51 minute read
Fronte Italiano
L’ultima offensiva tedesca scattò il 14 luglio, ma ad inizio agosto lo slancio tedesco su tutto il fronte cessò, mentre quasi un milione di soldati statunitensi erano giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche erano ad un soffio dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle enormi perdite smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l’11 novembre 1918.55
Fronte Italiano
Advertisement
Il fronte italiano, in tedesco Italienfront o Gebirgskrieg, “guerra di montagna”, comprende l’insieme delle operazioni belliche combattute tra il Regno d’Italia e i suoi Alleati56 contro le armate di Austria-Ungheria e Germania nel settore compreso tra il confine con la Svizzera e le rive settentrionali del Golfo di Venezia, come parte dei più ampi eventi della prima guerra mondiale. Il conflitto è conosciuto in Italia anche con il nome di “guerra italo-austriaca”, o “quarta guerra di indipendenza”. Dopo aver stipulato un patto di alleanza con le potenze della Triplice Intesa e aver abbandonato lo schieramento della Triplice alleanza, l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 iniziando le operazioni belliche il giorno successivo. Il fronte di contatto tra i due eserciti andò snodandosi nell’Italia nord-orientale, lungo le frontiere alpine e la regione del Carso. Nella prima fase del confronto le forze italiane, guidate dal capo di stato maggiore dell’esercito, generale Luigi Cadorna, lanciarono una serie di massicce offensive frontali contro le difese austro-ungariche nella regione del fiume Isonzo, tenute dall’armata del generale Svetozar Borojević von Bojna, mentre operazioni di minor portata prendevano vita sui rilievi alpini e in particolare nella zona delle Dolomiti. Il conflitto si trasformò ben presto in una sanguinosa guerra di trincea, simile a quella che si stava combattendo sul fronte occidentale. La lunga se-
55 Fonti per il paragrafo: Corni Gustavo Dizionario Illustrato della grande guerra; “Apocalypse – la prima guerra mondiale” ( DVD 2 – 5); “Nelle trincee della grande guerra” DVD “la grande guerra 1918 - 1914” 56 pochi lo sanno ma piccole unità francesi, inglesi e americane furono impegnate sul fronte italiano, più per salvare la faccia che per aiutare veramente l’esercito italiano
rie di battaglie lungo il corso dell’Isonzo non portò per gli italiani che a miseri guadagni territoriali al prezzo di forti perdite tra le truppe, ben presto spossate e demoralizzate dall’andamento delle operazioni. Le forze austro-ungariche si limitarono a difendersi lanciando contrattacchi limitati, fatta eccezione per la massiccia offensiva sull’Altopiano di Asiago nel maggio-giugno 1916, bloccata dagli italiani.
In alcuni settori del Trentino si assistette invece solo a duelli d’artiglieria a distanza, con pochi morti mentre in altri ci fu una vera e propria guerra di mine in cui i due schieramenti, per stanare le truppe nemiche dalle cime delle montagne, arrivarono a creare vere e proprie camere di scoppio facendo implodere la montagna57 . Ma a pagare maggiormente lo scotto della guerra in Trentino fu la popolazione civile che ,oltre alla chiamata alle armi degli uomini validi, si vide aggiungere il carico di requisizioni e arresti indiscriminati. Infine con la stabilizzazione del fronte le varie comunità furono evacuate e co-
stretta ad abbandonare i loro luoghi venendo spesso accolti male e cadendo nella Damnatio Memoriae58 .
La situazione subì un brusco cambiamento nell’ottobre 1917 quando un’improvvisa offensiva degli austro-tedeschi nella zona di Caporetto portò a uno sfondamento delle difese italiane e a un repentino crollo di tutto il fronte: le forze italiane dovettero dare vita a una lunga ritirata fino alle rive del fiume Piave, lasciando in mano al nemico il Friuli e il Veneto settentrionale oltre a centinaia di migliaia di prigionieri; ora, alla guida del generale Armando Diaz e rinforzate da truppe francesi e britanniche, le forze italiane riuscirono a consolidare un nuovo fronte lungo il Piave, bloccando l’offensiva degli Imperi centrali. Dopo aver respinto un nuovo tentativo degli austro-ungarici di forzare la linea del Piave, nel giugno 1918, le forze degli Alleati passarono alla controffensiva alla fine dell’ottobre seguente: nel corso della cosiddetta battaglia di Vitto-
57 Numerose cime furono abbassate da tale procedimento anche di parecchi metri. 58 Ancora oggi è ignoto il destino di numerosi profughi trentini
rio Veneto le forze austro-ungariche furono messe in rotta, sfaldandosi nel corso della ritirata.
Il 3 novembre 1918 l’Impero austro-ungarico chiese e siglò l’armistizio di Villa Giusti, che entrò in vigore il 4 novembre segnando la conclusione delle ostilità.
Premessa
Benché legati all’Italia fin dal 1882 nell’ambito della cosiddetta Triplice alleanza, dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 Austria-Ungheria e Germania decisero di tenere all’oscuro delle loro decisioni l’alleato, in considerazione del fatto che l’articolo 7 del trattato di alleanza avrebbe previsto, in caso di attacco austro-ungarico alla Serbia, l’obbligo di prevedere compensi territoriali per l’Italia. Il 24 luglio 1914 Antonino di San Giuliano, ministro degli Esteri italiano, prese visione dei particolari dell’ultimatum alla Serbia: il ministro protestò violentemente con l’ambasciatore tedesco a Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna, e pertanto l’Italia non avrebbe avuto l’obbligo, dato il carattere difensivo della Triplice alleanza, di aiutare l’Austria, anche nel caso in cui la Serbia fosse stata soccorsa dalla Russia.
La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa dal governo del Presidente Consiglio dei ministri Antonio Salandra il 2 agosto 1914, cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, e fu diramata il 3 mattina.
La neutralità ottenne inizialmente consenso quasi unanime negli ambienti politici e nell’opinione pubblica italiana, tuttavia il brusco arresto dell’offensiva tedesca sulla Marna suscitò i primi dubbi sulla invincibilità tedesca. Movimenti interventisti iniziarono a formarsi nell’autunno 1914 per raggiungere, appena pochi mesi dopo, una consistenza non trascurabile. Gli interventisti, in particolare, additavano la diminuzione della statura politica dell’Italia se fosse rimasta spettatrice passiva: se i vincitori fossero stati gli Imperi centrali questi non avrebbero dimenticato né perdonato, e si sarebbero anche vendicati della nazione che additavano come traditrice di un’alleanza trentennale.
Gli interventisti vedevano nella guerra una vendetta per tutte le sconfitte e le umiliazioni del passato, e avrebbe permesso di completare l’unità d’Italia con l’annessione delle “terre irredente”, le zone dell’Impero austro-ungarico abitate da italiani, terre che tra l’altro la Triplice Intesa avrebbe assicurato all’Italia se si fosse schierata al suo fianco.
Alla fine del 1914 il nuovo ministro degli Esteri Sidney Sonnino, per ottenere i maggiori compensi possibili, iniziò trattative con entrambe le parti59: le richieste territoriali avanzate dagli italiani agli austro-ungarici, riguardavano la cessione del Trentino e del Friuli, fino al fiume Isonzo e l’autonomia per la città di Trieste, ma furono interamente rigettate dal governo di Vienna, disposto solo a miseri aggiustamenti della frontiera. Mentre il paese era scosso da manifestazioni degli interventisti e dei neutralisti, i delegati italiani negoziarono segretamente con la Triplice Intesa, ottenendo promesse circa la cessione di ampi territori comprendenti l’intero Trentino-Alto Adige fino al Passo del Brennero, Trieste, l’Istria e parte della Dalmazia. Il 26 aprile 1915, il re e una delegazione di pochi elementi conclusero le trattative segrete con l’Intesa mediante la firma del patto di Londra, con il quale l’Italia si impegnava a entrare in guerra entro un mese. Il 3 maggio successivo la Triplice Alleanza fu denunciata e fu avviata la mobilitazione: il 23 maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, ma non alla Germania con cui il governo Salandra sperava di non rompere del tutto.
Il piano Italiano: l’utopia del generale Cadorna
Il piano strategico dell’esercito italiano, sotto il comando del Capo di Stato Maggiore generale Luigi Cadorna, prevedeva di intraprendere un’azione offensiva/difensiva per contenere gli austro-ungarici nel loro saliente, incentrato sulla città di Trento e sul fiume Adige, che si incuneava nell’Italia settentrionale, lungo il lago di Garda nella zona di Brescia e Verona. Lo scopo era concentrare lo sforzo offensivo verso est, dove gli italiani potevano contare a loro volta su un saliente che si proiettava verso l’Austria-Ungheria,
59 Tipico sistema del governo italiano del tempo
poco a ovest del fiume Isonzo. L’obiettivo a breve termine dell’Alto Comando italiano era costituito dalla conquista della città di Gorizia, situata poco più a nord di Trieste, mentre quello a lungo termine, ben più ambizioso e di difficile attuazione, prevedeva di avanzare verso Vienna passando per Trieste. Nei disegni del generale Cadorna, la guerra contro un nemico già indebolito dalle carneficine del fronte orientale si sarebbe dovuta concludere in breve, con l’esercito italiano vittorioso in marcia su Vienna.
Sul fronte italiano furono ammassati circa mezzo milione di uomini, a cui in un primo tempo gli austro-ungarici seppero contrapporre soltanto 80.000 soldati, in parte inquadrati in milizie territoriali, male armate e poco addestrate. Il fiume Isonzo avrebbe costituito quindi il fronte principale quello che, una volta sfondato, avrebbe dovuto condurre prima a Trieste poi a Vienna. Cadorna sognava manovre colossali, di tipo napoleonico, con enormi attacchi lungo tutta la linea per dare letteralmente delle “spallate”60 al sistema nemico e farlo arretrare portandolo al crollo. Sul fronte delle Dolomiti gli italiani, fortemente carenti di artiglierie e mitragliatrici destinate al fronte est, avrebbero dovuto attaccare lungo due principali direttrici strategiche: fra le Dolomiti di Sesto e attraverso il col di Lana. Queste azioni avrebbero dovuto portare a uno sfondamento in profondità sufficiente per raggiungere la val Pusteria, con la sua importante ferrovia, e il fondovalle che portava da un lato verso il Brennero e dall’altro nel cuore dell’Austria. Nella parte meridionale del fronte dolomitico la priorità era l’occupazione della val di Fassa, da dove si sarebbero potute raggiungere Bolzano, attraverso il passo Costalunga, oppure Trento, seguendo la valle dell’Avisio. Oltre a questi settori, dove si puntava a penetrazioni strategiche, gli italiani attaccarono anche nel cuore del massiccio dolomitico, su creste, lungo canaloni e persino sulle cime, spesso in condizioni svantaggiose dato che gli austro-ungarici occupavano quasi sempre postazioni più elevate, in azioni che ebbero notevoli effetti sul morale delle truppe ma che non mutarono in alcun modo l’andamento bellico del conflitto.
60 Termine coniato e usato da Cadorna. Thompson, p. 77
Si aprono le ostilità
All’alba del 24 maggio 1915 le prime avanguardie del Regio Esercito avanzarono verso la frontiera, varcando quasi ovunque il confine con l’ex alleato e occupando le prime postazioni al fronte. All’inizio, la mobilitazione italiana avvenne con lentezza a causa della difficoltà di muovere contemporaneamente più di mezzo milione di uomini con armi e servizi.
Vennero sparate le prime salve di cannone contro le postazioni austroungariche asserragliate a Cervignano del Friuli che, poche ore più tardi, divenne la prima città conquistata. Lo stesso 24 maggio cadde il primo soldato italiano, Riccardo di Giusto. All’alba dello stesso giorno la flotta austro-ungarica bombardò la stazione ferroviaria di Manfredonia, le città di Ancona, Senigallia, Potenza, Picenza e Rimini senza causare gravi danni, eccetto che nel bombardamento di Ancona; la flotta italiana si oppose efficacemente solo a largo di Porto Bruno, costringendo la forza nemica a ritirarsi anzitempo. Nei primi giorni di guerra Cadorna progettò un attacco su tutta la linea del fronte, ma, con solo due dei diciassette corpi d’armata che componevano le sue forze a pieno organico e pronti a muovere, l’azione si sviluppò con estrema lentezza dando modo agli austro-ungarici di correre ai ripari. La situazione per gli italiani era inoltre aggravata dall’inesperienza dei reparti e da un insufficiente servizio di spionaggio che portò in certe zone a sovrastimare e in altre a sottovalutare notevolmente le forze nemiche che avevano davanti: in
entrambi i casi i soldati furono mandati allo sbaraglio con conseguenze spaventose.
Sul fronte delle Dolomiti la 4ª Armata italiana occupò Cortina il 29 maggio, cinque giorni dopo che gli austro-ungarici l’avevano abbandonata, e poi rimase sulle sue posizioni fino al 3 giugno seguente: l’armata disponeva di una sola batteria di artiglieria pesante e mancava di ogni altro mezzo per poter forzare i reticolati di filo spinato disposti dai difensori. Più a ovest, la 1ª Armata occupò alcune posizioni nel Trentino meridionale prima di essere bloccata dalle forti difese austro-ungariche. Sul fronte del basso Isonzo le avanguardie italiane si mossero a rilento, consen-
tendo agli austro-ungarici di far saltare i ponti principali. Monfalcone fu occupata dalla 3ª Armata il 9 giugno, ma i difensori si attestarono sul vicino monte Cosich che, benché alto solo 112 metri, consentiva di dominare la pianura sottostante. La 2ª Armata avanzò con facilità nell’alta valle dell’Isonzo prendendo, il 25 maggio, Caporetto e stabilendo una testa di ponte sulla sponda orientale. A causa di incomprensioni tra i comandi e ritardi nello spiegamento delle truppe, gli italiani fallirono nella corsa per occupare prima degli austro-ungarici le strategiche posizioni del monte Mrzli e del Monte Nero che difendevano l’accesso a Tolmino: una serie di attacchi contro il Mrzli tra il
1º e il 4 giugno non portarono a niente, ma il 16 giugno un contingente di alpini riuscì a scalare di notte il Monte Nero conquistandone la vetta con un attacco all’alba. Più a sud gli italiani presero Plava, a metà strada tra Tolmino e Gorizia, ma gli austro-ungarici si attestarono in una testa di ponte a ovest dell’Isonzo ancorata sulle due vette del monte Sabotino a nord e del Podgora a sud, bloccando l’accesso alla stessa Gorizia; durante la seconda settimana di giugno gli scontri andarono diradandosi.
Le prime “Spallate” di Cadorna sull’Isonzo:
Solo alla fine di giugno la mobilitazione italiana poté dirsi completata e l’esercito pronto a muoversi, con circa un milione di uomini ammassati tra Friuli e Veneto.
Il 23 giugno Cadorna scatenò la prima delle sue “spallate” contro il fronte nemico lungo l’Isonzo, proseguita poi fino al 7 luglio: davanti Plava gli italiani attaccarono per otto volte il picco dominante di Quota 383 senza ottenere praticamente alcun risultato, mentre un assalto il 1º luglio contro il Mrzli naufragò lungo i declivi con pendenza del 40% resi fangosi da improvvisi temporali estivi. Sul Carso, dopo violenti combattimenti, la prima linea austro-ungarica cedette sotto i colpi dell’artiglieria italiana nei pressi di quota 89 di Redipuglia e sopra Sagrado, consentendo agli attaccanti di portarsi sotto i picchi del monte San Michele e del monte Sei Busi che finirono con il rappresentare un saliente saldamente tenuto dagli austro-ungarici.
In generale l’attacco italiano non approdò a niente: benché le difese austroungariche fossero ancora relativamente improvvisate a causa della difficoltà di scavare trincee sul terreno del Carso, gli italiani dimostrarono notevoli difficoltà a superare gli sbarramenti di filo spinato protetti dalle mitragliatrici. Dopo aver ammassato un maggior quantitativo di artiglieria, Cadorna tentò una nuova offensiva il 18 luglio: l’azione si concentrò sul San Michele e gli attacchi italiani costrinsero gli austro-ungarici ad arretrare le loro trincee di alcune centinaia di metri sull’altipiano di Doberdò e davanti al villaggio di San Martino del Carso. Sui due lati del saliente, invece, gli attacchi italiani contro il monte Cosich, a sud, e contro il Podgora e il Sabotino, a nord davanti Gorizia, non portarono che a forti perdite e guadagni territoriali insignificanti. Sull’alto Isonzo la 2ª Armata iniziò una serie di assalti nel settore Monte Nero-
Mrzli nel tentativo di distrarre gli austro-ungarici dal San Michele, ma il poco terreno guadagnato fu in gran parte perduto nei contrattacchi dei difensori. Alle batterie italiane iniziarono presto a scarseggiare le munizioni e questo indusse Cadorna a sospendere gli attacchi per il 3 agosto, facendo della seconda battaglia dell’Isonzo il primo bagno di sangue su larga scala del fronte: gli italiani riportarono 42.000 tra morti e feriti, perdite causate da tattiche errate che puntavano ancora su attacchi frontali con le truppe ammassate in dense formazioni (numerose furono in particolare le vittime tra gli ufficiali inferiori, che si ostinavano a guidare le truppe in prima linea spada alla mano) e dallo scarso coordinamento tra artiglieria e fanteria. Per l’unica volta nella guerra le perdite austro-ungariche superarono in numero quelle degli italiani, con 47.000 tra morti e feriti, a causa delle difese ancora incomplete (le prime linee erano ben fortificate ma le retrovie erano carenti di rifugi protetti, risultando molto vulnerabili al fuoco dell’artiglieria italiana) e dell’ostinazione di Borojević a mantenere il possesso di qualunque lembo di terreno. Cadorna passò due mesi ad ammassare altra artiglieria e a ricostruire le sue riserve di munizioni in vista di un nuovo assalto. Gli Alleati facevano pressioni perché l’offensiva fosse lanciata al più presto onde alleggerire la pressione sulla Serbiache era sotto attacco, degli austro-tedeschi da nord e dei bulgari da est, e ormai prossima al crollo. Cadorna diede il via alle operazioni il 18 ottobre: no-
nostante il pesante fuoco d’appoggio di 1.300 cannoni protratto per tre interi giorni, gli assalti della fanteria sferrati a partire dal 21 ottobre dal Mrzli al San Michele, passando per il Sabotino e il Podgora, non portarono che a pochi guadagni, in gran parte persi nei contrattacchi degli austro-ungarici che avevano ben sfruttato il periodo di tregua allestendo una linea difensiva basata su tre ordini di trincee. Il maltempo imperversò per tutta la durata della battaglia, spingendo il comando italiano a terminare l’azione il 4 novembre dopo nuovi e infruttuosi assalti al San Michele.
Nonostante le 67.000 perdite riportate dagli italiani, tra morti e feriti, Cadorna si convinse che i reparti di Borojević fossero sul punto di crollare e dopo appena una settimana di pausa il 10 novembre scatenò la quarta battaglia dell’Isonzo. Sotto una pioggia battente che dal 16 novembre si trasformò in neve, gli italiani assalirono le stesse posizioni che avevano attaccato nella precedente battaglia, ottenendo solo miseri guadagni di terreno e cessando infine l’azione per il 5 dicembre.
Alla fine del 1915 lungo l’Isonzo l’esercito italiano registrò circa 235.000 perdite tra morti, feriti e ammalati, prigionieri e dispersi, mentre gli austro-ungarici, pur difendendosi quasi esclusivamente, subirono oltre 150.000 perdite. Gli austro-ungarici iniziarono a preoccuparsi dell’assottigliamento degli effettivi, ma il sistema difensivo resse bene l’urto dei fanti italiani, che ancora una volta vedevano vanificati i loro sforzi. Nessuno degli obiettivi del comando supremo era stato raggiunto e ormai la stagione avanzata consigliava la sospensione delle operazioni in grande stile, anche perché, considerate le perdite, entrambi gli schieramenti non potevano permettersi di continuare una lotta all’ultimo uomo.
La Guerra Bianca
Parallelamente alle offensive portate nei primi mesi di guerra dalla 2ª e 3ª Armata sul fronte dell’Isonzo, il tenente generale Luigi Nava, al comando della 4ª Armata italiana, il 3 giugno diede l’ordine di avanzata generale lungo tutto il settore dolomitico: quest’ordine diede il via, tra fine maggio ed inizio giugno, a
una serie di piccole offensive in vari punti del fronte. L’8 giugno gli italiani attaccarono nell’alto Cadore, sul Col di Lana, nel tentativo di tagliare una delle principali vie di rifornimento austro-ungarica, attraverso la Val Pusteria, al settore Trentino. Questo teatro di operazioni fu secondario rispetto alla spinta a est, ebbe tuttavia il merito di bloccare vari contingenti austro-ungarici, infatti la zona di operazioni si avvicinava, più di ogni altro settore, a vie di comunicazione strategiche per l’approvvigionamento del fronte tirolese e trentino.
Tra il 15 e il 16 giugno partì la prima offensiva verso i Lagazuoi e le zone limitrofe, un attacco teso a catturare il Sasso di Stria sulla cui cima era stato installato un osservatorio di artiglieria austriaco. Poco più a nord, tra giugno e luglio, gli italiani lanciarono i primi attacchi sulle Tofane e verso la val Travenanzes dove, dopo un’iniziale avanzata, il 22 luglio furono ricacciati su posizioni sfavorevoli da un contrattacco austro-ungarico. Dopo aver occupato Cortina e passo Tre Croci il 28 maggio, gli italiani si trovarono dinnanzi a tre ostacoli che gli impedivano di entrare a Dobbiaco: il Son Pauses, il Monte Cristallo e il Monte Piana. Gli italiani in giugno attaccarono tutti e tre i capisaldi senza ottenere in alcun caso risultati di rilievo. Entrambi gli schieramenti furono invece costretti a trincerarsi su posizioni che, in pratica, non sarebbero più cambiate fino al 1917. Più a est, altri settori furono testimoni dei primi scontri tra italiani e austroungarici: il 25 maggio viene bombardato dagli italiani il rifugio Tre Cime alla base delle Tre Cime di Lavaredo, anche se il primo vero attacco italiano si avrà solo in agosto. L’8 giugno la 96ª Compagnia del Battaglione alpino “Pieve di Cadore” e la 268ª Compagnia del “Val Piave” occupano il Passo Fiscalino, mentre tra luglio e agosto gli italiani occupano la cima di monte Poper, la cresta Zsigmondy, e Cima Undici che non erano presidiate dagli austro-ungarici, invece più a est per tutta l’estate si susseguirono i tentativi italiani di sfondamento del passo Monte Croce di Comelico e che ben presto però si trasformarono in una guerra di posizione durata fino al 1917.
Ad ovest del settore alpino, dalla fine di maggio del 1915 all’inizio di novembre
del 1917, il possesso del massiccio della Marmolada costituì un elemento strategico particolarmente importante in quanto controllava l‘accesso alla val di Fassa e alla val Badia, e quindi al Tirolo, divenendo subito uno dei punti più caldi del fronte alpino occidentale. Altro settore considerato molto importante dagli italiani era il passo del Tonale, su cui già prima della guerra, in previsione di una guerra tipicamente difensiva, erano stati costruiti alcuni settori fortificati. Le disposizioni del Comando Supremo stabilivano infatti che sul fronte Trentino fossero effettuate, ove necessario, solo piccole azioni offensive al fine di occupare posizioni più facilmente difendibili, che consentissero alle truppe italiane di attestarsi in luoghi più facilmente accessibili e rifornibili.
Allo scoppio delle ostilità, i comandi militari italiani si resero conto che la presenza degli austro-ungarici sulle creste dei Monticelli e del CastellaccioLagoscuro rappresentava una seria minaccia per la prima linea sul Tonale e fu così decisa un’azione per scacciarli. La prima operazione di guerra sui ghiacciai fu affidata al Battaglione alpini “Morbegno” ed ebbe luogo il 9 giugno 1915 per concludersi con una tremenda sconfitta. Gli alpini, nel tentativo di occupare la Conca Presena e cogliere gli austro-ungarici di sorpresa, effettuarono una vera e propria impresa alpinistica risalendo la Val Narcanello, il ghiacciaio del Pisgana e attraversando la parte alta di Conca Mandrone. Giunti al Passo Maroccaro e iniziata la discesa in Conca
Presena, furono avvistati dagli osservatori austriaci e sottoposti, sul candore del ghiacciaio, al preciso tiro della fanteria imperiale che, pur essendo in numero assai inferiore, seppe contrastare l’attacco in modo assai abile costringendoli alla ritirata con la perdita di 52 uomini. Un mese dopo, il 5 luglio, gli austro-ungarici attaccarono a loro volta il presidio italiano sulle rive del Lago di Campo in alta Val Daone. L’agguato, perfettamente riuscito, evidenziò l’impreparazione tattica italiana. Stimolati dal successo ottenuto, il 15 luglio gli austro-ungarici tentarono un improvviso attacco al Rifugio Garibaldi attraverso la Vedretta del Mandrone. Il piano fallì per l’abilità dei difensori, ma mise nuovamente in risalto la vulnerabilità del sistema difensivo italiano che, proprio per questo motivo, venne rafforzato. Per quanto ri-
guarda l’ala destra del fronte del Tonale, le azioni italiane più significative del 1915 si svolsero in agosto con diverse direttrici, ma portarono solo alla conquista del Torrione d’Albiolo.
Tutte queste offensive non portarono a nessuno sfondamento tanto che, come sull’Isonzo, anche la guerra di montagna divenne una guerra di trincea simile a quella che si stava svolgendo sul fronte occidentale. L’unica differenza consisteva nel fatto che, mentre sul fronte occidentale le trincee erano scavate nel fango, sul fronte italiano erano scavate nelle rocce e nei ghiacciai dagli Alpini italiani e dai loro omologhi austriaci, i Kaiserjager, fino e oltre i 3.000 metri di altitudine.
II anno di guerra
La durata della guerra sembrava ormai allungarsi oltre ogni previsione, e all’inizio del 1916 l’esercito italiano iniziò un’opera di riordinamento e potenziamento sulla base di un programma concordato tra il Governo e il capo di stato maggiore, presentato in maggio da Cadorna. In novembre vennero approntate 12 nuove brigate di fanteria e la formazione di una nuova quarta compagnia per i battaglioni che ne avevano soltanto tre, e in ogni battaglione venne inquadrato un reparto zappatori di 88 uomini tratti dalle compagnie. Le stesse misure vennero adottate per i bersaglieri, mentre per quanto riguarda gli alpini fu completato il processo di formazione dei 26 battaglioni di Milizia Mobile portando il totale del corpo a 78 battaglioni con 213 compagnie; altre 4 brigate di fanteria vennero formate tra aprile e maggio attingendo da quanto rimaneva della classe 1896 e gli esonerati sottoposti a nuova visita dal 1892 al 1894, e ancora tra marzo e giugno riunendo alcuni battaglioni provenienti dalla Libia. Entro la fine dell’anno le divisioni sarebbero salite dalle 35 iniziali a 48 con una
forza complessiva di circa un milione e mezzo di uomini in armi. Il 21 febbraio 1916 i tedeschi attaccarono in massa la piazzaforte di Verdun in Francia, dando il via alla battaglia più sanguinosa dell’intero conflitto che finì per catalizzare le attenzioni dei due contendenti.
Sotto pressione, gli Alleati occidentali chiesero a Russia e Italia di condurre al più presto offensive sui loro fronti onde alleggerire la stretta su Verdun; i russi risposero lanciando il 18 marzo l’offensiva del lago Naroch, mentre Cadorna scatenò l’11 marzo la quinta battaglia dell’Isonzo: gli italiani conquistarono qualche posizione sul Sabotino, ma il poco terreno ottenuto davanti al San Michele andò perduto davanti ai contrattacchi austro-ungarici mentre gli attacchi verso Tolmino e il Mrzli non ottennero risultato. Ostacolata dalla neve e dalla
nebbia, l’offensiva fu poi interrotta il 15 marzo seguente.
La Strafexpedition e la presa di Gorizia
Dopo la resa della Serbia, nel novembre 1915, il capo di stato maggiore austroungarico Conrad von Hötzendorf iniziò a fare progetti per una offensiva risolutiva sul fronte italiano.
Il piano prevedeva un attacco a partire dal saliente del Trentino in direzione est, verso lo sbocco delle montagne sulla pianura vicentina. L’enorme difficoltà di accumulare e manovrare mezzi adeguati in una regione tanto aspra e montuosa era controbilanciata dalla posta in gioco: lo sbocco delle divisioni austroungariche nella pianura veneta e l’accerchiamento dell’esercito italiano schierato nel Friuli, preso praticamente alle spalle. Per la realizzazione di un simile piano von Hötzendorf stimò di dover mettere in campo almeno 160.000 uomini (16 divisioni a pieni ranghi), quando la consistenza delle forze lungo l’Isonzo non ammontava a più di 147.000 uomini. Il feldmaresciallo si rivolse al suo omologo tedesco, Erich von Falkenhayn, chiedendo truppe per il fronte orientale onde sbloccare divisioni austro-ungariche da trasferire in Trentino ma Falkenhayn, totalmente assorbito dai preparativi per l’attacco su Verdun, respinse la richiesta arrivando a sconsigliare apertamente di attuare un piano così ambizioso, per la cui realizzazione le forze austro-ungariche apparivano insufficienti. Il piano austro-ungarico prevedeva l’inizio dell’offensiva per il 10 aprile, ma le abbondanti nevicate di marzo obbligarono von Hötzendorf a posticipare la data dell’attacco.
I preparativi austro-ungarici non sfuggirono all’attenzione degli italiani, grazie anche alle informazioni ottenute in seguito alle endemiche diserzioni di soldati e ufficiali che affliggevano i multietnici reparti imperiali. L’area interessata dall’imminente battaglia era sotto la responsabilità della 1ª Armata del generale Roberto Brusati, una formazione debole e sparpagliata lungo tutto il saliente del Trentino, dal confine con la Svizzera alle Dolomiti. Brusati richiese insistentemente rinforzi, ma ricevette dall’alto comando appena cinque divisioni supplementari che finirono con l’essere schierate in prima linea e in posizioni troppo avanzate. Cadorna era scettico circa le notizie che arrivavano sui preparativi nemici in Trentino e rassicurato dal fatto che la Russia stesse preparando per aprile una nuova massiccia offensiva contro il fronte degli Imperi centrali a est. A causa delle cattive comunicazioni tra gli Alleati, però, il comando italiano fu informato solo il giorno prima dell’attacco di von Hötzendorf che l’offensiva russa era stata rimandata a metà giugno. Il 15 maggio, appena il tempo lo permise, scattò la cosiddetta Strafexpedition, la “spedizione punitiva”: l’11ª Armata austro-ungarica passò all’attacco fra la val d’Adige e la Valsugana in Trentino, spalleggiata dalla 3ª Armata destinata allo sfruttamento del successo. Se l’offensiva non fu una sorpresa per Cadorna, lo fu per l’opinione pubblica: improvvisamente l’Italia scoprì, dopo un anno di sole offensive e senza che nessuno l’avesse messa in guardia, di trovarsi in grave pericolo.
L’avanzata austro-ungarica travolse il fronte italiano per una lunghezza di 20 chilometri, avanzando a fondo nella zona dell’Altopiano dei Sette Comuni. Il 27 maggio gli austro-ungarici presero Arsiero seguita, il giorno successivo, da Asiago. Cadorna arrivò a ventilare al governo Salandra la possibilità per l’esercito dell’Isonzo di ripiegare di tutta fretta abbandonando il Veneto per non cadere nella completa distruzione. Ma l’offensiva austro-ungarica andò progressivamente rallentando: gli uomini erano esausti e i rifornimenti carenti, ma soprattutto Conrad si ostinò con la tattica tradizionale di avanzare parallelamente tanto nei fondovalle quanto sulle
cime in quota, una manovra che in definitiva non faceva che rallentare lo sviluppo dell’attacco. Cadorna reagì con rapidità all’attacco austro-ungarico, richiamando divisioni di riserva dal fronte dell’Isonzo e costituendo una 5ª Armata che riuscì a frenare e, in seguito, arrestare concretamente l’offensiva sugli Altopiani. Dopo un appello personale del re Vittorio Emanuele allo Zar, i russi anticiparono la loro offensiva al 4 di giugno: l’offensiva Brusilov ottenne un successo di vaste proporzioni contro il debole fronte austro-ungarico a est, facendolo arretrare di 75 chilometri e portando alla cattura di circa 200.000 prigionieri e 700 cannoni nel giro di una settimana. Dopo un ultimo tentativo di offesa ai danni delle difese del Lemerle e del Magnaboschi, il 16 giugno, von Hötzendorf sospese l’offensiva. A partire dal 25 giugno le forze imperiali iniziarono una ordinata ritirata verso nuove posizioni difensive, abbandonando le semidistrutte Arsiero e Asiago, attestandosi saldamente nella porzione settentrionale dell’Altopiano, da dove respinsero una serie di frettolosi contrattacchi degli italiani; azione che andò poi spegnendosi entro il 27 giugno. Si concluse così la prima grande battaglia difensiva dell’Italia, definitivamente “maturata” per la “guerra di materiali” che l’avrebbe vista impegnare ingenti quantitativi di uomini, mezzi e risorse fino al termine del conflitto. Il fatto di aver perduto terreno, la massima penetrazione austro-ungarica si misurò su più di 20 chilometri in profondità verso la pianura vicentina, fece apprezzare scarsamente la reale vittoria difensiva italiana.
Parata la mossa di von Hötzendorf e con gli austro-ungarici impegnati a fondo sul fronte orientale, Cadorna riprese i suoi piani per un’offensiva estiva sul settore dell’Isonzo. Frustrato dalle precedenti esperienze, il comandante in capo progettò un’azione più limitata volta a ottenere posizioni più favorevoli da cui poi minacciare il San Michele e Gorizia. Per la prima volta, avrebbe cercato di contenere l’ampiezza del fronte da attaccare e poter così concentrare meglio la sua superiorità in fatto di artiglieria. Le forze italiane avevano trascorso i mesi seguenti la Strafexpedition a migliorare le loro posizioni, scavando un intricato sistema di gallerie e trincee di avvici-
namento, per portarsi il più possibile a ridosso delle linee nemiche e ammassando artiglieria e munizioni nelle retrovie. Anche senza azioni di massa il logoramento lungo il fronte era stato continuo e il 29 giugno gli austro-ungarici avevano tentato una piccola offensiva sul San Michele impiegando per la prima volta le armi chimiche: una miscela di gas tossici fu liberata sulle linee italiane provocando 2.000 morti e 5.000 intossicati, ma gli attaccanti impiegarono poche truppe per sfruttare il successo e, già entro sera, gran parte del territorio conquistato era stato ripreso dai contrattacchi italiani. Il 6 agosto Cadorna si sentì pronto a scatenare la sua sesta battaglia sull’Isonzo, e per una volta i risultati superarono le sue aspettative: con una superiorità schiacciante in fatto di bocche da fuoco, all’alba l’artiglieria italiana scaricò un breve ma violento bombardamento preparatorio poi, quello stesso pomeriggio, i fanti scattarono dalle loro trincee di avvicinamento, a 50 o anche solo 10 metri dalle linee nemiche, portando sulla schiena grossi dischi bianchi per consentire alla loro artiglieria di coordinare il tiro con i loro spostamenti; le truppe del generale Luigi Capello conquistarono la vetta del Sabotino in appena 38 minuti, il primo chiaro successo italiano dalla conquista del Monte Nero nel giugno 1915. Sul massiccio del San Michele gli italiani presero entro sera la vetta e il villaggio di San Martino del Carso, respingendo un contrattacco notturno delle riserve di Borojević. Perduto il Sabotino, la linea austro-ungarica si sgretolò: il secondo giorno della battaglia il Podgora cadde in mano italiana e, falliti una serie di contrattacchi, gli austro-ungarici sgombrarono la riva destra dell’Isonzo così, l’8 agosto, i primi italiani entrarono a Gorizia, semidistrutta dai bombardamenti e abitata ormai da non più di 1.500 civili. Senza più il controllo del San Michele, le forze austro-ungariche abbandonarono l’intero Carso occidentale spostandosi su una nuova linea difensiva che andava dal Monte Santo di Gorizia, a nord, al Monte Ermada, a sud, passando per le vette del San Gabriele e del Dosso Faiti. Cadorna fu lento a sfruttare il succes-
so ottenuto e, con l’artiglieria pesante rimasta indietro, le truppe italiane non riuscirono a scalfire la nuova linea difensiva. Il 12 agosto gli italiani ottennero un ultimo successo catturando il villaggio di Opacchiasella ma il 17 agosto l’offensiva si era ormai arenata.
Per gli standard del fronte dell’Isonzo la sesta battaglia fu un notevole successo, consentendo agli italiani di avanzare lungo un fronte di 24 chilometri per una profondità dai quattro ai sei chilometri, anche se non venne ottenuto alcuno sfondamento definitivo. Dopo aver passato più di un anno ad assediare le postazioni austro-ungariche, gli italiani non avevano fatto altro che spostare il campo di battaglia di qualche chilometro più a est.
Altre battaglie sull’Isonzo e sul Carso
Dopo aver riorganizzato i reparti e riportato in linea la sua artiglieria, Cadorna progettò una nuova offensiva per i primi di settembre onde sfruttare l’apertura di un nuovo fronte per l’Austria-Ungheria dato dall’entrata in guerra della Romania a fianco degli Alleati. Pioggia e nebbia ostacolarono per diversi giorni il bombardamento preliminare, e solo il pomeriggio del 14 settembre la fanteria poté partire all’attacco. La 3ª Armata italiana aveva ottenuto un concentramento di truppe senza precedenti con 100.000 uomini ammassati su un fronte di otto chilometri, ma le forze austro-ungariche avevano adottato una nuova tattica che si rivelò efficace. Durante il bombardamento italiano le trincee di prima linea erano presidiate solo da poche vedette, con il grosso dei soldati al sicuro dentro rifugi sotterranei nelle retrovie; una volta che gli italiani cessavano il tiro per permettere alla propria fanteria di partire all’attacco, gli austro-ungarici tornavano rapidamente alle loro posizioni per affrontare il nemico. Le masse compatte dei fanti italiani divennero un obiettivo facile per le mitragliatrici e per l’artiglieria austro-ungarica, che aveva trattenuto il fuoco fino all’ultimo minuto per non rivelare la sua posizione; un ufficiale austro-ungarico descrisse l’attacco italiano come
“un tentativo di suicidio di massa”61
Prima che le forti piogge mettessero fine all’azione il 18 settembre, gli italiani non conquistarono che pochi lembi di terreno al prezzo di pesanti perdite.
61 Thompson, pp. 234-235. Parole testuali di un anonimo ufficiale di lingua italiana ma condivise dallo stato maggiore
Benché vittoriose nelle azioni difensive, le forze di Borojević erano allo stremo: l’incremento della produzione italiana di bocche da fuoco non fece che aumentare l’inferiorità numerica dell’artiglieria austro-ungarica, la qualità dei viveri peggiorava continuamente e le forti perdite erano ripianate solo con l’immissione in linea di soldati di mezza età dotati di scarso addestramento, con i reparti sempre più vulnerabili alle istanze nazionaliste delle varie etnie dell’Impero. Con una superiorità numerica di tre a uno sul nemico, Cadorna iniziò l’ottava battaglia dell’Isonzo il 10 ottobre dopo una settimana di bombardamenti preliminari: gli italiani conquistarono un po’ di terreno nella valle del fiume Vipacco, ma l’azione si esaurì entro il 12 ottobre con nulla di più che forti perdite da entrambe le parti. Dopo solo una breve pausa, il 31 ottobre, Cadorna riprese i suoi attacchi lungo la linea Colle Grande-Pecinca-Bosco Malo con obiettivo il Dosso Faiti e la Sella
delle Trincee: il fuoco di 1.350 cannoni demolì le prime linee austro-ungariche e gli italiani riuscirono a stabilire un saliente ampio cinque chilometri e profondo tre arrivando a conquistare la vetta del Dosso Faiti, ma a sud gli attacchi al monte Ermada non portarono a niente. Un contrattacco disperato delle ultime riserve di Borojević indusse Cadorna a sospendere l’azione il 4 novembre, proprio quando lo sfondamento appariva imminente. Le perdite sofferte ammontarono a 39.000 soldati tra morti, feriti e dispersi per gli italiani e 33.000 per gli imperiali. Intanto, mentre sul fronte si contavano le perdite di uomini e materiali e ci si preparava ad affrontare l’inverno, a Vienna il 21 novembre morì il vecchio Imperatore Francesco Giuseppe a cui successe il nipote Carlo I, che oltre a un impero in disfacimento ereditò una guerra che non aveva voluto. Il nuovo imperatore avanzò proposte di pace a Francia e Regno Unito che caddero nel vuoto, fornendo però il pretesto per declinare a queste ultime le responsabilità sul protrarsi della guerra. Per tutto l’inverno 1916-1917, sul fronte dell’Isonzo tra il Carso e Monfalcone la situazione rimase stazionaria, mentre sulle Alpi, il settore del III Corpo d’armata comprendente la zona tra lo Stelvio e il lago di Garda, fu caratterizzato da piccole offensive atte a conquistare alcune vette strategicamente importanti, tra cui quella di monte Cavento che fu at-
taccato ad inizio inverno.
La Strefexpedition causò la stasi nelle operazioni per la conquista del monte, che ripresero a maggio 1917 con la “battaglia dei Ghiacci” che consentì alla 242ª Compagnia del battaglione alpino “Val Baltea” la conquista della vetta.
Il terzo anno di guerra e le ultime battaglie dell’Isonzo
Per l’aprile-maggio del 1917 gli Alleati occidentali avevano in programma una serie di offensive per mettere alle strette gli Imperi centrali: gli anglo-francesi stavano per lanciare una serie di assalti simultanei al fronte occidentale, la cosiddetta “offensiva Nivelle”62, mentre Cadorna preparava una nuova spallata sull’Isonzo.
Nonostante la perdita, nel corso del 1916, di quasi 400.000 effettivi l’esercito italiano andava sempre più rafforzandosi e nella primavera del 1917 poteva mettere in campo 59 divisioni con una forza di quasi due milioni di uomini in armi grazie al richiamo dei diciannovenni della classe 1898, mentre il numero di cannoni di medio e grosso calibro era raddoppiato rispetto a un anno prima. La lungamente pianificata offensiva italiana del 1917 iniziò il 12 maggio con un devastante bombardamento preliminare di circa 3.000 bocche da fuoco. Nel pomeriggio del 14 maggio la 2ª Armata italiana, ora agli ordini del generale Luigi Capello, iniziò l’azione sul medio corso dell’Isonzo assalendo a partire dalla testa di ponte di Plava il rilievo di Quota 383: in condizioni di inferiorità di quindici a uno, il solitario battaglione austriaco che difendeva la vetta dovette cedere sotto gli attacchi di cinque reggimenti italiani, non prima però di aver inflitto agli attaccanti perdite pari al 50% degli effettivi. Il piano prevedeva di fermare poi le forze della 2ª Armata per spostare l’artiglieria in appoggio della 3ª Armata sul basso Isonzo, ma visti i progressi Capello chiese e ottenne di continuare con la sua azione. Gli italiani estesero i loro assalti al monte Kuk, conquistato definitivamente il 17 maggio dopo vari attacchi e contrattacchi delle due parti, e al monte Vodice, preso due giorni più tardi. Il 20 maggio Capello lanciò dieci ondate di fanteria contro il Monte Santo,
62 Silvestri 2006, p. 23
ma i reparti italiani, arrivati in vetta, furono ricacciati indietro da un contrattacco austro-ungarico e il generale decise di sospendere la sua offensiva. L’azione si spostò a sud, dove il 24 maggio la 3ª Armata del Duca di Aosta iniziò i suoi attacchi a partire dal saliente creato nella precedente battaglia: sulla sinistra gli italiani furono bloccati, ma sulla destra ottennero uno sfondamento avanzando lungo una fascia larga due chilometri nella zona pianeggiante tra l’altopiano del Carso e il mare. Gli italiani conquistarono il villaggio di Jamiano e arrivarono alle prime pendici dell’Ermada prima che, il 26 maggio, i rinforzi austro-ungarici li bloccassero. Richiamati alcuni reggimenti freschi dal Trentino e arrivate due divisioni distaccate dal fronte orientale, Borojević tentò un contrattacco in grande stile il 4 giugno dando vita alla battaglia di Flondar: dopo una finta davanti al Dosso Faiti gli austro-ungarici attaccarono le posizioni della 3ª Armata, a ovest dell’Ermada, ricacciando indietro gli indeboliti reparti italiani per alcuni chilometri e prendendo più di 10.000 prigionieri. Allontanata la minaccia italiana dall’Ermada gli austro-ungarici si attestarono nuovamente sulla difensiva e gli scontri su vasta scala terminarono in tutto il settore del Carso entro il 6 giugno. Cadorna aveva iniziato a pianificare la sua prossima mossa mentre la decima battaglia, o “spallata” era ancora in svolgimento, spostando dodici divisioni fresche dal fronte alpino all’Isonzo. Il nuovo obiettivo sarebbe stata la Bainsizza, un altopiano semi desertico all’altezza del medio corso dell’Isonzo, che appariva poco presidiato dagli austro-ungarici: da qui Cadorna riteneva di poter piegare verso sud, tagliare fuori il Monte Santo e il San Gabriele e prendere alle spalle le difese nemiche sul basso Isonzo. Dopo quattro giorni di bombardamenti l’undicesima battaglia dell’Isonzo iniziò il 19 agosto con un attacco lungo tutto il fronte: la 3ª Armata fece breccia in tre punti, ma fu infine bloccata dalle forti difese dell’Ermada e della valle del Vipacco, mentre a nord la 2ª Armata di Capello sfondò, a partire dal 22 agosto, le difese austro-ungariche avanzando con facilità sull’altopiano della Bainsizza. Borojević optò per una difesa in profondità, ritirando le sue scarne truppe sul bordo orientale dell’altopiano contando sul terreno difficile per rallentare le forze di Capello: le truppe italiane si ritrovarono così in una zona priva di stra-
de e inospitale, per la mancanza di acqua, dove rimasero bloccate. La 2ª Armata sferrò anche una serie di puntate verso Tolmino, facilmente respinte dai difensori, e un attacco contro il Monte Santo, conquistato il 22 agosto dopo il ripiegamento delle forze austro-ungariche dalla Bainsizza. Il cordone difensivo allestito da Borojević intorno all’altopiano bloccò, comunque, il tentativo di aggiramento che la 2ª Armata doveva realizzare. Il 4 settembre un massiccio contrattacco austro-ungarico fece indietreggiare alcuni reparti della 3ª Armata nella valle del Vipacco, mentre contemporaneamente Capello dava il via agli attacchi contro il San Gabriele: in una riedizione dei precedenti assalti alle vette del Carso, 700 pezzi di artiglieria italiana martellarono la cima del monte che, a causa del continuo bombardamento, perse circa dieci metri di altezza durante la battaglia (tomba di granito per i soldati che non riuscirono ad abbandonare la postazione e i cui resti non sono ancora stati recuperati) prima che masse compatte di fanti tentassero di espugnarla con assalti frontali; i reparti austro-ungarici arrivarono a un passo dal cedere, ma gli italiani non erano meno spossati e il 19 settembre Cadorna dovette fermare le operazioni63 . L’undicesima battaglia dell’Isonzo si risolse in un nuovo bagno di sangue, con gli italiani che riportarono 166.000 tra morti e feriti, più di metà dei caduti fu registrata sul solo San Gabriele, mentre gli austro-ungarici ne lamentarono 140.000.
L’armata di Borojević era ormai prossima al cedimento e questo spinse la Germania a intervenire con urgenza per sostenere il suo vacillante alleato in quella che fu la battaglia di Caporetto.
La disfatta di Caporetto
Con la linea austro-ungarica intorno a Gorizia a rischio di collasso a seguito dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, l’alto comando di Vienna si appellò ai tedeschi perché contribuissero a una controffensiva sul fronte italiano. Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, comandanti supremi dell’esercito tedesco, si
63 Thompson, pp. 296-299
accordarono quindi con il nuovo capo di stato maggiore austro-ungarico Arthur Arz von Straussenburg per l’organizzazione di una offensiva combinata. Il generale tedesco Konrad Krafft von Dellmensingen fu inviato al fronte per un sopralluogo, che durò dal 2 al 6 settembre 1917. Terminate le varie verifiche e dopo aver vagliato le probabilità di vittoria, Dellmensingen tornò in Germania per approvare l’invio degli aiuti, sicuro anche del fatto che la Francia, dopo il fallimento della seconda battaglia dell’Aisne ad aprile, non avrebbe attaccato. Sette divisioni tedesche di eccellente livello furono unite ad altre cinque divisioni austro-ungariche nella nuova 14ª Armata sotto il generale Otto von Below, sostenuta da più di 1.000 pezzi di artiglieri. L’ammassamento delle forze degli Imperi centrali sull’alto corso dell’Isonzo, tra Plezzo e Tolmino, iniziò ai primi di settembre. Rapporti dalla ricognizione aerea e resoconti dei disertori riferirono agli italiani del movimento di truppe tedesche dirette nella zona dell’alto Isonzo e, il 18 settembre, Cadorna decise di passare a una linea difensiva nell’attesa degli eventi. L’alto comando dimostrò tuttavia notevole scetticismo circa le notizie di un imminente attacco in forze e, ancora il 23 ottobre, Cadorna formulò la previsione che non vi sarebbe stata alcuna operazione di rilievo almeno fino alla primavera del 1918. Alle 2 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-tedesche iniziarono a colpire le posizioni italiane, dal monte Rombon all’alta Bainsizza, alternando lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l’Isonzo. Il fuoco preparatorio fu molto preciso, troncando ben presto le comunicazioni tra i comandi e le unità di prima linea, l’artiglieria italiana del XXVII Corpo d’armata, comandato dal generale Pietro Badoglio, rimase isolata e non aprì alcun fuoco di risposta. Quello stesso giorno gli austro-ungarici e i tedeschi del generale von Below attaccarono il fronte dell’Isonzo, a nord, convergendo su Caporetto, un settore rimasto tranquillo dalla fine del 1916 e difeso solo da dieci delle trenta divisioni della 2ª Armata italiana del generale Capello. mettendo in pratica le nuove tattiche di infiltrazione già sperimentate con successo sul fronte orientale, le truppe tedesche forzarono i punti deboli dello schieramento italiano, muovendo nei fondovalle per aggirare e prendere alle spalle le postazioni poste sulle cime del-
le montagne. Il fronte della 2ª Armata si sgretolò rapidamente e, alle 17, i primi reparti tedeschi fecero il loro ingresso nella stessa città di Caporetto64 . Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero all’incirca, tra morti e feriti, 40.000 soldati e altrettanti si ritrovarono intrappolati sul Monte Nero, mentre i loro avversari ebbero circa 6/7.000 vittime. La notizia dello sfondamento filtrò con estrema lentezza fino al comando di
Udine, e solo la mattina del 25 ottobre la portata del disastro cominciò a profilarsi: il fronte era stato spezzato in più punti, il morale di diversi reparti era collassato e masse di uomini stavano defluendo con disordine verso le retrovie.
Cadorna continuò a temporeggiare e, solo alle 2:50 del 27 ottobre, ordinò alla 2ª e alla 3ª Armata di ripiegare sulla linea del fiume Tagliamento. Il ripiegamento delle forze del Duca d’Aosta, già preparato dal suo comandante, si svolse con un certo ordine mentre i reparti di Capello furono praticamente abbandonati al loro destino in una ritirata caotica caratterizzata da diserzioni e fughe. L’ampiezza del successo stupì gli stessi comandi austro-ungarici: Ludendorff, alle prese sul fronte occidentale con la fase più critica della battaglia di Passchendaele, aveva fretta di ritirare le divisioni tedesche lasciando l’inseguimento alle armate di Borojević, dal Carso, e di Conrad, dal Trentino, ma, le cattive comunicazioni e la spossatezza dei reparti, ritardarono la progressione dei austro-ungarici. La sera del 28 ottobre gli austro-germanici attraversarono il confine prebellico, annullando in cinque giorni quello che gli italiani avevano impiegato due anni e mezzo a conquistare. Cadorna sperava di poter trattenere il nemico sul Tagliamento ma, il 2 novembre, una divisione austroungarica riuscì ad attraversare il fiume stabilendo a monte una testa di ponte sulla sponda occidentale e così, il mattino del 4 novembre, l’alto comando italiano ordinò la ritirata generale dell’intero esercito fino al fiume Piave. Gli Imperi centrali mantennero la loro pressione sui reparti in ripiegamento: a Longarone il 9 novembre furono catturati 10.000 uomini e 94 cannoni appartenenti alla 4ª Armata del generale Mario Nicolis di Robilant e, in un’altra occasione. la 33ª e 63ª Divisione italiana consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall’accerchiamento, 20.000 uomini. In pianura però gli austro-tedeschi non eb-
64 oggi Kobarid in Slovenia
bero analogo successo e molte unità italiane si riorganizzarono una volta raggiunta la linea del Piave. Alle 12 del 9 novembre il ripiegamento dietro il fiume fu completato e tutti i ponti presenti sul fiume furono fatti saltare. La battaglia di Caporetto si tradusse in un disastro per gli italiani: le perdite ammontarono a 12.000 morti, 30.000 feriti e 294.000 prigionieri, con altri 400.000 soldati sbandati all’interno del paese mentre le perdite materiali comprendevano più di 3.000 cannoni e 1.600 veicoli a motore e l’area ceduta aveva un’ampiezza di 14.000 km² .
65
Destituzione di Cadorna e inizio della difesa
La disfatta di Caporetto provocò vari rivolgimenti in seno agli alti comandi italiani. Il governo Boselli andò incontro a un voto di sfiducia e il 30 ottobre 1917 fu rimpiazzato da un esecutivo guidato da Vittorio Emanuele Orlando; il 9 novembre, dopo molte insistenze da parte del nuovo presidente del consiglio, Cadorna lasciò il comando dell’esercito nelle mani del generale Armando Diaz per assumere la carica di rappresentante italiano presso il neocostituito Consiglio militare interalleato a Versailles66 .
La nuova linea difensiva italiana si attestò lungo la sponda meridionale del Piave, dalla foce sul mare Adriatico fino al massiccio del monte Grappa a ovest, da dove si ricollegava poi al vecchio fronte sull’altopiano di Asiago e nel Trentino meridionale. Il nuovo fronte era più corto di circa 170 km, un fatto che aiutava gli italiani, Diaz si ritrovò con solo 33 divisioni intatte e pronte al combattimento, circa metà della forza precedente alla disfatta di Caporetto. Per rimpinguare i ranghi si ricorse alla mobilitazione dei diciottenni della classe 1899, i cosiddetti “Ragazzi del ‘99” e nel febbraio 1918 erano state ricostituite altre 25 divisioni. Entro l’8 dicembre 1917 sei divisioni francesi e cinque britanniche con artiglieria e unità di supporto (in tutto circa 130.000 francesi e 110.000 britannici) erano affluite in Italia e, sebbene non entrassero subito in azione, funsero da riserva
65 Fonti: Thompson, p. 313 - 342
66 In realtà furono gli alleati a spingere per la destituzione di Cadorna. Silvestri 2007, p. 476
strategica permettendo al Regio Esercito di concentrare le proprie truppe in prima linea. I tedeschi, al contrario, trasferirono, già a novembre, metà dei propri cannoni ad occidente e poi il grosso delle proprie truppe ai primi di dicembre, lasciando la responsabilità del fronte ai soli austro-ungarici. Il primo segno di riscossa dei reparti italiani avvenne per merito della 4ª Armata del generale di Robilant che, stanziata sul Cadore, si era ritirata il 31 ottobre con l’ordine di organizzare la difesa del monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe dell’Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il Piave. La nuova posizione, da difendere a tutti i costi, era di vitale importanza per l’intero esercito dato che una sua caduta avrebbe trascinato con sé l’intero fronte. Gli
uomini di Robilant riuscirono a mantenerla contro vari assalti degli austroungarici avvenuti a metà novembre. Gli austro-ungarici fermarono poi gli attacchi in attesa della primavera successiva, anche se piccole schermaglie si protrassero fino al 23 dicembre. La fine della guerra contro la Russia consentì poi alla maggior parte delle truppe impiegate sul fronte orientale di spostarsi su quello italiano, in vista di un’offensiva risolutiva. Diaz dedicò molta cura a migliorare il trattamento dei soldati per guarire i guasti del morale dei reparti, la giustizia militare rimase severa ma furono abbandonate le pratiche più rigide, prima tra tutte la decimazione inoltre vi furono miglioramenti nel vitto e nell’allestimento delle postazioni, fu aumentata la paga e la frequenza e durata delle licenze.
L’ultimo anno di guerra
All’inizio del 1918 la situazione era critica per l’Austria-Ungheria, infatti, dopo che, nel marzo 1917, i francesi ebbero reso pubblico il tentativo di una pace separata intrapreso dall’imperatore Carlo i tedeschi imposero all’alleato una quasi totale sottomissione economica e politica e, in vista delle loro offensive di primavera sul fronte occidentale, li obbligarono a progettare un nuovo attacco sul fronte italiano.
I margini di manovra per gli austro-tedeschi andavano però progressivamente riducendosi: la situazione degli Imperi Centrali sul piano dei rifornimenti, sia
alimentari sia di materie prime, si faceva sempre più complicata, mentre al contrario i rifornimenti statunitensi, almeno sul fronte occidentale, iniziavano ad avere un notevole peso sul bilancio della guerra. Le forze imperiali erano allo stremo: le 53 divisioni ammassate sul fronte italiano avevano un numero di effettivi pari alla metà, se non meno, dell’organico previsto, i ranghi erano pieni di reclute diciassettenni e di anziani e il tracollo della produzione industriale iniziò a riflettersi negativamente sulle dotazioni di armi ed equipaggiamenti. La propaganda degli Alleati, ora molto più insistente e organizzata, iniziò a fare sempre più breccia tra le truppe, rendendo sempre più auspicabile ai soldati una rapida conclusione delle ostilità. La carenza di cibo nell’Impero si era fatta catastrofica e ai tumulti organizzati dai gruppi nazionalisti o dai movimenti socialisti ispirati dalla rivoluzione russa si aggiunsero vere e proprie sommosse per il pane: ad aprile 1918 almeno sette divisioni erano state richiamate in patria per il mantenimento dell’ordine interno67. Il generale Borojević stesso chiedeva di evitare di sacrificare ciò che rimaneva dell’esercito in ormai inutili offensive e di conservarlo invece per far fronte ai tumulti interni all’impero, ma l’alto comando fu irremovibile sui suoi piani per un attacco risolutivo sul fronte italiano.
L’ultimo attacco Austriaco
Il 15 giugno la progettata offensiva austro-ungarica ebbe inizio con l’impiego di circa 678 battaglioni e 6.800 pezzi d’artiglieria a cui gli italiani si opposero con 725 battaglioni e 7500 pezzi d’artiglieria. Il generale Conrad, comandante del settore del Trentino, voleva che l’attacco principale si sviluppasse sul Grappa mentre Borojević, comandante delle armate sul Piave, riteneva che l’attacco principale doveva avere come direttrice principale l’isoletta della foce del Piave, Grave di Papadopoli68 . L’arciduca Giuseppe Augusto d’Asburgo-Lorena decise di accontentare entrambi conducendo un attacco su due direttive e quindi diluendo le forze lungo tutto il fronte.
67 Thompson, pp. 361-364 68 Pieropan, p. 637
L’offensiva iniziò con un attacco diversivo presso il passo del Tonale, che fu facilmente respinto dagli italiani. Gli obiettivi dell’offensiva erano stati rivelati agli italiani da alcuni disertori, permettendo ai difensori di spostare due armate direttamente nelle zone prestabilite dal nemico. L’offensiva di Conrad sul monte Grappa si risolse quasi subito in un grave insuccesso, con miseri guadagni territoriali in poco tempo annullati dai contrattacchi degli italiani. Sul Piave la situazione sembrò andare meglio: la massa degli uomini di Borojević riuscì a fare breccia e a stabilire una serie di teste di ponte in particolare nella zona del monte Montello, già il primo giorno 100.000 soldati austro-ungarici furono traghettati sulla sponda meridionale del Piave ma il corso ingrossato dalle piogge e il fuoco dell’artiglieria italiana impedirono di stabilire un sicuro passaggio sul fiume.
Il secondo giorno divenne chiaro che l’offensiva era fallita: gli austro-ungarici rimasero bloccati, all’interno delle loro teste di ponte, dalla dura resistenza degli italiani che, il 19 giugno, passarono al contrattacco. Senza più riserve con cui alimentare l’offensiva il mantenimento delle teste di ponte diveniva inutile e la sera del 20 giugno l’alto comando austro-ungarico ordinò la ritirata: gli ultimi reparti di Borojević lasciarono la sponda meridionale il 23 giugno concludendo così la battaglia. Dopo sei mesi di rinforzo e riorganizzazione l’esercito italiano fu capace di resistere all’attacco, ma Diaz non sfruttò l’occasione per contrattaccare: il generale, temendo che la controffensiva non avrebbe avuto l’effetto sperato volle aspettare i rinforzi statunitensi e che però gli furono negati, solo un reggimento di fanteria dello United States Army e pochi reparti di supporto furono inviati in Italia. L’esercito italiano rimase quindi sulla difensiva, anche perché le perdite dell’Italia erano state elevatissime: 87.000 uomini, di cui 43.000 prigionieri. Determinante per le forze italiane fu l’apporto dell’aviazione, soprattutto nelle azioni d’appoggio tattico, di bombardamento e d’interdizione. Nel corso delle operazioni, il 19 giugno fu abbattuto sul Montello l’asso della caccia italiana Francesco Baracca che aveva ottenuto ben 34 vittorie. La conquista della supremazia aerea da parte italiana venne confermata dalla pacifica incursione di sette biplani monomotori SVA sulla capitale austriaca il 9 agosto 1918 dove la forma-
zione italiana, guidata da Gabriele D’Annunzio, lanciò migliaia di manifesti tricolori.
La battaglia del Piave e la fine della guerra.
Tra luglio e ottobre 1918 la consistenza delle forze austro-ungariche sul fronte italiano scese da 650.000 a 400.000 effettivi; agli uomini messi fuori combattimento dalle malattie (l’influenza spagnola fece la sua comparsa attorno a Padova in luglio e da qui si spostò verso est) e dalla carenza di viveri si sommarono le sempre più estese diserzioni, favorite da una costante erosione del morale causata dalla sempre più insistente propaganda nemica e dalla diffusione ormai incontrollata delle istanze nazionaliste nell’Impero. Anche così, tuttavia, le forze di Borojević mantennero una certa coesione: non vi furono ammutinamenti tra i soldati almeno fino alla fine di ottobre, e anche allora furono limitati a pochi reparti. Sull’altro lato del fronte, le forze di Diaz continuavano invece a crescere: per ottobre erano disponibili 57 divisioni di fanteria e quattro di cavalleria, tra cui tre divisioni britanniche, due francesi e una cecoslovacca, distribuite in una serie di armate più piccole e maneggevoli di quelle dei tempi delle battaglie dell’Isonzo; la superiorità degli Alleati in fatto di artiglieria e aerei era schiacciante, ma Diaz continuava a rimandare il lancio di un’offensiva risolutiva finché gli eventi non divennero più incalzanti. Ai primi di agosto 1918, ormai esaurito l’impeto dell’offensiva tedesca, gli Alleati passarono al contrattacco lungo l’intero fronte occidentale e, a settembre, avevano ormai messo in rotta il nemico. Orlando e Sonnino, oltre ai comandi alleati, iniziarono a fare pressioni perché anche Diaz desse inizio all’attacco risolutivo, il generale dovette piegarsi agli ordini. Il piano italiano fu pronto per il 9 ottobre e i primi ordini operativi raggiunsero i comandi il 12 ottobre. Alla 4ª Armata del generale Gaetano Giardino fu affidato l’importante compito di dividere la massa austro-ungarica del Trentino da quella del Piave attaccando sul fronte del monte Grappa, mentre l’8ª, la 10ª e la 12ª Armata avrebbero attaccato lungo il fiume.
Diaz elaborò un piano di attacco massiccio su un unico punto invece che su tutta la linea, nel tentativo di sfondare le difese e tagliare le vie di collegamento con le retrovie. La scelta ricadde sulla cittadina di Vittorio Veneto, considerata un probabile punto di rottura, infatti in questa città si trovava la congiunzione tra la 5ª e la 6ª Armata austro-ungarica. L’attacco del generale Giardino sul Grappa iniziò in perfetto orario il 24 ottobre, anche se le piogge e l’ingrossarsi delle acque del Piave avevano obbligato a posticipare l’inizio dell’offensiva lungo il corso del fiume. Durante il primo giorno e nei i tre giorni successivi l’offensiva della 4ª Armata non ebbe successo e in alcuni punti le minime avanzate italiane subirono il contrattacco nemico che riuscì a riconquistare le posizioni perse. Le condizioni meteorologiche ritardarono l’inizio dell’offensiva sul Piave fino alla sera del 26 ottobre: le truppe italiane, britanniche e francesi riuscirono a stabilire delle teste di ponte sulla riva settentrionale nonostante la dura resistenza degli austro-ungarici e la difficoltà di gettare delle passerelle sul corso in piena del fiume; il 28 ottobre il comando supremo italiano dispose la prosecuzione dell’offensiva a tempo indeterminato affinché l’attacco sul Piave non fosse uscito dalla fase di stallo.
L’Austria-Ungheria era ormai in preda a forti disordini interni, e la crisi interna dell’Impero si ripercosse sul fronte: i reparti imperiali iniziarono a dividersi su base etnica e nazionale, rifiutandosi di eseguire gli ordini degli alti comandi. Dopo aver ordinato ,già il 28 ottobre, un primo arretramento sul corso del fiume Monticano, la sera del 29 ottobre il generale Borojević ottenne infine dall’alto comando l’autorizzazione ad avviare una ritirata generale lungo tutto il fronte. Il 30 ottobre le forze italiane dilagarono in massa oltre il Piave lanciandosi all’inseguimento dei reparti austro-ungarici: la resistenza delle retroguardie nemiche si rivelò debole, e quella stessa mattina i primi contingenti italiani entrarono a Vittorio Veneto, circa 16 chilometri oltre il Piave, raggiungendo poi il corso della Livenza.
Il 28 ottobre l’Austria-Ungheria chiese agli Alleati l’armistizio: l’impero che aveva aperto le ostilità attaccando la Serbia nel 1914 era ormai giunto alla fine del suo percorso politico, culturale, sociale e militare, la nazione era al collasso, e i diversi movimenti indipendentisti stavano facendo di tutto per sfruttare la
situazione. A Praga la richiesta di armistizio provocò una decisa reazione dei cechi: il Consiglio nazionale cecoslovacco si riunì a palazzo Gregor, dove si era costituito tre mesi prima, e assunse le funzioni di un vero e proprio governo, impartendo agli ufficiali austriaci nel castello di Hrad any l’ordine di trasferire i poteri, assumendo il controllo della città e proclamando l’indipendenza dello Stato ceco. Quella sera le truppe austriache nel castello deposero le armi. Sempre quello stesso giorno, il Parlamento croato dichiarò che, da quel momento, Croazia e Dalmazia avrebbero fatto parte di uno “Stato nazionale sovrano di sloveni, croati e serbi”; analoghe dichiarazioni pronunciate a Laibach e Sarajevo legavano queste regioni all’emergente Stato slavo meridionale della Jugoslavia. Il 29 ottobre il Consiglio nazionale slovacco si associò in una nuova entità, insistendo sul diritto della regione slovacca alla “libera autodeterminazione”. Il 30 ottobre vennero fatti prigionieri più di 33.000 soldati austro-ungarici, mentre a Vienna il governo imperiale continuava ad adoperarsi per giungere all’armistizio con gli Alleati. Anche il porto austriaco di Fiume, che due giorni prima era stato dichiarato parte dello Stato slavo meridionale, proclamò la propria indipendenza chiedendo di unirsi all’Italia.
A Budapest il conte Károlyi formò un governo ungherese e, col consenso di Carlo I, rescisse i legami che fin dal 1867 avevano tenuto insieme l’Austria e l’Ungheria intavolando trattative con le forze francesi in Serbia. Quello stesso 30 ottobre Carlo consegnò la flotta austro-ungarica agli slavi meridionali e la flottiglia del Danubio all’Ungheria, mentre una delegazione austriaca per l’armistizio arrivò in Italia, a Villa Giusti nei pressi di Padova. Il 1º novembre Sarajevo si dichiarò parte dello “Stato sovrano degli slavi meridionali”, mentre Vienna e a Budapest era ormai scoppiata la rivoluzione Il 3 novembre l’Austria firmò l’armistizio che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, mentre a Vienna continuava la rivoluzione. Lo stesso giorno, mentre sul fronte occidentale gli Alleati accolsero la richiesta formale di armistizio avanzata dal governo tedesco, gli italiani entrarono a Trento e la Regia Marina sbarcò a Trieste.