Saba, uscito in prima edizione nel 1946 da Mondadori (ora Melangolo, 1993), che raccoglieva una serie di brevi testi composti fra il febbraio e il giugno 1945. Il genere della "scorciatoia", o del raccontino, fu la risposta del poeta triestino alla questione dello "scrivere dopo Auschwitz", anzi, come precisava l'autore, "dopo Maydaneck".
452
A. CAVAGLION
negli idoli menzogneri della cultura circostante, protezione e garanzia”7. Si può partire di qui, dalla angolatura parziale ma non storicamente infondata con cui Buonaiuti denuncia le anomalie del processo d’integrazione. Partiamo pure da questa citazione, ma avendo l’accortezza di precisare che tale giudizio, per la crudezza con cui venne formulato, spiacque a chi, per ascendenza materna, alla storia dell’emancipazione dai ghetti non era estraneo, vale a dire Arturo Carlo Jemolo. Scrivendo nel ‘64 la prefazione alla seconda edizione del Pellegrino di Roma non stupisce che Jemolo reputasse per lo meno discutibile quel giudizio sulle attività speculative di antenati che erano fra l’altro anche i suoi — e certo anche inopportuno, dato il momento in cui era stato formulato, nel ‘45, alla fine della seconda guerra mondiale, proprio all’indomani dello sterminio nazista. Vorrei sottolineare adesso, così da disporre sul tavolo tutte le mie carte, una coincidenza che mi sembra importante. Spietatezza e intempestività, intorno al ‘45, connotavano non soltanto le parole di Buonaiuti, ma erano anche l’assillo del suo antico avversario, Benedetto Croce, il quale, con pari intempestività, e non minore spietatezza, era sul punto di pronunciare contro gli ebrei e i residui primitivi della loro religione parole ancora più dure e crudeli, così alimentando la notissima polemica con Dante Lattes: una polemica destinata a fare epoca e ad aprire nuove ferite, tanto dolorose quanto non del tutto, direi nemmeno oggi rimarginate. Sulla spietata “inattualità” di Croce molto si è scritto in questi ultimi anni. Sul giudizio di Buonaiuti, escluso Jemolo, se non ho visto male, nessuno si è soffermato con la dovuta attenzione. Spietatezza e inattualità sembrano essere il denominatore comune che avvicina due personaggi fra loro agli antipodi e due episodi che caratterizzano un po’ l’intera epoca di cui discorriamo. Per chi vive nell’atmosfera ovattata dei nostri giorni, quella spietatezza può meravigliare, non deve però offendere. Mi chiedo, senza saper offrire una risposta. Non sarà che spietatezza e intempestività fossero le chiavi giuste per decifrare “i numeri negativi” di cui parlava la Morante? Non sarà che senza
7 Cito dalla seconda edizione, quella che reca la prefazione di Jemolo: E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, Bari 1964, pp. XXVII e 5O8 (la prima edizione è del 1945).
Figure spettrali come i numeri negativi
453
spietatezza fosse impossibile rendere udibile ciò che era sotto la soglia comune dell’udibile? Intanto bisognerà aggiungere che, sebbene fra loro avversari, Croce e Buonaiuti avevano le carte in regola per fare affermazioni spiacevoli e per certi tratti anche sgradevoli. Escludiamo subito che in quelle parole vi fossero cattive intenzioni o malafede. Croce aveva dalla sua parte tutta una progenie di discepoli ebrei diretti o indiretti che è persino inutile elencare. Dal canto suo Buonaiuti poteva permettersi di scrivere così perché ricordava bene la sua giovinezza, il fascino che il suo insegnamento aveva esercitato su un filone assai poco ortodosso e anticonformista dell’ebraismo italiano; in particolare Buonaiuti non poteva dimenticare la stagione romana dell’immediato dopoguerra — diciamo all’incirca dal ritorno di Giolitti all’avvento di Mussolini o all’assassinio di Matteotti o se preferiamo appoggiarci a due date legate al sionismo, dalla dichiarazione Balfour alla visita di Chaim Weizmann a Roma (1922). A quell’epoca, a Roma, “l’essere sionisti non escludeva necessariamente l’essere buonaiutiani”8. Valgano per tutti gli anni universitari e l’esempio di Enzo Sereni, la sua tesi di laurea nata nell’entourage buonaiutiano, la sua precoce partenza per la Palestina. Di questa storia, ancora in larga parte da scrivere, di un ebraismo “buonaiutiano” non pregiudizialmente ostile al sionismo, facevano parte uomini come Felice Momigliano, Alberto Pincherle, Max Ascoli, Tullio Levi-Civita, Antonello Gerbi (il Don Ferrante della “Giustizia” di Claudio Treves). Personaggi di questo tipo non si sarebbero risentiti se, sui primi anni Venti, come certamente sarà loro accaduto, quel fiero giudizio sui risvolti speculativi e affaristici dell’emancipazione ebraica lo avessero ascoltato dalla viva voce di Buonaiuti medesimo; non si sarebbe risentito Claudio Treves9 e quanti con lui sulla stampa socialista avevano già a suo tempo contestato, sul finire del secolo scorso, la spregiudicatezza, l’abilità di mercatura, di molti ebrei piemontesi ai tempi della Destra storica e delle leggi sui beni ecclesiastici, origine di tante fortune economiche (basti un solo esempio recente: le memorie di Davide Jona, dove si racconta come fra cavalli, e non pochi idoli menzogneri, fu in sostan8 P. Treves, introduzione a A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica: 1750-1900, Milano-Napoli 1983, p. XXXII. 9 A proposito dell'influenza di C. Treves su certo antifascismo ebraico torinese rinvio a A. Cavaglion, introduzione a G. Segre, Piccolo memoriale antifascista, Firenze 1999.
A. CAVAGLION
454
za costruita la fortuna della famiglia Olivetti, prima della svolta socialisteggiante data all’azienda da Camillo Olivetti)10. Non si sarebbero risentiti Claudio Treves, Pincherle, Ascoli, Gerbi, perché l’avversione contro coloro che si erano messi “a cercare negli idoli menzogneri della cultura circostante, protezione e garanzia”, la condividevano, nella sostanza e nella forma. L’avrebbe condivisa lo stesso Jemolo, storico della Restaurazione, ma anche autore, nelle sue memorie, di un commovente affresco di una realtà che non conosceva speculazioni né intrighi economici. Un universo “povero”, quello dei piccoli commercianti di Ceva che vendevano di tutto, stoffe, telerie, cappelli da prete e berretti da ufficiali degli alpini, bottoni, aghi — insomma il piccolo mondo antico descritto nel capitolo “Più vecchie storie” di Anni di prova.11 Forse agiva — in Buonaiuti come del resto agirà in Croce — un eccesso di sdegno, che la tragedia dello sterminio aveva acuito al punto da rendere insopportabile l’eventualità del tacere. Altri intellettuali, più giovani del filosofo napoletano e del pellegrino di Roma, nel quinquennio della ricostruzione e poi ancora a lungo negli anni Cinquanta preferiranno autocollocarsi davanti ad un più comodo bivio: che di volgersi indietro ad osservare quanto era accaduto non se ne parlasse proprio o che ci si inchinasse in un cordoglio meramente celebrativo. Tutto fuorché prendere di petto il problema e affrontarlo senza giri di parole. Le dimensioni della tragedia, così come si configurarono subito, nella seconda metà del ‘45, erano tali da indurre temperamenti poco inclini all’ipocrisia, come Croce e come Buonaiuti certamente erano, a far passare in second’ordine il timore di offendere qualcuno, di creare “scandalo” fra le vittime della persecuzione. Tacere sembrò ad entrambi una viltà. Opposte, naturalmente, le ragioni culturali che stavano a monte di un simile eccesso, identiche le credenziali che ambedue potevano vantare. Ieri, la spietata inattualità di Croce e di Buonaiuti sdegnò Lattes e Jemolo. Oggi credo ci suoni più famigliare: riusciamo a capirla meglio, consapevoli come dovremmo essere che la franchezza, anche all’indomani di una tragedia, aiuti a risolvere i problemi assai più della convenzionalità. I termini della polemica con Croce di Dante Lattes ci sono più noti. Non posso riassumerli qui, per intero, altri lo ha già fatto. 10 11
D. Jona-A. Foa, Noi due, Bologna 1997. A. C. Jemolo, Anni di prova, Vicenza 1969, pp. 58-59.
Figure spettrali come i numeri negativi
455
Trovo però inaccettabile che s’insinui il sospetto che nelle parole di Croce vi fossero ragioni bassamente accademiche, legate alla restituzione delle cattedre sottratte ai docenti ebrei dopo il ‘38. Già per natura alieno alle consorterie accademiche, Croce s’avviava in quegli anni al tramonto e alla messa al bando delle sue idee e dei suoi libri. Riporto solo i punti salienti della polemica. In una lettera a Cesare Merzagora, poi uscita come prefazione al volume I pavidi, che è di due anni posteriore alla pubblicazione delle memorie buonaiutiane, e cioè del ‘47, Croce aveva sostenuto che “lo studio degli ebrei dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere che ne dia ancora in avvenire”. Lattes obiettava subito che tale consiglio Croce lo dava bensì agli ebrei, ma si sarebbe tuttavia ben guardato dal rivolgerlo “a nessun altro nucleo etnico e nazionale, né ai Protestanti od ai Musulmani che vivono in paesi cattolici o cristiani, né ai Cristiani che vivono in Paesi musulmani, né agli Italiani, o agl’Irlandesi d’America e addirittura si sarebbe guardato dal rivolgerlo ai liberali, ai repubblicani, ai comunisti che volessero persistere nella loro politica, dando con ciò occasione o pretesto a governi reazionari e tirannici di perseguitarli”12. Bene, io credo che occorra, da parte ebraica, un minimo di autocritica, su un terreno certo più scosceso di quello lungo il quale ci aveva guidati Buonaiuti. Buonaiuti, in fondo, aveva affrontato un problema remoto: quello delle speculazioni commerciali ed economiche avvenute nel periodo della Destra storica, origine di tante campagne antigiudaiche di fine secolo, di quella della “Civiltà Cattolica” in primo luogo. Croce, invece, con eguale spietatezza, mette il dito su di una ferita più grossa, una ferita che ancora grondava lagrime e sangue. Le pagine che Gennaro Sasso nel 1989 ha dedicato a questa polemica, nel suo libro sui taccuini di Croce, a me sembrano per 12 Le citazioni della polemica Croce-Lattes sono riprese da F. Pardo, L'ebraismo secondo B. Croce e la filosofia crociana, Firenze 1948, p. 10, dove sono raccolti tutti quanti i testi della discussione. Le pagine di Croce sono rifluite in Scritti e discorsi politici, II, Bari 1963, a p. 325 la citazione riportata qui sopra.
456
A. CAVAGLION
molti aspetti condivisibili.13 Dico questo, a scanso di equivoci, perché mi sembra che la realtà attuale dell’ebraismo diasporico, e non solo di esso, impongano tale parziale autocritica, la rendano in certa misura improrogabile e quanto mai attuale. Vi sono delle parti, nell’analisi di Sasso, che andrebbero approfondite, questo va da sé; ci si potrà dolere che sorvoli e troppo sbrigativamente liquidi lo scritto Perché non possiamo non dirci cristiani (è troppo comodo affermare, come fa lui, che questo “non è fra gli scritti più felici” di Croce); si potranno contestare questa o altre affermazioni, ma non si potrà negare che Sasso sia stato fin troppo cortese e garbato quando definisce “una stravaganza avvocatesca”14 gli argomenti addotti da Lattes nella sua replica a Croce; è in effetti è a dir poco una stravaganza il paragonare la questione ebraica a quella dei partiti politici o delle minoranze religiose emigrate all’estero o delle altre confessioni religiose in genere. È una evidente contraddizione. Penso sia inutile oggi, passati cinquant’anni, persistere in una difesa d’ufficio delle tesi di Lattes, una difesa che, se tenacemente perseguita come vedo viene fatto ancora oggi, a me sembra corporativa pur se animata dalle più nobili intenzioni. Le obiezioni che Lattes muoveva a Croce denotavano innanzitutto una cattiva conoscenza, diciamo pure una pressoché totale non conoscenza di ciò che il filosofo napoletano aveva scritto sui rapporti fra filosofia e religione, una non conoscenza esattamente speculare alla non-conoscenza dimostrata da Croce nei confronti dell’ebraismo: le notazioni crociane sulla cultura e sulla storia degli ebrei in Italia di regola sono inferiori a quanto ci si potrebbe aspettare da lui. In egual misura Lattes scriveva come se non conoscesse affatto la ferma presa di posizione che nel 19O7 Croce aveva formulato contro il modernismo cristiano. Nei confronti dei modernisti, dello stesso Buonaiuti, Croce era stato, dopo la Pascendi, non meno crudele di quanto sarà nel ‘47 contro gli ebrei. Un’intera generazione di novatori cristiani si era sentita offesa più dal rifiuto degli idealisti (di Croce ed anche di Gentile) che dall’enciclica del pontefice.
13 G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di B. Croce, Bologna 1989, pp. 179 ss. 14 Ivi, p. 216.
Figure spettrali come i numeri negativi
457
Denotavano altresì, le idee di Lattes, una scarsa consapevolezza di ciò che era stato il liberalismo dell’età giolittiana, una scarsissima conoscenza di quelle condizioni di cose che s’erano via via determinate in Italia fra la fine del secolo decimonono e i primi trent’anni del successivo, quando, per il forte contributo dato alla causa nazionale nelle guerre del Risorgimento, anche in Italia la cosiddetta “assimilazione” non aveva avuto affatto i caratteri deteriori che la storiografia attuale sovente le attribuisce. A quel periodo di un non lontano passato Croce invece si riferiva e il suo nostalgico ritorno a quella felice stagione — di cui la Storia d’Italia (1928) è il documento più alto — determinava in lui il sorgere della “speranza che, superato per sempre il trauma dello sterminio, ebrei e italiani, ebrei e gentili, si riconoscessero di nuovo nel segno dell’unica e comune umanità e civiltà”15. Che quel momento, auspicato da Croce, non sia oggi arrivato? Formulo la domanda, senza saper dare la risposta. Ma il problema mi sembra chiaro, sebbene temo che molti fra coloro che mi ascoltano saranno poco disposti ad ammetterlo. Il problema serio è che la contraddittoria interpretazione delle posizioni crociane data da Lattes, e poi sottoscritta quasi all’unanimità dalla maggioranza degli studiosi dell’ebraismo formatisi in questo secondo dopoguerra, a mio avviso ha generato e continua a generare una forzata e talora errata interpretazione della storia degli ebrei in Italia, una forzatura che si riflette in molti lavori anche molto seri e scrupolosi che sono stati pubblicati da un po’ di anni a questa parte. Da una siffatta erronea premessa deriva un concetto di diversità, o di differenza, che è tipico della nostra società odierna, ma non ha riscontri nell’età giolittiana e pre-fascista, cioè il periodo cui Croce andava con il pensiero e l’immaginazione. Attribuendo alla cultura liberale, come di solito si sente ripetere, la colpa di aver fatto pressioni per omologare le peculiarità di “una diversità diversa da ogni altra”, riconoscendo agli ebrei ogni diritto in quanto individui e non in quanto gruppo collettivo — in breve chiedendo agli ebrei di adattarsi alla società circostante e non invece, come sarebbe stato naturale, chiedendo alla società circostante di adattarsi agli ebrei — troppo spesso si fa uso di una categoria, l’”uguaglianza nella diversità”, che è 15
Ivi, p. 187.
458
A. CAVAGLION
un’aspirazione — una nobilissima aspirazione dei nostri tempi —, un sogno che affonda le sue radici proprio nel trauma del ‘43-‘45 ma è ben lungi dall’essere realizzato e tanto meno trova agganci con il pensiero liberale ottocentesco. Essere eguali nell’Ottocento e primo Novecento voleva dire essere tutti liberi cittadini all’interno di una nazione, nella quale il territorio aveva una funzione ineludibile. Nella sfera politica lo stato liberale, nel quale Croce fermamente credeva, avrebbe tradito se stesso, la sua stessa essenza, se avesse lasciato sussistere distinzioni, separazioni e non avesse tutti riconosciuti “pari nella libertà”. In altre parole, per essere più franchi ed espliciti, noi troppo spesso pensiamo che “diversità” e “differenza” siano sinonimi di “separazione”. Diversità non è separatezza. Pensiamo ad un’altra questione dei nostri giorni, nata proprio dalla tragedia dello sterminio, ma inimmaginabile prima. Sempre più spesso, a proposito di questo o quell’altro personaggio — scrittore, uomo politico, poeta, filosofo, vissuto prima delle leggi razziali — viene sollevata la questione della sua “specificità” ebraica. Dove sarebbe la “specificità” ebraica supponiamo di uno Svevo, di un Luzzatti, di un Michelstaedter e via dicendo? La domanda è in sé mal posta ossia è posta con le lenti del nostro tempo, di chi ha subito la ferita della Shoah. Non se la potevano porre, quella domanda, almeno fino al ‘38, ma taluni fino al ‘43, nessuno degli ebrei che gli storici odierni accusano di scarsa consapevolezza ebraica. Non se la ponevano Isacco Artom, Tullo Massarani, Claudio Treves, Leone Ginzburg, Nello Rosselli e così via. Per i tempi in cui i suddetti personaggi si trovarono a vivere il termine di “specificità” suona di per se stesso anacronistico. Il liberalismo aveva delle regole, l’ebraismo delle altre regole. Ammettere “una diversità diversa dalle altre” significava per il liberalismo rinunciare ad una parte di sé. Era come chiedere all’ebraismo di riconoscere la Torah, ma amputandola di Bereschit. Pochissimi ebrei realmente ortodossi compresero l’impossibilità di un accordo e se ne andarono. A me viene in mente soltanto Gershom Scholem. In Italia avrei moltissime difficoltà a fare dei nomi. Ora non vi è dubbio — lo scrive assai bene lo stesso Sasso — che a Croce, nel ‘47, quando scriveva quella lettera a Merzagora, “mancò l’animo di guardare fino in fondo nell’abisso, di misurare la profondità del trauma che la coscienza ebraica aveva subìto, di
Figure spettrali come i numeri negativi
459
coglierne la conseguenza della nuova, potenziale, separazione che, in seguito allo sterminio, si era determinata”16. Su questo non si discute e tanto basta a gettare ombre sulla freddezza di chirurgo, talora inumana, con cui Croce soleva affrontare i problemi, non solo il nostro. Ripeto, però: rispetto alle smancerie accattivanti di tanta editoria che oggi “scopre” l’ebraismo per farne l’oggetto di una moda, ben venga la freddezza del chirurgo. Molte cose essendo cambiate, penso sia venuta l’ora di riconoscere che la colpa di Croce, di Buonaiuti — ossia l’”inattualità” delle loro posizioni — meriti rispetto. Quanto alla tesi profetica, ma altrettanto scandalosa formulata da Valiani sulla “nuova razza ebraica”, priva di diritti politici e civili, “che deve essere contenta se le si concede il nutrimento”, la storia del secondo dopoguerra ha provveduto da sé a renderla più vera, purtroppo. Viceversa ritengo che la tesi di Lattes sulla differenza intesa come separazione, più “attuale” che mai nel momento in cui veniva formulata, stia diventando ogni giorno di più “inattuale” nel mondo in cui ci troviamo a vivere noi, un mondo caratterizzato da evidenti divisioni, soprattutto all’interno dell’ebraismo, diasporico e non. E mi chiedo addirittura se non sia più prossimo all’idea di monoteismo, fondamentale per gli ebrei, l’”unità” umana (menschliche Einheit) che Croce non si stancò mai di ripetere, dai primi suoi contributi fino agli agli ultimi, piuttosto che non il ricorrere alla differenza intesa come separatezza: un concetto, la cui origine affonda certo nella Shoah, ma che, a ben vedere, l’ortodossia potrebbe — non a torto — tacciare di dualismo e dunque di politeismo. La radice profonda dell’”unità” crociana non stava forse molto lontano dall’idea di unità che è alla base della cultura ebraica, da cui discende la cultura greco-cristiana che Croce sembra porre al vertice della civiltà (ed è giusto offendersi se Croce scriveva così, ignorando la radice giudaica di quella civiltà, ma nei decenni passati poche rare voci si erano levate per spiegargli che si stava sbagliando). Viene insomma da chiedersi se quell’ideale di “unità”, nel quale si erano riconosciuti moltissimi ebrei prima della Grande Guerra (Sasso cita giustamente come modelli le autobiografie di 16
Ivi, p. 196.
460
A. CAVAGLION
Raymond Aron e di Karl Löwith, in Italia si potrebbero aggiungere le memorie di un Massarani, di un Mortara, di un Ancona) non coincida con la fede monoteista proclamata ogni giorno, nelle preghiere quotidiane, dagli ebrei osservanti. Una unità nella quale tutti si riconoscano “pari” nella libertà. Sarà il caso di rammentare che queste cose che a taluni potrebbero sembrare estremamente astratte e filosofiche, Croce non si era trattenuto dal ripeterle ad alta voce, nel 1935, davanti alle orribili notizie che giungevano dalla Germania? Forse sarà bene rileggerle insieme: “Superfluo aggiungere”, scriveva dopo aver rilevato quanto fosse stato grande l’apporto degli ebrei alla cultura e alla scienza germanica, “che quegli uomini che servivano al vero e al bello, e che noi ammiravamo, non erano poi né ebrei né tedeschi, e l’opera loro aveva origine non nella loro nazionalità, ma nella loro comune umanità: nella comune umanità, che ora è in essi e per essi, offesa in tutti noi”17.
17 B. Croce, L'ibrida 'germanicità' della scienza e cultura tedesca, “La critica”, 1935, n. 33, p. 237 (Pagine sparse, III, p. 181).
APPUNTI SUL RITORNO DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI* di Nicola Labanca
Una ricerca di storia locale in corso sul ritorno in patria degli Internati militari ha spinto ad alcune considerazioni storiografiche che speriamo possano essere utili in questa sede. La ricerca intende indagare le modalità e le conseguenze del ritorno nelle comunità d’origine di quei militari che, partiti per la guerra dalla Toscana, erano stati fatti prigionieri dai tedeschi all’8 settembre 1943 e tornavano a casa a partire dalla primaveraestate del 1945. Altro dato caratteristico di questa ricerca ormai prossima alla conclusione è quello di basarsi principalmente sulla fonte orale.
Ricerche nuove Da questo punto di vista la ricerca toscana appare parallela all’importante e meritoria raccolta di testimonianze che, più o meno in questi stessi anni, è stata promossa nel modenese da Giovanna Procacci. Per certi versi, si potrebbe affermare che ambedue queste iniziative di ricerca non sono altro che il riflesso e l’applicazione in sede locale (cioè più circostanziata e concreta) del nuovo e recente interesse storiografico verso lo studio storico * Questo testo riprende alcune considerazioni già svolte in Il ritorno dei prigionieri, l’identità degli internati militari (in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 1999, n. 51) e ne anticipa altre che vedranno la luce nel volume che raccoglierà i risultati e le testimonianze della ricerca su “Il ritorno. La voce degli ex-internati militari”, promossa dalla Federazione fiorentina dell’Associazione nazionale ex-internati e resa possibile da un finanziamento del Comitato per il Cinquantenario della Repubblica e della Costituzione del Consiglio regionale della Toscana: la ricerca è in corso di stampa (Firenze, Giuntina, 2000).
462
N. LABANCA
della prigionia di guerra e in particolare dell’internamento militare, studio fortemente rilanciato dai convegni del 1985 e del 1991 nonché dal poderoso volume di Gerhard Schreiber e di altri ancora.1 La ricerca toscana è ben consapevole dei propri limiti e del proprio limitato scopo. Il piccolo gruppo di ricerca2 non ha infatti teso a ricostruire la complessa vicenda vissuta nei campi di prigionia, ma è stato interessato principalmente dai tempi, dalle modalità, dagli esiti e dalle conseguenze del ritorno in patria. In altri termini, più che al 1943-45 si è stati interessati al post-1945. In ultima analisi, la si potrebbe quasi vedere come una ricerca non tanto attorno alla prigionia nel tempo di guerra quanto attorno alla cittadinanza nel dopoguerra e nel tempo di pace, una ricerca non tanto sul nazifascismo e sulla Resistenza quanto sulla Repubblica e sul ruolo in essa della memoria della guerra fascista e di una peculiare “Resistenza senz’armi”3. Per tali ragioni veniva chiesto ai testimoni non tanto cosa avevano fatto nei campi dell’internamento, quanto se e come quella esperienza, tragica e indimenticabile, avesse pesato o fosse poi servita nel dopoguerra. Il punto era se, quanto e come i fatti del 1943-45, che comunque i testimoni ci raccontavano (non essendo per loro nemmeno concepibile che si potesse essere disinteressati ad essi), avessero prodotto un’identità collettiva. Più che all’imposizione di una identità (forzata, di prigionieri e di IMI), ci si andava chiedendo il se, il come e il quando di una scelta, di una creazione o ri-creazione di un’identità collettiva di IMI. Anche se si tornerà più avanti su questi punti, è quindi bene sottolineare — rispetto a gran parte degli studi disponibili e ad altre ricerche in corso — come la ricerca toscana abbia ben chiari i propri limiti e i propri confini, di indagine locale e settoriale su uno solo dei molti temi connessi all’esperienza degli ex IMI. 1 Cfr. G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull’internamento, in N. Della Santa (a cura di), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, Firenze 1985; N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), Firenze 1992; G. Schreiber, I militari italiani nei campi di concentramento del terzo Reich 1943-1945. Traditi, disprezzati, dimenticati, Roma 1992; L. Tomassini (a cura di), Le diverse prigionie dei militari italiani nella seconda guerra mondiale, Firenze 1995; U. Dragoni, La scelta degli IMI. Militari italiani prigionieri in Germania 19431945, Firenze 1993. 2 Composto da chi scrive e da Lucia Briani, Nicola Della Santa e Sandro Nannucci. Eleonora Bocciolini ha trascritto i testi. 3 Cfr. Resistenza senz’armi, Firenze 1984 (seconda edizione 1988).
Appunti sul ritorno degli Internati militari italiani
463
Il ritorno e le identità Il ritorno del combattente in patria, al lavoro, in famiglia — in una parola il suo reinserimento — è un momento decisivo delle società del dopoguerra. In quel momento, non meno che negli anni di guerra,4 esse rivelano e al tempo stesso costruiscono i propri caratteri fondativi. Già la prima guerra mondiale lo aveva dimostrato. Ma mentre nel 1918-19 la figura del combattente era monolitica,5 nel post-1945 la differenziazione era il tratto dominante: di conseguenza il prigioniero della seconda guerra mondiale non poteva non essere diverso da quello della Grande Guerra.6 In verità, il primo e più straziante “ritorno” fu quello dei tanti che non fecero invece mai più ritorno: le vittime della deportazione razziale, in primo luogo, fra i cui parenti scampati si erano presto diffuse le notizie allucinanti e quasi incomprensibili della “soluzione finale” nazista. Aggiungeremo le vittime della deportazione politica, i malati e poi deceduti in prigionia, i combattenti “dispersi” rispetto a cui le autorità militari non sapevano dare notizie: che le famiglie attesero a lungo, tra speranze e presentimenti. Il ritorno vero e proprio dai diversi campi di battaglia, che produsse non altrettanto diversificati ma certo diversi ritorni, interessò forse un paio di milioni di uomini:7 all’incirca un italiano su venti, forse un adulto maschio su cinque. Quell’ingente numero di uomini conobbe ritorni assai diversi fra loro. Dal punto di vista del sentimento, i combattenti partigiani si sentivano certo i vincitori, mentre è evidente che i militari della repubblichina neofascista accumularono quei rancori e quegli odi da tradimento che caratterizzarono poi lo spirito delle loro associazioni. Dal punto di vista delle reali possibilità di occupazione e di reinserimento, però, non fu per nulla assicurato ai combattenti partigiani quel titolo di merito che essi pensavano a buon titolo di aver guadagnato. 4
Cfr. M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano
1989. 5
Cfr. almeno A. Prost, Les ancien combattants et la société francaise, 1914-1939, Paris
1977. 6 Cfr. per l’Italia Giov. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, con una raccolta di lettere inedite, Roma 1993 (nuova edizione, Torino 2000). 7 Cfr. G. Rochat, Gli uomini alle armi 1940-1943, in L’Italia in guerra 1940-1943, Brescia 1991, ora in Id., L’esercito italiano in pace e in guerra. Studi di storia militare, Milano 1991.
464
N. LABANCA
Il ritorno dei soldati del Regno del Sud fu ancora più particolare e risentiva dell’ancipite natura del loro impegno militare: per un certo verso coscritti, essi gioirono della fine delle ostilità che affrettava il ritorno a casa; per un altro verso, quasi volontari, essi perdevano una sicurezza di tipo occupazionale, dura e faticosa (erano stati impegnati soprattutto come ausiliari delle forze armate anglo-americane), militarmente non molto rischiosa ma anche assai poco glorificata, e di cui la nazione e le istituzioni militari si dimenticarono in fretta. Fra i prigionieri, le diversità furono non minori.8 Intanto c’erano diversificati fardelli di esperienza e di memoria da lasciarsi alle spalle. Fra i prigionieri di parte alleata c’era innanzitutto la divisione fra cooperante e non cooperante, e poi quella fra chi aveva usufruito delle possibilità connesse alla detenzione nei tranquilli e agiati Stati Uniti e chi invece aveva dovuto sottostare alle durezze dei campi britannici nella lontana e povera India, se non addirittura alla detenzione punitiva di certi campi francesi dell’Algeria. C’erano poi i prigionieri in mano sovietica, che scontarono assieme molte cose: le miserie dello stato staliniano, la volontà russa di punire l’invasore alleato del nazismo (sino alla morte), la lunghissima detenzione, ben oltre la fine dei combattimenti. Fra i prigionieri in mano tedesca, infine, cioè fra gli Internati militari italiani, le esperienze erano state non meno diversificate: la prima differenza era stata fra ufficiali e soldati, costretti i primi alla detenzione nell’inedia e nell’inazione, obbligati assai presto i secondi al lavoro e allo sfruttamento in condizioni fisiche che quasi sempre mal tolleravano sforzi di qualsiasi genere. È evidente che le differenziazioni del tempo della prigionia non dettero automaticamente luogo a differenziazioni nel dopoguerra: ma è anche vero che le prime non converrebbe sottovalutarle. Diverse prigionie significarono in primo luogo diverse cronologie del ritorno a casa. In secondo luogo spesso la prigionia minava gli uomini nel fisico, ma anche qui in maniera differenziata. Gli psicologi che hanno studiato le coscienze dei prigionieri hanno riscontrato, pur nella comunanza della condizione di abbrutimento dovuto a istituzioni di tipo “totalizzante”, traumi di8 Cfr. G. Rochat, Le diverse prigionie dei soldati italiani, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 1999, n. 51; R. H. Rainero (a cura di), I prigionieri italiani durante la seconda guerra mondiale, Milano 1985; F. Conti, I prigionieri di guerra italiani 1940-1945, Bologna 1986.
Appunti sul ritorno degli Internati militari italiani
465
versi a seconda delle diverse esperienze.9 Inoltre, e forse soprattutto, diverse figure di combattente o di prigioniero poterono avvantaggiarsi — nel dopoguerra — di una diversa ridistribuzione di risorse, materiali e simboliche. Se l’identità non era solo connaturata alle loro personali esperienza ma era anche formata e trasformata dall’azione della politica e dello stato, queste ridistribuzione di risorse dovette agire al tempo stesso da corroborante e da ricreatore di “comunità immaginarie” fra loro diversificate.
L’identità degli ex internati nel ritorno Un’identità si crea in assoluto e per reazione ad altre realtà, ad altre identità. Come le altre legate alla prigionia, quella di ex internati forse non fu mai un’identità forte, generale, tale da potersi imporre o in grado di sostituire altre (ideologiche, sociali, geografiche ecc.). Certo per alcuni, imprenditori politici della memoria, essa costituì persino una ragione di vita: ma furono molto pochi, soprattutto in un primo momento. E quando, più recentemente, questo numero si è allargato, si è pur sempre trattato di una realtà minoritaria, ormai sempre più pressata dalle ineluttabilità anagrafiche. In ogni caso per la massa dei seicentomila italiani che tornarono dai lager l’identità di ex internato non fu costante, subendo anzi una torsione nel tempo: dapprima si creò, subito si rafforzò, poi si disperse e solo infine si ricreò, sempre però in relazione alle altre identità collettive (proprie e altrui). Difficile allo stato attuale delle conoscenze,10 e in questa sede, essere esaustivi. Anche la ricerca sulle fonti orali della Toscana, pur specificamente dedicatavi, non ha l’ambizione di essere conclusiva su questo punto. Di certo però si può affermare che l’identità di ex internato si creò nonostante la politica “liberale” tenuta dallo Stato repubblicano nei confronti di questa sezione
9 Prime indicazioni già in A. Devoto, L’oppressione nazista. Cosiderazioni e bibliografia 1963-1981, Firenze, 1983; e in A. Devoto-M. Martini, La violenza nei lager. Analisi psicologia di uno strumento politico, Milano 1981. 10 Cfr. C. Sommaruga (a cura di), Dopo il lager. La memoria della prigionia e dell’internamento nei reduci e negli “altri”, Napoli 1995 (Gruppo ufficiali internati nello Straflager di Colonia); P. Vaenti (a cura di), Il ritorno dai lager, Cesena 1996: importanti soprattutto perché segnalano la rilevanza della tematica.
466
N. LABANCA
del mondo dei reduci.11 Un ruolo rilevante, proprio a causa di questa “leggerezza” della politica assistenziale statale, lo ebbero le comunità e le reti di relazione locali: cosa che moltiplicò le differenziazioni fra gli exinternati, e quindi l’affievolirsi dell’identità collettiva stessa, nonostante gli sforzi organizzativi dell’associazione “di categoria”, l’ANEI. Per differenziazione rispetto alle altre sezioni dei reduci di guerra, si potrebbe dire che l’identità collettiva degli exinternati fu certamente assai più labile di quella — cementata col sangue delle perdite — dei sopravvissuti alla deportazione razziale. Mancò della coerenza, ma anche della rigidità e della consapevolezza di chi era scampato alla deportazione politica. Certo non conobbe i tributi ricevuti dal combattentismo partigiano, tributi che peraltro erano naturali in una Repubblica “nata dalla Resistenza” e che furono troppo spesso retorici e non sostanziali: a differenza degli expartigiani, però, gli exinternati e l’ANEI non combatterono alcuna battaglia aperta per riaffermare quelli che comunque potevano legittimamente ritenere i loro diritti. Così, quando tributi e diritti arrivavano in un certo senso octroyées dai governi centristi o di centrosinistra dell’Italia repubblicana, essi potevano — più che rinsaldare l’identità collettiva stessa — affievolirla. Si potrebbe osservare che la scelta dell’associazione degli ex internati di ribadire ad ogni pie’ sospinto la propria apoliticità e il proprio carattere di associazione di exmilitari,12 se era una scelta esattamente opposta a quella delle associazioni partigiane, non era inconsueta ad un’associazione di ex prigionieri e finiva per apportare dei vantaggi concreti nei decenni della Guerra fredda. D’altro canto, cosa singolare, quella scelta finiva per spostare l’associazione e più in generale l’identità collettiva degli ex internati verso quel mondo del reducismo militare e delle associazioni d’arma da cui la stessa esperienza personale degli ex internati si 11 La definizione è di A. Bistarelli, Il reinserimento dei reduci, in Bruna MichelettiPier Paolo Poggio (a cura di), L’Italia in guerra 1940-43, “Annali della Fondazione Micheletti 5”, Brescia 1992; cfr. anche A. Bistarelli, Per una storia del ritorno. Cinque note sui reduci italiani, in Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Milano 1989; cfr. anche però C. Pavone, Les anciens combattants de la deuxième guerre mondiale, in A. Wahl (a cura di), Mémoire de la seconde guerre mondiale. Actes du colloque de Metz 1983, Metz 1984; e C. Pavone, Appunti sul problema dei reduci, in Nicola Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-45, Milano 1985. 12 Cfr. N. Labanca, La memoria ufficiale dell’internamento. Tempi e forme, in Id. (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), cit.
Appunti sul ritorno degli Internati militari italiani
467
era oggettivamente allontanata nello stesso momento in cui era stato pronunciato quel “no” così “politico” all’adesione alla RSI. Col passare del tempo, mentre le istituzioni militari si dimostravano sempre più avare di riconoscimenti agli ex prigionieri in genere, anche questa scelta doveva contribuire ad allentare l’identità collettiva o quanto meno il suo carattere totalizzante. Su questo canovaccio generale, che tale va inteso e non come modello, si imbastirono ovviamente le più diverse storie personali. Condizioni sociali, inclinazioni ideologiche, reti di relazioni (fra tutte, la presenza o meno nel territorio di una sezione dell’ANEI, o dell’ANCR) erano destinate a modificarlo radicalmente. Importante è ribadire che anche questa identità collettiva, come le altre dei reduci della seconda guerra mondiale, ebbe le sue proprie forme ma anche i propri tempi. Abbiamo già insistito altrove sul fatto che sarebbe un errore, tanto in generale quanto per gli ex internati, ritenere che i fenomeni identitari siano intesi astoricamente. Per gli ex internati dovette essere lo stesso. Forte al momento dei campi, un qualche senso di identità comune diventò più forte al momento del ritorno. Ma poi fece posto a sentimenti molteplici (volontà di dimenticare, coazione a ricordare, novità legate al reinserimento nella società civile e all’assunzione di altre identità: di lavoro, di vita, di collocazione ideologica) fino a quando, ad un certo punto, avvenne che non ci si sentì più (o non ci si sentì più tanto) ex internati. Da allora quell’identità tornava in secondo o terzo piano, tranne che per i militanti e gli imprenditori della memoria. Ciò non vuol dire che scomparve: ché anzi le associazioni, o i semplici ricordi personali, tornarono periodicamente a riproporre i temi dell’identità collettiva. Ma ci volle il tempo dei riconoscimenti, delle benemerenze e degli “scivoli pensionistici”: allora l’identità ritornò più forte, anche se ormai di tipo e di tono diverso rispetto al passato.
Le testimonianze toscane Sono state condotte quasi una novantina di interviste, per un totale di più di un centinaio di ore di registrazione. Le interviste sono state trascritte. Oggetto della ricerca, come si è detto, era la memoria del ritorno in patria, al lavoro, in famiglia. A tale scopo era stato prepa-
468
N. LABANCA
rato un questionario di tematiche, che l’intervistatore doveva tenere presente, con l’indicazione però di non trasformarlo mai in un questionario di domande. Una tale impostazione non rigida si è rivelata poi molto utile: ad esempio quando, alla prova dei fatti, la grande maggioranza dei testimoni ha voluto comunque parlare, in più o meno breve sintesi, della propria esperienza di prigionia (che nel questionario originario aveva uno spazio limitato). La disponibilità da parte degli intervistatori ad accogliere l’offerta di memoria dei testimoni ha poi reso possibile intessere collegamenti e confronti nelle tranche de vie fra vita pre-bellica, esperienza di prigionia e ritorno in patria, arricchendo la ricerca. I nominativi dei testimoni sono stati oggetto di una complessa selezione, nella quale sono intervenuti diversi fattori. Intenzione della ricerca era di sondare in varie direzioni (geografiche, sociali, ideologiche) la memoria degli internati. Non si intendeva certo ricreare, con una fonte dall’uso così delicatamente qualitativo, una specie di campione sociologico e quantitativo. Si intendeva però essere in grado di confrontare — pur nel prisma individuale delle storie di vita — analogie e differenze nel ritorno di cittadini e di contadini, di operai e di impiegati, di liberi professionisti e di imprenditori. Anche se la storia orale può essere stata considerata e può continuare a considerarsi alla stregua di una fonte che “ridà” la parola a chi non l’ha avuta, a noi interessava poter costruire un concerto polifonico di voci, anche discordanti. Abbiamo potuto farlo grazie alla collaborazione dell’Associazione nazionale ex internati (a cui dobbiamo la possibilità di consultare l’indirizzario generale toscano degli associati), dell’Associazione Combattenti e Reduci (che ha agevolato la ricerca fra i suoi soci degli ex internati), delle sezioni locali (che ci hanno fornito informazioni preziose. È grazie ad essi — oltre che alla catena delle conoscenze e delle reti di relazione — se, in completa autonomia di selezione e di ricerca, abbiamo potuto scegliere i nominativi da intervistare. Più che le procedure della selezione delle interviste, può forse essere utile in questa sede accennare alle forme della presentazione delle testimonianze stesse. Intenzione della ricerca era di contribuire a gettare luce sul complesso fenomeno del ritorno e di presentare (nel caso della fonti orali, anche di costruire) una fonte. Non c’era quindi intenzione di costruire una storia orale del rientro in patria degli ex internati, cosa peraltro possibile, ma cui
Appunti sul ritorno degli Internati militari italiani
469
avremmo preferito semmai una storia complessiva, con tutte le fonti. Le testimonianze orali erano quindi per noi brani di storie di vita, storie per una storia, soprattutto — in una parola — fonti.13 Le testimonianze orali ci si presentano come testi, da indagare nella loro complessità di relazioni con altre fonti — non solo con altre fonti orali — ma, in quanto testi, anche nella loro tessitura interna. Ciò non semplifica affatto il problema: a partire dalla trascrizione.14 Ecco perché, pur senza cadere in pedanterie, abbiamo però preferito lasciare nella trascrizione delle testimonianze raccolte l’immediatezza del linguaggio, le imprecisioni, anche una certa ripetitività del linguaggio orale. Questo non soltanto per filologia quanto perché anche nella ripetizione, nella sospensione dolorosa del pensiero, nella variazione appena percettibile posta dal testimone nel suo racconto, persino talora solo nel ricorrere a diversi aggettivi al momento di una riproposizione di una memoria già accennata, il ricercatore può, se vuole, leggere dati importanti. Proprio perché testi, quindi, abbiamo posto la condizione che le testimonianze fossero presentate nella loro completezza. Ciò era reso più praticabile dal fatto che gli stessi testimoni non erano stati chiamati a raccontarci tutta la loro storia di vita: il contratto che essi sapevano esistere fra oratore e magnetofono era proprio quello di una testimonianza a tema. In ogni caso, solo potendo presentare testi integri ed integrali ci sembrava fattibile cercare di indagare il rientro in patria cogliendo tanto le interrelazioni esterne fra le diverse testimonianze e fra le diverse fonti quanto le interrelazioni interne allo stesso testo alla stessa storia di vita. Difficile trovare modelli. Forse Danilo Montaldi,15 che avevamo letto prima di tanti libri di storia, o forse Nuto Revelli:16 ma chi, come l’autore di Il mondo dei vinti o de L’anello forte, poteva vantare un rapporto diretto, personale, continuato con uno specifico territorio e con i suoi abitanti da far apparire quasi “spontanee” le testimonianze orali? Soprattutto pesava come un macigno sulle 13
Fondamentale L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze
1988. 14 Abbiamo seguito i consigli di buon senso di G. Contini-A. Martini, Verba manent, Firenze 1990. 15 Cfr. D. Montaldi, Autobiografie della legera, Torino 1961; e Id., Militanti politici di base, Torino 1971. 16 Cfr., di N. Revelli, La guerra dei poveri, Torino, 1962; La strada del Davai, Torino 1966; Il mondo dei vinti, Torino 1977; L’anello forte. La donna: storie d vita contadina, Torino 1985.
470
N. LABANCA
nostre scelte l’affermazione fatta da Alessandro Portelli circa l’impossibilità di tradurre in un monologo (del testimone) quello che era nato come un dialogo (fra il testimone e l’intervistatore)17. Ma questo dilemma, pur radicale, ci è parso meno immobilizzante e irresolubile di quanto possa apparire a prima vista (e che se accettato in maniera fondamentalista delegittimerebbe praticamente quasi tutta la produzione edita di fonti orali, e non solo in Italia): poiché altra cosa è la registrazione (che nel nostro caso verrà consegnato all’Archivio dell’Anei) e altra cosa è la pubblicazione a stampa, che si pensa possa essere fruita non solo dai filologi. Pur nelle riflessioni metodologiche, una scelta ci era chiara: quella di non ripetere quanto in altre occasioni (pur meritorie per molti altri versi) era stato fatto con le testimonianze, e soprattutto con le testimonianze orali, degli ex internati. Le fonti che avevamo registrato o prodotto dovevano essere conosciute per intero. Non intendevamo offrire brani apparentemente autonomi l’uno dall’altro, prodotti senza una logica unitaria, scelti alla rinfusa e presentati in una successione priva di senso storico, come aveva fatto Giulio Bedeschi.18 Pur essendo stati al fondo stimolati proprio dall’imponenza della loro pionieristica ricerca e pur apprezzando e condividendo praticamente in toto le considerazioni nel corso di essa svolte da Angelo Bendotti, Giuliana Bertacchi, Mario Pelliccioli e Eugenia Valtulina, non volevamo ripetere la presentazione che del materiale documentario i ricercatori bergamaschi avevano fatto nel loro volume:19 brani staccati dalle singole testimonianze (pur perfettamente indicate a fine volume) e “montati” in una successione di citazioni a tema che ripeteva, e legittimava, le conclusioni degli autori nella loro ricerca. Una modalità di presentazione di fonti — ridotte però a lacerti, a citazioni di un discorso preordinato, quasi non leggibili (o da non leggersi) altro che nel modo voluto dagli autori — che aveva preso piede da qualche tempo in Italia.20 Anche qui, insomma, e per quanto inarrivabili, i modelli erano Montaldi e Revelli: e questo 17 In “Il manifesto”, 2 novembre 1999: cit. in C. Bermani, Introduzione alla storia orale, I, Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, Roma 1999. 18 Cfr. G. Bedeschi (a cura di), Prigionia: c’ero anch’io, 3 vol, Milano 1992. 19 Cfr. A. Bendotti, G. Bertacchi, M. Pelliccioli, E. Valtulina, Prigionieri in Germania. La memoria degli internati militari, Bergamo 1990. 20 Forse a partire dal pur fondamentale intervento di A. Bravo-D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano 1986.
Appunti sul ritorno degli Internati militari italiani
471
nonostante presentissimo sia il “falso” generale segnalato da Portelli sia il fatto che quegli stessi classici autori “ritoccassero” le testimonianze raccolte, talvolta senza nemmeno l’ausilio del magnetofono (come ricordato — anche se con accenti non convergenti — sia da Luisa Passerini21 sia da Cesare Bermani)22. I risultati veri e propri della ricerca abbisognano di altro spazio e di altra sede per essere presentati e discussi. Abbiamo preferito qui insistere sui caratteri delle domande che ponevamo alla nostra fonte, e al modo in cui abbiamo intenzione di presentarla: nella convinzione che si tratti di aspetti fra loro strettamente connessi.
21 Cfr. L. Passerini, La memoria orale: l’opera di Nuto Revelli e la sua ricezione, “Il presente e la storia”, 1999, n. 55 (fasc. spec. a cura di M. Calandri e M. Cordero su Nuto Revelli. Percorsi di memoria) 22 Cfr. C. Bermani, Introduzione alla storia orale, cit.
LA RESISTENZA NELLE PROVINCE DI MODENA E REGGIO EMILIA di Claudio Silingardi e Massimo Storchi
Scopo di questa comunicazione è delineare sommariamente i caratteri e l’evoluzione del movimento partigiano nelle due province di Modena e Reggio Emilia tra la fine del 1943 e la primavera del 1945, fornendo così una cornice entro la quale inserire le vicende della deportazione e dei rastrellamenti di manodopera realizzati dalle truppe di occupazione tedesche. Se non per alcuni casi specifici, si è omessa la segnalazione in nota di testi e documenti utilizzati, potendo rinviare per i necessari riscontri alle opere di sintesi disponibili1 e all’estesa bibliografia esistente. L’inizio della lotta armata nelle province di Modena e Reggio si realizza attraverso percorsi diversificati ma che trovano radici comuni nella situazione venutasi a creare all’indomani dell’armistizio. La presenza di massicce formazioni tedesche sul territorio e la necessità di tirare le fila dell’attività semicospirativa svolta nel corso dei 45 giorni badogliani richiedono particolari sforzi da parte degli antifascisti che devono, da parte loro, accelerare il processo di presa di coscienza della necessità prima e della possibilità poi di avviare la lotta armata contro un nemico così temibile. La nascita della Repubblica sociale funge da catalizzatore in questo processo che deve superare innanzitutto un problema di cultura politica dell’antifascismo nella transizione fra opposizione politica e cospirativa, svolta fino a quel momento, e scelta dell’uso della violenza. È questo un passaggio difficile per tutte le forze politiche che raggiungeranno in modi e tempi diversi questa consapevolezza. In questo è esemplare la posizione dei comunisti modenesi e reggiani che, pur attivi subito dopo l’8 settembre, de1 G. Franzini, Storia della Resistenza Reggiana, Reggio Emilia 1966; C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Milano 1998.
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
473
vono affrontare un lungo travaglio politico al loro interno, nella constatazione di come fosse difficile superare il pregiudizio legato ad una visione operaista del nascente movimento e all’utilizzo delle armi dopo anni di cospirazione non violenta. L’ostacolo verrà superato soltanto con la sostituzione dei rispettivi gruppi dirigenti e con la mobilitazione di una generazione più giovane, dove frequente era la presenza di reduci dalla guerra civile spagnola. In realtà la lotta armata nascente segue percorsi diversi nelle due province. In particolare nel reggiano l’esperienza della banda Cervi segna un punto di rottura che impone anche alle altre parti di accelerare la loro entrata in campo. I Cervi, antifascisti noti già prima dell’8 settembre, salgono subito in montagna nella convinzione di poter mobilitare le forze necessarie alla lotta armata. La realtà non coincide però con le loro aspettative e, anche se gruppi numerosi di giovani sbandati erano già dislocati in quei luoghi e nuclei di antifascisti erano attivi, non esisteva ancora in nessuna forma quella rete indispensabile di collegamento, assistenza e appoggio popolare vitale per la guerriglia. Così dopo un attacco portato con successo al presidio di Toano il 26 ottobre, il gruppo dei Cervi è costretto a riprendere la via della pianura, dove agirà ancora con successo a San Martino in Rio il 6 novembre, mentre fallirà l’attentato al federale Scolari il 13 dello stesso mese. Ma la loro esperienza, seppur generosa, sta volgendo ormai al termine. In gravi difficoltà anche per i cattivi rapporti con la federazione comunista reggiana, i Cervi sono catturati la notte del 25 novembre insieme ai militari italiani e alleati che avevano raccolto intorno a sé. La salita in montagna nell’autunno ‘43 costituisce una “fuga in avanti” che definisce però esattamente la dimensione della difficoltà di strutturazione del nascente movimento partigiano. Anche nel modenese il primo scontro armato a Zocca il 27 novembre avviene ad opera del gruppo di Scalambra e Bentini, partigiani rifugiatisi in zona dal bolognese e che là rientrano dopo il combattimento. Dopo i primi fallimenti diventa chiaro come sia necessario avviare la lotta armata in modo più limitato, continuando ad operare su una prospettiva di breve periodo per realizzare in montagna le migliori condizioni possibili per la guerriglia (non va infatti dimenticato come nella diffusa convinzione della strategia militare dell’epoca gli Appennini fossero giudicati del tutto inadatti a que-
474
C. SILINGARDI, M. STORCHI
sto tipo di tattica per la loro limitata estensione e per la presenza di numerose vie di comunicazione che li attraversavano). Con questo obiettivo operano, dopo gli iniziali ed estenuanti dibattiti politici al loro interno, i Comitati di liberazione provinciali costituitisi a Reggio il 28 settembre e a Modena circa un mese dopo. Nel modenese e nel reggiano la via scelta è quella dell’azione gappista, condotta nel primo caso prima con sabotaggi poi con azioni armate, nel secondo subito con agguati a esponenti fascisti. Il primo milite viene ucciso il 16 ottobre a San Martino in Rio, il 14 novembre è ucciso Giovanni Fagiani, comandante della Milizia, il 27 dicembre cade Davide Onfiani, segretario comunale di Bagnolo in Piano. A seguito di questa azione il giorno seguente sono fucilati, su decisione dei gerarchi reggiani costituitisi in un improvvisato “tribunale straordinario”, i fratelli Cervi e Quarto Camurri. Negli stessi giorni anche sulle montagne modenesi si verificano i primi scontri, per impedire azioni di rastrellamento di renitenti alla leva, e si collegano piccoli gruppi partigiani attivi nelle valli del Dolo e del Dragone con quelli di Sassuolo e della Valle del Panaro guidati da Armando. Il 31 dicembre sono fucilati due renitenti come rappresaglia alla morte di un carabiniere. Ma la repressione non arresta l’azione partigiana: il 7 gennaio viene assalito il presidio di Pavullo, mentre sulla sponda reggiana del Secchia è già attivo il primo gruppo di Luigi (Pio Montermini) che si scontra presso Tapignola alla fine di gennaio con la GNR in rastrellamento. Viene arrestato il parroco don Pasquino Borghi, uno dei primi ad attivarsi già nell’autunno del 1943 per il soccorso ai militari sbandati e in contatto con i Cervi, che sarà fucilato il 30 gennaio a Reggio con altri 8 antifascisti come nuova rappresaglia dopo l’ennesimo attentato gappista. L’azione dei GAP trova nel contesto modenese e reggiano, ma emiliano in genere, una nuova caratterizzazione che li diversifica dagli analoghi gruppi operanti nelle realtà urbane del nord. Nella loro azione è centrale il nesso strettissimo città-campagna, in una realtà come quella emiliana, appunto, dove i nuclei urbani vivono in rapporto osmotico con la realtà rurale circostante, in un costante scambio di forza lavoro e dove la presenza di una quantità crescente di sfollati e profughi (a Modena in gennaio erano già oltre 4.000) rende ulteriormente permeabile la circolazione e la comunicazione fra i gruppi resistenziali.
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
475
L’incalzare dei bandi di arruolamento fascisti accelera nel primo trimestre del ‘44 la salita di gruppi di giovani in montagna, tanto da rendere necessaria la costituzione di un’apposita organizzazione basata sulla creazione di una rete di case di latitanza, basi sicure di appoggio, sul percorso pianura-montagna. Ai primi di marzo al confine fra reggiano e modenese (è da ricordare sempre come, trattandosi di formazioni di guerriglia, la loro mobilità fosse la migliore garanzia di sicurezza) sono attivi oltre 100 partigiani divisi in 3 distaccamenti al comando di Barbolini, con Miro vicecomandante e Eros commissario. Contemporaneamente il gruppo di Armando organizza anch’esso oltre 100 unità nella valle del Panaro. Sono anche attivi i gruppi indipendenti di Minghin a Santa Giulia, Nello a Montemolino e Marcello nella valle del Rossenna. Le autorità fasciste devono prendere atto della situazione difficile: da un lato i bandi di arruolamento non hanno dato i risultati sperati (in Emilia si presentano soltanto 9.000 reclute e 1.600 renitenti, in tutta i Italia saranno solo 43.000 i militari disponibili consentendo la formazione solo di una divisione, la Monterosa, contro le quattro previste da Graziani), mentre le formazioni partigiane in montagna stanno crescendo in numero e attività. Il 14 febbraio si svolge a Lucca un incontro fra le autorità della RSI e i tedeschi per predisporre un intervento militare sull’Appennino che ha inizio l’8 marzo e durerà tutto il mese. L’11 marzo il primo scontro di rilievo a Pieve di Trebbio dove la Spedizione Bandiera (gruppo organizzato su incarico del CLNp modenese e guidato dall’azionista Patrignani) si scontra con le formazioni tedesche. L’azione di repressione incontra una inaspettata resistenza che culmina il 15 marzo con lo scontro di Cerrè Sologno dove la formazione di Barbolini e Miro mette in fuga, con serie perdite, i tedeschi. La situazione diviene così difficile da costringere gli stessi tedeschi a richiedere ulteriori rinforzi alla Divisione SS Hermann Goering, che il 17 attacca Monchio, Susano e Costrignano con un’azione di rastrellamento che porta all’uccisione di 136 civili, il 20 è la volta di Civago e Cervarolo dove sono 27 i civili massacrati. L’azione tedesca porta comunque al momentaneo sbandamento delle formazioni (a Cerrè Sologno sia Barbolini che Miro sono feriti seriamente) che però si ricostituiscono già ai primi di aprile. Armando si rimette in azione nella zona di Pavullo e si ricongiun-
476
C. SILINGARDI, M. STORCHI
ge a Poppi, Zuilio Rossi, Nello Pini, Marcello, Norma Barbolini e Mario Nardi, costituendo alla fine del mese il Battaglione Ciro Menotti, forte ormai di 300 partigiani. Ai primi di maggio viene assalito e catturato il presidio di Cerredolo (dove sono fucilati 12 militi), mentre la scadenza dell’ultimo bando di arruolamento prevista per il 25 maggio (a Modena si presenteranno solo 550 sbandati, 3.037 in tutta l’Emilia) accelera l’azione partigiana: il 22 si verifica lo scontro a Capanna Tassoni e viene assalito il centro di Montecreto, mentre il 24 Villa Minozzo viene tenuta sotto assedio tutta la giornata e il giorno seguente i fascisti subiscono gravi perdite mentre cercano di entrare nella Val d’Asta. Si è ormai arrivati ad un insieme di formazioni con quasi 1.000 uomini per l’afflusso continuo di giovani dalla pianura. La nuova situazione pone problemi rilevanti sotto il profilo della organizzazione e della disciplina, in un contesto in cui è sensibile la mancanza di quadri dirigenti qualificati e diventa importante creare una disciplina con attenzione particolare ai rapporti con le popolazioni autoctone. Il primo lancio di armi e materiali, compiuto dagli alleati il 19 maggio, è però un segnale decisivo dell’importanza che l’attività di guerriglia ha ormai raggiunto. Gli ufficiali alleati di collegamento presenti con missioni presso le formazioni reggiane e modenesi rappresentano un riconoscimento ufficiale del ruolo che i partigiani si trovano a svolgere. Il concretizzarsi della lotta armata in montagna viene reso possibile da una estesa rete organizzativa costruita lentamente nei mesi a cavallo fra il ‘43 e il ‘44. L’attività dei CLN provinciali cresce dopo gli impacci iniziali in cui il dibattito fra posizioni favorevoli all’attesa in vista degli sviluppi bellici e chi intendeva passare all’azione in tempi brevi aveva bloccato la capacità di direzione. Anche negli ambienti operai, che erano quelli che all’inizio avrebbero dovuto esprimere il massimo di intensità antifascista, l’organizzazione resistenziale fatica a trovare subito spazi di manovra efficaci. Nel caso di Reggio ciò avviene per la distruzione del principale nucleo industriale, quello delle Officine reggiane, colpito dal bombardamento dell’8 gennaio 1944 e quindi avviato al decentramento; nel caso modenese, dopo qualche parziale successo delle commissioni interne elette dai sindacati fascisti, alla Fiat Grandi motori i primi scioperi sono realizzati nel dicembre 1943, e si ripetono con maggior forza e organizzazione
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
477
nel marzo e aprile 1944. La difficile condizione dei lavoratori dell’industria, esposti al rischio di deportazione, dei bombardamenti alleati (anche Modena è colpita duramente il 14 febbraio) e costretti a vivere in situazione precaria sotto il profilo alimentare, rende a medio termine più agevole il lavoro di organizzazione dell’attività di resistenza indirizzata soprattutto al sabotaggio e al recupero di materiali. Uno dei principali successi che si evidenzia nella primavera del 1944 è la progressiva diffusione del movimento di resistenza anche fra la popolazione civile che sempre più diffusamente, anche in pianura, collabora alle iniziative contro fascisti e tedeschi. Esemplare il caso della rivolta di Montecavolo il 1° marzo, quando la popolazione arresta e disarma i militi in transito, o la giornata del 1° maggio quando scendono in sciopero 300 operai della Lombardini di Reggio, mentre si moltiplicano giorno dopo giorno, accanto alle azioni gappiste, la distruzione di linee telefoniche e il sabotaggio delle strutture militari tedesche e fasciste. La solidarietà popolare che aveva sostenuto e difeso i soldati sbandati dopo l’armistizio si esercita anche nei confronti della persecuzione antiebraica (avviata già nel dicembre 1943 con la deportazione della piccola comunità reggiana), con attenzione particolare al modenese, dove la locale comunità, forte di oltre 500 unità al momento del censimento del 1938, riesce a superare con minime perdite (13 vittime) il periodo dell’occupazione, proprio grazie al sostegno della collettività. Rimane ben nota la vicenda di Villa Emma a Nonantola, dove la popolazione locale, con la collaborazione del clero, riesce a mettere in salvo, avviandoli verso la salvezza in Svizzera, decine di ebrei, per lo più giovani. La persecuzione antiebraica pone drammaticamente al centro dell’attenzione l’attività del campo di concentramento di Fossoli. Nato come luogo di reclusione per i prigionieri alleati sin dal 1942, il campo passa sotto l’autorità diretta della Gestapo nel marzo 1944, ospitando fino all’estate oltre 4.000 prigionieri. Da Fossoli transita oltre un terzo del totale degli ebrei italiani deportati, avviati in numero di 2.445 con sette convogli verso Auschwitz. Ma Fossoli non è solo luogo di detenzione, in esso transitano anche i civili catturati nei grandi rastrellamenti estivi sugli Appennini e destinati alle industrie del Reich, e da esso vengono prelevati i 67 patrioti fucilati l’11 luglio presso il Poligono di Ci-
478
C. SILINGARDI, M. STORCHI
beno. Le organizzazioni della Resistenza si interessano del campo dal giugno 1944, ma ogni ipotesi di fuga si rivela velleitaria, per le difficoltà ad entrare nel perimetro del campo e soprattutto per l’impossibilità di nascondere e trasferire in montagna migliaia di prigionieri. L’impegno della Resistenza è dunque soprattutto sul piano dell’assistenza ai prigionieri, in particolare a quelli trattenuti nel campo italiano. Abbiamo visto come la tarda primavera del 1944 rappresenta il momento di massima espansione del movimento partigiano sulle montagna modenesi e reggiane, mentre anche in pianura va delineandosi la nascita del futuro movimento sappista (Squadre di azione patriottica). L’afflusso di tanti giovani sull’Appennino trova le sue radici nella volontà di sfuggire agli ultimatum di arruolamento, alla deportazione, ai frequenti bombardamenti in una fase in cui si andava delineando una situazione fortemente negativa per le truppe tedesche e fasciste. La liberazione di Roma del 4 giugno è un segnale clamoroso di una situazione che avrebbe potuto evolversi rapidamente nel corso di breve tempo. Ma proprio la precaria situazione militare, con il progressivo arretramento della linea difensiva tedesca sempre più a nord, rende la zona appenninica ancor più strategica. In essa va concentrandosi il massimo dell’intensità della macchina bellica tedesca in preparazione di una linea di difesa (la futura Linea gotica) che avrebbe dovuto rappresentare l’ultimo baluardo a difesa della pianura padana. Così, mentre l’azione partigiana tocca nel mese di giugno il massimo dell’intensità e dell’efficienza (sia nel reggiano che nel modenese i presidi della GNR in montagna sono progressivamente ritirati e rimangono fortemente presidiate solo le strade statali di collegamento), i tedeschi avviano una serie di azioni di rastrellamento sulle Apuane, la Garfagnana e la Lunigiana. Il progredire della pressione partigiana porta all’occupazione di parti sempre più ampie di territorio (dalla metà di giugno la sponda sinistra del Secchia è libera da Castellarano a Ponte Dolo) mentre, dopo un assedio, viene presa anche la roccaforte di Montefiorino. La creazione di zone libere nasce come frutto non previsto delle azioni partigiane (analogamente in estate avverrà in Valsesia, Val di Ceno, Val d’Enza-Parma, etc.) e quei territori diventano luogo di attrazione ulteriore di giovani in salita in montagna; in esse i lanci alleati diventano frequenti e abbondanti, e si abbozzano esperienze rilevanti sotto il profilo politico e propagandistico. La
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
479
necessità, infatti, di gestire ampie porzioni di territorio sottratte all’autorità fascista (la zona libera di Montefiorino occupava circa 600 kmq estendosi sulla sponda destra del Secchia, Valli del Dolo, Secchiello e Dragone) richiedeva un minimo di strutturazione amministrativa, che fu ricostituita su basi democratiche, organizzando prime forme di autogoverno delle comunità, tanto da configurare l’esperienza come una prima “repubblica” autonoma. Si procede così all’elezione, a Montefiorino e Toano, di organismi di governo, eletti dai capifamiglia, per affrontare i problemi più urgenti (annona, trebbiatura, accoglienza), legati all’imprevista situazione di liberazione. I problemi più seri del movimento partigiano vengono comunque dalla crescita impetuosa delle formazioni, costrette in poche settimane ad accogliere un numero eccezionale di nuovi volontari. Solo quelle modenesi raggiungono ormai le 5.000 unità con una struttura organizzativa, come detto in precedenza, che rimane quella dell’inizio di maggio. La disponibilità maggiore di armi (ma comunque non in numero sufficiente per tutti) avrebbe richiesto un periodo di addestramento adeguato che le vicende in corso invece non permettevano. Sul piano tattico, poi, si sopravvalutò la situazione strategica, nella convinzione, avvalorata anche dalla progettata realizzazione nella zona di una testa di ponte rafforzata dal previsto lancio di paracadutisti della Divisione Nembo, dell’imminenza di un crollo del fronte. In questa logica, che si sarebbe dimostrata del tutto infondata, si tese ad abbandonare la tattica della guerriglia, pianificando la difesa statica della zona, anziché prevedere l’eventualità di rispondere ad attacchi con iniziative di movimento ed infiltrazione nelle fila nemiche. Da parte tedesca, se la zona libera costituiva un problema, non era altrettanto urgente risolverlo sul piano militare, in una fase in cui era necessario concentrare le risorse sul fronte in difficoltà. Così prima fu tentata una soluzione negoziale (non belligeranza in cambio di prigionieri, ipotesi rifiutata dopo discussioni dai comandi partigiani) poi si iniziò a saggiare la resistenza della struttura difensiva con l’esecuzione fra la fine di giugno e la metà di luglio delle prime azioni previste dal piano Wallenstein, con incursioni nella montagna reggiana e parmense. Il 31 luglio, in significativa coincidenza con il lancio dei paracadutisti della Nembo, previsto per il 2 agosto, le truppe tedesche scatenarono l’operazione Wallenstein III contro la zona ap-
C. SILINGARDI, M. STORCHI
480
penninica con obiettivo particolare la zona libera di Montefiorino. Si trattò di una operazione di ampio respiro, pianificata con attenzione e con forte concentramento di truppe. Gli obiettivi erano essenzialmente due: bonificare la zona ormai di retrofronte, garantendo la sicurezza delle linee di comunicazione, e rastrellare il massimo di popolazione maschile attiva destinata allo sforzo bellico del Reich. Il fallimento dei vari piani di reclutamento (coordinati in Italia dalla organizzazione Sauckel che aveva richiesto solo nel modenese nella primavera 20.000 lavoratori agricoli, raccogliendone solo 800) aveva reso più urgente procedere comunque al reclutamento coatto della manodopera necessaria. Così all’azione militare durissima si affiancò un’opera di spoliazione completa dell’economia montana, sia sotto il profilo umano che zootecnico e agricolo. I rastrellamenti sistematici iniziati in estate sull’Appennino, e proseguiti fino ad ottobre, (l’azione fu estesa da Modena a Piacenza) portarono alla cattura di oltre 60.000 persone e alla deportazione in Germania di almeno 7.000 unità (solo nel reggiano furono quasi 1.000 gli uomini catturati nell’azione di agosto)2. Punto nevralgico in quest’opera di deportazione è sempre il campo di concentramento di Fossoli, che rimane attivo per questa funzione dall’agosto al novembre 1944, quando la competenza passa a Gonzaga. A novembre comunque i rastrellamenti indiscriminati vengono sospesi, e viene privilegiato l’utilizzo della manodopera locale nei lavori di fortificazione in Italia. La difesa delle formazioni partigiane, viziata dalle debolezze suddette, può ben poco contro la superiorità tedesca. Sono pochi i reparti che oppongono una qualche resistenza, la maggior parte delle formazioni si sbanda dopo le prime 24 ore di combattimento, in una situazione in cui i comandi — oltretutto dislocati quello reggiano a Villa Minozzo e quello modenese a Montefiorino — perdono ben presto i contatti con le unità combattenti (nei lanci alleati non erano state fornite attrezzature radiotrasmittenti). Sono giorni di tragedia per la zona montana, devastata e saccheggiata (vengono incendiati gli abitati di Toano, Villa Minozzo, Piandelagotti, Gombola, Montefiorino), oltre 50 partigiani cadono nella ritirata, mentre tutte le formazioni si sbandano senza un piano preciso con la perdita di ingenti quantità di materiali. La resistenza in montagna riprende la sua attività solo alla fine di 2
L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino 1993, pp. 384-389.
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
481
agosto, con la completa indipendenza delle formazioni reggiane e modenesi. Mentre in montagna si realizzava e si concludeva l’esperienza della zona libera di Montefiorino, in pianura i partigiani sviluppano un’intensa attività militare, con agguati notturni a colonne tedesche, assalti a presidi fascisti, eliminazioni di singoli esponenti fascisti. Dalla metà di giugno inizia pure la lotta contro la trebbiatura, per impedire che il grano raccolto possa essere prelevato dai tedeschi in occasione di una loro possibile ritirata. In coincidenza con questa lotta vengono promosse anche manifestazioni popolari. Il carattere sociale di questa lotta non manca di preoccupare le componenti moderate del CLN, in particolare a Modena, ma nonostante questa e altre difficoltà — in particolare con i braccianti, che vedevano allontanarsi una delle principali occasioni di lavoro — la lotta si conclude positivamente, garantendo l’approvvigionamento di grano alla popolazione per tutto l’inverno e la primavera del 1945, impedendo un eccessivo concentramento di grano negli ammassi, e rendendo esplicita la capacità di iniziativa e di mobilitazione partigiana a difesa degli interessi del mondo agricolo emiliano. È in questo contesto che ha modo di svilupparsi e consolidarsi il movimento sappista, esplicitando al meglio la particolarità della Resistenza in pianura, cioè la sua dimensione sociale, la capacità di coinvolgere il mondo agricolo nella lotta contro fascisti e tedeschi, prima con la lotta alla trebbiatura, poi con la lotta ai raduni di bestiame, la difesa dei prodotti agricoli e la loro distribuzione alla popolazione, la repressione della delinquenza e del mercato nero. In estate la Resistenza emiliana deve però fare i conti con il mutamento del quadro generale del conflitto in Italia. La necessità dei comandi tedeschi di procedere celermente alla costruzione di una nuova linea di difesa a ridosso della dorsale dell’Appennino tosco-emiliano, e nel contempo di tenere libere le vie di comunicazione nelle retrovie, anche per garantirsi la possibilità di una rapida ritirata e, infine, l’inasprimento delle disposizioni di lotta antipartigiana, che prevedevano l’esplicita copertura per ogni azione di repressione, ha conseguenze tragiche in particolare nel modenese, ormai diventato immediata retrovia del fronte. Sono attuate numerose azioni di rappresaglia, che nell’arco di due mesi provocano la morte di quasi duecento tra
482
C. SILINGARDI, M. STORCHI
partigiani e cittadini. In luglio esse vengono compiute prevalentemente dai tedeschi, e tra le più significative si possono ricordare quelle dei Boschi di Ciano di Zocca (15 luglio, 20 impiccati) e di Modena (30 luglio, 20 uccisi con un colpo alla nuca; 31 luglio, 5 fucilati). In agosto e in settembre alcuni eccidi sono organizzati anche dai fascisti, riorganizzati nelle Brigate nere e desiderosi di vendicarsi dopo i colpi subiti nei mesi precedenti: è il caso ad esempio di Rovereto sul Secchia (7 agosto, 9 fucilati) e di Carpi (15 agosto, 16 fucilati). Ma anche i nazisti continuano a colpire, come a Ravarino (15 agosto, 5 fucilati) e a San Giacomo Roncole (30 settembre, 6 impiccati)3. L’alto numero di rappresaglie provoca tensioni e dibattiti sia all’interno del movimento partigiano, sia tra la popolazione. Il recupero e l’assorbimento del disorientamento provocato da queste azioni viene favorito indubbiamente dal cambiamento del clima generale, perché cresce la speranza di una rapida liberazione della provincia, in conseguenza dell’attacco e dello sfondamento della Linea gotica da parte dell’esercito alleato, cominciato dal 25 agosto. Intanto la conclusione dell’esperienza della zona libera di Montefiorino ha come conseguenza l’aggravarsi delle tensioni tra i vari comandi, e tra le diverse componenti politiche del movimento. Come risposta a queste tensioni nel Reggiano viene costituito, alla fine di agosto, un comando unico, poi in settembre il CLN autorizza la costituzione delle Fiamme verdi, formazione di orientamento democratico-cristiano, mentre le formazioni garibaldine della zona sono inquadrate nel Battaglione della montagna. I mesi invernali sono comunque contrassegnati da non poche difficoltà, dovute da un lato a rappresaglie e rastrellamenti, che portano alla cattura del Comando di Piazza e all’annientamento del distaccamento Fratelli Cervi a Legoreccio, dall’altro al perdurare di tensioni e polemiche tra le diverse forze politiche, alimentate anche da sostituzioni di comandi e dal fallimento dello scambio dell’ex federale di Reggio con dei partigiani. La situazione non è semplice neppure nel modenese. Se lo scontro tra comunisti e democratico-cristiani non è immediato come nel reggiano, questo dipende soprattutto dalle vicende particolarmente complesse che investono le formazioni partigiane 3 Sugli eccidi nel modenese si veda ora I. Vaccari, Dalla parte della libertà. I caduti modenesi nel periodo della Resistenza entro e fuori i confini della provicia. Forestieri e stranieri caduti in territorio modenese, Santa Sofia di Romagna 1999.
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
483
dopo Montefiorino. Infatti pochi giorni dopo la riorganizzazione delle formazioni modenesi, il 3 settembre 1944, arrivò l’ordine del CUMER di dividere in due tronconi la divisione Modena, una parte della quale doveva partecipare alla liberazione di Bologna. L’opposizione del comando militare della divisione all’ordine del CUMER provoca una reazione risentita di quest’ultimo, e solo dopo una lunga trattativa viene predisposto un corpo di spedizione, il Gruppo brigate Est Giardini, che inizia una lenta marcia di avvicinamento al Bolognese. Intanto però una parte delle formazioni modenesi, al comando di Armando, erano state costrette dalla pressione nemica a spostarsi verso l’Alto Appennino, venendosi a trovare nella zona di nessuno del fronte. Si posizionano allora nella zona di Lizzano in Belvedere, prendendo contatto con le altre formazioni della zona e dando vita alla divisione Modena Armando, che inizia ad operare in linea con la V° armata americana, di fronte a monte Belvedere. Dopo la battaglia di Benedello del 5 novembre, anche altre formazioni passano il fronte, raggiungendo Armando. In novembre il comando della divisione Modena, preoccupato per il sopraggiungere dell’inverno e per le difficoltà di approvvigionamento dei partigiani, decide di organizzare il passaggio delle linee di altre formazioni, trattenendo solo cinquecento uomini. Ed è in questo momento che i democraticocristiani premono per dare un nuovo indirizzo alla divisione: a differenza del reggiano, però, in questa fase non promuovono una propria formazione, ma assumono il comando della divisione, e impongono la costituzione del CLN della montagna, del tribunale militare e di un corpo di polizia. In inverno, dunque, scomparsi i fascisti, attestatisi i tedeschi a difesa delle principali vie di comunicazione, nel movimento partigiano si gioca la partita tra comunisti e cattolici sull’egemonia in montagna e sulla prefigurazione della realtà del dopo liberazione. Mentre in montagna il movimento partigiano si dibatte tra difficoltà logistiche, polemiche politiche, la necessità di non compromettere i già difficili rapporti con la popolazione locale, da mesi sottoposta a forte pressione per la presenza di migliaia di giovani partigiani, e anche la necessità di continuare a compiere azioni contro il traffico militare tedesco, in pianura il periodo autunnale coincide con la fase della massima iniziativa militare della Resistenza, che si sviluppa sia sul piano militare, con attacchi ai presidi fascisti e alle colonne tedesche, sia su quello sociale,
484
C. SILINGARDI, M. STORCHI
con la già richiamata lotta ai raduni di bestiame e in generale la difesa del patrimonio zootecnico ed alimentare delle campagne. Le azioni continuano incessanti tra settembre e novembre, e proseguono anche dopo il proclama Alexander sulla sospensione dell’avanzata alleata. Il movimento ha ormai un carattere di massa, che non è più possibile occultare, e non rimane che continuare a combattere, anche se i comandi si preoccupano di limitare — spesso senza riuscirvi — almeno le azioni militari in grande stile. Ed è in questa fase che emerge in tutta la sua ampiezza uno degli aspetti più significativi della Resistenza in pianura, cioè il particolare rapporto tra partigiani e territorio. Il partigiano di pianura combatte nel proprio territorio, lo conosce perfettamente. La padronanza della configurazione e dislocazione degli argini dei fiumi, dei canali, dei fossi, delle siepi che delimitano le proprietà, dei campi di granoturco e di canapa gli permette di compiere azioni o di nascondersi. I comandi tedeschi e fascisti cercano di impedire lo sviluppo della guerriglia in pianura ordinando a più riprese il taglio delle siepi, delle reti metalliche, della bassa vegetazione e di ogni altro ostacolo nei pressi delle strade. In autunno arrivano gli ordini ai contadini di tagliare i campi di granoturco. Non mancano poi i divieti a circolare in bicicletta, principale mezzo di trasporto utilizzato dai partigiani e dalle staffette. Poi con l’inverno la situazione cambia, perché mentre in primavera ed estate i partigiani dormivano spesso nei campi, ora si rende necessaria la costruzione di rifugi protetti. In tante case contadine che danno ospitalità ai partigiani sono costruiti rifugi o nell’abitazione, oppure nei fienili, nella stalla o nei granai. Non mancano rifugi sotterranei costruiti nei dintorni delle case o direttamente nei campi. L’inverno è segnato da alcune delle più importanti azioni e battaglie partigiane della pianura reggiana e modenese: il 3 novembre viene occupata Soliera; tra il 14 e il 21 novembre si sviluppa a Limidi, frazione di questo comune, una difficile trattativa tra comandi partigiani e comandi tedeschi per realizzare uno scambio di prigionieri; il 1° dicembre i partigiani di Carpi sostengono una battaglia in campo aperto contro i tedeschi in località Prati di Cortile; il 19 dicembre con un’azione coordinata tra partigiani reggiani, modenesi e mantovani vengono attaccati i presidi fascisti e tedeschi di Gonzaga; in febbraio vengono abbattuti nel reggiano un migliaio di pali delle linee telefoniche e, il 27, si
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
485
combatte l’importante battaglia di Fabbrico. In alcune realtà della bassa i CLN svolgono un ruolo di governo, e le formazioni partigiane esercitano un controllo capillare del territorio. Da parte fascista e tedesca si decide di contrastare tale presenza attraverso l’infiltrazione di spie e l’organizzazione di estesi rastrellamenti nei quali vengono impiegati centinaia di uomini. Si susseguono anche gli eccidi, che colpiscono duramente sia il reggiano che il modenese, contribuendo a determinare quel “sovrappiù di odio” che caratterizza il “clima” della pianura emiliana tra l’inverno e la primavera del 1945. Una semplice cronologia degli episodi più rilevanti (tra parentesi il numero dei partigiani o dei cittadini uccisi) può far comprendere la durezza dello scontro. In dicembre vengono compiuti eccidi a Modena (8), San Cesario sul Panaro (10) e Vignola (17) nel modenese, e a Villa Sesso (21) nel reggiano. In gennaio a Quartirolo di Carpi (32) e a Carpi (6) nel modenese, e a Reggio Emilia (10). In febbraio a Vignola (8), Fiorano (5) e Mirandola (5) nel modenese, Villa Cadè (21), Calerno (20), Bagnolo (10) e Cadelbosco (10) nel reggiano. Trentatre partigiani di Castelfranco Emilia sono inoltre uccisi nelle stragi compiute dai tedeschi a Bologna (San Ruffillo), tra febbraio e marzo. Ma nonostante i tentativi di colpire il movimento partigiano approfittando della situazione di stasi militare — che in alcuni casi vanno a segno —, le organizzazioni della Resistenza si rafforzano, e migliora l’inquadramento delle forze Anche gappiste in montagna e sappiste.durante l’inverno, assorbiti gli effetti del rastrellamento che colpisce l’Appennino reggiano e modenese nella prima metà di gennaio, e pur in presenza delle già richiamate tensioni e polemiche politiche — particolarmente insistite nel modenese, dove i democratici-cristiani decidono di dare vita alle Brigate Italia — la Resistenza riprende il controllo di buona parte del territorio: in alcuni comuni vengono elette giunte popolari, si formano i CLN, e i partigiani conducono continui attacchi ai presidi fascisti e alle vie di comunicazione utilizzate dai tedeschi, in particolare le statali 63 e 12. Con l’avvicinarsi della primavera le formazioni si consolidano, potenziate anche dagli aviolanci di armi. In marzo nel reggiano viene costituito il Battaglione alleato, formato da partigiani italiani e russi e da paracadutisti inglesi, che il 27 marzo è protagonista del clamoroso assalto e della distruzione della V sezione del Comando generale tedesco in Italia, a Botteghe di Albinea.
486
C. SILINGARDI, M. STORCHI
Tra marzo e aprile la pianura modenese e reggiana vive la contraddizione estrema tra un movimento partigiano che ha passato l’inverno mantenendo intatte le sue potenzialità militari e il consenso conquistato tra la popolazione delle campagne, e l’aumentata presenza tedesca di truppe a riposo nelle retrovie del fronte, che consente ai fascisti rimasti di agire in una resa dei conti che non ha altro scopo che l’annientamento fisico del nemico, essendo ormai chiaro che è solo questione di settimane, di giorni, l’arrivo degli alleati nella pianura padana. Così alle numerose azioni contro il traffico tedesco e a ciò che rimane della presenza fascista sul territorio, alle manifestazioni popolari con comizi, come a Campagnola, Concordia e Camposanto, all’occupazione del paese di San Martino in Rio, che i partigiani tengono fino alla liberazione, fanno da contraltare i rastrellamenti — alcuni impediti come nel caso della battaglia di Rovereto — e gli eccidi, che colpiscono in particolare la Bassa modenese in seguito all’arrivo in zona della brigata nera mobile Pappalardo di Bologna e della Compagnia mobile corazzata di Vezzalini, proveniente da Novara. Così mentre nel reggiano il 13 aprile 1945 viene realizzata una “prova generale” dell’insurrezione, con manifestazioni promosse dal Fronte delle gioventù e dai Gruppi di difesa della donna, e con il coinvolgimento di migliaia di uomini e donne, la pressione tedesca costringe quasi duemila tra partigiani e cittadini di Carpi a spostarsi nella zona di Montefiorino. Le azioni di rappresaglia fascista e tedesca a pochi giorni dall’arrivo degli alleati non fanno altro che alimentare l’odio dei partigiani e della popolazione, con gli esiti tragici che questo avrà dopo la liberazione.4 Dal 19 aprile le formazioni partigiane della montagna modenese e reggiana iniziano ad avvicinarsi alla pianura, mentre migliaia di tedeschi si danno alla fuga in due direzioni, verso il parmense e verso il fiume Po. Fuggiti i fascisti, i partigiani combattono contro reparti di retroguardia o intercettano reparti in ritirata liberando tutti i paesi delle due province. Il 22 aprile Modena è libera. Il 24 aprile anche Reggio Emilia è presa dai partigiani prima dell’arrivo delle truppe Alleate. La lotta partigiana nelle due province ha un costo altissimo: nel modenese cadono 4 Sul problema della violenza partigiana nel dopoguerra a Modena e Reggio Emilia rinviamo a M. Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e dibattito politico a Modena, 1945-1946, Milano 1995, e Id., Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Venezia 1998.
La Resistenza nelle province di Modena e Reggio Emilia
487
in combattimento 703 partigiani, mentre 882 tra partigiani e cittadini vengono soppressi in occasione di rappresaglie. Nel reggiano i partigiani uccisi in combattimento o in eccidi sono 626, ai quali vanno aggiunti 220 civili periti durante le rappresaglie tedesche o fasciste.
DEPORTAZIONE E SALVATAGGIO DEGLI EBREI NEL MODENESE di Klaus Voigt*
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese. Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia, gli ebrei nel modenese, sia italiani, sia stranieri lì internati dalla primavera del 1942, come pure stranieri che vi soggiornavano senza essere però internati, si trovarono esposti al rischio della deportazione. Nell’ultima di queste categorie rientravano anche i ragazzi di Villa Emma a Nonantola e gran parte dei loro accompagnatori. Il presente studio si propone, partendo da questa suddivisione in gruppi, caratterizzati da una diversa condizione durante la persecuzione fascista, di analizzare le condizioni, le circostanze e l’estensione degli arresti e delle deportazioni, oltre che della fuga in Svizzera. Assai diffusi furono nel modenese gli episodi di aiuto dato agli ebrei, basti pensare a nomi come Odoardo Focherini e don Dante Sala. L’esempio più rilevante di solidarietà e di aiuto, da cui tuttavia non vanno tratte conclusioni generalizzate, è il salvataggio dei ragazzi di Villa Emma. A quanto si ricava da un rapporto redatto dalla comunità di Modena ai primi del 1941, essa contava allora 193 membri in tutto.1 Il rapporto contiene anche interessanti indicazioni riguardo all’occupazione e alla condizione sociale di queste persone: solo 67, vale a dire il 34%, godevano di un reddito regolare, in quanto pensionati (19), proprietari di case o di terreni (12), impiegati nel settore privato (10), liberi professionisti (8), rappresentanti (6), commercianti (5), operai (3), artigiani (2) o industriali (2). Gli altri 126, ovvero il 66%, non avevano alcun reddito, o solo introiti saltuari: erano casalinghe (59), scolari o bambini in età prescolare *
Traduzione di Loredana Melissari. Archivio della Comunità Ebraica di Modena (d’ora in poi ACEM), Modena, b. 370. fasc. Corrispondenza Delasem 1941, Dichiarazione, 29 gennaio 1941. 1
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
489
(33), disoccupati (11) o bisognosi assistiti dalla comunità (23). Da quando nell’autunno 1938 erano state promulgate le leggi razziali, il numero di membri della comunità era in calo. Un rapporto del gennaio 1940 sulla situazione della comunità parla di 74 tra abbandoni, anche per emigrazione, e conversioni.2 Questa tendenza si mantenne inalterata, tanto che nel dicembre 1942 si parla ormai di soli 166 membri, cui vanno aggiunti altri 45 nella provincia di Reggio Emilia, anch’essa dipendente dalla comunità di Modena.3 Il numero di persone classificate come ebree dalle leggi razziali, e dunque esposte alla minaccia della deportazione durante l’occupazione tedesca, era leggermente più alto. A fronte dei 166 ebrei italiani vi era un numero nettamente più elevato di ebrei stranieri immigrati, fuggiti o deportati in Italia. Questi erano sottoposti nel modenese al regime del “libero internamento”, vale a dire del soggiorno obbligato. La persona internata sottoscriveva un impegno a non lasciare senza apposita autorizzazione il comune, cittadina o villaggio che fosse, cui era stata assegnata, a presentarsi una o due volte al giorno alla locale stazione di polizia o dei carabinieri, per dimostrare la propria presenza, e a osservare il divieto di uscire di casa nelle ore notturne. Se era priva di mezzi riceveva un sussidio statale, che era a mala pena sufficiente per vivere.4 Secondo dati del Ministero dell’interno per l’aprile-maggio 1943, gli ebrei stranieri internati nella provincia di Modena erano 204.5 Questo dato è confermato da un “Elenco degli internati ebrei in provincia di Modena”, redatto dalla rappresentanza modenese dell’organizzazione assistenziale ebraica Delasem, che riporta la situazione alla fine di agosto-primi di settembre 1943, e indica quasi 210 nomi.6 L’elenco è costituito da annotazioni a mano in un quaderno, con numerose cancellature e aggiunte. Molte sono le annotazioni errate o ripetute, per esempio quando un internato era stato trasferito da un luogo a un al2 ACEM, b. 380, fasc. Unione delle Comunità Israelitiche Italiane 1943, Comunità Israelitica di Modena a Unione, 7 gennaio 1940. 3 ACEM, come nota 2, Comunità Israelitica di Modena a Unione, 24 marzo 1943. 4 K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, II, Firenze 1996, pp. 82 ss. 5 Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Roma, PS, 4 bis Stranieri internati, b. 77/1 Valori e somme appartenenti a ebrei ex jugoslavi. Sequestro. Prefettura di Modena e Ministero dell’interno 27 aprile 1943 (dati con indicazione dei luoghi di internamento). 6 ACEM, b. 574, Elenco degli internati ebrei in provincia di Modena (elenco nominativo).
K. VOIGT
490
tro all’interno della provincia di Modena e ci si era dimenticati di cancellare il precedente domicilio. In alcuni casi poi venne omessa la registrazione di nuovi arrivi. In tutto mancano 21 nomi, che si sono potuti accertare da altre fonti. Tra questi vanno ricordati soprattutto cinque accompagnatori dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola e tre collaboratori del magazzino della Delasem, sistemato nella villa stessa, che su propria richiesta erano stati trasferiti a Nonantola da altri luoghi di internamento, per esempio dal campo di Campagna presso Eboli, e che pertanto erano ancora registrati come internati.7 La provincia di Modena era al settimo posto per numero di ebrei stranieri internati dopo le province di Vicenza, Treviso, Parma, Asti, Potenza e L’Aquila8. Gli ebrei internati erano dislocati nei seguenti 23 comuni: aprile/maggio 1943 Concordia San Felice sul Panaro Guiglia Nonantola Pavullo Cavezzo Serramazzoni Modena Finale Emilia Zocca Fanano Soliera Medolla Monfestino di Serramazzoni Mirandola San Possidonio Novi di Modena Pievepelago Castelfranco Emilia Casinalbo Selva del Frignano Fiumalbo Lama Mocogno Altre località non precisate
28 17 20 9 15 3 15 18 7 6 9 31 11 3 4 7 1 204
inizio settembre 1943 28 26 18 17 15 14 14 13 12 12 8 8 7 7 6 6 5 4 3 1 1 6 231
7 Documenti riguardanti Emilio Freilich, Ruth Kalischer, Armand Moreno, Hersz Naftali Schuldenfrei, Mosé Szapiro (assistenti dei ragazzi), Salomon Brawer, Ferdinand Glucks, Walter Reichmann (collaboratori della Delasem) nell’Archivio storico del comune di Nonantola (ASCN), E.C.A., b. 21, Soggiorno stranieri, e ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, fascicoli personali. 8 K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, p. 600.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
491
In alcuni brevi periodi vi furono internati anche a Bastiglia e a Sestola, che poi vennero trasferiti in altri comuni all’interno della provincia.9 Quanto a cittadinanza, secondo i dati più precisi del Ministero dell’interno per l’aprile-maggio 1943, gli internati si suddividevano principalmente in due grandi gruppi: jugoslavi (115) e anglo-libici (55). Oltre a essi vi erano 17 tedeschi o austriaci, 8 polacchi, 3 cechi, 3 greci, 2 ungheresi e 1 russo. I 27 internati che si aggiunsero tra aprile-maggio e i primi di settembre erano in prevalenza jugoslavi. L’internamento degli ebrei stranieri, che in alcune parti d’Italia aveva avuto inizio subito dopo che il paese era entrato in guerra, nel giugno 1940, nella provincia di Modena cominciò invece relativamente tardi. La prima volta che si fa riferimento a un internato è nel settembre 1941.10 Il numero degli internati crebbe considerevolmente nell’aprile 1942, con l’arrivo di 37 ebrei libici, che vennero distribuiti in cinque comuni.11 I 37 libici erano stati arrestati a Bengasi come “stranieri nemici”, a causa della loro cittadinanza britannica, e costituivano probabilmente l’ultimo scaglione degli oltre 300 ebrei anglo-libici deportati in Italia.12 Nel corso di un anno il loro numero nella provincia di Modena salì a 61. Ai primi di settembre 1943 ve ne erano ancora 54, in sei diverse località di internamento:13 marzo 1943 San Felice sul Panaro Cavezzo Medolla Nonantola Modena (Casa di riposo) Casinalbo (Casa di cura) Fiumalbo 9
15 15 9 6 3 7
inizio settembre 1943 24 14 7 6 2 1 -
Elenco degli internati ebrei, come nota 6. Archivio Federale Svizzero (d’ora in poi AFS), Berna, Bestand E 4264, 1895/196, N 18698, vol. 1578, Schlome Muster, Verbale d’interrogatorio, 24 dicembre 1943. 11 ACS, PS, A 4 bis Straneri internati, b. 5/26 Modena, Elenco degli ebrei inglesi internati nella provincia di Modena giunti il giorno 21 aprile 1942. 12 V. Galimi, L’internamento in Toscana, in Enzo Collotti (a cura di), Razza e fascismo. La persecuzione degli ebrei in Toscana (1938-1943), I, Roma 1999, pp. 511-560 (527 ss.); K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, pp. 41 ss. 13 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 9/65 Sfollati dalla Libia, Elenco nominativo degli internati stranieri evacuati dalla Libia, divisi per famiglie, residenti nella provincia di Modena al 1° marzo 1943; Elenco degli internati ebrei, come nota 6, e altre fonti. 10
K. VOIGT
492 Bastiglia
6 61
54
Questi ebrei libici erano prevalentemente persone anziane e madri con bambini, mentre i padri erano rimasti nei campi di concentramento in Libia. Vivevano quasi completamente isolati, in quanto la popolazione locale temeva di essere contagiata da malattie infettive, secondo l’avviso trasmesso agli ufficiali sanitari dalla prefettura. Questa preoccupazione non era del tutto infondata, ma soprattutto veniva sfruttata dalle autorità per impedire contatti tra internati e popolazione, che erano sostanzialmente malvisti.14 Secondo la documentazione raccolta nel Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano per il Libro della memoria, dalla provincia di Modena vennero deportati 70 ebrei, di cui 21 erano italiani e 49 stranieri.15 Quando il Libro della memoria afferma che una persona è stata deportata da una determinata provincia, significa che è lì che è stata catturata. Nella letteratura più vecchia, invece, per quanto riguarda i deportati dalla provincia di Modena ci si rifaceva alla targa posta all’interno della sinagoga di Modena, che elenca 16 nomi di ebrei italiani (27 comprendendo quelli della provincia di Reggio Emilia)16. Tre delle persone lì indicate morirono durante l’occupazione tedesca in quanto partigiani o in circostanze mai definitivamente chiarite. Solo due, come risulta da un confronto con il Libro della memoria, vennero arrestati in provincia di Modena: Guido Melli e il settantottenne Eugenio Guastalla. Un terzo, Cesare Lonzana Formiggini, arrestato alla frontiera svizzera, venne trasferito prima nel carcere di Como, poi nella sua città natale di 14 ASCN, come nota 7, fasc. Ebrei inglesi sfollati dalla Libia, Commissario prefettizio Nonantola a Ufficiale sanitario Nonantola, 2 maggio 1942; Prefettura di Modena a Ufficiale sanitario Nonantola, 5 giugno 1942, e altri documenti. Cfr. anche i rapporti sugli ebrei libici internati a Bazzano e a Camugnano in provincia di Bologna in ACS, PS, M 4 Mobilitazione civile, b. 51/Bologna. 15 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 1991, p. 29. Allo stato della documentazione del CDEC il numero degli ebrei deportati dalla provincia di Modena ammontava a 71 (cortese comunicazione di Gigliola Lopez, CDEC). Due bambini nati nel campo di Fossoli non sono stati inclusi nell’elenco in appendice al presente saggio, che è basato sul Libro della memoria. Vi è invece indicato Salomon Papo, il cui luogo di arresto non è stato accertato nel Libro della memoria. Il suo ultimo domicilio conosciuto era a Gaiato di Pavullo (cfr. nota 26 e 27). 16 G. Scaglioni, Breve ricognizione storica sulle vicende degli ebrei modenesi e degli ebrei presenti nel Modenese tra il 1938 e il 1945, “Rassegna di storia dell’Istituto storico della Resistenza e di Storia Contemporanea in Modena e provincia”, a. 9, 1989, pp. 113125 (pp. 122 s.); L. Casali, Storia della Resistenza a Modena, I, Modena 1980, p. 225.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
493
Modena, e da lì nel campo di Fossoli.17 Sei ebrei i cui nomi si trovano sulla targa, tra cui anche il rabbino di Modena, Rodolfo Levi, sua moglie e sua figlia, vennero arrestati nello stesso giorno a Firenze, dove avevano trovato tutti insieme un nascondiglio; altri quattro vennero presi rispettivamente a Roma, Torino, Asti e Venezia.18 Tra gli ebrei italiani deportati dalla provincia di Modena, 19 vi erano arrivati dopo l’8 settembre provenienti da Bologna, Ferrara, Padova, Verona, Venezia e Gorizia, alla ricerca di un luogo dove nascondersi. Soltanto sei ebrei italiani vennero effettivamente arrestati nella città di Modena, gli altri furono catturati a Bomporto, Carpi, Castelfranco Emilia, Formigine, Montefiorino, San Cesario sul Panaro e Spilamberto.19 Dei 49 ebrei stranieri deportati, 45 erano anglo-libici. Furono catturati, nel corso di un rastrellamento disposto dal Ministero dell’interno e riguardante numerose province, il 30 novembre 1943, il giorno stesso dell’ordine di polizia n. 5, con cui il governo della Repubblica di Salò ordinava l’invio in campo di concentramento di tutti gli ebrei abitanti in Italia.20 A San Felice sul Panaro, Cavezzo e Medolla neppure uno sfuggì all’arresto. Perché non si erano nascosti? Già si è accennato a una delle ragioni: il loro quasi completo isolamento dalla popolazione. In genere trovava aiuto al momento del pericolo soltanto chi intratteneva già da tempo rapporti di reciproca conoscenza o relazioni amichevoli. L’isolamento, anche degli internati di diversa nazionalità, fece sì che gli anglo-libici non si rendessero conto della gravità della loro situazione. Un altro motivo per cui essi restarono nelle località di internamento fu che, trattandosi di donne con bambini e di persone anziane, temevano i disagi di una fuga e di una vita nella clandestinità. Degli ebrei libici, solo nove si salvarono dall’arresto e dalla deportazione. Due erano ricoverati in una casa di riposo di Mo-
17
L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., pp. 316, 396, 411. Nomi e luoghi dell’arresto in G. Scaglioni, Breve ricognizione, cit., p. 122, e in L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., pp. 380, 382, 489, 552 (Firenze), 175 (Roma), 452 (Asti), 492 (Venezia), 582 (Torino). 19 Cfr. l’elenco dei deportati nell’Appendice. 20 Confronto tra l’Elenco degli internati ebrei (nota 6) e l’Elenco nominativo degli internati stranieri evacuati dalla Libia (nota 13) con i nomi dei deportati nel Libro della memoria, dove come data di arresto degli ebrei in diverse province è indicato il 30 novembre 1943. Non è stato possibile ad oggi trovare il corrispondente ordine di arresto da parte del Ministero dell’interno. 18
494
K. VOIGT
dena e uno in una casa di cura a Casinalbo.21 Sei si trovavano a Nonantola, alloggiati in un’ala di Villa Emma, ed erano costantemente in contatto con i ragazzi e i loro accompagnatori, per cui dai loro racconti si poterono fare un’idea di cosa significasse la persecuzione nazista. Quando i ragazzi, suddivisi in più gruppi, fuggirono in Svizzera, essi si aggregarono e giunsero con loro alla meta.22 I cittadini britannici, e di conseguenza anche gli anglolibici, non rientravano nel programma di sterminio della “soluzione finale”. Invece che ad Auschwitz, come la gran parte degli altri ebrei catturati in Italia, vennero portati da Fossoli a Bergen-Belsen, da dove, prima della loro liberazione, vennero trasferiti in un altro campo. La maggior parte di essi sopravvisse pertanto alla deportazione.23 Se si prescinde dagli anglo-libici, sorprende constatare quanto pochi furono gli ebrei stranieri deportati dalla provincia di Modena: in tutto due polacchi e due jugoslavi. I due polacchi erano Moise e Emil Blatteis, internati prima a Lama Mocogno e in seguito a San Felice sul Panaro. Nel Libro della memoria non risulta la data del loro arresto. Probabilmente vennero portati nel carcere di Modena contemporaneamente agli ebrei libici.24 Dei due jugoslavi uno era Siegfried Wohlmuth, un industriale di Zagabria, che era stato internato da ultimo a Concordia, e che il 7 dicembre 1943 venne arrestato dalla milizia fascista a Montetortore, nell’Appennino modenese.25 Il secondo jugoslavo era il quindicenne Salomon Papo di Sarajevo, uno dei ragazzi di Villa Emma. Faceva parte del gruppo arrivato a Nonantola il 14 aprile 1943, proveniente da Spalato, e aggregatosi ai ragazzi venuti dalla Germania e dall’Austria. Non poté tuttavia restare con i suoi compa21 ASCN, come nota 7, fasc. Ebrei inglesi sfollati dalla Libia, Questura di Modena a Comando stazione agenti di PS Modena, 25 maggio 1942, e altri documenti. 22 ASCN, come nota 7, fasc. Ebrei inglesi sfollati dalla Libia, Comune di Nonantola, Elenco degli appartenenti alla razza ebraica nel Comune di Nonantola e altri documenti; AFS, Bestand E 4264, 1985/196, fascicoli personali di Haim Benjamin, Jolanda Benjamin, Ester Benjamin e Heria Halfon Coen, Ada Coen, Ester Coen. 23 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, pp. 45, 49, 90. 24 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 45/Blatteis, Emil; Elenco degli internati ebrei, come nota 6; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, p. 148. 25 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 376/Wohlmuth, Siegfried; W. Bellisi, La persecuzione antiebraica nell’alta Valle del Panaro, “Rassegna di storia dell’Istituto storico della Resistenza e di storia contemporanea in Modena e provincia”, 1990, a. 10, pp. 39-57 (p. 50); I. Vaccari, Il tempo di decidere. Documenti e testimonianze sui rapporti tra il clero e la Resistenza, Modena 1968, pp. 90 ss.; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., p. 621.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
495
gni perché malato di tubercolosi, e già ai primi di maggio venne mandato in un sanatorio a Gaiato presso Pavullo. Da lì scrisse più volte a Gino Friedmann, capo della rappresentanza della Delasem a Modena e vicepresidente della Comunità israelitica, dandogli notizie sul suo stato di salute. La sua ultima lettera è del 9 novembre 1943, poco prima che Friedmann fuggisse in Svizzera. Prima della partenza Friedmann si preoccupò che il soggiorno in sanatorio fosse pagato anticipatamente fino al marzo 1944.26 Che cosa ne sia stato del ragazzo dopo la sua ultima lettera a Friedmann e in quali circostanze sia stato arrestato, resta avvolto nel buio. Il suo nome ricompare di nuovo, e per l’ultima volta, in una lista redatta in occasione della sua deportazione da Fossoli ad Auschwitz, il 5 aprile 1944.27 Si impone una breve riflessione sulla circostanza che il totale degli ebrei italiani e stranieri arrestati in provincia di Modena e da lì deportati, 25 a parte gli ebrei anglo-libici, fu lievemente inferiore alla media in Italia. Questa particolarità fu certo dovuta, tra l’altro, al fatto che a Modena non si ebbe alcun rastrellamento da parte della polizia tedesca. Tuttavia molte circostanze restano ancora da chiarire, soprattutto il perché le perquisizioni effettuate nelle case dalla polizia e dalla milizia italiana nei primi giorni di dicembre, dopo l’emanazione dell’Ordine di polizia n. 5, abbiano portato solo a pochi arresti (tre a Modena, due a Bomporto, due a Spilamberto e uno a Montetortore). Si deve ritenere che vi fossero stati degli avvertimenti, e un funzionario della questura, Francesco Vecchioni, il cui nome viene spesso fatto a questo proposito, vi svolse probabilmente un ruolo di rilievo.28 Per sfuggire alla deportazione era necessario allontanarsi dalla propria abitazione, nascondendosi nella stessa città, o nei dintorni, oppure più lontano, in un’altra provincia. Un’altra possibilità era la fuga verso nord, in Svizzera, o verso sud, nei territori controllati dagli Alleati. In entrambi i casi il rischio era assai elevato. Fino al 2 dicembre 1943 la Svizzera respingeva di regola i profughi 26 ACEM, b. 574, fasc. Papo, Salomon, Gaiato, corrispondenza con Friedmann; b. 537, fasc. Corrispondenza Delasem, Rappresentanza Delasem Modena a Consorzio provinciale antitubercolare, 24 novembre 1943. Cfr. K. Voigt, I ragazzi di Villa Emma a Nonantola, in F. Bonilauri-V. Maugeri (a cura di), Le comunità ebraiche a Modena e a Carpi. Dal Medioevo all’età contemporanea, Firenze 1999, pp. 241-265 (p. 264). 27 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., p. 459. 28 G. Scaglioni, Breve ricognizione storica, cit., pp. 121 ss.; C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Milano 1998, p. 156.
496
K. VOIGT
ebrei che tentavano di superare il confine italiano.29 A sud le difficoltà e i pericoli non erano certo minori. Tuttavia si ha notizia di alcuni casi di ebrei che riuscirono effettivamente ad attraversare la linea del fronte.30 In Svizzera, a quanto risulta ad oggi, furono accolti 165 ebrei che prima dell’occupazione tedesca abitavano nella provincia di Modena, vale a dire oltre un terzo, e precisamente 36 italiani, 49 stranieri e 69 ragazzi di Villa Emma con 11 accompagnatori non internati. Tra gli ebrei italiani i più noti erano Gino Friedmann, Salvatore Donati e il presidente della Comunità israelitica di Modena, Umberto Campagnano di Carpi, ognuno dei quali raggiunse la Svizzera insieme a numerosi familiari.31 I 50 stranieri erano stati internati nei seguenti comuni:32 Nonantola 16 Finale Emilia 9 Concordia 6 Mirandola 6 Modena 5 Pievepelago 4 Monfestino di Serramazzoni 2 Serramazzoni 1 49
A Nonantola si aggregarono ai ragazzi, nella fuga in Svizzera, oltre ai sei ebrei libici già ricordati, cioè due donne, tre bambini e un vecchio che abitavano a Villa Emma, i cinque accompagnatori dei bambini classificati come internati, e una coppia e una donna cui le autorità avevano consentito di cambiare luogo di internamento perché i loro figli facevano parte del gruppo di Villa Emma. 29 R. Broggini, La frontiera della speranza. Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera 19431945, Milano 1998, pp. 17 ss. 30 K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, pp. 487 ss. 31 I nomi dei 36 ebrei italiani sono: Mario Camerini, Umberto Campagnano, Elda Campagnano, Emma Campagnano, Manlio Campagnano, Alberto Castelfranco, Amalia Castelfranco, Ermanno Castelfranco, Alfredo Corinaldi, Giulia Volterra Corinaldi, Laura Corinaldi, Salvatore Donati, Graziella Schiller Donati, Amedeo Donati, Andrea Donati, Anna Donati, Maurizio Donati, Raffaele Donati, Benvenuto Donati, Donato Donati, Enrico Donati, Gino Donati, Irma Donati, Federica Korth Fried, Dino Friedmann, Emma Friedmann, Gino Friedmann, Flaminio Modena, Luisa Modena, Rita Modena, Paolo Padoa, Laura Padoa, Riccardo Padoa, Emilia Rimini, Ferruccio Teglio, Anna Vigevani. Cortese informazione di Renata Broggini da AFS, Bestand E 4264, 1985/196, fascicoli personali. 32 Confronto dell’Elenco degli internati ebrei (come nota 6) con l’elenco degli ebrei accolti in Svizzera in R. Broggini, La frontiera della speranza, cit., pp. 494 ss. Alcune integrazioni sono state fatte secondo AFS, Bestand E 4264, 1985/196.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
497
I tre collaboratori della Delasem invece raggiunsero la Svizzera per conto proprio.33 A Finale Emilia tutti gli internati, ad eccezione della dottoressa polacca Fryderyke Hubschmann, che riuscì a sopravvivere nel modenese, si misero in viaggio per la Svizzera.34 Kurt Feuerstein di Graz venne arrestato in prossimità della frontiera e in seguito deportato.35 Resta avvolto nel mistero il destino di sua moglie Hermine Weiss, che era internata a Finale insieme a lui e che si deve ritenere lo accompagnasse nella fuga.36 Il suo nome non compare né tra quelli delle persone accolte in Svizzera né tra quelli dei deportati. La fuga di undici ebrei da un luogo di internamento non si spiega se non con una assistenza energica e ben organizzata. Come si rileva dai verbali degli interrogatori cui i profughi furono sottoposti al loro arrivo in Svizzera, gli ebrei maschi internati a Finale Emilia erano stati arrestati da militari della Wehrmacht poche ore dopo l’arrivo delle truppe tedesche, il 9 settembre, ma rilasciati dopo uno o due giorni. Un evento di questo genere non risulta ad oggi si sia verificato in alcun altro luogo di internamento in Italia. In uno dei verbali si dice che il comandante tedesco della piazza avrebbe consigliato loro di lasciare l’Italia.37 Nel timore di essere di nuovo arrestati, nelle due settimane successive tutti gli internati che in seguito giunsero in Svizzera abbandonarono Finale e trovarono rifugio nei villaggi dell’Appennino modenese. Alexander Mayerhofer, un commerciante di Zagabria, si nascose con la moglie, una insegnante di pianoforte che aveva studiato a Graz, in una canonica di Montalbano.38 Il banchiere berlinese Erich Memelsdorff e sua moglie, che vivevano in Italia già dal 1934, cambiarono tre volte alloggio nelle montagne a ovest di Vignola e da ultimo si rifugiarono presso un sacerdote di Montecorone.39 Il commerciante di legname 33 AFS, Bestand E 4264, 1985/196, fascicoli personali su Arthur Karger, Gertrud Hiller Karger, Malka Schwarz e i nomi elencati alle note 7 22. 34 Elenco degli internati ebrei, come nota 6; ACEM, b. 370 Comitato di Assistenza Ebrei in Italia, Delasem. Entrate-uscite aprile 1945-luglio 1946. 35 Elenco, come nota 6; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., p. 267. 36 Elenco, come nota 6. 37 AFS, Bestand E 4264, 1985/196, N 20254, vol. 1729, Erich Memelsdorff, Betty Prager Memelsdorff, Verbali d’interrogatorio. 38 AFS, come nota 37, N 19074, vol. 1615, Alexander Mayerhofer, Aranka Nemenyi Mayerhofer, Verbali d’interrogatorio. Parroco di Montalbano era don Roberto Manfredini. 39 Come nota 37. Parroco di Montecorone era don Giuseppe Taliani. L’A. ringrazia Enrico Ferri, di Nonantola, per avergli fornito il nome dei due sacerdoti.
498
K. VOIGT
Marcel Trostler di Zagabria e sua moglie rimasero per tre settimane in un convento non meglio precisato sull’Appennino modenese e poi per due mesi da un parroco.40 Anche il rabbino Moric Levy di Zagabria, insieme alla moglie e alla madre, trovò rifugio per due mesi nella canonica di un villaggio di montagna. Sembrerebbe accertato che fosse quella di don Aurelio Reggianini a Montetortore.41 Quando la milizia fascista dopo l’emanazione dell’Ordine di polizia n. 5 iniziò a dare la caccia agli ebrei nei paesi di montagna del modenese, la situazione divenne pericolosa al punto che molti preferirono tornare in pianura. La famiglia Mayerhofer fece ritorno a Finale Emilia e vi trovò rifugio presso un contadino. I Levy lasciarono giusto in tempo Montetortore e si trasferirono a Modena, dove speravano di passare più facilmente inosservati. La famiglia Trostler fu la prima a tentare la fuga in Svizzera, il 7 dicembre. Prima di partire i Trostler si recarono a Massa Finalese, dove erano stati internati in precedenza, per ritirare il proprio bagaglio. Da lì raggiunsero Como via Modena in treno, ma a causa delle forti nevicate sui monti furono costretti a interrompere la loro fuga e a tornare a Massa Finalese.42 Il 12 dicembre le famiglie Mayerhofer, Memelsdorff e Trostler si incontrarono a Modena. Da lì, accompagnati da un uomo raccomandato loro da un parroco di Finale Emilia, viaggiarono in treno fino a Como, via Milano. A Como pernottarono, e la sera successiva raggiunsero in battello Argegno e poi in autobus Lanzo d’Intelvi. Qui il loro accompagnatore li affidò a dei contrabbandieri, cui pagarono l’incredibile somma di 90.000 lire — all’epoca il salario mensile di un operaio era di appena 500 lire. La mattina del 14 dicembre, verso le 2, il gruppetto di sei persone attraversò il confine.43 Una settimana dopo, il 21 dicembre, i Levy raggiunsero la Svizzera seguendo lo stesso percorso. In un verbale d’interrogatorio si fa addirittura il nome del sacerdote che a Modena aveva organizzato la fuga: Francesco Boccoleri. Fino a Lanzo d’Intelvi la famiglia Levy fu accompagnata da un prete in abiti borghesi, di cui non è detto il nome. Da lì, a quanto dichia40 AFS, come nota 37, N 20026, vol. 1708, Marcel Trostler, Ella Kaszab Trostler, Verbali d’interrogatorio. 41 AFS, come nota 37, N 19898, vol. 134, Moric Levy, Hanna Salpeter Levy, Sara Levy, Verbali d’interrogatorio. 42 Come note 38, 40, 41. 43 Come note, 37, 38, 40.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
499
rarono, vennero condotti al confine da partigiani, che non pretesero alcun pagamento.44 Dalle deposizioni dei profughi provenienti da Finale Emilia appare evidente che in brevissimo tempo si costituì una rete di sacerdoti che si tenevano in contatto tra di loro e venivano in aiuto agli ebrei. Alcuni sacerdoti di Finale Emilia e Massa Finalese, il cui nome ci è ignoto, si rivolsero ai loro confratelli sull’Appennino, che procurarono un alloggio agli ebrei. Quando in montagna la situazione si fece pericolosa, altri sacerdoti di Modena si presero cura dei perseguitati e organizzarono la loro fuga in Svizzera. Dei 28 ebrei internati a Concordia solo due famiglie riuscirono a raggiungere la Svizzera. Bruno Eremic, un commerciante di Zagabria, sua moglie e sua figlia abitarono per qualche tempo clandestinamente presso amici a Modena. Poi Eremic si recò al confine svizzero, che attraversò il 25 ottobre presso Campocologno, sopra Tirano.45 La sua decisione di partire da solo per la Svizzera fu probabilmente dovuta al desiderio di non esporre la sua famiglia al rischio di essere respinta alla frontiera. Se fosse stato accolto, era certo che lo sarebbe stata anche la sua famiglia. Il 20 novembre la moglie e la figlia raggiunsero il territorio svizzero presso Chiasso, dopo aver trascorso tre settimane in un convento che, se le informazioni di Eremic dopo il suo arrivo in Svizzera sono corrette, si trovava a Maranello.46 Anche Paul Ernst, un impiegato di Zagabria parente della famiglia Eremic, sua moglie e sua figlia, guidati da contrabbandieri, cui pagarono tutti insieme 26.000 lire, riuscirono il 26 ottobre a passare in Svizzera presso Campocologno.47 La famiglia Mattersdorfer di Karlovac, composta da tre persone e internata a Concordia, venne invece fermata il 31 marzo 1944 vicino alla frontiera, presso Como, da una pattuglia tedesca, probabilmente del Zollgrenzschutz, la polizia confinaria, e incarcerata a Milano nel braccio di San Vittore sorvegliato dalla Gestapo. Fu poi trasferita a Fossoli e da lì ad Auschwitz.48 probabilmente i Mattersdorfer erano tra quegli ebrei internati a Con-
44
Come nota 41. AFS, come nota 37, N 18792, vol. 1588, Bruno Eremic, Marga Bauer Eremic, Novenka Eremic, Verbali d’interrogatorio. 46 Ivi. 47 AFS, come nota 37, N 18932, vol. 18932, Paul Ernst, Olga Schley Ernst, Vera Ernst, Verbali d’interrogatorio. 48 Elenco, come nota 6; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., pp. 409, 520, Karl Felix Mattersdorfer, Elsa Sachs Mattersdorfer, Liliana Mattersdorfer. 45
500
K. VOIGT
cordia che ricevettero aiuto dai partigiani.49 Anche da Concordia alcuni ebrei fuggirono sui monti dell’Appennino modenese, come conferma il caso del già citato Siegfried Wohlmuth, che venne nascosto da don Reggianini nella canonica di Montetortore, fino a che le Brigate nere non lo scovarono e non lo portarono via.50 Tutti e sei gli internati di Mirandola riuscirono a raggiungere la Svizzera. Si trattava delle famiglie Talvi e Almoslino di Belgrado, imparentate tra di loro, che erano state trasferite a Mirandola dal campo di internamento di Ferramonti-Tarsia in Calabria. A stare al loro racconto, il 10 ottobre vicino a Cernobbio strisciarono sotto il reticolato eretto lungo il confine e si presentarono alle guardie svizzere a Sagno.51 Joseph Stern, sua moglie e i suoi tre figli, internati a Modena, di origine ungherese ma cittadini cechi, vennero accompagnati a Tirano da Goffredo Pacifici, il bidello di Villa Emma, insieme ad altri profughi, tra cui cinque ragazzi di Villa Emma che si erano separati dal gruppo e per qualche tempo avevano trovato rifugio a Roma. A Tirano vennero presi in consegna dai contrabbandieri, che il 2 dicembre li aiutarono ad attraversare la frontiera presso Viano.52 Shlomo Muster, un rappresentante di commercio polacco, e sua moglie si recarono ai primi di novembre da Monfestino di Serramazzoni, dove erano internati, a Milano, dove avevano abitato in precedenza, e lì prepararono la fuga attraverso il Monte Bisbino presso Como.53 A Serramazzoni il quindicenne Marco Stern venne affidato dai genitori all’economo di Villa Emma, Marco Schoky, che dietro pagamento lo portò con sé in Svizzera a metà ottobre.54 Infine il commerciante Ernst Horovitz di Zagabria, internato a Pievepelago, dal settembre 1943 al maggio 1944 visse con la moglie, la figlia e la suocera, come dichiarò a verbale al momento dell’arrivo in Svizzera, “nascosto in varie località
49 G. Scaglioni, Breve ricognizione, cit., p. 121; C. Silingardi, Una provincia partigiana, cit., p. 158. 50 Come nota 25. 51 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 18/Almuzlino, Menachem; b. 347/ Talvi, Ilija e famiglia; AFS, come nota 37, N 18802, vol. 1589, Ilija Talvi, Rebecca Behar Talvi, Leo Talvi, Raffael Talvi, Menachem Almoslino, Verbali d’interrogatorio. 52 AFS, come nota 37, N 19694, vol. 1674, Joseph Stern, Rosa Weiss Stern, Alexander Stern, Mario Stern, Benjamin Stern; colloquio di Enrico Ferri con Bemjamin Stern, gentilmente messo a disposizione dell’A. da Enrico Ferri. 53 Come nota 10. 54 Elenco, come nota 6; AFS, come nota 37, N 17929, vol. 1518, Marco Stern; colloquio con Marco Stern, Haifa, 14 giugno, 1996.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
501
dell’Italia settentrionale”, fino a che la famiglia non riuscì a fuggire presso Bruzella sul Monte Bisbino.55 Ad oggi non siamo in grado di indicare, neppure approssimativamente, quanti furono gli ebrei che, partiti dalla provincia di Modena per raggiungere la Svizzera, si videro rifiutare l’ingresso alla frontiera. Infatti la documentazione riguardante le persone respinte, in origine conservata presso il Schweizer Bundesarchiv, l’archivio federale svizzero, è stata poi distrutta - contrariamente a quella relativa alle persone accolte! Forse col tempo, effettuando ricerche negli archivi cantonali, sarà possibile rinvenire alcuni nomi.56 Per il momento non si è riusciti ad accertare se Cesare Lonzana Formiggini, Kurt Feuerstein e la famiglia Mattersdorfer vennero catturati dopo essere stati respinti alla frontiera svizzera o mentre vi si stavano recando. A Nonantola, nella Villa Emma, erano alloggiati in quel settembre 73 ragazzi con 19 accompagnatori, tra cui tre italiani: Umberto Jacchia, direttore della villa, il medico Laura Cavaglione, e il bidello Goffredo Pacifici. Vi erano due gruppi di ragazzi. Il primo era formato da 40 ragazzi, provenienti in prevalenza dalla Germania e dall’Austria, e, all’inizio, da 9 accompagnatori. Questi ragazzi erano fuggiti tra l’autunno 1940 e la primavera 1941 a Zagabria, attraversando le montagne con l’aiuto di contrabbandieri. A Zagabria erano stati assistiti dalla comunità ebraica e da associazioni sioniste. Dopo l’occupazione di Zagabria da parte dei tedeschi, Josef Indig, un giovane sionista di Osijek, li condusse nella parte della Slovenia annessa all’Italia, dove trovarono alloggio in un vecchio castello di caccia, a Lesno Brdo presso Lubiana. Quando nella zona ebbe inizio la lotta partigiana, il Ministero dell’interno concesse loro nel luglio 1942 l’autorizzazione a trasferirsi a Nonantola, dove l’organizzazione assistenziale ebraica Delasem aveva preso in affitto a questo scopo Villa Emma. Nell’aprile 1943 vennero raggiunti dal secondo gruppo, composto da 33 ragazzi jugoslavi e due accompagnatori, che si erano rifugiati e avevano trascorso qualche tempo a Spalato e in altre località sulla costa dalmata, allora sotto dominio italiano. Dal mo55 AFS, come nota 37, N 22455, vol. 192a, Ernst Horovitz, Herta Friedmann Horovitz, Ajana Horovitz, Irene Friedmann, Verbali d’interrogatorio. 56 G. Koller, Entscheidung uber Leben und Tod. Die behordliche Praxis in der schweizerischen Fluchtlingspolitik wahrend des Zweiten Weltkriegs, in Die Schweiz und die Fluchtlinge-La Suisse et les réfugiés 1933-1945 (Zeitschrift des Schweizerischen Bundesarchivs. Studien und Quellen 22), Berna 1996, pp. 17-106 (pp. 76 ss.).
502
K. VOIGT
mento che il primo gruppo era entrato in Slovenia legalmente, con l’autorizzazione del Ministero dell’interno, ai ragazzi che lo componevano non venne attribuito lo status di internati né a Lesno Brdo né a Nonantola.57 E’ noto ciò che accadde dopo l’8 settembre: entro quarantott’ore dall’annuncio dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati, quando le prime truppe tedesche erano ormai a Nonantola, i ragazzi abbandonarono Villa Emma. La metà circa trovò accoglienza nel seminario annesso all’abbazia, in qual momento vuoto a causa delle vacanze estive, mentre gli altri si nascosero in un raggio di tre o quattro chilometri presso contadini, artigiani e negozianti. La sistemazione in seminario era stata concordata tra il medico Giuseppe Moreali e il giovane sacerdote don Arrigo Beccari, economo del seminario stesso, che riuscì a ottenere il consenso del rettore, don Ottaviano Pelati.58 Indig e gli altri accompagnatori dei ragazzi erano ben consapevoli che non si trattava di un nascondiglio sicuro per molto, perché forse era noto alla polizia tedesca di stanza a Bologna e a Modena. L’idea di recarsi con i ragazzi verso sud venne abbandonata, quando si vide che il fronte si stava consolidando nei pressi di Montecassino, e che non c’era più da sperare in una rapida 59 avanzata degli Alleati. Restava dunque solo la fuga in Svizzera. A organizzarla furono Indig e Pacifici, l’unico collaboratore della Delasem a Villa Emma rimasto sul posto. Si recarono insieme fino a Ponte Tresa; lì controllarono quali possibilità vi fossero per passare la frontiera e presero accordi con i contrabbandieri. Per mettere alla prova la disponibilità svizzera ad accogliere i profughi, Indig mandò dapprima due gruppi, ciascuno formato da cinque-sei ragazzi e alme57 K. Voigt, I ragazzi di Villa Emma, cit., pp. 241-269. Per il gruppo di Spalato vi si parla di 34 ragazzi, perché uno degli accompagnatori, l’insegnante Jakov Maestro, era compreso dell’elenco dei ragazzi. Per precisione va detto che due accompagnatori del gruppo, Alexander Licht e la moglie, non abitavano a Villa Emma, ma in una locanda a Nonantola. 58 Per quanto riguarda il periodo trascorso nei nascondigli a Nonantola cfr. soprattutto i ricordi di Josef Indig, pubblicati solo in ebraico: J. Ithai, Yaldei Villa Emma, Tel Aviv 1983, pp. 271 ss. Una breve sintesi si trova con il titolo: J. Ithai, The Children of Villa Emma: Rescue of the Last Youth Aliyah Before the Second World War, in I. Herzer (a cura di), The Italian Refuge. Rescue of Jews during the Holocaust, Washington 1989, pp. 178-202. Tra i libri dedicati all’argomento vanno ricordati: I. Vaccari, Villa Emma. Un episodio agli albori della Resistenza modenese nel quadro delle persecuzioni razziali, Modena 1960; R. Paini, I sentieri della speranza. Profughi ebrei, Italia fascista e la “Delasem”, Milano 1988, pp. 174 ss.; E. Ferri, La vita libera. Biografia di Don Arrigo Beccari 1933-1970, Nonantola 1993, pp. 90 ss. 59 J. Ithai, Yaldei Villa Emma, cit., pp. 277, 280.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese
503
no un adulto. Furono lasciati entrare due ragazzi al di sotto dei sedici anni e una ragazza più grande, mentre gli altri vennero respinti e dovettero tornare a Nonantola. In seguito Indig riuscì a mettersi in contatto con Nathan Schwalb, rappresentante in Svizzera dello Hechaluz, l’associazione che riuniva le organizzazioni sionistiche giovanili, e questi si dette da fare presso il governo svizzero per ottenere che i ragazzi venissero accolti. Alla fine ai ragazzi e ai loro accompagnatori venne concesso l’ingresso, a condizione che le organizzazioni ebraiche ne garantissero il mantenimento durante la loro permanenza in Svizzera e l’espatrio dopo la guerra. I ragazzi si recarono quindi al confine provvisti di regolari documenti di identità per stranieri rilasciati dal comune di Nonantola. L’attraversamento del confine era in quel periodo estremamente pericoloso, in quanto da poco tempo sul versante italiano agiva anche il Zollgrenzschutz, la polizia di frontiera tedesca, che inviava gli ebrei catturati al carcere di Varese e da lì al Comando di polizia e delle SS di Como. I ragazzi raggiunsero il territorio elvetico divisi in quattro gruppi principali, tra il 1° e il 16 ottobre, guadando al buio il Tresa, il fiume che segnava il confine.60 Alla liberazione di Modena ad opera delle truppe alleate e dei partigiani, il 24 aprile 1945, i rappresentanti dell’American Jewish Joint Distribution Committee, giunti poco tempo dopo, trovarono in città circa 150 ebrei, cui prestarono assistenza.61 Di questi, secondo un rapporto della fine di maggio, 74 (a fronte di 166 nel dicembre 1942) erano italiani che risiedevano a Modena da prima dell’occupazione tedesca, 45 invece provenivano da altre parti d’Italia, e 40 (contro i 231 dell’inizio di settembre 1943) erano stranieri di varie nazionalità. Pochi tra questi, secondo l’elenco delle persone assistite dal rinato comitato Delasem, erano coloro che, come Fryderyke Hubschmann e Karl Stark, erano stati precedentemente internati nella provincia di Modena.62 Gli jugoslavi, a quanto pare, erano partiti per la maggior parte verso sud ed erano rimasti bloccati a Roma.63 A fine maggio solo pochi ebrei ita60
K. Voigt, I ragazzi di Villa Emma, cit., pp. 261 ss. Archivio dell’American Jewish Joint Distribution Committee (JDC), New York, 883 Italy/General 1945, rapporti di Melvin Goldstein al JDC di Lisbona, 19 e 28 maggio 1945. 62 Elenco, come nota 6 e nota 34. 63 S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1947). Contributo alla storia della Delasem, Roma 1983, p. 297. 61
K. VOIGT
504
liani sopravvissuti al genocidio in altre parti d’Italia potevano essere tornati a Modena, e nessuno ancora dalla Svizzera. Gli ebrei stranieri di regola non tornarono nelle località dove erano stati internati, perché non vi avrebbero trovato né lavoro, né assistenza, né infine occasioni per emigrare.64 Le cifre elencate nel rapporto del rappresentante del Joint danno un quadro della dispersione cui era andata incontro la componente ebraica della popolazione in una città e una provincia d’Italia, costretta a fuggire e a nascondersi.
Appendice Ebrei italiani deportati dalla provincia di Modena Nome Coen, Giuseppe Coen, Marcello Consolo, Giulia Fornari, Mario Guastalla, Eugenio Jona, Gino Levi Coen, Ines Melli, Guido Moresco Sermoneta, Giuditta Muggia Vigevani, Amelia Ravenna, Roberto Ravenna, Rodolfo Ravenna, Vittorio Schoenfeld, Bela Sermoneta, Benedetto Servadio Schoenfeld, Letizia Steinmann, Filippo Steinmann, Iris Todesco, Emilio Todesco, Mario Vigevani, Lionello
Luogo e data dell’arresto Modena 07/12/1943 Modena 07/12/1943 Provincia di Modena s.d. Modena 04/02/1944 Formigine 05/07/1944 Modena s.d. Modena 07/12/1943 Modena 10/11/1943 Castelfranco Emilia 22/11/1943 Spilamberto 02/12/1943 Montefiorino s.d. Montefiorino s.d. Montefiorino s.d. Bomporto 03/12/1943 Castelfranco Emilia 22/11/1943 Bomporto 03/12/1943 San Cesario sul Panaro s.d. San Cesario sul Panaro s.d. Carpi 08/02/1944 Carpi 08/02/1944 Spilamberto 02/12/1943
Ebrei stranieri deportati dalla provincia di Modena Nome Arbib Reginiano, Rachele Bedussa, Rosa Benjamin, Ester 64
Luogo e data dell’arresto Cavezzo 30/11/1943 Medolla 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943
K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, pp. 536 ss.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese Benjamin, Giacomo Blatteis, Emilio Blatteis, Massimo Buaron, Esterina Buaron, Giacobbe Buaron, Hamus Buaron, Hlafo Buaron, Hlafo Buaron, Leone Felice Buaron Labi, Margherita Buaron, Salma Core, Rebecca Debasch, Fortunato Debasch, Giuditta Debasch, Jolanda Debasch, Leone Giuili Labi, Giora Glam, Giulia Labi, Aronne Labi, Giulia Labi, Giulia Labi, Quintina Labi, Sanin Labi, Sion Labi, Sion Labi, Vittorio Labi, Wanda Lallum Labi, Ninetta Leghziel Labi, Misa Mazzus Labi, Emilia Mazzus Debasch, Rebecca Mazzus Buaron, Sofia Nemni, Renato Papo, Salomon Reginiano, Ester Reginiano, Fortunata Reginiano, Julia Reginiano, Liliana Reginiano, Nissim Reginiano, Rahmin Reginiano, René Reginiano, Vera Tsciuba Reginiano, Rachele Tsciuba Buaron, Toma Wohlmuth, Siegfried
San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro s.d. San Felice sul Panaro s.d. San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Medolla 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Medolla 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Medolla 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Medolla 30/11/1943 Medolla 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Medolla 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 San Felice sul Panaro 30/11/1943 Gaiato di Pavullo, s.d. Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Cavezzo 30/11/1943 Montetortore 07/12/1943
505
LA DEPORTAZIONE DALLA MONTAGNA REGGIANA di Giovanna Caroli
La deportazione, una delle tante cenerentole della storia, è stata completamente ignorata in ambito locale, almeno nella montagna reggiana dove io ho condotto la ricerca nel 1997, la prima a distanza di 53 anni. L’area esaminata comprende i comuni della montagna e dell’alta collina e corrisponde a quella dell’attuale Comunità montana dell’Appennino reggiano: 13 comuni per una superficie di 970 kmq e una popolazione di 43.000 abitanti oggi e 68.000 nel 1951, cifra che non dovrebbe essere molto inferiore a quella del periodo bellico. L’indagine particolareggiata ha riguardato i Comuni di Busana, Carpineti, Casina, Castelnovo ne’ Monti, Toano e, relativamente al solo elenco dei deceduti in campo di concentramento, Villa Minozzo e Canossa. La ricerca dei nomi dei deportati e quindi della “cifra” del fenomeno ha preso avvio dal primo elenco ricostruito dall’Istoreco, sulla base degli iscritti all’associazione dei superstiti e dei famigliari delle vittime. Per i cinque comuni citati, da questa prima lista, attraverso il racconto dei superstiti, la collaborazione degli ufficiali di stato civile, di segretari di associazioni locali, di parroci, sono passata alla ricerca “porta a porta”, di nome in nome, integrando le testimonianze orali con la ricerca d’archivio e viceversa. Anche negli archivi perfettamente ordinati, non si trova nulla sui rastrellamenti. Nel paese d’origine, il nome dei deportati non veniva annotato in nessun registro pubblico. Quanto ai tedeschi, non hanno lasciato documenti negli archivi comunali. Le maggiori informazioni e le conferme mi sono venute dagli elenchi delle famiglie ammesse al sussidio durante la guerra, da quelli dell’ECA e dei rientrati “dalla Germania” nell’immediato dopoguerra, i qua-
La deportazione dalla montagna reggiana
507
li però quasi mai distinguevano i civili dai militari. Sono stati perciò necessari numerosi controlli incrociati e verifiche, ma va detto che le testimonianze non sono state da meno quanto a necessità di confronto e di approfondimento. Nell’archivio comunale di Casina ho rinvenuto una modulistica riguardante la richiesta di assegni familiari per i lavoratori in Germania in grado di confermare le testimonianze di alcuni rastrellati cui era stato imposto di far domanda di lavoro volontario nel paese tedesco, nonché le disposizioni relative all’assistenza ai superstiti nel dopoguerra. La ricerca è stata completata da una visita al campo di concentramento di Kahla insieme ad alcuni reduci, durante la quale ho potuto raccogliere nuove informazioni dai testimoni che mi accompagnavano e dal pastore della parrocchia di Kahla che ha riordinato non solo il cimitero dove molti deportati hanno trovato sepoltura ma anche l’archivio contenente l’elenco dei morti nei campi di concentramento del comune; altri elenchi mi sono giunti da contatti con sopravvissuti. Alcuni dati sono stati forniti dalle precedenti ricerche condotte sui caduti nella seconda guerra mondiale — in particolare sui loro epistolari e sui loro diari — relativamente ai Comuni di Casina, Carpineti, Toano e Villa Minozzo, in parte pubblicate in tre volumi: Casina in guerra (1993) e Storie del nostro ieri (1997) editi dal comune di Casina; Il mio raccontare è lontano (1995) edito dal comune di Carpineti. I deportati dalla montagna reggiana sono poco meno di un migliaio; poco più di 50 coloro che non hanno fatto ritorno (e l’espressione è vera alla lettera perché si contano sulle dita di una mano le salme riportate in Italia). Tra di loro, non ho ritrovato deportati per motivi politici, ma solo civili rastrellati nei loro paesi, nelle case, nelle strade, praticamente chi non faceva in tempo a nascondersi, chi non riusciva a sfuggire, qualcuno anche perché oggetto di delazione. Un deportato castelnovese e un gruppetto di carpinetani della frazione di Bebbio hanno associato la loro cattura alla lotta ai partigiani, con tanto di interrogatorio e, a Carpineti, anche la minaccia di una impiccagione simulata. I primi rastrellamenti sulla montagna reggiana risalgono agli inizi della primavera ‘44 nell’ambito della lotta alle prime formazioni: risultano morti e feriti ma non deportati, almeno negli elenchi. I catturati, trattandosi di renitenti alla leva repubblichina, venivano più probabilmente costretti ad arruolarsi nella GNR e
508
G. CAROLI
avviati alle formazioni di Como, Brescia… da dove poi fuggivano, finendo qualche volta in mano ai tedeschi: le prime date che troviamo negli elenchi dei deportati (maggio ‘44) indicano proprio come luogo di cattura queste città e tutti, ad eccezione di uno, appartengono alle classi 1924-1925. Si tratta di casi sporadici. I rastrellamenti “di massa”, se così si può dire, a scopo di deportazione si hanno nell’estate ‘44, uno scopo dichiarato esplicitamente. In un documento del generale Flak pubblicato in Due mesi di attività partigiana in Emilia Romagna (a cura del CLN e del CUMER) e ripreso da Franzini1si trova un piano d’operazione tedesco relativo a diverse località di Lucca, La Spezia, Parma e Reggio Emilia tra cui anche la nostra montagna per rastrellare uomini e bestiame, nel quale si legge “Mi interessa […] evacuare la popolazione maschile tra i 15 e i 55 anni”. A Busana i giorni più terribili furono gli ultimi di giugno e i primi di luglio, a Casina la prima decade di agosto, a Carpineti, Castelnovo e Toano ci furono, dalla fine di giugno, “diverse ondate” che si ripeterono lungo tutta l’estate e si protrassero fino all’autunno inoltrato (8 ottobre). Qualche volta l’arrivo dei tedeschi era improvviso, più spesso era segnalato dall’allarme popolare e gli uomini correvano a nascondersi sui monti, nei boschi, in ricoveri di fortuna; molti tuttavia non facevano in tempo, altri col passare dei giorni finivano col rientrare: c’era pur sempre la stalla, il lavoro. Appena il pericolo sembrava passato, uscivano allo scoperto, spesso troppo presto; qualcuno sentendosi protetto dall’età, da qualche impedimento fisico o da qualche condizione particolare restava in casa o continuava fiducioso il lavoro. Venivano presi così come erano, in camicia, con gli zoccoli... e spinti verso punti di ammassamento, spesso insieme al bestiame — pecore, mucche, cavalli soprattutto — che pure interessava molto ai tedeschi; più tardi, a piedi o con i camion, avviati nei punti di raccolta: a Cerredolo, a Castelnovo... Alberto Debbia di Cerredolo, attualmente impiegato allo stato civile di Toano, era piccolo, quando il padre Beniamino fu catturato, ma ricorda molto bene la scena: “Ricordo la piazza di Cerredolo, in terra bianca. Vedevo gli uomini radunati in terra, qualcuno ai lati sopra un sasso. Mi sembrava tanto grande e nello stesso tempo tanto piccola, perché era ammassata quasi a formiche... 1 G. Franzini, Storia della Resistenza reggiana, Reggio Emilia 1966 (terza edizione 1982).
La deportazione dalla montagna reggiana
509
come i formicai. Uno “Fatti in là”, l’altro “Spostati”. C’era l’uno, l’altro: chiacchieravano un po’ tra di loro, un po’ erano muti perché l’occasione così comportava. Non durò tanti giorni: andò mia sorella a portar da mangiare, andò due volte mio fratello, andai io. Quando toccò di nuovo a mia sorella non c’erano più, avevano già attraversato il fiume. Fossoli e la Germania. Mio padre non tornò più”. Dopo qualche giorno di permanenza sulla piazza del paese o nelle scuole dove lo strazio e la speranza dei parenti li raggiungevano insieme a poveri soccorsi — una “tera” di pane, due uova, una giacca, una presa di tabacco: le testimonianze sui rastrellamenti e la deportazione documentano anche la durezza delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione della montagna, la “preparazione” che forse permise ai più di salvarsi in condizioni estreme — il trasferimento nei campi di concentramento di Fossoli o a Bibbiano (nel primo confluivano dalla valle del Secchia; nel secondo, nel campo sportivo, dalla valle dell’Enza e dal castelnovese), quindi la partenza per la Germania, in treno, su carri bestiame, con i vagoni piombati e in condizioni disumane. Pochissimi riuscivano a far avere notizie alle famiglie. Nessuna iniziativa pubblica seguiva i deportati: essi non lasciavano altra traccia che quella di un dolore privatissimo e quasi colpevole, timoroso di ulteriori “punizioni”. Su tutti scendeva il silenzio, un silenzio che ha gravato anche sul loro ritorno o sulla loro morte, un silenzio che è continuato alla fine della guerra, fino ai nostri giorni. La montagna e i singoli paesi non sono stati vittima dei rastrellamenti in modo uniforme. I paesi che contano il maggior numero di deportati sono: il capoluogo della montagna reggiana, Castelnovo ne’ Monti (all’epoca 9.300 abitanti): 216 (di altri 11 non è stato possibile stabilire se si tratta di civili o di militari); Busana (2.100 ab.): 72 civili, tra cui una donna, poco di più Collagna (2.500 ab.) dove pure troviamo una donna tra i deportati; Toano (6.700 ab.): 52, la maggior parte della frazione di Cerredolo che registra anche un alto numero di morti; poco più di una cinquantina anche a Villa Minozzo (8.600 ab.) e a Vetto (3.800 ab), poco meno Carpineti (7.000 ab.): 47; Casina (6.000 ab.) 17; chiude il conto Ligonchio (2.800 ab.), più decentrato, sotto la decina. I più colpiti sono dunque i paesi sulle strade più importanti: la statale 63 (Castelnovo, poi Collagna e Busana che si trovano an-
510
G. CAROLI
che più “in alto”, più vicini alla linea gotica), e quelle della valle del Secchia, con la deviazione verso Montefiorino (Toano, in particolare la frazione Cerredolo, posta sul bivio e colpita ancor più del centro), e dell’Enza (Castelnovo con le case sparse sulla statale per Vetto e Vetto stesso). La viabilità ha un ruolo determinante, ma anche la presenza di presidi nazifascisti o di attività partigiane sembra avere un certo peso. A Castelnovo Monti numerosissimi i rastrellati a Monteduro (e frazioni circostanti) sulla statale 63; quasi tutti sono stati presi alla fine del giugno 1944: i testimoni collegano la loro cattura al combattimento tra partigiani e nazifascisti della Sparavalle, ma la data è la stessa del primo grande rastrellamento in montagna e anche in questo caso è applicabile la direttiva del documento del gen. Flak; numerose anche le catture nelle frazioncine e case sparse lungo la strada Castelnovo-Vetto. Il rastrellamento degli inizi di ottobre invece si svolge quasi esclusivamente per le vie del centro e con l’inganno: invitati a un controllo dei documenti nella ex casa del fascio, l’attuale excinema Tiffany, sede del comando tedesco, gli uomini vengono poi rinchiusi e spediti in Germania; nell’occasione il fornaio Simonazzi, per non lasciare il paese senza pane, riesce a ottenere la libertà per i propri dipendenti, il cui numero è aumentato ad arte: qualcuno si unisce ai fornai e non rientra, qualcun altro fugge in altri modi. È il 7 ottobre 1944. Complessivamente i deportati castelnovesi deceduti in campo di concentramento sono 14: 7 a Kahla e 7 in altri lager. A Toano più colpita è la frazione di Cerredolo, come dicevamo, con le case sparse circostanti, sede di un’intensa attività partigiana e collocata su un’importante via di comunicazione tra il modenese e la pianura: un reduce ha sottolineato che Cerredolo era facilmente isolabile controllando le strade principali; nelle altre frazioni i nazifascisti hanno effettuato puntate sporadiche, quasi nessuna in centro. Anche a Carpineti i rastrellamenti hanno seguito una direttrice stradale: Valestra, Carpineti, Felina. Due frazioncine tra questa strada e la statale, S. Biagio e Busanella, sono state setacciate, tanto che sono stati deportati quasi tutti i maschi. Un caso “anomalo” è rappresentato dalla cattura a Casa Lanzi di Bebbio, nell’ottobre ’44, di un gruppo di giovani sottoposti a
La deportazione dalla montagna reggiana
511
impiccagione (parziale o simulata?) per far confessare i nomi dei partigiani, pena poi commutata in deportazione. Tanti mi hanno parlato di una preoccupazione di legalità dei tedeschi che, al momento di avviarli in Germania, facevano firmare una specie di domanda di emigrazione volontaria a scopo di lavoro. Nell’archivio di Casina sono stati ritrovati alcuni moduli che parrebbero confermare queste testimonianze. Qualcuno è riuscito a far pervenire notizie ai famigliari attraverso biglietti lanciati nelle stazioni di transito, particolarmente a Cittadella di Padova, e raccolti da mani pietose, prevalentemente di donna, che provvedevano alla spedizione; qualcun altro ha potuto scrivere già dai primi campi, qualcuno non è riuscito mai. Guglielmo Zanni di Castelnovo ne’ Monti ha addirittura organizzato una rete di corrispondenza, tra deportati e le famiglie, capace di aggiornare sui diversi spostamenti, e senza apparenti segni di censura, avvalendosi della collaborazione di un ufficiale tedesco del presidio di Busana. Delle due donne deportate a Collagna e Busana, la prima è stata prelevata per la mancata risposta del fratello alla chiamata alle armi nell’esercito repubblichino, l’altra mentre, con una sorella, si recava a chiedere informazioni del fratello rastrellato il giorno prima (i due congiunti furono liberati qualche giorno dopo). Degli oltre 500 deportati dalla montagna reggiana di cui abbiamo compilato o letto la scheda dei dati, nessuno era laureato, 3 erano diplomati, qualcuno aveva fatto le commerciali tutti gli altri un numero variabile di anni della scuola elementare. Una decina i possidenti (mi baso sulle interviste, il dato non è facile da raccogliere), qualche mugnaio, qualche piccolo artigiano o impiegato, la quasi totalità contadini e braccianti. La fascia d’età dei rastrellati era molto ampia: a Toano, il deportato più anziano era nato nel 1889 e il più giovane nel 1928. Nell’elenco dei deceduti in campo di concentramento, Villa Minozzo registra un deportato nato nel 1883: era perciò stato catturato a sessantun anni (morirà a Mauthausen). Molti gli appartenenti alla stessa famiglia catturati insieme: fratelli (ne abbiamo trovati anche 3 deportati contemporaneamente), padre e figlio, zii e nipoti; spesso erano già prigionieri in Germania fratelli militari catturati l’8 settembre. I parenti restava-
512
G. CAROLI
no insieme, ma anche i compaesani: le baracche erano interamente di compaesani o della stessa area geografica. Sopravvivere, tornare o non tornare sembra dipendere dal campo nel quale si finiva e dall’età. A non tornare erano soprattutto i più vecchi: “Non si attentavano ad andare a rubare e quello che passavano al campo non bastava”, ci spiega Armido Mattioli di Toano, deportato a 16 anni insieme al padre, “i più giovani invece impegnavano la maggior parte del tempo libero nella ricerca di cibo, inoltre suscitavano la compassione e quindi il soccorso delle donne tedesche”. Più rare, ma non assenti, vere e proprie relazioni sentimentali. Anche il carattere sembra avere la sua parte: molti di quelli che non hanno fatto ritorno vengono descritti dai sopravvissuti come più timidi, più rispettosi e più generosi; per afferrare il pane, spesso bisognava essere svelti e spregiudicati nell’allungare la mano e agili e forti nel ritirarla. Grande importanza aveva “dove si finiva”. I campi che hanno “ospitato” i rastrellati della montagna reggiana sono tantissimi: Wurzen, Erfurt, Magdeburg, Berlino, Francoforte, Finkenert ... ma a ricorrere più spesso nell’elenco dei “morti in Germania” è il nome di un piccolo campo, di una cittadina della Turingia, a una quindicina di chilometri da Jena, oggi pressoché sconosciuta, all’epoca sede di una fabbrica sotterranea di aerei e di una pista di lancio: Kahla. Un monumento innalzato per ricordare le vittime del campo ne registra seimila, di nove nazionalità. Ventotto erano della montagna reggiana. Il campo di concentramento — un campo speciale, un campo di disciplina — sorgeva in una stretta valle interamente rivolta a nord: freddo in tutte le stagioni, diveniva gelido e invivibile nell’inverno. Non distante da Buchenwald, non prevedeva come questo particolari impianti o esperimenti: il freddo, la disciplina ferrea basata su vere e proprie angherie, erano i naturali strumenti di sofferenza e di morte; la scarsissima alimentazione e la pesantezza del lavoro nelle gallerie sotterranee di una montagna distante pochi chilometri nelle quali si fabbricavano e recuperavano aerei facevano il resto, come testimonia Onilio Ori di Cerredolo nell’intervista riportata in appendice. Durante il viaggio a Kahla nel 1997, organizzato dall’amministrazione di Castelnovo ne’ Monti, Battista Tagliati di Croce di Castelnovo ha confermato: “Ti battevano con un bastone sulle mani, sulle dita, smettevano solo quando vedevano grondare il sangue: a quel punto non ti
La deportazione dalla montagna reggiana
513
salvavi più, dal campo di disciplina non uscivi più”, poi ha riconosciuto in un incavo della roccia ai margini del lager la fossa in cui gettava i cadaveri di tanti compagni in attesa che “un camion passasse a prenderli per portarli forse alle fosse comuni del cimitero di Kahla, forse nei forni crematori della vicina Buchenwald”. Tra i tanti episodi raccolti, il caso di Vincenzo Battistini di Iatica di Carpineti. Durante un rastrellamento, si nasconde nel fienile; i tedeschi entrano nella stalla per portare via le mucche, lo vedono e lo catturano. Nonostante i 36 anni è completamente sdentato; ingenuamente lascia apposta a casa la dentiera, ritenendo che valgano le stesse regole del militare e, una volta trovatolo senza denti, lo rimandino a casa. Non fa più ritorno. Sarà tra i primi a morire, il 10.9.44 per stenti e sevizie. Molti deportati di Castelnovo e di Toano mi hanno raccontato che il loro treno rimase fermo a lungo a Cittadella per un bombardamento che aveva interrotto i binari e la popolazione locale, guidata da un parroco o da un monsignore — le testimonianze non sono univoche —, fece pervenire ai deportati panini, sapone, e raccolse bigliettini o notizie atte a “far noto”, per usare un espressione dell’epoca, alla famiglia che si “stava bene” e si andava in Germania; a fine guerra, il prelato venne poi ricevuto con tutti gli onori e i ringraziamenti del caso nella parrocchia di Monteduro, frazione del comune di Castelnovo ne’ Monti tra le più colpite dai rastrellamenti Durante il viaggio a Kahla, un superstite, volendo guidarci alle gallerie, continuava a ripeterci che si trovavano in una località denominata Baustelle: in realtà era la scritta che segnalava i lavori in corso, ma lui non lo sapeva: un episodio che rende bene il totale disorientamento in cui erano immersi i deportati, terribile quasi quanto la fame.
Appendice TESTIMONIANZE ONILIO ORI n.11.3.1912 residente a La Ca’ di Cerredolo di Toano. Catturato a Cerredolo. Deportato a Kahla in Turingia. Avevo dodici fratelli, dovevo fare il calzolaio e il barbiere, perché non c’erano soldi... È inutile: in una famiglia numerosa... In origine eravamo
G. CAROLI
514
contadini, mio padre aveva un podere “in sti groti che”2 e siamo cresciuti tutti qui. Poi ho dovuto fare molti mestieri. Ci hanno preso del ‘44, agli inizi di agosto. Ci hanno presi tutti in un colpo, tutti tre i fratelli insieme: Remigio, Umberto e io. A casa nostra stavamo nascosti nei campi “in mes ai furmantun”3: avevamo l’astuzia di stare due per due, perché dicevamo: “Se siamo divisi in tre gruppi ne prenderanno uno, due ma uno può anche darsi...”. Usavo questa tattica perché purtroppo la guerra l’ho conosciuta: sette anni e poi m’è toccato questo anno di Germania! In quei giorni invece, noi eravamo da dei parenti in una casa solitaria, La Rotella, avevamo preso con noi le mucche, tutto quello che avevamo potuto. Tutti erano scappati: c’era il rastrellamento dei tedeschi, perché erano venuti uccisi all’ammasso del grano di Cerredolo due ragazzi che stavano scappando dalle camicie nere per tornare a casa. Chissà di dov’erano! Gli fu fatto la spia e furono presi e fucilati lì, nell’ammasso, barbaramente: fu un “lavoro” che fece tremare un po’. Siamo rimasti a La Rotella quattro o cinque giorni, in attesa che passasse questa ondata di rastrellamenti, perché si sentiva dire che ne erano morti di qui e di là da ambo le parti, anche dei partigiani. Poi ci siamo decisi a tornare a casa. Il mattino che siamo venuti a casa, ripassa un’altra ondata di tedeschi e ci hanno presi. Ci han portato a Cerredolo e ci han messi in fila davanti a una baracca... È venuto un capo e ha preso fuori questi tre ragazzi che li avevan presi il mattino, mentre scappavano saltando dalle finestre di una casa abbandonata dove avevano passato la notte: uno l’avevano ucciso in questi boschi e gli altri li uccisero a Vitriola: tre partigiani — ragazzini erano! — messi in fila davanti a una mitraglia. C’era un mio amico che era molto credente; gli dico: “Qui ci andiamo tutti!”. “No” mi risponde, ma vedevo che sudava: vuol dire che aveva fifa anche lui. Abbiam seguito il destino. La sera ci han infilato a piedi verso Carpi. A piedi!!! Abbiam pensato tanto di prendere alla sprovvista le tre o quattro guardie, ma poi... A Fossoli, si poteva scappare a Fossoli, ma c’era tanto di cartello che per ognuno che scappava ne ammazzavano dieci e allora abbiamo seguito il destino. A Fossoli facevano firmare il contratto volontario, noi non abbiam voluto firmare come volontari. Sembrava che la guerra dovesse finire giorno per giorno, ma la guerra è continuata ancora un anno. In Germania siamo andati a finire in un campo di disciplina noi, quasi di disciplina. Eravamo una squadra ambulante, lavoravamo all’imboccatura delle gallerie, anzi in quella famosa galleria che facevano il V1 e che andava su tramite un ascensore: sopra c’era un grande campo da volo, appena rientravano si chiudeva l’ascensore e non si facevano vedere. Io facevo da macchinista a un flemano4 che facevo fatica a capirlo perché parlava il suo dialetto: portavo su del materiale con dei piccoli vagoni: cemento ferro ghiaia. All’imboccatura di queste gallerie c’erano dei muri di quattro metri di cemento armato, erano lavorati in modo che se fosse caduta anche una bomba... È durata un anno. Quando siamo arrivati, fino all’autunno si trovavano delle patate nei campi, perché loro ci passano con i loro trattori: quelle che vengono su, 2 3 4
In questi luoghi scoscesi, dirupati. In mezzo al granoturco. Fiammingo.
La deportazione dalla montagna reggiana
515
vengono su. Noi con la nostra vanghetta andavamo là a cercare, facevamo presto a trovare due tre chili di patate e non dicevano niente — se si andava a rubare allora sì! —, ma lo dovevamo fare in quell’ora del pomeriggio, perché ci davano quella mescola di sbroda, pelle di patate un rancio magro. In un anno, molti sono morti dalla debolezza perché dieci ore di lavoro, mangiare poco e coi vestiti che avevamo addosso quando ci hanno presi: ci han dato due tute là per le feste di Natale per ripararci dal freddo. E pioveva e non pioveva... eravamo in questo cantiere e bisognava... Nell’inverno mi sono buttato a fare il fuochista in una di queste locomotive, allora ci si salvava un po’ dal freddo: buttavamo su il carbone, quando cominciava a fare la cenere lo setacciavamo e si inviperivano le braci: la locomotiva tirava e noi ci scaldavamo. Quando facevamo rifornimento di acqua al deposito, siccome era gelata delle volte veniva e delle volte non veniva e noi ci bagnavamo tutti. Ci asciugavamo davanti alla locomotiva, poi in baracca avevamo la stufa. Le nostre baracche erano le ultime, non erano recintate e confinavano con le pinete, allora potevamo andare a raccogliere i cascami di pino che brucia bene. La sera ci salvavamo con questa stufa a scaldarci e anche ammazzarci i pidocchi grossi se si voleva dormire, almeno i grossi: ci toglievamo le nostre maglie... Robe che adesso si contano, ma... siamo sopravvissuti! Passato l’inverno, quando mi son trovato che non si trovavano più patate, con due fratelli... Cosa si trovava?! Avevo trovato due vecchietti, marito e moglie, con tre mucche: mi dava dieci chili di patate con dieci marchi... Loro all’ammasso prendevano tanto di meno ma mi diceva di stare attento ai polizai. Non eravamo tanto lontani, prendevo per la pineta e intanto tiravamo avanti. Poi mi sono ammalato di polmonite: freddo, gelo e lavorare! Sono andato in infermeria. Avevo un mio parente che faceva il calzolaio, si è raccomandato a un’infermiera di farmi una puntura di calcio al mattino. Ventidue giorni senza conoscere i miei fratelli, mi venivano a trovare la sera quando venivano a casa dal lavoro, ma io non li conoscevo: vuol dire che non dovevo morire là. Appena sono migliorato, mi hanno rimandato in baracca, ma con metà razione non si guariva, si moriva nella convalescenza. Siamo stati affortunati che sono arrivati gli americani e dopo un’ora gli italiani tutti friggevano qualcosa. Anche i tedeschi se l’erano sgabaiata e dappertutto si trovava qualcosa da mangiare nelle case che ne offrivano anche, prima no ma dopo ne offrivano. Io avevo trovato tre galline. In mezzo alle nostre baracche passava un fiumino con l’acqua per le pulizie, poi ogni tanto c’erano i ponti che si passava di qua e di là. Ho trovato una marmitta e mi sono arrangiato, ho cotto queste galline, poi le ho mangiate un fegato per volta pianin pianino, perché chi ha fatto delle grosse mangiate non si è salvato. Si poteva salvare tanta gente con qualche puntura, ma dove erano... Son morti dei pezzi di uomini che... Peccato, ma il destino ha voluto così. Nella nostra baracca eravamo in 24 ogni stanza: ci siamo salvati in tre: io, un mio fratello e l’altro era in un’altra squadra, ma tutti di Cerredolo. Siamo sopravvissuti: noi che siamo tornati a casa siamo stati fortunati. Era una morte dolce: quando il sangue diventava acqua, il cuore non aveva la forza di battere e si restava lì... non parlava e restava lì. La gente ha cominciato a morire dopo le feste, alla fine dell’inverno: qualcuno è morto anche prima, ma la più parte nella primavera. Il lavoro
G. CAROLI
516
era più duro in inverno: pioveva non pioveva bisognava andare a lavorare e si dormiva con i vestiti bagnati. Casoni Duendo era il nostro mugnaio di Cerredolo. Quando sono uscito dall’infermeria sono andato a far convalescenza nella stanza dove è morto lui: c’era ancora il suo cappello appeso al chiodo. Avevamo anche lavorato insieme. Gli dicevo: “Se tu non lavori un po’ più piano, non puoi resistere”. Faceva un lavoro pesante: con una mazza spaccava dei sassi, senza mangiare, così! Mi ricordo che il giorno della sagra di Cerredolo,5 era una domenica, siamo andati a fare un giro in campagna, abbiamo mangiato delle pere e delle mele trovate sotto una pianta — guai se uno si fosse allungato con la mano verso la pianta! — Lungo la carreggiata sulle siepi c’erano delle more grosse, e abbiamo mangiato anche quelle e abbiamo fatto la sagra così. Nessuno ci ha detto niente e siamo tornati a casa. Quando è morto Casoni, sono voluto andare a vedere dove l’avevano seppellito. Partivano con una lettiga provvisoria — due stanghe e una coperta — poi li buttavano in questa grande fossa che se uno avesse avuto una camicia un po’ buona gliel’andavano a togliere per mettersela perché fin dopo le feste non ci han dato niente per vestirci. Quando ho visto che questa gente era così maltrattata mi sono inginocchiato e ho chiesto al Padre Eterno che non mi facesse fare una fine così. In quelle maniere in cui si moriva lì, chi ci teneva dietro? Eravamo come degli schiavi! Gli ultimi che han preso, là in ottobre, sono arrivati là in camicia. Trovando il freddo subito, han fatto tutti la polmonite e son morti quasi tutti. La birra era quella che ci salvava un po’. La sera venendo a casa dal lavoro la prima birreria che trovavamo... dentro! a bere un bicchiere di birra: era di frutta, ci dava la forza di arrivare a casa. In cantiere avevamo una stufa, ci si appoggiavan sopra le patate e quando eran cotte le si mangiava. Uno l’han visto che le andava a girare, secondo loro perdeva tempo e l’han messo nel campo di disciplina. Il campo di Kahla aveva un campo di disciplina molto duro: buttavan l’acqua fredda addosso, aizzavano i cani contro: non si salvava quasi nessuno di chi entrava. Uno era stato mandato nel campo di disciplina perché si era impossessato della tessera di un compagno che era morto e passava due volte dalla cucina, prendeva doppia razione. Quando se ne sono accorti i tedeschi, l’han rinchiuso nel campo di disciplina. Se l’è cavata perché suo figlio gli portava da mangiare. Era poco più di un ragazzino. Aveva conosciuto una signora che gli dava tutti i giorni qualcosa (le donne tedesche quando li vedevano così giovani “ag nin saiva mal”6 e gli trovavano qualcosa da mangiare) e lui lo portava di nascosto a suo padre. Mio fratello un giorno si era addormentato sul vagone dove lavorava. Riuscii a salvarlo dal campo di disciplina perché siccome facevo un po’ il barbiere e il calzolaio, avevo fatto conscenza con le guardie del campo. Uno che a casa era un signoretto diceva: “Quando andiamo a casa, ammazziamo la vacca più bella e facciam festa una settimana”. Son sicuro che l’avremmo fatto perché era uno di compagnia, ma il giorno della liberazione mangiò troppo e morì. Quando venne la liberazione, dopo un’ora tutti gli italiani friggevano qualcosa. Nei magazzini abbandonati, c’era 5 6
10 ottobre. Dispiaceva, si commuovevano.
La deportazione dalla montagna reggiana
517
qualcosa per tutti. In uno avevano diviso le scarpe, in un mucchio tutte le destre, nell’altro solo le sinistre, perché non gliele portassimo via, ma io che ero un po’ calzolaio presi due destre e quando fui a casa le rifeci perfette. Presi anche un bel taglio di vestito blu. RINO CASINI n. 31.8.1926 residente a Casa Lanzi di Carpineti. Catturato a Casa Lanzi il 12.10.44. Deportato a Regesburg (Austria), via Carpi-Peschiera-Innsbruck-Regesburg. Ci hanno presi il 12 ottobre del ‘44. Ci hanno preso le SS: “Partizan partizan”. Sulla costa c’erano davvero i partigiani: la sera prima ci avevano detto di nasconderci dalla parte di sotto della strada7 perché avrebbero fatto fuoco. Siamo venuti tutti qui a Casa Lanzi (io abitavo a Tincana). Io e mio padre ci siamo nascosti in un fosso. A mio papà ci son passati sopra senza vederlo; me m’han preso insieme ad altri dodici. Volevano i nomi dei partigiani. Ci han passato una corda attorno al collo e ci han tirato su dal ramo di un pero, ci hanno impiccati. “Partizan partizan”. Il collo era venuto tutto gonfio. Ci han dato tante di quelle botte. Mia mamma è venuta sotto la pianta a piangere e l’han picchiata anche lei, due calci che l’han messa a sedere. Mi sono raccomandato che andasse a casa. Noi sapevamo che c’erano dei partigiani ma nomi non ne abbiamo fatti. Ci han rimessi per terra. Avevamo la bocca piena di sangue. Il momento più brutto è stato il viaggio. A piedi fino a Vignola, due giorni senza bere e senza mangiare. Eravamo in tredici. Io ero legato in due punti a uno più piccolo. Sempre a piedi, senza mangiare e senza bere fino a Sassuolo e poi fino a Vignola. Le donne che ci vedevano passare ci allungavano del pane o da bere, ma i tedeschi lo facevano cadere e lo pestavano con i piedi. A Vignola — ci son sempre i buoni e i cattivi — una guardia ci ha portato da bere in un secchio “da bestie”: ci siam buttati a bere che ci dovevan tirare su i capelli per farci tirar su la testa sennò saremmo crepati dal bere, perché la fame si patisce ma la sete è brutta. A Vignola, grazie alla sorella di uno che aveva conoscenze a Reggio, otto sono stati liberati e mandati a casa. Noi cinque rimasti — io, Benassi Antenore, Casoni Bruno, Casoni Fernando di Bebbio-Casteldaldo e Costi Giacomino di Baiso — ci han portato su un camion — sempre legati — e ci han portato a Carpi dove ci han fatto firmare su un foglio: era la richiesta di lavoro volontario in Germania. A me eran toccati cinque anni, avevo firmato di lavorare in Germania volontariamente cinque anni. Se non firmavi eran nerbate, ma anche a firmare eran botte. Ah, ci han proprio trattato male. Ci han caricati sul treno, sigillati a far tutto lì e via. A Innsbruck han staccato il nostro vagone. Siamo finiti a Regesburg. Raccoglievamo i morti dai bombardamenti: Regesburg era una città ospedaliera, poi è passata bellica e l’han bombardata a tappeto: da gennaio alla fine di marzo “i l’han tridada tota”8 c’erano dei paesi “puliti”, senza neanche una casa: c’erano i morti fin sugli alberi, li andavamo a tirar giù dagli alberi. Dopo che ci avevano passati civili, facevo il falegname, facevo cas7 8
La strada che da Bebbio porta a Cerredolo, passando per Casa Lanzi. Letteralmente "l'hanno tritata tutta".
518
G. CAROLI
sette di legno, ne vendevo anche ai tedeschi. Il sabato facevo la consegna della legna assegnata ai tedeschi con la tessera. Io stavo lungo la siepe e lasciavo che i borghesi prendessero quello che volevano, allora mi davano qualche marco. Qualcosa prendevo e qualcosa rubavo. Non ci fosse stata una famiglia a farmi fare qualche lavoro e a darmi qualcosa da mangiare, sarei morto. Facevo tutti i mestieri. Mangiavamo barbabietole, patate quando le potevamo rubare, l’erba quando passavamo per i prati: mangiavamo le ortiche, crude o cotte come potevamo: quando c’è la fame! Quando ci avevano passato civili andavamo a frugare nei cassonetti del pattume. Ero venuto 29 chili. Ero in una baracca di 30, tutti emiliani. La sera giocavamo a carte, parlavamo di casa, c’era chi rideva, chi cantava... era il momento che si piangeva anche. Ogni 15 giorni ci riunivano, ci facevano delle adunanze, ci facevano delle prediche in tedesco, ma noi non capivamo niente: io sapevo solo chiedere il pane in tedesco... ma capivamo che non saremmo tornati. Ci davan da scrivere a casa, ma i miei non hanno mai ricevuto niente. Anche a Peschiera i tedeschi ci davano da scrivere ma fuori delle inferriate c’erano delle donne che ce le strappavano sotto il naso: forse erano d’accordo. Anche a Peschiera siamo stati male. Dovevamo fare il bagno tutte le sere, guai se uno non l’avesse fatto, ma dormivamo sulla paglia ed eravamo carichi di pidocchi. Son partito con due braghe e son tornato con due braghe.9 Sapevamo anche dei campi di sterminio, soprattutto per i detenuti politici. Quando ci punivano, se ad esempio ci trovavano a rubare le patate, ci mettevano nel canale stretto stretto della turbina che portava l’acqua in tutto il campo e ci lasciavano lì tutta la notte. Non si poteva dormire, non si poteva star fermi perché si sarebbe gelati: bisognava camminare tutta la notte... Se marcavamo visita ci picchiavano, due staffilate e via; se avevamo la febbre c’era però il dottore. Per la liberazione ho preso una “balla” di sassolino che non ho più bevuto sassolino in vita mia. IVA FERRETTI Nata nel 1924 a Collagna, dove è stata catturata e dove tuttora risiede. [Iva Ferretti fu presa in ostaggio nel giugno ‘44, quando aveva poco più di vent’anni, per costringere un fratello ad arruolarsi nei repubblichini; un altro fratello era prigioniero degli inglesi in Egitto: “Anche la sua prigionia fu dura: tedeschi e inglesi son cugini…” commenta]. “Sono stata presa il 26 giugno ‘44. Ero in casa. Sono arrivati i fascisti, hanno circondato la casa e m’hanno portato via. Avevo le ciabatte, m’hanno accompagnato in camera a mettere le scarpe, poi son venuta via coi panni che avevo addosso. Non fu un rastrellamento, vennero a colpo sicuro. Mio fratello, del ‘22, era stato richiamato nei repubblichini, s’era presentato — sa eravamo una famiglia un po’ segnata perché mio padre era socialista — ma ha “visto dei lavori” che per lui non andavano bene ed è scappato, s’è dato alla macchia. Son venuti a casa — c’eravamo io, mia 9 Non è stato possibile venire a capo della contraddizione tra bagno quotidiano e mancanza di cambio della biancheria, del dormire sulla paglia ecc.
La deportazione dalla montagna reggiana
519
mamma e mia cognata — e m’han presa in ostaggio, lui non s’è ripresentato, me m’è andata bene che m’han portato in Germania e basta — è andata bene così. Mi han portata a Busana su una camionetta, al presidio in municipio, m’han tenuto due giorni, poi a Castelnovo m’han messo in camera di sicurezza — è stato il giorno che han bombardato l’ospedale — meno male c’era un brigadiere dei carabinieri che era stato a Collagna, sicché mi conosceva e diceva: “Come mai, ma come mai!” “Eh — dico — come mai!”. Di lì m’han portato ai Servi, c’erano dei fascisti di Collagna, gli ho detto: “Guardate di fare…”. “Eh, non possiamo fare niente”. Sono stata due giorni anche lì, poi due-tre a Suzzara e poi partenza per la Germania. Ero l’unica donna, sia a Castelnovo che per tutto il viaggio. Ricordo un signore di Cerrè Sologno che l’avevan preso a casa, so che è tornato a casa poi non l’ho più rivisto. Mio padre andava a Reggio a chiedere informazioni: nessuno sapeva dirgli niente. Poi gli han detto che mi avevano portato a Verona: è partito a piedi è andato a cercarmi a Verona: nessuno sapeva dirgli niente. Hanno ricevuto la mia prima lettera in ottobre, io la loro in novembre. C’era la censura, bisognava scrivere che andava sempre bene. Siamo andati in un paese vicino ad Hannover. C’erano tanti lager di prigionia, divisi per nazionalità: russi da una parte, italiani da un’altra. Si andava in fabbrica. Io sceglievo la polvere per i proiettili, formava come degli spaghetti, solo che erano neri: li facevano scorrere sui tavoli e eliminavamo quelli difettosi. Andavo a lavorare alle sette, c’era un trenino che ci portava a lavorare, a mezzogiorno c’era una pausa da poco perché si portava dal campo una fetta di pane, dunque… Tornavamo la sera che era buio, era buio tanto andare che venire, si lavorava in piedi, l’ambiente era malsano, polveroso… Mi alzavo alle sei e mezza, non si mangiava; una volta la settimana davano una pagnotta di pane, bisognava farla durare sette giorni, qualche volta si tagliava più grossa i primi giorni, qualche volta più sottile, ma bisognava farla durare per forza: e tagliavamo una fetta al giorno, con la margarina, la sera una minestra d’orzo e nient’altro… altroché se ero calata”. [Le lettere a casa sono però solo rassicuranti. In una cartolina del 10 settembre ‘44 si legge: “È domenica. Ho finito di lavorare alle ore 2, quindi fino a domattina alle 9 posso dormire, mentre le altre escono per andare al cinema, oppure con il cavaliere a bere la birra invece io me ne vado a letto e forse anche a piangere per la nostalgia e il pensiero che ho verso di voi. Bene non importa sempre con la speranza di presto riabbracciarvi, di ritrovarvi ancora tutti sani e salvi come alla mia partenza. Sono ancora priva di vostre notizie e spero sempre bene”. Il 7 dicembre scrive: “Sento che siete andati a Reggio per spedire il pacco, spero che l’abbiano accettato”]. “Da casa non ho mai ricevuto nulla. Ogni volta che scrivevo mi raccomandavo che mi mandassero dei vestiti perché avevo solo una camicetta. E meno male che avevo preso una maglia. Là davano un grembiulone da mettersi in fabbrica. Nelle baracche c’erano i topi a scaldarci col viavai sulla testa. In novembre venne rimpatriata una mia amica di Treviso che mi lasciò un vestito: l’unica cosa che ebbi di diverso…
520
G. CAROLI
Per il lavoro ci davano come paga un pezzetto di carta col quale si poteva comprare qualcosa allo spaccio, ad esempio i pannolini, le cartoline per scrivere a casa, il sapone, ma poco! Da mangiare non si poteva comprare nulla. Ho patito un gran freddo e una gran fame. La domenica lavavamo i vestiti e stavamo con un camicione addosso finché non asciugavano. Uscire? E dove s’andava che eran tutti lager! Il giorno di Natale sono andata alla messa. Ero senza calze, ero partita da casa d’estate, quando le calze non si portano… Una signora vedendomi senza calze andò a casa e me ne portò un paio di cotone, fini: le persone per bene si trovano sempre! In fabbrica i lavoratori eran tutti prigionieri. Nel lager c’erano anche ragazze di Reggio che erano andate là prima del ‘43 per lavorare e stavano meglio, avevano anche il rossetto… Non ho mai sentito piangere, ma neanche cantare. Le guardie erano uomini, solo la capolager era una donna. Avevo il pensiero di mio fratello, la mia paura più grossa era che l’avessero fucilato. A una mia compagna di Treviso il fratello gliel’avevano ucciso. Ce lo aveva detto un compaesano: lei non lo sapeva, l’ha scoperto tornando a casa… Nel gennaio ‘45 m’han mandato a prendere perché mia mamma stava male… naturalmente non era vero, ma un mio fratello del 1913 si era fatto amico con il tedesco10 che comandava il presidio di Busana e ottenne il visto di conferma su un telegramma che mia mamma era grave. Mi hanno mandato in licenza: eravamo ormai alla fine, poi c’era la firma del capo del presidio… La capolager non voleva: “I treni non vanno più, i ponti sono tutti rotti”, diceva. Ho impiegato 15 giorni a venire a casa. Alla frontiera la licenza l’ho buttata via… Nel lager m’avran messo morta… [Io infatti ho ritrovato il nome di Iva Ferretti in un elenco di deceduti in campo di concentramento]. Son partita da Hannover il 15 gennaio col treno per Berlino. Avevo addosso il vestito della mia amica di Treviso e un paio di zoccoli. Sono stata ferma un giorno e una notte nei sotterranei della stazione di Berlino perché l’allarme era continuo. Di nuovo in treno per Monaco e di nuovo ferma per aspettare le combinazioni. Finalmente a Bolzano. C’erano i posti blocco, c’erano i camion che passavano e si andava lì ad aspettare una “combinazione”. Ho incontrato uno di Sarzana che tornava anche lui dalla Germania: se fosse passato prima lui da casa mia, mi son raccomandata, “Se arrivate prima voi, avvisate i miei che sono in viaggio!”. Infatti è andata così. Io son partita il giorno dopo, son arrivata a Trento che nevicava… una neve grossa così. Adesso come faccio! Quando Dio ha voluto è arrivato un camion: andava a Verona, via su questo camion! A Verona c’erano i tedeschi, non c’era nessuno che venisse verso Reggio, Mantova almeno. Non c’è nessuno che vada a Mantova; è capitato uno che andava a Brescia, sono andata a Brescia, sono stata in stazione tutta la notte e il mattino sono andata al posto di blocco, c’era un camion che veniva a Modena. I miei viaggiavano sempre da Collagna a Reggio per portar giù la legna e il carbone e al Canon d’oro li conoscevano bene: sono andata 10 La signora Ferretti non conosce il nome del comandante tedesco cui deve, se non la vita, il ritorno anticipato in Italia. Ritengo si tratti dell'ufficiale Jundt, di stanza a Busana, di cui si parla anche nel carteggio di Memo Zanni.
La deportazione dalla montagna reggiana
521
lì per la notte. La mattina sono andata a Porta Castello: allora da Collagna andavano a prendere da mangiare a Reggio a piedi; il primo che ho visto è stato uno del paese: m’ha detto che i miei stavano tutti bene e sono rinata! Siamo partiti a piedi, abbiamo dormito in una stalla di Vezzano, ho incontrato altri del paese che andavano a Reggio, ho fato un’altra tappa a Castelnovo dove c’era mio padre: il signore di Sarzana l’aveva avvertito! A Collagna la gente sapeva che arrivavo: li ho trovati tutti all’inizio del paese, mi erano venuti incontro! LETTERE
[Il diciannovenne Guglielmo Zanni, detto Memo, catturato in casa a Castelnovo ne’ Monti in seguito a delazione e deportato a Erfurt e Nohra, mise in piedi una fitta rete di corrispondenza con gli altri deportati di Castelnovo e dei paesi limitrofi in modo da favorire al massimo lo scambio di informazioni tra prigionieri e con le famiglie. Tra i mezzi usati anche la Feldpost: molte lettere alla sorella giungevano in Italia indirizzate all’ufficiale tedesco Jundt di stanza a Busana, il quale provvedeva a farle recapitare attraverso la signora Dirce Zanichelli di Cervarezza. L’epistolario di Guglielmo Zanni comprende anche lettere e cartoline di compaesani prigionieri in Germania e documenta la rete informativa messa in piedi dallo stesso Zanni e la collaborazione dell’ufficiale tedesco di stanza a Busana]. Cittadella 12-7-944 Gent.mi Congiunti vi invio la tessera dei tabacchi e fiammiferi del vostro famigliare, recapitatomi in questa stazione ferroviaria perché il treno vi fece sosta due giorni. Furono assistiti dalle autorità e da tutto il popolo, fu tutto commovente. Stava benissimo. Speriamo che tutto finisca presto così potrà tornare fra voi. Augurii di ogni bene vi invio. Simone Liberata Via Officina, 2, Padova Cittadella Signora Lucia Zanni Castelnuovo ne’ Monti Sono in campo di concentramento a Bibbiano e parto per Suzzara, speriamo bene di rivederci presto. Dì agli amici che cerchino di non venirci. Saluta tutti e in particolare Luciano. Bacioni Memo [Sulla busta Feldpost; timbro : Nohra 2 13.12.44 Uber Weimar, Uff. Iundt, Fp. N 25547 A] Nohra, 3.11.1944 Gentilissima Signora Zanichelli Dirce - Cervarezza Gentilissima Signora, approffitto dell’indirizzo che mi ha suggerito vostro cognato Pagani Giuseppe e vi prego caldamente di fare avere la presente a mia sorella Lucia Zanni di Castelnovo Monti. Ringraziando saluto
522
G. CAROLI
Guglielmo Zanni Cara Lucia, dopo lungo tempo ho la possibilità di scriverti una lettera che spero riceverai quanto prima. […] Un certo Genitoni Silvio di Scandiano ti ha portato mie notizie? Informati. Lui è ritornato in patria nei primi di ottobre. Dì a Gino Galaverni che faccia sapere a quelli di Vetto che qui ci sta Emilio Costetti e Arlotti Giorgio. Stanno bene e godono ottima salute e salutano i suoi cari. Qui è una settimana che l’allarme suona due o tre volte al giorno ma finora neppure un bombardamento. Prego sempre il Signore e i miei Cari morti perché la mia lontananza sia meno sentita per entrambi. Lucia cara, te lo dico francamente, non credevo di essere così forte. Ho passato momenti tristi e brutti, li ho sopportati con animo tranquillo e rassegnazione pregando il Signore e pensando a voi tutti. Guarda se puoi scrivere con lo stesso mezzo che ti scrivo io. […] Memo Carissimi genitori Approfitto dell’indirizzo di un Ufficiale Tedesco per mandarvi due righe. Tutti i giorni scrivo per posta regolare, ma approfitto dell’occasione perché spero che vi giunga in breve tempo. La mia salute è sempre ottima, come spero di voi e fratelli. Rispondetemi subito tramite Comando Tedesco e mandatemi qualche indirizzo di miei colleghi che si trovano in Germania. Mi raccomando e speditemi principalmente l’indirizzo di Velio, Vito e Nino. Bacioni a voi, A Gilio ed Ermanno. Vostro aff. figlio [firma indecifrabile] Saluti anche da Costetti e Giorgio dal mio amico Zanni 17-12-44 Caro Memo avevo fatto i miei calcoli per Natale ma sono andati tutti falliti, li ò messi per pasqua spero che a pasqua non vadano falliti. oggni cosa perora e ferma spero di metterle presto in efficenza. Saluti da tutti gli amici Baldini Bellesi Bardoni Moscatelli e tutti i miei paesani saluti cordiali Battista Correggi Battista, Esperstead Kgfh, 15 Vlatnkdo, Dentsillana Memo Memo mi pare che ti stai dimenticando di noi, vero? Ed invece noi vogliamo proprio ricordarti cosa fai di bello. Travaiè fa loco ni, e non scherzare troppo con le ragazze, perche poi la mamma ti crida e noi li faciamo la spia si sente sempre vangare, è un po di tempo che non zappano più, ma continua il lavoro, quando finira? Sai i tuoi amici e vicinanti di (*** ?) mi incaricano di farti un saluto particolare e poi ti saluto io con tutti gli amici lontani. Saluti da Canovi Crovi Marino Rinaldi Gius, Saluti anche Giorgio e Emilio Costetti tuo amico Nello Baldini
La deportazione dalla montagna reggiana
523
Saluti cari anche da mio fratello Pietro digli a Giorgio che non l’ho dimenticato ma non ricordo il cognome Nello Baldini domani è festa ma ti raccomando calmo saluti Battista Nello Baldini Espestead, Platzado, Dentsillana 18-12-1944 Anche la primavera sta per giungere. Ma la nostra speranza non arriva mai. Aff. mi Saluti Nello Rinaldi Batista Nello Baldini scrivi Cari Saluti e Ringraziamenti a Mammi Mario da parte di Rinaldi per il favore della posta per me e fratello Nello Nohra 18-12-1944 Gent.ma Signora Dirce Zanichelli - Cervarezza Egregia Signora, continuo a disturbarla per il solito motivo, cioè per avere questa mia alla signora Lucia Zanni di Castelnuovo Monti, mia sorella. Di nuovo la ringrazio e le chiedo scusa per il disturbo che le arreco. Per eventuali spese si rivolga alla destinataria. Colgo l’occasione per inviarle assieme a Giuseppe Pagani i nostri migliori Auguri di Buon Natale che gentilmente vorrà far presente alla famiglia Azio Benevelli. Ancora la ringrazio e le porgo referenti ossequi dev.mo Guglielmo Zanni Carissima Lucia, ieri, casualmente, ho saputo che Battistessa, Maioli Ennio, Nello del Monte e Remo Giovanelli ed altri, circa una ventina in tutto, sono passati da Erfurt dove Remo è rimasto. Quanto sopra l’ho saputo da un certo Canovi Ultimio di Felina (deportato assieme a me nello scorso luglio) in una sua cartolina scritta a Genitoni Marino di Rosano che si trova con me. Godono tutti ottima salute e stanno più che bene; non so se le loro famiglie hanno notizie, comunque assicurale tu e dille che scrivino a me attraverso il Comando Tedesco. Ieri sera stessa ho scritto al sopradetto Canovi dicendogli che senta da Remo dove sono andati gli altri, e che mi fornisca qualche dato in modo che io possa fare le ricerche attraverso i competenti uffici. Nella tua ultima lettera mi dici che Lamberto si trova a Pescara, mentre Bruna mi scrive che è stato preso assieme ai sopradetti e a suo fratello Luciano; assicura Zino e la Bruna e dille che quanto prima farò avere notizie dei loro cari ragazzi, se ancora non hanno ricevuto. In quanto a Battistessa e agli altri non dovrebbero essere tanto lontano da me, in quanto anch’io sono stato smistato a Erfurt e di conseguenza sono rimasto sotto la giurisdizione del Comando di Erfurt stesso. Spero anche di ricevere uno scritto da loro, in quanto credo siano a conoscenza del mio indirizzo. Sono rimasto molto male nel sentire che pure loro sono qui, e nel pensare a ciò che passeranno e avranno passato in riguardo del mangiare e dei bombardamenti. Ho saputo da Bruna che pure Elettrico è stato preso, avrei piacere d’incontrarlo per chiedergli qualche sua impressione circa il lavoro in Germania. Oggi è suonato l’allarme 3 volte, ma per fortuna io sono in un posto ove non hanno ancora
524
G. CAROLI
bombardato, però vedo parecchi uccelloni passare; noi non contiamo gli apparecchi come quando ero a casa, qua debbo contare le formazioni dato che a contare gli aeroplani mi stancherei. Mancano solo sette giorni a Natale e sento già che in quel giorno non potrò essere forte e la tristezza avrà campo su di me; pazienza! Voi in famiglia dovete fare come se io fossi presente perché in quel giorno io sarò con voi nella preghiera e col pensiero. Non dovete abbandonarvi alla malinconia; dovete stare allegri e credermi, per quel giorno, invitato dal Signor Pallai; Per mio conto cercherò di stare allegro più che posso; a quanto pare forse avremo un’oca arrosto da mangiare e credo costi 150 marchi. […] Memo Esperstedt 24-12-1944 Caro Memo Rispondo alla tua cartolina e ti faccio sapere che a sgritto Canovi da Erfurt e dice che anno fatto un rastrellamento il 7 ottobre e dice che una 20 di Castelnuovo e dintorni, e del quale ce Batistessa, Maioli, Enio, Nello del Monte, e il filio del messadro del Prete di Rosano e altri. Saluti dal Moro Nohra, 18.1.1945 Sono riuscito a mettermi in comunicazione con Gianni Bacchi il quale sta bene e si trova al seguente indirizzo: Schurzeubaus [o Schurzenbans?] 11ª Nenstadt a/r. Farai avere l’indirizzo ai suoi parenti nell’eventualità non avessero notizie. Circa gli altri di Castelnovo, cioè: Battistessa e compagni, da tempo avevo iniziato le ricerche, ma i miei aiutanti non hanno collaborato bene e mi hanno scritto che sono andati a 75 km da Erfurt senza mandarmi l’indirizzo (fra questi si trova anche Ermete) a giorni spero però di averlo. Memo Nohra 5-2-45 A Lamberto ho scritto giorni or sono e aspetto la risposta e quindi assicura Elena che presto spero di avere notizie anche di Zucro e altri. Per Ermete ho scritto a Erfurt ed ho saputo che è stato mandato a 90 km da Erfurt stesso; dopo ho riscritto per avere il preciso indirizzo, ma dato che a causa i bombardamenti il servizio postale è molto lento non ho ancora ricevuto risposta. Assicura l’Angiolina che quando è passato da Erfurt stava benone ed era con Maioli — Battistessa — Nello del Monte — Ruffini Pierino e Guido — Guidi Anselmo e suo figlio — Magnani Ulderico — Zanichelli Giuseppe e altri che non conosco — appena saprò qualcosa sarà mia premura farlo sapere — non stiano in pensiero, perché la vita in Germania non è poi tanto dura e Ermete ha già fatto parecchio militare ed è già abituato ad una vita di disagio e sacrificio. Ringrazia l’Elvira per gli auguri e saluti che io contraccambio per suo fratello. Memo
UNA STRATEGIA PER I LUOGHI DELLA MEMORIA L’ESEMPIO DEL CAMPO DI FOSSOLI di Brunetto Salvarani Diceva il rabbi di Bluzhov, rabbi Israel Spira, ai suoi chassidim: “Ci sono avvenimenti di tale straordinaria grandezza che non li si dovrebbe ricordare in ogni momento, ma non li dovrebbe nemmeno dimenticare. L’Olocausto è uno di questi avvenimenti” (dai Racconti dei Chassidim).
Parlare oggi dell’ex campo di concentramento di Fossoli significa non solo fare riferimento al passato ma soprattutto interrogarci sulle strategie future da adottare in tema di memoria, quindi vuole dire aprire un discorso e non certo chiuderlo. L’amministrazione comunale di Carpi ha una responsabilità storica e civile nei confronti non solo dei suoi cittadini, ma soprattutto nei confronti dell’Italia e del mondo intero, affinché come ricordava Primo Levi “quanto è accaduto una volta non abbia ad accadere mai più”. Per quanto riguarda il sito di Fossoli c’è un problema in più che rende il lavoro e l’ipotesi di lavoro ancora più complessi e più delicati. Prima di partire con i tre punti del mio intervento che riguardano il passato, il presente ed il futuro del sito e di quello che vi sta attorno, vorrei citare Enzo Collotti e la sua Introduzione ai Trentacinque Progetti per Fossoli nella quale sottolineava: “Nessuna società che si rispetti può vivere senza la legittimazione di una comune memoria storica […]. È necessario convivere con il proprio passato, ma anche esplicitare di quali valori si intende affermare la continuità, se la memoria, e le rappresentazioni che a essa si vogliono associare, non deve rimanere monumento inerte ma un segnale permanente proiettato verso il futuro”1. Le considerazioni di Collotti evidenziano quello che io ritengo sia il vero nodo del problema rispetto al tema della memoria e della necessità di preservare una memoria storica, cioè se la memoria debba essere soltanto qualcosa di legato ad un passato che per un qualche motivo, etico, morale o politico non deve tramontare o se a partire dalla memoria ci può essere un richiamo forte alla situa1 E. Collotti, Introduzione, in G. Leoni (a cura di), Trentacinque progetti per Fossoli, Milano 1990, p. 21.
526
B. SALVARANI
zione attuale ed una proiezione sul futuro. Qui si colloca la responsabilità civile e morale che noi abbiamo rispetto al campo di Fossoli. Quindi tre punti sintetici per tracciare una panoramica della situazione: un passato stratificato, un presente complesso, un futuro da conservare.
Un passato stratificato Esiste una difficoltà oggettiva di lettura, di interpretazione di uno spazio che, nel tempo, ha ricoperto diverse funzioni. Quindi, quando si parla della necessità di conservare la memoria del campo di Fossoli, non si può fare riferimento solo ad una di queste memorie considerandola astrattamente più importante o più significativa delle altre. Qui faremo riferimento ai momenti, alla tappe più importanti di questo sito. A partire dal maggio 1942 viene insediato a Fossoli, frazione di Carpi, un campo per prigionieri di guerra, gestito dalle autorità militari italiane, destinato all’internamento di sottufficiali inglesi catturati in Nord Africa. Dal dicembre 1943 il campo funziona come “Campo di concentramento provinciale per ebrei” ed è gestito dalla prefettura di Modena. Alla fine del gennaio 1944 le autorità naziste, attratte dalla posizione che rende Fossoli un comodo snodo ferroviario, avocano a sé la giurisdizione del campo che diventa “Polizei und Durchgangslager”, campo poliziesco e di transito per deportati politici e razziali, rastrellati in varie parti d’Italia e destinati ai più tragici lager del Nord Europa. Dopo la guerra, il campo è lungamente utilizzato a scopo abitativo. Dal 1947 al 1952 ospita la comunità cattolica di Nomadelfia fondata dal carpigiano don Zeno Saltini, che capovolge completamente la prospettiva del campo, che da luogo di dolore diventa un luogo dove la fraternità è legge. Un esperimento che rispetto al campo di Fossoli dura solo cinque anni, ma il messaggio forte passa ed il villaggio viene successivamente trasferito in Maremma, nei pressi di Grosseto, dove è tuttora operante. Dalla fine degli anni ’50 fino ai primi anni ‘60 il campo registrerà un’altra esperienza, quella del Villaggio San Marco con i profughi giuliani e dalmati che — arrivati a Carpi — utilizzano quale rifugio di fortuna questo stesso spazio.
Una strategia per i luoghi della memoria
527
Del 1973 è l’inaugurazione del Museo Monumento al Deportato, un altro importante momento nonché un doveroso omaggio che la città di Carpi desiderava offrire a tutti coloro che avevano perso la vita per la libertà dei popoli.2 In quell’occasione il comune di Carpi avanzò all’Intendenza di finanza una richiesta ufficiale per l’acquisto dell’area del campo di Fossoli. Nel 1984, finalmente, il campo passa al comune a titolo gratuito e si inizia a riflettere sulla possibilità di un recupero di tipo filologico, ma la risposta che viene data in modo complessivo è che un recupero di quel tipo sia ormai impossibile. Nasce così l’idea di indire un concorso internazionale per progetti con l’idea di trasformare il campo in un parco. Il successo arride all’architetto fiorentino Roberto Maestro. Da questa, sia pur sintetica, ricostruzione delle vicende del campo di Fossoli a partire dal 1942 si può comprendere perché si può parlare di un passato stratificato: sicuramente il periodo che va dal 1943 al 1945 ha una sua specificità, ma hanno una loro peculiarità anche gli altri momenti come quello di Nomadelfia e del Villaggio San Marco.
Un presente complesso: gli anni ’90 Gli anni ’90 sono caratterizzati dalla forte volontà di valorizzare il Museo Monumento al Deportato e soprattutto di riaffermare quella che fu, ed è tuttora, una scelta strategica di non poco conto per la città di Carpi. Il Museo Monumento fu infatti inaugurato nel 1973 alla presenza dell’allora presidente della Repubblica Leone, ma dopo l’inaugurazione in realtà il Museo conosce anni non facili e viene come messo in disparte nel panorama degli istituti culturali del comune. Agli inizi degli anni ’90 una serie di fattori diversi, e forse un generale ritrovato interesse per il tema “memoria”, riportano il Museo Monumento al centro dell’attenzione dell’amministrazione comunale che se ne “riappropria” progressivamente. Nasce così l’Associazione degli Amici del Museo Monumento, nascono e si formano professionalità importanti che vengono utilizzate per offrire visite guidate al pubblico, alle scuo2 R. Gibertoni-A. Melodi (a cura di), Il Museo Monumento al Deportato a Carpi, Milano 1993.
528
B. SALVARANI
le e successivamente per organizzare mostre, viaggi, corsi d’aggiornamento. La decisione da parte dell’amministrazione di investire sul Museo Monumento viene, nel corso degli anni, premiata: si passa infatti da qualche visita occasionale ad un numero di visitatori annuali di circa 30.000 tra Museo e campo di Fossoli. Il 1995 vede un ulteriore passo in avanti dell’amministrazione, che decide di dare vita al “Progetto Memoria”: Di qui l’idea di creare tra comune di Carpi e Associazione Amici del Museo una Fondazione apposita per la valorizzazione della memoria storica del campo di Fossoli e per sottolineare ancora una volta come il tema della memoria sia strategico per la città. La Fondazione ex campo Fossoli viene istituita ufficialmente nel 1996, con uno statuto definito ed una struttura organizzativa precisa che prevede un Consiglio di amministrazione ed un Comitato scientifico composto da storici e pedagogisti. Con la nascita della Fondazione viene ripreso il tema del recupero del sito di Fossoli e quindi il progetto Maestro, la sua validità e soprattutto l’opportunità di seguire la strada suggerita dal progetto vincitore. Da quel dibattito emerge l’esigenza, anche per motivi economici, di andare verso un recupero più sobrio rispetto al progetto originale e di tipo filologico per quanto ancora possibile. Tale nuova ipotesi viene ribattezzata come l’ipotesi del “I° stralcio”, relativamente poco costosa e ancora comprendente alcuni elementi del progetto Maestro ma con un impatto, nei confronti del sito, meno poderoso. Nel frattempo il lavoro della Fondazione continua anche su un altro fronte, quello della sensibilizzazione dei più giovani rispetto al tema della memoria, utilizzando una serie di linguaggi diversi, nel tentativo di raccontare la Shoà e la Resistenza. La Fondazione Fossoli prova così ad investire in questa direzione attraverso una serie di iniziative come la prima nazionale del film “La Tregua” di Francesco Rosi , vari “concerti per Fossoli”, aste di quadri, corsi di aggiornamento per insegnanti, progetti didattici, e così via. Tra il 1997 e l’inizio del 1998, il Comitato scientifico della Fondazione riapre in modo deciso ed ufficiale il dibattito sul recupero del sito di Fossoli e sull’opportunità o meno di continuare ad andare nella direzione del progetto Maestro e una nuova sensibilità fa prendere in considerazione l’ipotesi, per quanto possibile, di un recupero di tipo filologico e l’attivazione di una serie di interventi volti a fermare il degrado dell’area di Fossoli. Viene di fatto
Una strategia per i luoghi della memoria
529
accantonato (almeno per il momento) il progetto Maestro ed ogni altra ipotesi di recupero del sito di Fossoli per funzioni diverse, come l’idea di trasformare il campo in un parco. Oggi, infatti, su scala europea si ritiene che siti come quello di Fossoli debbano essere recuperati in modo filologico; così si decide di andare in quella direzione. Alcuni lavori sono già iniziati, come la recinzione del perimetro storico del campo; successivamente verranno posizionati dei leggii che consentiranno una visita individuale; ed infine vi sarà il tentativo di recuperare una baracca ricostruendola così come era, per scopi eminentemente didattici.
Un futuro da conservare Come trasmettere la memoria alle giovani generazioni? Come conservare, mantenere e trasmettere la memoria storica di luoghi come Fossoli è un tema che si inserisce in un dibattito per lo meno nazionale. La necessità e l’auspicio che si possa andare nella direzione di una vera e propria strategia complessiva per la conservazione di una memoria che non sia solo un mero ricordo del passato, ma che sia la proiezione sul futuro. Sarebbe sicuramente auspicabile proseguire l’ipotesi della costituzione di una rete dei “luoghi della memoria”, che su scala modenese già esiste ma, che andrebbe estese a livello nazionale. Occorre continuare con i cosiddetti “viaggi della memoria”, promossi in particolare dalla rivista “Confronti” di Roma, ovvero viaggi attraverso i vari luoghi simbolo della deportazione europea, come Auschwitz e ancora investire nei linguaggi più diversificati per narrare la Shoà e investire nella formazione permanente degli insegnanti, delle associazioni e del Terzo settore in generale. Si sente inoltre la necessità di una vera ricerca storica sul campo di Fossoli che tuttora non esiste e che attualmente si è limitata, per ragioni economiche, ad una ricerca bibliografica piuttosto completa. Il passo successivo sarà necessariamente la ricerca storica relativa a questo sito così cruciale per la storia della deportazione italiana. C’è bisogno poi di investire sull’educazione alla pace ed alla interculturalità se si vuole far sì che davvero la memoria non sia solo un ricordo del passato ma che diventi un’importante occa-
B. SALVARANI
530
sione di riflessione e di arricchimento in un’ottica futura. Proprio in questo contesto si inserisce la “Scuola di pace” della Fondazione Fossoli intitolata simbolicamente a Primo Levi, uno dei tanti che transitarono per Fossoli, uno dei pochi “salvati” contro la maggioranza dei “sommersi”3. L’impegno della Fondazione su questo fronte è evidente alla luce dello slogan di cui si è dotata, vale a dire “Differences make freedom” tradotto in un vero e proprio appello, “La diversità ci rende liberi”, allusione evidente e paradossale al motto che accoglieva gli internati di Auschwitz, “Arbeit mach frei”. Alla base di questo slogan c’è la profonda convinzione che il nostro paese, avviato a divenire sempre più caratterizzato dalla multiculturalità e dalla multireligiosità, può trovare nella ricerca delle proprie radici e nella custodia di quella che Primo Levi definiva la “memoria dell’offesa” un’occasione per arricchirsi. Concludo citando un teologo napoletano, Bruno Forte, che riflettendo sulla memoria scriveva: ”Senza memoria il progetto sarebbe utopia, senza progetto la memoria sarebbe rimpianto, senza coscienza dell’ora presente, memoria e progetto sarebbero evasione, vuoto esercizio della ragione. Ripercorrere i sentieri della memoria è necessario per non idolatrare il momento attuale e schiudere le vie della profezia: “Non è la storia che appartiene a noi, ma noi apparteniamo alla storia […] la memoria, per non divenire sterile nostalgia, ha bisogno di essere caricata delle domande presenti, orientata a schiudere il futuro. Così, lungi dall’essere la casa del rimpianto, la memoria, abitata dal presente e dimorante in esso con le sue sfide e i suoi tesori, è terreno di profezia, via di avvenire”4. Questo è quanto mi auguro anche per la memoria del campo di Fossoli, cioè una memoria carica di storia, ma che sia terreno fertile anche per la profezia, contro l’ipotesi drammatica di un esilio della memoria dal nostro tempo.
3 4
P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino 1986. B. Forte, La teologia come compagnia, memoria e profezia, Milano 1987.
IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI FOSSOLI DI CARPI: PERCEZIONE, RICORDO E SIGNIFICATO ATTRAVERSO LA SISTEMAZIONE DEGLI SCRITTI RACCOLTI NELLA BIBLIOGRAFIA di Simone Duranti Curva sulle rovine, una donna cerca qualcosa che non sia stato distrutto. Le forze dell’ordine hanno raso al suolo la casa di Maria Isabel de Mariani, e lei fruga invano tra i resti. Quello che non hanno rubato lo hanno polverizzato. Solo un disco, il Requiem di Verdi, è intatto. […] Senza l’aiuto di nessuno, mette in qualche cassa i cocci della sua casa annientata. A notte fonda porta le casse sul marciapiede. Di prima mattina, gli spazzini raccolgono le casse, ad una ad una, dolcemente, senza sbatterle. Gli spazzini trattano le casse con molta delicatezza, come se sapessero che sono piene di vita spezzata. Nascosta dietro una finestra, in silenzio, Maria Isabel è riconoscente per questa carezza, l’unica che ha ricevuto da quando è cominciato il dolore. (Eduardo Galeano)1
L’insieme di immagini e sentimenti che restano al deportato “colpevole” di essere sopravvissuto sono tutto ciò che resta ad una vita spezzata, che diventa muta e non si risolve in nessuna catarsi. Soltanto il senso della non unicità del bagaglio che si porta, la consapevolezza di una sorte condivisa, alimentano in alcuni casi l’istinto a riprendere un qualsiasi corso della vita, ma il marchio non si cancella. Nessuna delle memorie dei deportati nota a chi scrive contiene alcun senso di redenzione umana: magari si cercano spiegazioni metafisiche, o si sostanzia “l’indicibile dopo” di un forte impegno civile. Si vestono i drammatici panni della vittima-testimone per riempire di almeno un significato possibile ciò che resta da vivere. Si è quindi memoria e monito, come spesso si è detto, per le generazioni a venire, affinché, informata di senso civile, l’esistenza non più “normale” del deportato sopravvissuto trovi il contatto con la vita altrui che inspiegabilmente continua. Il passo citato di Galeano descrive una madre scampata alla stagione della dittatura argentina degli anni settanta: la vita è finita, i legami spezzati e il dolore, soprattutto il dolore — perduto ogni valore catartico — rimane a fare da basso continuo a ciò che rimane da vivere. La scelta di questo passo è motivata da una vicinanza emotiva e concettuale che chi scrive ha riscontrato fra il 1
E. Galeano, Memoria del fuoco, III, Il secolo del Vento, Milano 1997, pp. 313-314.
532
S. DURANTI
destino di Maria Isabel e quello di uomini e donne che, tornando ad un’ipotesi di vita libera dopo l’internamento, si trovano non più in grado di comunicare, e addirittura trovano indifferenza e ostilità da parte della gente comune. Svariate testimonianze in questo senso sono contenute nei lavori di A.M. Bruzzone e L. Beccaria Rolfi2 e nelle considerazioni di quei reduci che avvertono palpabile il ruolo di simbolo scomodo al limite del credibile. Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi rimane anch’esso simbolo di una memoria inquieta e tormentata: i resti di baracche cadenti e purtroppo ancora prive del tanto auspicato restauro rappresentano il frequente corollario all’indifferenza collettiva per luoghi e soggetti mal collocabili nelle coscienze dei non coinvolti. È corretto forse affermare che indipendentemente dal tempo che passa e ci allontana dalla stagione delle deportazioni nazifasciste, rimane immutato e invalicabile il solco che separa le coscienze e sensibilità del variegato universo dei reduci dal resto degli uomini. Inevitabile quindi per chi scrive il senso di inadeguatezza, di imbarazzo e scrupolo per non sentirsi abilitati a svolgere un mestiere peraltro utile e necessario: organizzare la memoria, custodirla e nei limiti del lecito interpretarla anche con un modesto contributo rappresentato da una bibliografia degli scritti che in vario modo hanno riguardato uno dei più importanti campi dell’Italia fascista, quello appunto di Fossoli. Prima tappa di un lavoro tendente a ricostruire nella sua interezza la storia del campo in oggetto, la bibliografia ragionata va intesa non solo come tradizionale e imprescindibile strumento di ricerca, ma anche come occasione per fare il punto su cin2 Considerazioni di questo genere sono presenti tanto in opere che analizzano il tema del ritorno dai Lager e del reinserimento nella vita civile — come: L. Monaco (a cura di), La deportazione femminile nei Lager nazisti. Convegno internazionale Torino, 20-21 ottobre 1994, Milano 1995; L. Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria. Ravensbrück, 1945: un drammatico ritorno alla libertà, Torino 1996 — quanto in raccolte di testimonianze relative all’esperienza di prigionia (L. Beccaria Rolfi, A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino 1978; A. Bravo, A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Bari 1995). L’indicazione di testi che si incentrano sulla condizione al femminile della deportazione non è casuale ma corrisponde ad una dinamica precisa: il binomio deportazione-resistenza antifascista ha prodotto anche una sorta di appropriazione al maschile del sacrificio e dell’impegno civile e militare, così da determinare un penoso senso di non considerazione o di esclusione in quelle donne che hanno tentato di comunicare la propria drammatica esperienza. Per un puntuale rilievo di queste dinamiche si veda il recente A. Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro 1998.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi
533
quant’anni di storia culturale ed editoriale. Vedere quindi quanto siano cambiate nel corso della storia repubblicana del nostro paese le sensibilità legate al mondo della concentrazione. La storia del campo di Fossoli di Carpi è ancora da scrivere: esistono articoli e interventi di differente tenore su riviste storiche e volumi che ne ricordano sommariamente la creazione e i principali avvenimenti che vi ebbero luogo, soprattutto per il periodo dell’occupazione e amministrazione tedesca dall’8 settembre ’43 all’agosto del ’44 e per la successiva esperienza di Nomadelfia voluta da don Zeno Saltini. Soltanto qualche esile riferimento all’impiego delle strutture del campo per il ricovero dei profughi giuliani nel 1955.3 Indubbiamente fra i materiali reperibili le ricerche di Luciano Casali pubblicate negli atti del convegno di Carpi del 1985,4 forniscono la più ampia e dettagliata ricostruzione della storia del campo di Fossoli. La fondazione Fossoli di Carpi si è impegnata a sostenere un progetto di ricerca che come prima tappa ha portato alla realizzazione di due strumenti di lavoro: la bibliografia dei materiali a stampa pubblicati dal dopoguerra ad oggi che facciano riferimento al campo stesso e una mappatura degli articoli apparsi su quotidiani. Innanzitutto, perché una bibliografia: riteniamo che sia metodologicamente corretto far precedere ad un futuro lavoro di recupero della memoria di Fossoli la consapevolezza di quanto già esista sull’argomento, così da dotare il ricercatore di quell’impianto di conoscenze eterogenee che rappresentano quella che definiamo la “percezione di Fossoli nel tempo”. Questa idea chiaramente ci collega ad un nodo concettuale complesso e della massima importanza: la generale percezione del Lager come luogo fisico e come simbolo, per le vittime della deportazione e per coloro che si sono fatti interpreti dell’esigenza di recupero, conservazione e adattamento della memoria collettiva alle varie stagioni culturali che dal dopoguerra ad oggi hanno contribuito a variare l’interesse per questo tipo di problematica. 3 Soltanto due scritti ricordano brevemente la parentesi del cosiddetto Villaggio S. Marco: Rossi Manfredi, Il recupero monumentale del campo di concentramento di Fossoli, “Triangolo Rosso”, 1980, a. VII, 10, pp. 8-9 (mensile a cura dell'Associazione nazionale ex-deportati politici); Diocesi di Carpi, La stola insanguinata. Don Francesco Venturelli 1887-1946. Arciprete di Fossoli, Carpi 1996. 4 L. Casali, La deportazione dall’Italia. Fossoli di Carpi, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa 1939-1945, Bologna 1987, pp. 382-406.
534
S. DURANTI
Avvicinarsi oggi alla tematica della concentrazione non può non implicare la valutazione di letteratura e storiografia: sterminata è la produzione al riguardo, sia questa memorialistica o studio storico o prospettiva sociologica, a supporto della indagine generale della storia delle mentalità e sensibilità che entrano in contatto con l’idea e la fisicità del Lager. Una bibliografia per sua natura non entra nel merito dei contenuti dei singoli contributi, limitandosi alla registrazione tecnica degli stessi; però trattandosi di una grossa quantità di materiali, è indubbio che il ricercatore che si ponga l’obbiettivo di vagliare questo settore (anche se solamente da un punto di vista tecnico) alla fine sia consapevole di essere uno dei pochi ad avere la relativa completezza di un panorama di pubblicazioni estremamente frammentato, disperso, e a volte di ardua reperibilità. Ecco che quindi questo intervento può avere il senso di una discussione su quanto e come il Lager di Fossoli sia stato oggetto di indagine; quanto le strutture dell’editoria abbiano condizionato la diffusione dei materiali e quanto inciso sul particolare tipo di produzione legata ai campi di concentramento nel nostro paese. Per la realizzazione della ricerca abbiamo inizialmente effettuato lo spoglio della Bibliografia storica nazionale, e incrociato le voci presenti nelle varie bibliografie esistenti su deportazione e internamento relative all’esperienza italiana. Da un corpo di circa un migliaio di testi, dopo lo spoglio, siamo giunti alla schedatura di circa trecentocinquanta titoli, fra volumi e articoli contenuti in riviste. Questi sono stati ripartiti in un numero piuttosto ristretto di sezioni: • bibliografie e strumenti (15) • opere generali sulla deportazione (94) • studi specifici su Fossoli (19) • studi locali (97) • memorie, testimonianze, biografie (96) • Nomadelfia (24) La prima sezione comprende volumi bibliografici specifici sull’internamento e sulla seconda guerra mondiale, alcune enciclopedie contenenti la voce “Fossoli” e una filmografia. Questa sezione di strumenti per la ricerca registra un numero di presenze rilevante per gli anni novanta.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi
535
Per “Opere generali sulla deportazione” abbiamo inteso quell’insieme di scritti che vanno dagli studi sulla politica concentrazionaria del nazionalsocialismo a opere sulla storia della Resistenza partigiana, un gruppo di pubblicazioni diverse quindi, ma che escludono un taglio o una prospettiva di storia locale o di specifica raccolta di testimonianze. Al suo interno si troveranno ad esempio La distruzione degli ebrei d’Europa di Raul Hilberg, atti di convegni promossi dall’ANED, e Dal fascismo alla Resistenza di Armando Saitta. La suddivisione cronologica mostra come prima del 1960 nessun lavoro di questa natura (volume autonomo o articolo su rivista) prenda Fossoli in considerazione, a parte la sola opera di Michele Vaina La grande tragedia italiana. Il crollo di un regime nefasto. Documentario storico ed illustrato, in tre volumi del 1947. Gli studi unicamente incentrati su Fossoli sono contenuti essenzialmente in riviste specializzate (fra queste la Rassegna annuale dell’Istituto storico della Resistenza della provincia di Modena fa registrare il maggior numero di interventi specifici), oltre alle pubblicazioni legate all’illustrazione del Museo Monumento al Deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti di Carpi e ai resoconti sul progetto di recupero del campo stesso. Gli “Studi locali” raccolgono contributi non limitati al campo di Fossoli ma che ne descrivono caratteristiche o semplicemente ne citano l’esistenza all’interno di una prospettiva provinciale o regionale. Sono ospitati in questa sezione studi su specifiche comunità ebraiche italiane, ricostruzioni di scenari geograficamente limitati di lotta partigiana e più in generale gli scritti promossi da istituti locali per lo studio o la celebrazione di avvenimenti comunque legati alla deportazione. La prospettiva di studio locale e limitato non fa registrare periodi particolarmente lunghi di assenza della trattazione di Fossoli e chiaramente le presenze tendono ad addensarsi per la ricorrenza di particolari anniversari, come le celebrazioni decennali della Liberazione, segnalando l’impegno degli Istituti storici della Resistenza nel versante della conservazione della memoria anche attraverso la promozione di ricerche storiche specifiche. Anche la sezione relativa alla memorialistica, alle biografie e alla raccolta di testimonianze, fra volumi e articoli in riviste, vede una presenza costante di riferimenti al campo di Fossoli, così da evidenziare la vastità del fenomeno concentrazionario e la presenza del semplice dato percettivo, di conoscenza della realtà,
536
S. DURANTI
dell’esistenza e del ruolo di Fossoli. Un quadro composito che comprende analisi dettagliate del campo, delle condizioni dei detenuti al suo interno, fino ai riferimenti minimi di chi, alla ricerca di un familiare, si recava all’ingresso del campo per avere notizie. Infine, come sezione autonoma, abbiamo considerato anche la stagione di Nomadelfia, la comunità voluta e realizzata utilizzando le strutture del campo di Fossoli da don Zeno Saltini per la tutela dell’infanzia abbandonata. Nel tentativo di far emergere in questo settore gli scritti importanti, siamo stati selettivi, valutando differenti livelli di importanza di un settore sterminato come quello dell’editoria cattolica. All’interno del vasto ed eterogeneo corpo di pubblicazioni schedate spiccano per quantità quelle ospitate su riviste degli istituti storici della Resistenza e i contributi di ricerca promossi dalla fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) e dall’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi di sterminio nazisti (ANED). Nel caso dell’ANED di Torino abbiamo una serie di volumi (essenzialmente atti di convegni), realizzati con la collaborazione del Consiglio provinciale del Piemonte, che testimoniano l’impegno costante e fortunatamente “visibile” di ricercatori che periodicamente relazionano sullo stato delle ricerche nell’ambito del complesso settore della deportazione e internamento. Dobbiamo inoltre considerare l’importanza del lavoro svolto dal CDEC, sia per quanto riguarda la pubblicazione di materiali indispensabili come la vastissima ricerca di Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria,5 sia per quanto riguarda la conservazione di testi di difficile reperimento. A questo proposito è bene precisare che se bibliografie e strumenti atti all’esplorazione di specifici ambiti storiografici sono per il lavoro di ricercatore indispensabili, la reperibilità dei titoli è a volte assai difficile, così da condizionare, allungandoli, i tempi della ricerca. Ecco che l’esempio del lavoro svolto da Anna Bravo e Daniele Jalla con l’istituto Gramsci di Torino rappresenta una felice risposta a questo problema: infatti con la realizzazione del volume Una
5 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 1990.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi
537
misura onesta6 non si è provveduto soltanto alla stesura di una vasta bibliografia, ma anche a raccogliere fisicamente i materiali schedati presso un unico centro: il Gramsci di Torino. Nell’immediato dopoguerra vengono pubblicati alcuni scritti di deportati che centrano nel campo di Fossoli l’origine materiale e simbolica dell’abuso subito: appare caratteristico di uno stile editoriale datato ed estremamente vicino dal punto di vista temporale ai fatti l’incedere su particolari raccapriccianti. Deportazione e sterminio sono un fatto inedito e così sconvolgente da trovare non attrezzata la coscienza del cronista, ma soprattutto la sensibilità della struttura editoriale che sembra concentrarsi sui dettagli di più facile ricezione. Si pensi alle copertine delle prime edizioni di alcuni scritti dal 1945 al 1950: illustrazioni e sottotitoli evocanti sangue e martirio; si utilizzano parole come “scheletri umani” e quant’altro.7 Di fatto però la letteratura sui campi, come su ogni altra esperienza-limite, deve fare i conti con la sensibilità individuale e in modo particolare con una chiara finalità del raccontare: non mancano infatti scritti che per utilizzo di immagini e precisa scelta terminologica danno la sensazione di avere come unico scopo il destare impressione e raccapriccio: un non chiaro incedere su componenti emotive a volte fine a se stesse o che denotano un impegno civile per lo meno dubbio. Dobbiamo ricordare sempre che ci muoviamo in un terreno particolarmente difficile e multiforme: si ha l’impressione che la dinamica di trasmissione della memoria dalle vittime ai fruitori del messaggio si svolga in maniera biunivoca, cioè la stessa capacità di raccontare subisce o tende a subire una elaborazione dettata dal variare delle condizioni al contorno degli orientamenti della società. Il paradigma del sacrificio nei campi in conseguenza della lotta di resistenza al nazifascismo ha subito una progressiva istituzionalizzazione del proprio messaggio, che pare depotenziarsi al 6 A. Bravo-D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, Milano 1994. 7 Alcuni esempi sono: L. Nissim-P. Lewinska, Donne contro il mostro, Torino 1946, in copertina: “Donne della straziata Europa chiuse nell’allucinante inferno di Oswiecim, che riaffermano gli ideali eterni dell’umanità”; F. Misul, Fra gli artigli del mostro nazista. La più romanzesca delle realtà il più realistico dei romanzi, Livorno 1946: il paragrafo intitolato Sotto l’egida della morte narra l’esperienza dell’internamento a Fossoli, caratterizzata secondo l’autrice dai “più sfibranti tormenti materiali”; A. Colleoni, Nei campi della morte, Milano 1945, in copertina: “Particolari sugli infernali campi di concentramento. Episodi raccapriccianti. Assassini di massa. Cadaveri viventi. Martiri di tutte le nazionalità”.
538
S. DURANTI
punto da rimanere vivo riferimento soltanto internamente ai superstiti. Se si prescinde infatti da pubblicazioni a carattere locale, molto di ciò che raggiunge diffusione nazionale rimane interno all’impegno celebrativo e di conservazione della memoria delle organizzazioni di reduci che, se da un lato cercano di autorappresentarsi come simboli viventi così da assurgere a monito perenne contro il ripetersi di ciò che è barbarie, dall’altro si pongono giocoforza in un ruolo di unici, esclusivi detentori di valori, ricordi e sentimenti perché circondati dal disinteresse generale e da quel clima di normalizzazione che ha preteso i morti tutti uguali e imbrigliato la soluzione finale (e più in generale l’impiego per fini terroristici delle strutture concentrazionarie) in una sempre più vuota retorica. In anni più recenti, grazie all’impegno dei centri e delle strutture che abbiamo ricordato, il ruolo degli storici ha trovato un significato importante nella progressiva raccolta ed elaborazione delle testimonianze orali,8 oppure nel collaborare a progetti di recupero della memoria di luoghi fisici e avvenimenti assai spesso relegati a prospettive eccessivamente localistiche e quindi raramente utilizzabili per formare un coerente e vasto quadro generale.9 Specialisti del settore — conseguentemente al forte impegno civile — hanno ben capito l’importanza di differenziare linguaggi e tipi di ricerca, così da poter rivolgersi a tipologie differenti di fruitori. Uno per tutti il caso di Liliana Picciotto Fargion, che in un lunghissimo e tenace impegno di ricerca ha coniugato finalità scientifico-specialistiche (si pensi soltanto ai puntuali aggiornamenti di materiale archivistico ritrovato e diffuso su riviste specializzate)10 con intenti divulgativi (appoggiandosi magari a case 8 A. Bravo-D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano 1986. 9 M. Minardi, Tra chiuse Mura. Deportazione e campi di concentramento nella provincia di Parma 1940-1945, Parma 1987, introduzione di L. Casali, dove si evidenzia come il ruolo delle strutture concentrazionarie minori debba essere inserito nel più vasto e generale piano di raccolta e deportazione su scala nazionale ed europea. Si veda inoltre come prima ricerca di ambito provinciale con impianto scientifico e non solo commemorativo sulle conseguenze dell’occupazione tedesca, C. ManganelliB. Mantelli, Antifascisti, partigiani, ebrei. I deportati alessandrini nei campi di sterminio nazisti 1943-1945, Milano 1991, prefazione di E. Collotti. 10 Del vasto corpo di scritti sull’argomento dell’autrice segnaliamo a mero titolo esemplificativo: L. Picciotto Fargion, L’occupazione tedesca e gli ebrei di Roma. Documenti e fatti, Roma 1979; Id., Ultime lettere di ebrei deportati dall’Italia, in A. Carlotti (a cura di), Italia 1939-1945. Storia e memoria, Milano 1996, pp. 463-478.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi
539
editrici molto note e tali da garantire una visibilità notevole per il grande pubblico)11. Passando in rassegna i materiali che più diffusamente fanno riferimento al campo di Fossoli, si nota immediatamente una forte discrepanza di giudizi e interpretazioni delle condizioni di vita all’interno di esso, che appaiono diretta conseguenza dell’esperienza complessiva dei deportati. Come è facile capire, l’internato, che a Fossoli ha vissuto una parentesi breve prima della successiva deportazione nei Lager del Reich, tende a esprimere un giudizio di relativa mitezza delle condizioni di detenzione, fino ad abbandonarsi alle comprensibili manifestazioni di “rimpianto” per quella tipologia di campo di transito al momento di sperimentare Auschwitz.12 Ma i giudizi e le testimonianze su Fossoli sono nel complesso ben più sfumate e così dettate dalla capacità percettiva del singolo deportato da rendere poco agevole una sintesi completa. È bene anche ricordare che buona parte delle considerazioni presenti in questo intervento, benché emerse dallo studio specifico dei materiali inerenti il Lager carpigiano, potrebbero essere estese alla realtà della deportazione nazifascista in generale. Infatti nel corso dello spoglio di materiali relativi ad esempio al Lager di Bolzano — che seguì temporalmente quello di Fossoli — ci siamo spesso trovati immersi nello stesso tipo di condizione psicologica e materiale. Inoltre, trattandosi di campi di raccolta e transito, il settore della memorialistica ha chiaramente destinato all’esperienza detentiva in terra italiana una dimensione circoscritta. Innanzitutto diverse sono le tipologie di internati (politici e razziali), prima distinzione che rende evidente quanto possa mutare la capacità di percezione del pericolo, la comprensione della propria condizione personale all’interno del Lager e certamente una diversa capacità di adattamento. Si pensi infatti al partigiano combattente, al militare che rifiuta la divisa di Salò e prende parte alla lotta di liberazione nazionale: a volte questa tipologia di internati riesce a Fossoli a ricostituire un insieme di legami e frequentazioni che contribuiscono a stabilire una sorta di continuità 11
L. Picciotto Fargion, Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo, Milano 1994. Immerso nella realtà di Mauthausen don P. Liggeri esclama: “Oh innocente campo di Fossoli, circondato da una bonaria doppia rete…”: cfr. don P. Liggeri, Triangolo rosso. Dalle carceri milanesi di san Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Dachau. Marzo 1944-Maggio 1945, Milano 1986 (quinta edizione). 12
540
S. DURANTI
tra la militanza e l’impegno antifascista svolto in libertà e la resistenza, allo stesso tempo umana-personale e al regime. Si tratta di un tipo di autorappresentazione che favorisce la percezione dell’abuso e rende particolarmente odioso ogni contatto col personale carcerario, che considera ogni manifestazione della vita del campo — dalle adunate alla distribuzione del rancio — una sorta di conferma delle caratteristiche del regime fascista. Il Lager diviene paradigma che congiunge l’essenza del dominio nazifascista al senso di appartenenza ad una scelta di campo precisa. Nel Lager si rivivono gli anni di confino degli oppositori del regime, le violenze dello squadrismo (chi le ha vissute e chi le ha introiettate dai racconti di padri e compagni), e questi sentimenti isolano Fossoli dalla Germania, anche in quelle testimonianze scritte — diciamo — a caldo, allorquando cioè dovrebbe rimanere predominante la dimensione di orrore indicibile dell’esperienza nei campi della morte. Invece ecco emergere la dimensione della morte dentro Fossoli: nessuno dimentica l’eccidio dei settanta,13 e ne viene ricordata l’atmosfera atroce dell’abuso, della rappresaglia per i lontani fatti di Genova, la capacità di rievocare — commossi e offesi — nomi dei sacrificati, una lunga teoria di conoscenze, amicizie nate o fortificate dalla comune opposizione al fascismo. Diversa a volte la condizione dei deportati ebrei, di famiglie che vivono Fossoli come una sorta di limbo allucinante, spesso caratterizzato da un accanita volontà di ricreare nel Lager condizioni di vita il più possibile simili a quelle dalle quali sono stati strappati. Non tutti dimostrano avere chiara consapevolezza del destino imminente, così da generare reazioni molto complesse e diversificate: incapacità completa di adattamento, conseguenza del tragico sradicamento dalla vita precedente; preoccupata conferma del progressivo annullamento di ogni dignità individuale come uomo e cittadino dalle leggi razziali del 1938 in poi, un drammatico intensificarsi di violenze private e collettive che vede in Fossoli un aggravarsi delle condizioni patite nei provvisori 13 Si tratta dell’eccidio di massa che ebbe luogo presso il poligono del Tiro a segno nazionale di Cibeno, dove il 12 luglio 1944 furono condotti una settantina di prigionieri del campo di Fossoli. Il numero rimane incerto, essendoci discordanza tanto nei documenti quanto nelle testimonianze raccolte. All’appello effettuato la sera precedente al massacro furono chiamati 70 o 71 prigionieri e comunque di questi tre sopravvissero all’esecuzione (Teresio Olivelli non presentandosi il mattino successivo per il trasferimento al poligono; Mario Fasoli ed Eugenio Jemina si sottrassero con la fuga all’ultimo istante alla scarica di colpi del plotone di esecuzione).
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi
541
campi di raccolta provinciali. Quest’ultima condizione genera frequentemente la tendenza che Michele Ranchetti ha definito della “costruzione di traguardi parziali di fronte al pericolo”14: gli elementi del disastro vengono valutati via via che si manifestano in una sorta di necessaria non volontà di previsione. “Fino a qui tutto bene”, sembrano ripetersi alcune di quelle vittime che lanceranno dai treni gli ultimi messaggi attestanti un’esistenza annichilita ma ancora tenacemente tale.15 Comunque, che l’internato abbia preparazione politica alle spalle o sia una spiazzata vittima della persecuzione razziale, l’essenza dei Lager istituiti dai regimi fascista e nazista è stata tale da non aver consentito particolari margini di previsione delle conseguenze apocalittiche dell’internamento; la maggior parte dei deportati realizzò il significato e la portata della struttura nella quale si veniva immessi soltanto giunti a destinazione.16 Fossoli viene ricordato tanto come luogo di speranza per una soluzione positiva anche se assolutamente sconosciuta del dramma, quanto come luogo di inizio di programmate e sadiche esperienze di violenza psicologica da parte dei carcerieri. Le testimonianze che infatti si concentrano sulla continuità tra i Lager di transito e quelli di arrivo utilizzano il parametro assai interessante della “scientificità” dell’abuso: la differenza poteva magari sostanziarsi nell’intensità del dolore ricevuto. Si profila quindi l’elemento piramidale, gerarchico al quale l’internato viene sottoposto: la base, l’origine, è il primo campo di raccolta dal quale addirittura qualcuno è uscito e rientrato spontaneamente; il vertice è il campo di eliminazione, simboleggiato nell’immaginario 14 Nel corso di varie conversazioni con chi scrive, Michele Ranchetti ha definito in questo modo l’atteggiamento di molti ebrei ospitati nella casa della sua famiglia sul Lago di Como. Queste famiglie della borghesia milanese, travolte dallo sfacelo rappresentato dalla fuga e dal conseguente sradicamento dal proprio ambiente di riferimento, cercavano di traghettare in terra svizzera nel tentativo di sfuggire alle persecuzioni. 15 Dobbiamo alle ricerche svolte dal personale del CDEC alcuni dei più importanti recuperi di questo materiale. Anche recentemente Liliana Picciotto Fargion ha pubblicato gli ultimi messaggi di deportati provenienti da Fossoli conservati appunto nell’archivio dell’istituto. 16 Assai giustamente Enzo Collotti precisa che “l’esistenza di fenomeni di persecuzione politica e razziale nell’Italia fascista era di dominio pubblico, ma la consapevolezza della misura in cui la Germania nazista avesse fatto del sistema concentrazionario (prima ancora che subentrasse l’introduzione di veri e propri campi di sterminio) non un fatto eccezionale ma un aspetto istituzionale e istituzionalizzato del sistema del terrore era certamente assai circoscritta”. Si veda la presentazione di Enzo Collotti a Il viaggio, Bologna 1996, p. 7.
542
S. DURANTI
collettivo da Auschwitz. Ma al centro del percorso rimane il campo di transito, sufficientemente grande, caotico e spersonalizzante da concretare il salto di qualità rispetto al precedente. Questa escalation organizzativa mette in contatto vari livelli di percezione del pericolo e certamente l’analisi del suo livello intermedio — Fossoli — apre numerose variabili comportamentali. Paradigmatico l’episodio narrato da Nissim Alhadeff17 — che peraltro ricorda la liberalità del trattamento degli internati a Fossoli — sul momento della rasatura dei capelli una volta giunto ad Auschwitz: due giorni prima della deportazione, a Fossoli le SS “ci avevano venduto pettini e brillantina”. Questo come altri esempi citabili non sono spiegabili senza l’idea della continuità, della precisione della macchina di distruzione nazifascista, e ribadire questo concetto appare necessario quando ci si appresta a caratterizzare il significato di un campo come quello in oggetto. A prescindere dalle contrastanti — e tutte lecite — valutazioni individuali dei testimoni, ribadire l’importanza, la non subalternità di Fossoli per il genocidio, è costantemente necessario dal momento che incessanti appaiono la volontà di negazione delle responsabilità italiane e gli aberranti tentativi di equiparare i KZ alle foibe e ai luoghi di internamento per i collaborazionisti di Salò, messi in atto da mezzi di informazione e propaganda di destra. All’interno del materiale schedato sono massicciamente presenti i riferimenti alla sfera dell’assistenza agli internati, e fra questi uno degli ambiti maggiormente affrontati è quello spirituale-religioso, comprendente le memorie di quei sacerdoti che condivisero la sorte dei deportati. Fin dall’immediato dopoguerra cominciano ad essere pubblicati diari e memorie di sacerdoti i cui nomi ricorrono con frequenza nel ricordo dei sopravvissuti. Non sempre la struttura mentale conseguente alla formazione ecclesiastica dei sacerdoti subisce sconvolgimenti “esteriori”: permane nella maggior parte dei casi riscontrati la consapevolezza di poter esercitare un ruolo utile in mezzo al disastro con la pratica dell’assistenza spirituale. Certo che il comune destino spezza in molti casi il rapporto tradizionale, gerarchico e di ossequio rispettoso che il prigioniero qualunque istituisce con il prete, avvicinando le sensibilità e contribuendo all’estensione di una sfera di spiritualità che appare 17 N. Alhadeff, Nei campi di concentramento, “Prospetti”, 1966, a. I, I, pp. 63-90. Il passo citato è a p. 71.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi
543
come uno dei pochi appigli possibili per individui costantemente sul filo che separa realtà brutale e assurdo. Nel Lager le voci dei religiosi spesso si mischiano al lamento e al coro sdegnato delle vittime, riferendo particolari precisi sulle condizioni di internamento. Voce isolata e imbarazzante, che testimonia fin dentro il Lager il permanere di gravi pregiudizi nella struttura mentale di un particolare tipo di clero non emancipato da antiche suggestioni antisemite, è quella di don Sante Bartolai — deportato da Fossoli a Mauthausen ed Ebensee — che ricordando particolari della vita nel campo di Fossoli non riesce ad astenersi dall’affermare che “se qualcuno può dirsi privilegiato sono appunto gli ebrei. Ed anche là dentro, essi non smentiscono la loro natura, dandosi al traffico e vendendo il doppio la merce che, Dio sa come, sono riusciti ad avere nelle mani”18. L’opera di assistenza ai detenuti viene ricordata da molti: siano semplici abitanti della zona colpiti dalla drammatica condizione detentiva degli internati oppure reti organizzate della Resistenza che in varie occasioni tentarono di promuovere fughe di prigionieri. I racconti di vittime e testimoni contribuiscono quindi a darci, di quello che fu il più grande campo di raccolta italiano, l’idea di una struttura immersa in un drammatico contesto di lotta antifascista organizzata, dove la componente di collaborazione attiva data dalla popolazione civile fu notevolissima. Il recente libro di Enrico Serra, come gli scritti di e su Odoardo Focherini e Carlo Bianchi,19 ricostruiscono una fitta, tenace e non improvvisata struttura che operava tanto per la cura materiale degli internati, quanto per promuoverne la liberazione. Sempre ricorre l’ango18 Don S. Bartolai, Da Fossoli a Mauthausen. Memorie di un sacerdote nei campi di concentramento nazisti, “Quaderni dell'I.S.R. in Modena e provincia”, n. 5, Modena 1966, p. 37. 19 E. Serra, Tempi duri. Guerra e Resistenza, Bologna 1996. Su Carlo Bianchi, presidente della FUCI e vittima della strage dei settanta, si veda il volume della figlia, C. Iacono Bianchi, Aspetti dell’opposizione dei cattolici di Milano alla Repubblica sociale italiana, Brescia 1998; su Odoardo Focherini la letteratura è piuttosto vasta, quindi ci limitiamo a segnalare alcuni scritti principali: G. Lampronti, Mio fratello Odoardo, Bologna 1948; don D. Sala, Oltre l'Olocausto. 105 ebrei strappati alla deportazione, Milano 1979: il volume oltre a ricostruire l’attività di salvataggio di ebrei dalla deportazione, recupera l’iter di deportato nel capitolo “L'olocausto di Focherini” dall'arresto alla morte nel campo di Hersbruck. Infine don C. Pontiroli (a cura di), Odoardo Focherini martire della libertà. Il cammino di un giusto. Lettere dal carcere e dai campi di concentramento, Finale Emilia 1994.
S. DURANTI
544
sciosa lotta contro il tempo di organizzatori consapevoli del progressivo inasprimento delle condizioni carcerarie che indubbiamente, con l’approssimarsi della chiusura della struttura nel suo complesso, portò a quella serie di drammatiche e immotivate esecuzioni che abbiamo ricordato. Luciano Casali insiste sull’aspetto della presenza fra i settanta del Cibeno di molti militari, nel tentativo di dimostrare la precisa volontà di eliminazione di quel nucleo più “pericoloso” e politicizzato all’interno di Fossoli.20 È difficile rispondere al quesito su quanto resti della memoria di Fossoli e come si collochi la eventuale specificità di questo campo all’interno della più vasta trama della struttura istituita per la deportazione. A questa difficoltà di analisi contribuisce anche la particolare divisione — raramente assente — tra i vari tipi, forme e impegno di conservazione della memoria che i vari gruppi e tipologie di deportati hanno coltivato dal dopoguerra. Troppo spesso, ed emerge con chiarezza anche dallo spoglio bibliografico, ricordi e analisi tendono ad afferire a gruppi ben distinti che si sono con fatica indubbia impegnati a custodire e promuovere il ricordo del sacrificio da una parte dei deportati razziali, dall’altra dell’antifascismo militante, recante la ulteriore suddivisione meramente politica fra cattolici e comunisti. Anche se questo atteggiamento non è stato dettato da specifico antagonismo (e per il settore cattolico e comunista assistiamo ad una precisa operazione di difesa anche polemica di valori autonomi e peculiarità che trovano un punto d’incontro soltanto all’interno della generica ma fondamentale formula dell’antifascismo) ha comunque pregiudicato la possibilità di cogliere con chiarezza la dinamica complessiva inerente a Fossoli, e questo produce difficoltà di orientamento all’interno di un quantitativo rilevante di scritti che spesso non spostano avanti per nulla il quadro generale della ricerca. Eccezione facilmente intuibile all’interno della memorialistica e dello scavo storico-sociologico della sfera della deportazione e dell’internamento è rappresentata dalla figura e dall’impegno straordinario di Primo Levi che per condizione biografica — ebreo e partigiano — e per preciso impegno civile ha sempre privilegiato l’analisi complessiva delle dinamiche distruttive che si abbattono sull’individuo esposto alla violenza dei Lager. Da ogni scritto e20
L. Casali, La deportazione dall’Italia. Fossoli di Carpi, cit., in particolare p. 396.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi
545
merge l’interesse per la condizione umana, individuale e di gruppo, sottoposta alla prova del Lager e vivo rimane il postulato caro a Primo Levi, che per condizione gli internati si dividono in due categorie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Ebbene, dalle poche pagine che Levi dedica a Fossoli in Se questo è un uomo, netta traspare l’idea e l’atmosfera di un regno dell’indivisibilità che lentamente si avvinghia e permea di sé ogni individuo: la sorte sarà comune a tutti perché non c’è più fortuna di sopravvivere o condanna della morte una volta entrati nel Lager. Tutti rimangono segnati e accomunati da quella struttura che paradossalmente, come effetto immediato, ha favorito la concentrazione esclusiva sulla condizione personale per mero spirito di sopravvivenza. Certamente la ripartizione fra differenti tipologie di internati, con peculiarità e sensibilità differenti, risalta maggiormente dove interviene la mediazione o la ricostruzione del commentatore o quando l’intervento del tempo trascorso ha generato la messa in circolo di infrastrutture e condizionamenti sociali. Come abbiamo cercato di rilevare, il sedimentarsi della memoria e la capacità di raccontare ha subito il condizionamento — magari come pura reazione — della poca considerazione e scarsa professionalità di alcuni settori dell’editoria, dei gusti e soprattutto del generale disinteresse della società del dopoguerra per tematiche lancinanti come deportazione e genocidio. Per questo Fossoli, che ha costretto tra i suoi reticolati migliaia di individui, non ha superato la dimensione conoscitiva degli specialisti e degli interessati dai fatti: non si registrano libri di testo per le scuole che ne ricordino l’esistenza e il ruolo svolto all’interno del processo di compressione e distruzione delle diversità e delle opposizioni connaturato al fascismo. La logica conclusione di questo è rappresentata dalla difficoltà con la quale la specializzazione storica riesce ad entrare in contatto con la società attuale, in un paese che ancora vive con l’alibi del “fascismo buono” e del “nazismo cattivo”, annullando ogni ulteriore questione inerente alle responsabilità italiane per lo sterminio e il genocidio. Ancora una volta possiamo constatare la presenza, il rischio dell’oblio su una pagina capitale della storia di ogni tempo, motivo per favorire impegno e circolazione di idee con continuità e ricambio di soggetti, così da evitare che la vittima dell’oltraggio sia costretta a osservare il mondo restante “nascosta dietro una finestra”.
IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI FOSSOLI E LA STAMPA: STORIA, RECUPERO E VALORIZZAZIONE NELLE PAGINE DE “IL RESTO DEL CARLINO”, “L’UNITÀ” E “LA GAZZETTA DI MODENA” di Letizia Ferri Caselli
La necessità di un’indagine sulle pagine della stampa quotidiana nasce dalla constatazione delle lacune e del disordine che segnano la storia, l’uso e le trasformazioni del campo di Fossoli dal 1942 ai giorni nostri. La scarsità della documentazione e la naturale limitatezza delle testimonianze orali non hanno a tutt’oggi permesso di fornire indicazioni precise sul numero e i movimenti delle persone passate da Fossoli, nonché sull’organizzazione e il funzionamento del campo Vecchio, gestito direttamente dagli uomini della RSI. Inoltre, per quanto riguarda gli anni post Liberazione, manca un riepilogo cronologico chiaro sulle modalità di utilizzo del campo e sulle fasi relative al suo recupero. Lo spoglio dei quotidiani, quindi, da un lato contribuisce alla realizzazione di una prima bibliografia sul campo e va ad integrare il lavoro parallelamente condotto sulle pubblicazioni, dall’altro permette di verificare l’eco delle vicende di Fossoli sulla stampa. Sono stati scelti “La Gazzetta di Modena”, “Il Resto del Carlino” e “l’Unità”, per il periodo che va dall’aprile del 1945 al luglio del 1998, perché in essi si dà largo spazio alla cronaca locale, modenese e carpigiana. I quasi seicento articoli individuati1 consentono di fare due riflessioni, una cronologica e una più specificatamente legata ai contenuti. Pur essendo molteplici le differenze tra i quotidiani in merito alla quantità e al tono degli articoli pubblicati, sono emersi con chiarezza periodi di comune interesse e disinteresse verso il cam1 Sono stati considerati utili tutti gli articoli che presentavano riferimenti, anche minimi, a Fossoli.
Il campo di concentramento di Fossoli e la stampa
547
po di Fossoli. Nei primi anni del dopoguerra l’attenzione verte sulle ricostruzioni dei fatti di sangue verificatisi all’interno del campo e sulle prime commemorazioni della strage di Cibeno. Ma l’interesse maggiore, fino al 1947, è dedicato alla trasformazione del campo Nuovo in “Centro di raccolta profughi stranieri”, per la situazione caotica e pericolosa che viene a crearsi tra le persone detenute nell’area. Continue ribellioni e tentativi di fuga costituiscono l’oggetto di numerosi articoli su tutti e tre i quotidiani. Grande clamore suscita infine in questi primi anni l’occupazione del campo da parte di don Zeno e dei Piccoli apostoli (maggio 1947): con diverse angolazioni e sfumature i tre quotidiani si occupano delle vicende di Nomadelfia e dei procedimenti giudiziari intentati contro i responsabili della comunità. Dal 1954 alla metà degli anni ’70 si nota un generale calo di interesse verso il campo: l’arrivo dei profughi giuliani e la costituzione del Villaggio San Marco passano quasi inosservati. Fossoli viene ricordata soltanto nelle commemorazioni e nelle manifestazioni organizzate per celebrare la Resistenza nei campi di concentramento (1955) e l’inaugurazione del Museo Monumento al Deportato (1973). Il lungo e difficile iter burocratico intrapreso per acquistare il campo dallo stato, legittimo proprietario, dà inizio ad un ventennio di rinnovato interesse verso il campo di Fossoli. Da una parte si seguono le varie fasi relative al recupero dell’area: il concorso internazionale, le polemiche in merito alla possibilità di realizzazione del progetto Maestro e le ragioni dell’inerzia che tuttora contraddistingue ogni tentativo di sistemazione del campo. Dall’altra si riaccende il dibattito storiografico intorno alla gestione e al funzionamento del campo prima della Liberazione e si ripropone, con il “ritrovamento” di Titho e Haage in Germania, la questione circa le responsabilità oggettive nell’eccidio di Cibeno. Per quanto concerne l’analisi ravvicinata dei contenuti, dei toni e dell’atteggiamento mostrato verso il campo di Fossoli dai tre quotidiani, è necessario premettere alcune considerazioni generali. In ragione della differente linea editoriale adottata, il numero degli articoli letti nelle pagine de “l’Unità” è di gran lunga minore
548
L. FERRI CASELLI
rispetto a quello delle altre due testate.2 Negli anni dell’immediato dopoguerra il quotidiano assume spesso un tono rigido e provocatorio, ma dalla metà degli anni ’50 la polemica si affievolisce per lasciare spazio alla semplice cronaca delle manifestazioni commemorative e a poco altro. “Il Resto del Carlino” e “La Gazzetta di Modena” presentano diverse affinità, sia per quanto riguarda il numero degli articoli pubblicati, sia per il tono e le posizioni assunti nel corso degli anni. Prevalgono una certa discontinuità nel modo di affrontare alcune questioni e l’eco data alle polemiche di carattere politico scatenate a livello locale dai progetti di recupero del campo. Ma veniamo ad alcuni esempi chiarificatori di quanto scritto sino ad ora. Nei primi anni i tre quotidiani non vanno oltre alcune scarne descrizioni di quanto accadeva nel campo Nuovo e non aiutano purtroppo a fare luce sull’organizzazione, le presenze e i movimenti del campo Vecchio, il campo controllato direttamente dalla RSI. Gli unici riferimenti sono all’interno delle testimonianze di Arletti, Boccolari, Testa, Pantieri…,3 testimonianze peraltro pubblicate o “ripubblicate” negli anni ’90. Ogni anno, in occasione dell’anniversario, viene rievocato l’eccidio di Cibeno, spiegato uniformemente dalle tre testate come atto di rappresaglia per un attacco gappista verificatosi a Genova. Solo negli ultimi dieci anni si riportano i dubbi e le ipotesi alternative formulati dagli storici sulle ragioni della strage, ma gli articoli sono pochissimi e non approfondiscono l’argomento.4 È l’uso del campo come centro di raccolta di ex fascisti e di profughi stranieri che mette in luce le diverse posizioni e la diversa attenzione a Fossoli dei quotidiani. “L’Unità” e “La Gazzetta di
2 Il quotidiano dedica poco spazio alla cronaca locale: dal 1945 al 1951 si legge solo la cronaca milanese e dal 1951 ai giorni nostri la cronaca modenesecarpigiana compare e scompare ripetutamente. 3 Si fa riferimento a quasi tutti gli articoli di commemorazione dell’eccidio di Cibeno e ai seguenti articoli specifici: C. Pradella, Amici miei, dove siete ora?, “Il Resto del Carlino”, 6.5.1995 e A. Malpelo, Era Haage l’aguzzino del campo di Fossoli, “Il Resto del Carlino”, 14.2.1998; si tratta, per entrambi gli articoli, di ricordi di Ettore Malpighi. Nei primi mesi del 1993 la “Nuova Gazzetta di Modena” pubblica per diversi giorni degli articoli relativi alla vita nel campo di Fossoli prima della Liberazione. I testimoni sono citati in: R. Mazzali, Quel volto sanguinante, 10.1.1993; R. Mazzali, Agosto 1944, la grande fuga, 11.1.1993; R. Mazzali, Un incubo lungo un anno, 16.1.1993. 4 C. Pradella, Andreatta chiede giustizia per i martiri di Fossoli, “Il Resto del Carlino”, 13.7.1998.
Il campo di concentramento di Fossoli e la stampa
549
Modena” segnalano l’arrivo degli uomini della RSI nel campo,5 mentre “Il Resto del Carlino” comincia a parlare di “prigionieri” a Fossoli soltanto dall’agosto del ’46, quando scrive che non vi sono più tedeschi e fascisti ma solo stranieri in attesa di rimpatrio.6 “L’Unità” denuncia il trattamento di favore riservato ai detenuti politici: fa riferimento a “una rilevante quantità” di vetro “destinata al campo di concentramento di Fossoli per evitare che i fascisti colà albergati si buschino un raffreddore7 e si parla di “disposizioni” date dal direttore del campo, affinché i detenuti siano impiegati nelle cucine e negli uffici e non siano “più adoperati nemmeno per i servizi pesanti”8. Soltanto nelle pagine de “L’Unità democratica”, infine, viene segnalata la presenza nel campo di Fossoli nell’agosto del 1946 di trentadue ebrei, che fanno lo sciopero della fame perché “non vogliono rimanere oltre rinchiusi tra delinquenti di ogni specie”9. Le condizioni dei profughi stranieri a Fossoli sono descritte in modo contraddittorio dai quotidiani: ora si insiste sui disagi, sullo stato di detenzione e sulle violenze commesse dalla polizia del campo, ora sulla negazione dei maltrattamenti e sulla possibilità di vivere normalmente. “La Gazzetta”, in un articolo dell’agosto 1946, parla dei profughi stranieri come di una particolare “legione straniera”, nella quale gli uomini “sono in gran parte criminali. Qualcuno forse è un parassita. Qualche altro è un disgraziato. Comunque è gente che non vuole tornare al suo paese […] Gente che ha dei conti da 5 I quotidiani, ad eccezione de “l’Unità”, cambiano intestazione nel corso degli anni. Dal 1945 al 1953 l’odierno “Il Resto del Carlino” era pubblicato con il nome di “Giornale dell’Emilia”, l’attuale “Nuova Gazzetta di Modena” usciva come “L’Unità democratica” dal 1945 al 1947; fino al 1978 era pubblicata con il nome “La Gazzetta di Modena” e nel 1981, dopo tre anni di assenza dalle edicole, tornava ad essere stampata come “Nuova Gazzetta di Modena”. Per evitare un’inutile confusione, nel testo si citano i quotidiani usando l’intestazione attuale e il riferimento preciso si dà nella nota. Sull’arrivo degli uomini della RSI: Nuova polizia al campo di Fossoli, “l’Unità”, 3.9.1945 e Si riapre il campo di Fossoli (ma questa volta per i fascisti), “L’Unità democratica”, 9.12.1945. 6 400 detenuti di ventidue nazioni tentano di evadere dal campo di Fossoli, “Giornale dell’Emilia”, 6.8.1946. 7 Trattamento di favore per i fascisti di Fossoli, “l’Unità”, 14.11.1945: nell’articolo sono segnalate anche le rimostranze della popolazione in seguito a quest’iniziativa del governo. 8 Nel campo di Fossoli. Chi sono i fascisti: gli internati o gli agenti?, “l’Unità”, 1.2.1946 e Da Fossoli: detenuti politici in licenza. Sotto un’acqua torrenziale due uomini lungo il sentiero, “l’Unità”, 14.3.1946. 9 A Fossoli trentadue ebrei fanno lo sciopero della fame, “L’Unità democratica”, 14.8.1946.
550
L. FERRI CASELLI
saldare”. Le donne sono molto giovani, sono fuggite dai loro paesi, e sono “prostitute da due soldi. Avventuriere. Forse qualche brava ragazza”10. Ma nel novembre del 1946 lo stesso quotidiano pubblica un articolo nel quale si tenta di dare una spiegazione realistica ai continui tentativi di fuga dal campo: Le ragioni dell’insofferenza che regna tra gli internati vanno ricercate particolarmente nei gravi disagi a cui sono sottoposti i quattrocento detenuti, la maggioranza dei quali sono sprovvisti di indumenti per ripararsi dal freddo. […] Se le pratiche dei singoli internati richiedono molto tempo per essere vagliate, si creino sufficienti condizioni di vita.11
Analogo è l’atteggiamento de “Il Resto del Carlino”12, mentre l’unico articolo dedicato da “l’Unità” ai profughi stranieri riguarda curiosamente una lettera inviata al quotidiano da un’internata di Fossoli, nella quale sono smentite le affermazioni di un giornalista de “Il Mattino d’Italia” relative alle percosse e ai maltrattamenti subiti dai detenuti del campo. La donna nega di essere stata picchiata e afferma che le condizioni di vita a Fossoli sono buone.13 L’insediamento dei nomadelfi è seguito con attenzione da “Il Resto del Carlino” e da “La Gazzetta”: da una prima entusiastica adesione al progetto di don Zeno14 si passa ad un progressivo distacco, più visibile sulla “Gazzetta”, in occasione del tracollo finanziario e dell’allontanamento del sacerdote dalla comunità. Sulla “Gazzetta” si susseguono articoli relativi agli arresti di diversi Piccoli apostoli per truffe e rapine; “Il Resto del Carlino” si interroga più volte sulle ragioni della chiusura mostrata dalla Santa Sede e pubblica una lettera di protesta scritta a nome di una società creditrice verso Nomadelfia, nella quale si lamentano le perdite economiche dovute ai ritardi e alla mancata serietà di don Zeno15. La conclusione positiva del processo per truffa inten10 L. Cavicchioli, A Fossoli attende la “legione straniera”, “L’Unità democratica”, 21.8.1946 11 Altre evasioni a Fossoli, “L’Unità democratica”, 23.11.1946. 12 Zan., Povere stelle del cielo di Fossoli. Anche tra le reti spinate arrivano i dardi d’amore, “Giornale dell’Emilia”, 20.10.1946. 13 L. Plakner, La verità sui fatti di Fossoli, “l’Unità”, 15.8.1946. 14 Auspice la carità e col permesso del Ministero… I “piccoli apostoli” di don Zeno ottimamente accampati a Fossoli, “Giornale dell’Emilia”, 22.5.1947; Ori, È nata a Fossoli Nuovadelfia, “La Gazzetta di Modena”, 17.11.1947; A. Dieci, A Nomadelfia mamme adottive per le famiglie numerose, “La Gazzetta di Modena”, 31.1.1948. 15 S. A. Cotoniera, Lettera al direttore, La caotica situazione finanziaria della Città dei Ragazzi, “Giornale dell’Emilia” 15.6.1952.
Il campo di concentramento di Fossoli e la stampa
551
tato contro don Zeno e la successiva reintegrazione dello stesso nell’esercizio sacerdotale riportano i due quotidiani su posizioni vicine ai nomadelfi. “L’Unità”, invece, nei pochi articoli dedicati alla comunità, mantiene un atteggiamento di difesa. Si è scritto delle polemiche che accompagnano dalla metà degli anni ’70 i progetti di recupero del campo: “La Gazzetta” e “Il Resto del Carlino” ne forniscono un resoconto dettagliato, mentre “l’Unità” pubblica pochi articoli e tocca solo marginalmente la questione. Il concorso internazionale bandito nel 1988 scatena discussioni anzitutto sui criteri da adottare nella sistemazione dell’area, tra chi si pronuncia per un recupero filologico e chi ritiene invece opportuno un intervento più ridotto, di carattere simbolico.16 L’epilogo senza vincitore del concorso contribuisce ad acuire il dibattito, che diventa sempre più di carattere politico, in quanto il comune di Carpi viene accusato in diverse occasioni di non aver saputo fornire ai partecipanti indicazioni precise sul tipo di recupero che si intendeva realizzare e di avere speso troppo denaro pubblico.17 Quest’ultima accusa torna spesso sulle pagine dei due quotidiani, sino ai giorni nostri e riguarda anche gli stanziamenti destinati dal comune o da altri enti pubblici alla Fondazione Fossoli e ad altri istituti di ricerca sulla deportazione.18 In anni recenti le polemiche mettono in dubbio la legittimità stessa del recupero del campo di Fossoli: dal consiglio comunale di Carpi e dall’opinione pubblica locale si chiede spesso di riflettere sulla necessità di valorizzare la memoria storica tenendo conto anche delle stragi comuniste19 e sull’opportunità di dedicare il campo alla memoria delle vittime di tutti i totalitarismi.20
16 F.M.W. Fratello, Concorso internazionale per il futuro del campo di Fossoli, “Nuova Gazzetta di Modena”, 10.5.1986; Un parco nel lager, “Nuova Gazzetta di Modena”, 29.5.1988; C. Pradella, Polemiche. Verde nel lager. Come avverrà il recupero del campo di Fossoli?, “Il Resto del Carlino”, 8.3.1988; a. i., L’“Intellighentia” italiana mobilitata per Fossoli. Che il ricordo resti intatto!, “Il Resto del Carlino”, 19.1.1989. 17 Le polemiche sul recupero dell’ex lager. Errore di conti?, “Il Resto del Carlino”, 30.11.1989; C. Pradella, Ex lager, poche idee e confuse, “Il Resto del Carlino”, 29.5.1990; I. Mastronardi, Fossoli e spreco, “Il Resto del Carlino”, 19.10.1993; C. Pradella, Il recupero dell’ex campo, “Il Resto del Carlino”, 2.7.1996. 18 Forza Italia su Fossoli, “Il Resto del Carlino”, 13.3.1998; d.l.c., Ex campo, riesplode la lite, “Nuova Gazzetta di Modena”, 10.3.1998. 19 C. Pradella, Il recupero dell’ex campo, “Il Resto del Carlino”, 2.7.1996; Lettera firmata, Memoria storica? Sì ma non solo per l’Olocausto e le stragi naziste, “Il Resto del Carlino”, 18.2.1997. 20 Ex campo, Virgili bocciato in consiglio, “Nuova Gazzetta di Modena”, 12.9.1995.
552
L. FERRI CASELLI
In questa prospettiva di rivalutazione della memoria storica va situata la ripresa dell’indagine sulla morte di don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli impegnato nell’assistenza agli internati nel campo di concentramento, assassinato da ignoti nel gennaio del 1946. All’inizio del 1990 sulle pagine de “Il Resto del Carlino” e della “Gazzetta” si leggono numerosi articoli nei quali si tenta di ricostruire l’omicidio e si dà voce alle proteste e alle affermazioni degli esponenti della DC locale i quali indicano come responsabili del fatto i partigiani.21 Altre voci di protesta si levano dall’opinione pubblica e dall’ambiente cattolico in relazione alla figura di Odoardo Focherini, troppo spesso trascurato nei testi di storia e nelle commemorazioni pubbliche.22 Gli articoli che seguono al ritrovamento di Titho e Haage in Germania distolgono l’interesse dalle polemiche e si concentrano nuovamente sull’attività e l’organizzazione del campo di Fossoli prima del 1946. Tuttavia i tre quotidiani non presentano letture nuove e significative della strage di Cibeno e sono perlopiù interessati a riferire le vicende giudiziarie e ad affermare la necessità della riapertura dell’indagine. Dopo aver ricordato che lo spoglio de “Il Resto del Carlino”, de “La Gazzetta di Modena” e de “l’Unità” si propone essenzialmente come strumento di indagine e, in quanto tale, si presta a molteplici linee di ricerca, è possibile fare alcune riflessioni conclusive generali. Dal rapido excursus sin qui condotto emergono una scarsa attenzione all’uso del campo prima della Liberazione e una sostanziale uniformità nell’approccio alla storia di quel periodo. Gli articoli relativi agli anni successivi permettono di cogliere, in una lampante quanto sconfortante evidenza, l’immobilismo, le tortuosità burocratiche e le polemiche politiche senza fine che segnano la storia del campo, il suo lentissimo recupero e la sua difficile valorizzazione.
21 G. Pedrazzi, Quel sacerdote ucciso nel ’46, “Nuova Gazzetta di Modena”, 19.9.1990; G. Pedrazzi, Ecco la verità su don Francesco, “Nuova Gazzetta di Modena”, 23.3.1990; Fossoli. È ancora impunita la morte di don Venturelli, “Il Resto del Carlino”, 12.9.1991. 22 F. G. Gavioli, Per Odoardo Focherini dopo la morte, “Il Resto del Carlino”, 21.5.1985; f.z., Chi ricorda Focherini?, “Il Resto del Carlino”, 12.10.1993.
553
INDICE DEI NOMI DEGLI INTERNATI MILITARI INTERVISTATI
Amici, Gastone Andreoli, Serse Ascari, Germano Ascari, Odoardo Ballocchi, Gino Balugani, Ivo Bartolai, Ezio Bartoli, Bruno B.,E. Bazzani, Remo Bertini, Carlo Biagini, Natale Capitani, Guido Giosuè Castelfranco Ermanno Cavicchioli Ennio Cecchelli, Bruno Costi, Primo Cottafavi, Lanfranco Dallari, Gino De Pietri, Tommaso Ferrari, Ivaldo Fognano, Modesto Fregni, Pierino Galli, Urbano Gariboldi, Mario Generali, Bruno Ghirardelli, Albertino Giberti, Benito Giovenzana, Orazio
Giuliani, Emilio Gozzi, Enzo Gozzi, Gianfranco Gualdi, Ugo Lotti, Vittorino Lucchi, Guido Mammei, Giuseppe Mazzoni, Aldo Meschiari, Giuseppe Miselli, Severino Montanari, Gaetano Montanini, Trento Morsiani, Fernando Nava, Riccardo Pradella, Enrico Puviani, Luigi Rocchi, Lorenzo Roseo, Carlo Rossi, Ermes Rossi, Walter Tassi, Enzo Testoni, Angelo Vaccari, Aroldo Vadacca, Oronzo Vandelli, Pietro Venturelli, Tarcisio Veronesi, Otello Vezzelli, Bruno Zeni, Lelio
554
INDICE DEI NOMI DEI DEPORTATI E DEI RASTRELLATI INTERVISTATI
Angelantonio, Giorgio Ascari, Armando Dell’Amico, Carlo Andrea Lugli, Sergio Malpighi, Ettore Neri, Tullio
Ragazzoni, Marino Silvestri, Ernesto Tintorri, Annibale Tintorri, Romolo Vescovini, Alberto Vuch, Ernesto
INDICE DEI NOMI DEGLI EBREI INTERVISTATI
Formiggini, Silvana Modena, Luisa Sacerdoti, Vittorio