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VI

DI PATTUGLIA IN PACE E IN GUERRA.

In certi momenti è stra no a pensars i : come se la cosa non solo non riguardasse, personalmente, ciascun uomo, a cominci are da me, da te, ma non ri guardasse neppure l'umanità in generale. La ricerca del nemico, dell e ca u se di insicurezza, di pericolo, di morte; in un a parola, di ostilità, di avversità, comincia sempre, istintivamente, d a qualche palmo fuori di noi, mai da d entro di noi. Per trovare casi di ricerca dell 'elemento os tile che cominci di den tro in vece che di fuori bisogna andare in mezzo ai più autentici tra i religiosi, quelli che sono insi eme asceti e mistici. Perché anche tra gli uomini ufficialmente o dichiar atamente teligiosi, o uffi cialmente e dichiaratamente filosofi (nel vero senso d ella parola, non in qu ello troppo allargato, a sacco, in cui oggi ri entrano anche i semplici « informati >> e « informatori >> sulla e della materia), anche tra questi la ricerca , gira e rigira, comincia sempre da fuori. Bisogna guardarsi intorno, non dentro.

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E' la realtà, che finisce per diventare principio, dalla qual e si ge nera il fenomeno << pattuglia >> Un fenom e no intenso, ricco di spinte e di suggestioni , capace, come momento della vita da soldati, di concentrare in sé alcuni tra gli elementi, reali e simbolici, più significativi d eli 'i ntera esistenza.

Infa tti, è cosa strana a pensarsi solo di tanto in tanto: or dinariame nte , è un'operazione di prima necessità. Il problema d ella conoscenza, cessato il dormiveglia primordi ale, si è probabilmente posto come bisogno di uscire « di pattug lia n nello spazio circostante , sempre più ampio , se mpre più attraente , ed anche sempre più difficile, inquietante , minaccioso. Il mond o cresceva, e crescevano in esso le « pattuglie», si moltiplicava il numero degli uomini bisognosi e bramosi di conoscere, di sapere, per potersi difendere e sop ravviv ere in sempre piU spietata concor renz a. Perfettamente logico, dunque, il fatto che l'operazione si sia, col consolidarsi della organizzazione umana, istituzionalizzata, e che gli eserciti, dai primi , costituiti di lapidatori e bastonatori, a quelli odierni, costituiti di manovratori di sempre più p erfette macchine per lapidare e bastonare, abbiano continuato a lavorar di pattuglie , in pace e in guer ra. Sono usciti « di pattuglia » avventurieri e d esploratori , scopritori di nuo ve terre e di nuovi mercati; in nome di Dio e di id eali supremi, apostoli e missio nari , scienziati (i non troppi da chiamare con questo n ome), archeologi, ambasciatori, artisti. Conosce re e sapere per conoscere, conoscere e sapere per difendersi; piccole cose per piccoli gruppi, g randi o enormi cose per popoli, per tutta l 'uma nità; in una sintesi poderosa di lun ghe anal isi , in un'analisi labirintica di folte sintesi, senza tregua, se nz a quartiere. La scienza disarma armando; le armi si scientizzano disarmando. Da quanto tempo sia mo « di pattuglia >> ?

Anche qu ei formidabili esemplari umani che sono gli astronauti, a n ch e loro, li abbiamo mandati fuori della Terra, sulla Lun a, « di pattuglia )) Sempre più difficile, sempre più scientifico, sempre più complesso, sempre più lontano; ma sempre la stessa sostanza. Pattuglia l'intelletto perché il mistero alimenta l'eternità; pattu glia la volo ntà di bene, perché il male batterà tutte le strade del mond o fino alla consumazione del tem po.

Non crediamo che gli artisti delle cui opere ci occupiamo abbiano avuto questi pensieri per la mente nel crea re le loro pattuglie. Crediamo, invece , perché lo sappiamo, e vogliamo anche dirl o, che questi pensieri ci sono nati g uardand o, leggendo, i loro testi, parlando in silenzio coi loro personaggi. Si tratta, in ve rità , di quattro 11 stra ni >> testi, diversi, anzi, diversissimi, tra loro, eppu re complementar i , be n più di quanto non lo faccia ritenere il legame che li stringe nel contesto del capitolo, este rno perché voluto da noi. Ma forse saranno proprio le nostre considerazioni a parer strane: secondo noi, infatti , è come se ciascuno autori ci pr op onesse una piccola sintesi sto ri ca del te pattu gliare >> att raverso (nell'ordine) due , ancora due, sette, tre autoritratti. E non nel se n so, scontato , della soggettit,ità d'ogni ve ra opera d'arte , e del -suo esser sempre, in qualche modo, autobiografia; in quello letterale. Come se ogni autore, dal di dentro d'ogni personaggio , volesse dire: « Ecco , questo è esser di pattuglia. Te lo dico io, che ci sono>> In termini convenzionali, da tempo s uperati ma ancora bu o ni quando si voglion dire certe cose difficili a dirsi : (( poesia », non 11 narrativa » ; << poesia lirica ))' non << epica )) . Se nel parlare, in sede più o meno critica , interpretativa, d'arte , di opere d 'ar te , fosse lecito e oppo rtun o fare d ei complimenti, quanto detto sarebbe un com plimento. La massima aspirazio ne, non solo dei poeti (che solo ogni tanto ci riescono), ma di tutti gli artisti, è e resta pur sempre qu ella di raggiungere e varcare la soglia della p oesia : ovvero , trasmettere u n mucchio di cose in più di quelle che si è riusciti a dire.

Per questo motivo, e per n ess un altro , non ce la sentiamo di co ndividere alcune interpretazioni del primo testo: « Carabinieri >> di PHILIPPE MALIAVINE. Si tratta, a nostro parere, di gi udizi sommari, e soprattutto di collocazioni entro simbolici schemi di giudizio dall 'este rno: non fanno torto , ma neppure rendono giusti zia all'Autore e all'o p era; non sono s uperficiali, se tali appaiono, ma sono senz'altro limitati vi ed an c he un tantino fuorvianti. Maliavine , un ru sso trapiantato in Europa dopo la prima guerra mondiale, ru sso era e russo rimase , co m e pittore perché come uomo, anche in m ezzo ai vitali « >> di una città come Pari g i (la Parigi del primo trentennio del Nove ce nto, pregna di tutti i germi, bacilli e fermenti dell'ultimo Ottoce nto). Egli aveva, pertanto, la sua spettanza di misticismo e di pred isposizione alle visioni s imboliche, alle trasposizioni ideal izzanti. Ave - va, però, anche la sua congrua spettanza di esiste n zialismo, latente almeno, di coscienzialismo (q uesto , fuor di dubbio, patente, strarip ante); il dramma del colore, della luce, dell ' anima, nei contrasti col co rpo, lo portava nelle viscere. E qualcosa di viscerale , di cupamente luminoso e di luminosamente cupo, abbiamo sentito fin dal primo sguardo affondato in quest 'o p era. Vale a dire, qualcosa di diametralmente opposto a ciò che si sente in presenza di opere che si propongano di rappresentare, attraverso figure (o gest i, o sguardi ) di uomini, i val ori , gl i ideali , gl i ammaestramenti, dei quali g li uomini raffigurati sono portatori ed esempi. Opere del ge nere sono tra le più insignificanti e stucchevoli di tutta la s toria dell'arte; né potrebbe essere diversamente, dal momento che l'arte, capacissima di darci la luna nel pozzo, non potrà mai darci idee, concetti, valori , ma so ltanto uomini ai quali idee, concetti e valori si possano riferire e attribuire dentro la dimensione della verità artistica. La quale dimensione è una dimensione co ncreta, corposa nella sua « materialità >> particolare, nella sua individuabilità; sempre astraibile, suscettibil e di astrazione, mai veramente astratta, come invece è, per sua natura ancora part icola re, la dimen sio ne dei concet ti , delle idee, dei valori.

Questi sono, e mirab ilmente , due Carabinie ri; ma non visti e rappresentati uniformologica mente, e come tali destinati ad una raccolta, per album o pareti, di figurini didatticosimbolici. Questi sono due veri Carabinieri (anzi, ca rabinieri), due uomini colt i nel pieno d'un momento di vita, nel vivo di un servizio: sono due carabinieri di pattuglia, fermati dall'artista nell'atto di intimare l'alto a qualcuno o ad alcuni che è inutile f ar ve d ere; inutile e in perfetto contrasto co n l'is pirazione. Perché l'episodio può essere uno d e i tanti e tanti , ma i due personaggi no; almeno per l'artista nel momento in cui ne è talmente « preso » da far se ne plagiare o addirittura assimil are. I due personaggi sono due unici irrepetibili in una situazio ne che si è g ià ripe t uta e si continuerà a rip etere Quando un artista sente, dentro di sé, che una illuminazione di particolare intensità può non verificarsi mai più nella sua vita, nonostante l'alto grado di probabilità che tornino a verificarsi certe condizioni esteriori, occasionali, che l 'hanno resa possibile, la fronteggia, le intìma l'alto, la ferma; da artista. Sono i personaggi che contano, e in mod o preminente, dominante , i loro volti; e nei loro gli occhi, dalle cui scaturigini l'artista stesso guarda, e guardando chiede e dà identità. La tecnica del « primo piano », inventata dalla pittura e ben app resa ed esaltata dal cinema con l'ausilio dei suoi potenti mezzi, era a questo punto, più che formalmente di rigore, l'unica a garantire una soluzione, una resa, adeguata all'ispirazione. Chi, se non lo stesso Maliavine, è costretto a vedere così tagliate ed incombenti le due figure? A sentirsi penetrato, frugato, sviscerato e svuotato d'ogni velleità, senza scampo, da qu ello sguardo a due, composito ma unitario? Gli capitò d'esser fermato , non importa se in Italia? E' ben probabile. Se al buio, o nella penombra, ti si parano di fronte due veri carabinieri di pattuglia, e inattesi, silenziosi, perentori come due apparizioni, è quanto si può vedere, in tutta la sua forza: una nera trincea di mantelli sciolti l'uno nell'altro, due neri simboli- copricapo, d'antica, misterica, fattura, con accensioni di bianco, rosso e giallo, e in mezzo due volti di soldati, di combattenti, che parlano con quattro occhi fusi in uno, e, al loro fianco , una mano che ha il potere di quattro. E se la scena, o meglio l'evento, dei due volti, si staglia su un violento fondale che sembra quello d'un miniaturizzato cataclisma di colori fatti pietra, di cui la mano è quasi parte ma viva, esso prende a sapere di mito; di mito nascente, non di allegoria morta.

Comunque, sia o meno il ricordo autobiografico d 'un altolà ri cevuto, chissà dove e da chissà quali altri soldati, l'opera è turgida, tesa, di motivi ancestrali e di altri non recenti ma non ancora nel profondo; e fa, veramente, barriera. Nel volto di sinistra c'è una specie di transfert che dali' artista va alla figura; in quello di destra ce n'è un altro in direzione dell'artista. Sotto il nembo dei mantelli c'è un intero mondo sepolto per continuare a vivere. La trama dei transfert è sottile ma robusta. Più robusta, però, ci sembra la ve rit à, artistica e storica, del testo. Il carabiniere di destra non ci sembra meno deciso dell 'altro. Si guardi bene la sua mano: è una mano che non ammette disobbedienza all'ordine, e richiama la mano invisibile con la quale l'altro già impugna, per ogni evenienza, l'arma cui gli occhi già inchiodano un bersaglio. Non è un altolà qualunque , d'ordinaria amministrazione; per noi ha tutto il necessario per esser letto come un altolà conclusivo e decisivo. Saremmo tentati di dire , immedesimandoci, che la pattuglia ha portato a termine il suo lavoro: missione compiuta. L'uomo a destra , dato di voce, comanda con la mano; ma col volto trasmette: << Ci siamo; in guardia! )> L 'uomo a sinistra risponde: « Sembra anche a me; ci sto!»; e la sua diffidenza, nel volto che lascia sporgere solo il naso e gli occhi sbarrati , è già temibile certezza. Giusti e implacabili, incorruttibili, entrambi; ma entrambi coscienti , pur nella loro solidità e fermezza, di camminare su un filo, che è poi, proprio, quello della loro abbastanza svelata umanità . Quell'unico ammanto nero fermentato di rosso! E' importante per tutt'e due; un po' di protezione fa sempre bene. Sotto di esso, intimamente fuso col mondo dell'artista, c'è anche il loro mondo. Quello squarcio apocalittico, in fondo, con lo zolfo di quella astrazione gialla, dice che vengono da lontano e che lontano dovranno andare. Ma ogni volta, come questa, è almeno possibile che il peggio stia alle spalle .

Il secondo testo, « Carabinieri nella tormenta » di GrusEPPE BERTI, consiglia, o piuttosto vuole, un altro modo di leggere. E non soltanto perché si tratta di scultura, e le ragioni plastiche sono ben distinte, pur se complementari, da quelle pittoriche; ma anche e soprattutto perché ci troviamo di fronte a due figure viste, guardate e trasposte in modo, diremmo, diametralm ente opposto a quello in cui son viste, guardate e trasposte le due figure precedenti. Là erano due volti a dire tutto, anche dell'artista e dei suoi problemi; due volti tutt'occhi e una mano. Qua il racconto è affidato all'insieme, non solo di ciascun personaggio, ma dell'unità di entrambi Le persone vanno n ella tormenta, nuotano a tutto spazio con un impegno che è costretto a d istri- buirsi proporziona lmente ed equilibratamente dalle teste ai piedi; il centro creativo ha coinciso, d ' obbl igo, con la loro concentrazione mentale, e quindi nascosta, rappresentabile soltanto attraverso l'eloquenza dell ' intero modellato. E nel modellato rientrano, fino ad ingannare con un'apparente inespressività, i due volti , dai quali un osservatore , istintivamente, vorrebbe segni più vistosi, appariscenti, dello sforzo, del piccolo dramma che è pur sempre un andare nella tormenta. Bel guaio, per i due carabinieri, se Berti avesse anch'egli indulto all'esigenza istintiva di caricare dall'esterno le due fisonomie! C'era, in agguato, il pericolo d ' affrontare più spavaldamente la tormenta, magari con la faccia feroce, ma alla stregua di due pupazzi, non di due carabinieri, « di pattuglia» , sì, e nella tormenta , ma tenuti e obbedienti, in proprio ormai, ad uno stile secondo il quale il coraggio è anzitutto compostezza, padronanza, dominio, nonché dei sentimenti, degli stessi muscoli facciali. Lo sforzo c'è, la tensione è completa, ma non appare: si diffonde, emana, modula dall'interno la composizione quanto dall'esterno il vento modula il morbido panneggio dei mantelli . Faremmo torto al lettore se lo invitassimo a non dimenticare che il pregio d'un ' opera d'arte, specie d'una scultura (per via della maggiore elementarità dei mezzi espressivi) , è anzitutto nella misura. Questi « Carabinieri nella tormenta » , come i personaggi di qualche altra opera plastica della quale parliamo, presentandola, più avanti, guardati troppo di passaggio, accendono più il desiderio d'averli per soprammobil e, di gusto e di valore , che il bisogno di contemplarli, anzitutto, come un'autentica opera d'ar t e. Abbiamo, meditatamente, fatto posto al fenomeno « soprammobile » per avere, come ulteriore punto di riferimento, la componente ornamentale che, sempre inclusa dall'arte, non sempre include l'arte. A chi non piacerebbe tenersi come « soprammobile >>, su un adeguato mobile, beninteso! il « Puttino »? Ci accontenteremmo del <<Pescatore » o dell' « Acquaiolo » di Gemito. E persino del bronzetto nuragico raffigurante « La madre dell'ucciso», o in cotal modo denominato (in originale!). Ma è un altro discorso.

A molte opere d ' arte capita quel che capita a molte donne belle , ma veramente , epperò poco vistose: prive di trucco , vestite cqn eleganza (cioè, con sobria proprietà, rispond ente al « personale n , alla carnagione, al colore dei capelli, all'età) , un po ' st acc a te , magari per mod estia, e magari pure per timidezza, dall'andatura poco pendolare. Donne simili non fanno voltare i passanti, non mugohno e non urlano con · le curve e coi colori; ma avvicinate, sono spesso un vero splendore. Così certe opere d'arte. N on parliamo di quelle ormai celebri , (( arrivate )) ' da secoli o da decenni, e delle quali tutti riescono a godere per merito dei non molti che si fermarono e le avvicinarono. Parliamo di quelle che ancora o tuttora si barcamenano in musei o collezioni, viste da tutti , guardate da pochi: non hanno, povere! sex - appeal e se non fossero quadri o statue « resterebbero zitelle >>

Il paragone possa non suonar molesto, perché, in fede, cal z a; e in questa sede si può proprio dire che calza a pennello e pure a scalpello.

A voler strafare in una buona lettura, si potrebbe indicare, in questa opera, qualcosa << che non va >> : un eccesso di eleganza, una finezza decisamente aristocratica, più da sfilata in alta uniforme che da pattuglia sotto la tormenta. Ma è un eccesso così veramente elegante , una finezza così veramente aristocratica, di fattura, beninteso, di modellato, che si fa perdonare senza troppe esitazioni. D'altra parte, e non possiamo tacerlo , una dose (un buon pugno! ) di allegorismo il Be r ti l 'ha messa, nell'impasto, e non ha saputo o forse non ha voluto nasconderne, mascherarne, la presenza. Ma che diciamo? Lo ha messo bene in mostra, nella certezza di non uccidere, neanche così facendo , l'arte, la sua arte. Basta guardare con attenzione i due per accorgersi che si somigliano come due gemelli: salva qualche impercettibile sfumatura, sono due copie d'uno stesso ritratto. Ora , uno scultore come Berti non aveva certo difficoltà a modellare due teste diverse, magari a contrasto esteriore, in contrasto intimo, espressivo. Se non l'ha fatto, pur sapendolo fare, l'ha fatto a ragion veduta: voleva che dalle due figure , dalla loro interiorità, emanasse una forza simbolico- allegorica, senza bisogno di imporre ad esse, dal di fuori, nel modellarle, le camicie di forza, vale a dire i gesti, gli atteggiamenti convenzionali di tutte le opere che debbono significare, rappresentare, tutto tranne se stesse e il lor o autore. Un solo carabin iere in due persone; due carabinieri in una sola persona. Una sola maestà d'incedere resistendo al vento, una sola potenza di passo nella solitudine ingrandita dalla tormenta, una sola intensità di pensieri concentrati sullo scopo della pattuglia. Un autoritratto sdoppiato, in cui la doppia figura è quella dell'Autore , assimilato al compagno di marcia che, alla sua destra (a sinistra di chi guarda), appare più raccolto in sé, quasi più solo.

Un'allegoria, un simbolismo, dunque, che l'arte ha risolto, di prepotenza, a vantaggio di se stessa. Sotto il panneggio del carabiniereautore, evidenziato a sbalzo, a morbido e vigoroso sbalzo, c'è quel braccio sinistro che abbraccia e stringe la sua persona, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, non al modo d'un monumento celebrativo a schema obbligato, d'una figura allegorica, ma al modo d'un vivente, che sta affrontando, ora e davvero, una prova.

E che la stia affrontando con eleganza, con finezza, insomma, con grande stile, significa non solo che l'artista ha voluto rendere un omaggio ad una realtà in siffatta dimensione da lui collocata,. ma anche, e forse di più , che in tale dimensione si sente idealmente collocato egli stesso.

Quando l'arte, vorremmo dire per concludere, è poesia, è sempre testimonianza. Ma il testimone bisogna ascoltarlo, specie quando è sicuramente veritiero, con religiosa attenzione. Soltanto così è possibile affrontare la responsabilità d'un giudizio, sia sul testimone, anzitutto, sia sui fatti che egli illumina per noi.

E' tutto, sempre e in tutto, meno semplice di quanto noi vorremmo e di quanto non lo rendano certi nostri curiosi sforzi di semplificazione. Di certi silenzi, non di certe parole, bisogna aver paura.

Ed eccoci ai due testi dedicati alla pattuglia in guerra. Il primo è un grande quadro a tempera (tre metri per due) di AooLF'o GIUSEPPE

RoLLA: << Pattuglia (di territoriali) in perlustrazione sul fronte greco».

E' un'opera ingannevole, insidiosa, nei confronti d 'una lettura e del relativo giudizio: forse proprio per questo motivo ci è parsa interessante, importante, e valida insieme come fonte di godimento estetico e come test.

La prima reazione, da parte di molti lettori (come, a suo tempo, da parte rtostra) potrebbe tradursi in questi termini: « Si tratta veramente d'una pattuglia in perlustrazione su un fronte di guerra, oppure d 'una pattuglia all'opera durante un'esercitazione tattica? >>. E a dire il vero, l'opera, che piace subito, piace sostanzialmente per la pace, la quiete, la curiosa serenità che la luc e, i colori, il silenzio tangibile e auscultabìle del paesaggio, anzi, dello spazio pittorico in tutta la sua estensione, danno ai personaggi così palesemente, dichiaratamente, « in armi ))' e che questi, a loro volta, trasmettono immediatamente a chi guarda. Un confronto mentale, anche rapido, coi due testi precedenti, coi carabinieri dipinti e con quelli scolpiti, si conclude con l'afferche là siamo in guerra e qua, invece, Siamo m pace.

La seconda reazione, perdurando il senso di godimento, di piacere estetico, è di perplessità: nascono dubbi e riserve più strettamente pertinenti alla qualità artistica dell'opera, legati alla coerenza, all'unità tra la materia e l'espressione; e diciamo, senza falsi timori, tra il tema e il suo svolgimento. Non vorremmo malamente inciamparé e cadere sulla partenza, ma, ecco: si è tentati di attribuire il go dimento, il senso di piacere estetico, al ritmo, alla danza lenta di sette figure che ci si potrebbero trasformare, sotto gli occhi, in quelle di sette attori in una qualunque delle personificazioni di cui sono capaci. Un balletto : sì! un balletto classico, un coro mimato sul pedale a bocca chiusa della montagna innevata.

Sostituiamo ad una terza reazione una lettura meditata, che si avvalga, però, e della prima e della seconda reazione.

L'opera ha, e dà, un certo senso di pace, di quiete: pace dentro, quiete fuori L'opera ha un andamento elegante, un ritmo pieno di linea, di nitore, un ritmo lucido e sicuro, come se fosse il maturo, naturale, risultato d'una ispirata ma faticata regìa. I sette di pattuglia stanno dove son stati collocati, ma così bene che sembrano entrati tutti, realmente, dal punto in cui sta finendo di entrare l'ultimo

L a prima reazione, e l'obiezione che la traduce, nascono da uno schematismo dominante, più o meno ovunque, da sempre e per sempre, in virtù (o per colpa) del quale tutto ciò che si compie in pace, poiché dot•rebbe compiersi pacificamente, è pacifico; tutto ciò che si compie in guerra, invece, poiché dot' rebbe compiersi bellicosamente, è bellicoso, guerresco. C'è un'imper territa, in correggibile, tendenza a credere, e anche a esigere, che in pace non ci sia guerra e che in guerra non ci sia pace; mentre è vero, purtroppo, solo che ci liberiamo dai troppi schemi mentali e psichici, che guerra e pace, nonché alternarsi, vanno ogni giorno a nozze insieme, dentro ciascun uomo e in mezzo a tutti i popoli: C'è più ferocia in certe pacifiche discussioni di cortile o di mercato che in certe operazioni belliche . E ' che noi incaselliamo il modo organizzato di fare il viso dell'arme dimenticandoci di tutte le volte che noi stessi per primi lo facciamo fuori casella.

La seconda reazione, e la relativa osservazione con giudizio, nascono anch'esse da uno schematismo, analogo a quello che ha generato la prima, secondo i cui condizionamenti tutto ciò che nella vita, in guerra o in pace, si presenta, si muove, suggestio na in un certo modo, somiglia ad un balletto, sembra un balletto; oppure è teatrale, perché il teatro è così e così; oppure è un'altra cosa ancora; mai, o quasi mai, ciò che è, perché questa è la sola verità: che ciò che si presenta, si muove, suggestiona, in un certo modo, è ciò che è presentandosi, muovendosi, suggestio nando in un certo, cioè, in quel modo. Non è lo stesso caso del fiore finto che sembra vero e del fiore vero che sembra finto per quanto è bello . Somiglia , ma non troppo da vicino. E' sempre la solita questione, e ci torniamo perché è uno dei punti fondamentali di questo saggio- proposta: bisogna guardare, leggere, il mondo, quello reale, concreto, con tre, quattro, cinque miliardi di protagonisti , e co n almeno cento, mille alla portata di chiunque. Chi va al balletto o al teatro di prosa, è costretto a guardare, e finisce poi, se una volta fuori non continua a guardare, ma di sua iniziativa, per inquadrare tutto in ciò che lo lzatz costretto a guardare, immobile su una poltrona, per farlo divertire. La danza comincia dal risveglio e termina quando ci addormentiamo. F acciamo teatro a casa, per la strada, sull'autobus, in tribunale, in Parlamento o nell'assemblea del condominio, e persino in chiesa (teatro sacro, l'azione , il dramma della liturgia).

Dunque, bisogna ribaltare il rapporto. Balletto o teatro di prosa sono ritagli, sintesi e riproposizioni di ciò che ciascuno di noi fa senza, spesso, sapere veramente di farlo.

E allora, un artista che produce un'opera partendo dai possibili schemi del balletto, del teatro di prosa, del cinema, applicandoli, imponendoli dal di fuori, può sperare , specie se tecnicamente dotato, di far colpo. Un altro , invece, che parte da ciò che la vita gli suscita, o addirittura da ciò che egl i ha personalmente sperimentato, vissuto, pagato, può rischiare di veder la sua opera giudicata e giustiziata attraverso la sepoltura in uno schema che è solo di chi guarda, o crede di guardare, mentre vede, appena, e non proprio bene. E' polemica? Sicuro! E bisogna pure farla, di tanto in tanto. Non per << spiantar Milano», ma per non spiantare l'arte di tanti veri artisti trascurati in omaggio ed olocausto proprio agli schemi in cui certi trascuratori sono accuratamente ingabbiati.

Cos'è la guerra? Come si comportano gli uomini in guerra? Nessuno può sa perlo meglio di chi c'è stato, di chi l'ha fatta.

Ecco perché, ad una lettura meditata, e lievitata col meglio delle prime impressioni, i « territoriali » di Rolla, appaiono per quelli che sono: soldati in guerra, al fronte, impegnati in quel rischioso << gioco )) che è la perlustrazione. La montagna, in pace o in guerra, è maestosa, e dà pace, finché non aggrotta malamente la fronte e monta in collera. L'uomo concentrato nel silenzio indispensabile quando il rumore più piccolo è carico di pericolo, spira pace e suggerisce quiete, immobilità: il fenomeno diventa più intenso quando sono· più uomini a concentrarsi nello stesso tipo di silenzio. Uomini in questa condizione che si staglino in urr vastò e silenzioso spazio montano, suggerendo un'aggiunta di silenzio coi passi cauti nella neve che sa scricchiolare, sono un 'intensa fonte di suggestione pacificante, anche perché, in parte debita, paralizzante. Il quadro è dipinto di dentro a ciascuno dei sette protagonisti, vissuto attraverso ciascuno; o rivissuto. La paura, da che mondo è mondo, è stata sempre la più fedele compagna del combattente: quando è buona, partorisce coraggio, quando è cattiva, tante altre cose, tra le quali Ja viltà. Lasciamo al lettore la cura di verificare, volto per volto, modo per modo di tenere l'arma, modo per modo di camminare senza far sc ricchiolare la neve , le si ngole personalità. Noi sottolineamo la presenza della paura e il nascere del coraggio in tutla la pattuglia. L'Autore si riassume nel capo- pattuglia, forse, così inte ro , risolto, nella perfetta padronanza di sé, nella semplice eloquenza di quel gesto intimante !'alt; ma ci si riassume dopo avere, e soltanto dopo, fatto sbucare l'ultimo se stesso da proiettare sulla struggente luce d'un 'alba o d'un crepuscolo. Perché così ha potuto analizzare intimamente, nella memoria, e liberare nella dimensione dell'arte, i suoi rapporti con la vita attraverso quelli con la morte in agguato. Danza? Certamente. Ma bisogna vedere chi la mena. Anche in questa composizione, il momento « fermato >> è di quelli pieni di destino. Ci vuoi poco, in quei momenti, ad uscir di scena, proprio mentre è estremamente importante, per se stess i e per gli altri, restarci. Tutt'intorno il clima sembra bruciare a fuoco lento; quello, assurdo, della neve tenuta tra le mani. Sullo sfondo, a destra, un tratto di ponte e l'imboccatura d'una galler ia mettono il mistero del profondo in com unione col mistero dell'alto. Chi c'è davanti ai sette? Che cosa? C'è la parte ostile del mondo, a contrasto, visibile più che se fosse in vista, con questa pace incessantemente minacciata, con questo ritmo alla cui bellezza la vita si difende dalla morte.

Il secondo testo dedi cato alla pattuglia in guerra è un disegno a matita di GrAN LuiGI Uaowr: « Pattuglia», nel quale sembra sca- tenarsi tutto ciò che abbiamo visto premere, urgere, chiuso in una serie di incantesimi , nei tre testi precedenti.

Abbiamo tre uomini presi in un drammatico dinamismo di fuga o di inseguimento: braccano o son braccati da chi li ha scoperti in piena azione di spionaggio dentro le sue lince. Il segno è nervoso, lungo ma scattante; abbozza e sfreccia creando il groviglio della macchia che fa da sfondo e da teatro, in un minuscolo palcoscenico; precisa e sosta dando un'identità, un'anima, al soldato dalla falcata possente, atletica, a quello, èentrale, mezzo raggomitolato , felino, e all'altro che s'inerpica su un greppo, e ne sta affiorando, sulle orme dei compagni. Quest'ultimo è, ci pare, l'ultimo << autoritratto » del capitolo, la sosta minima dell'Autore che segue, per la minicarrellata, l'azione. Una lirica breve in un cavo di epopea, c'antata con una mirabile efficacia sulle due corde d'una matita; un ricordo , ma più d'un appunto. Evoca squilli di tromba eccitanti ad un assalto; o fischi sibilati nell'ombra da sabotatori che abbiano finito di innescare il plastico.

Ci è parso doveroso « ricuperare >> questo testo grafico, sia per la sua indiscutibile bellezza, e sia, pure, per la sua validità di « campione » d'una serie, probabilmente ricca, di testi autentici dei quali giovarsi, in modo e con intenti comple mentari , per rileggere dall'interno, come abbiamo detto , ripetuto, e come ripeteremo, il gran libro dell'Esercito Italiano.

Così, e non altrimenti, in certi cervellotici modi, si so n mossi i nostri soldati. Così, e non altrimenti, si passa sulla Terra, nel mondo, nei momenti che giustamente chiamiamo << della verità >>.

E' come quando si lasciano delle orme, delle impronte, proprie personali o dei mezzi a disposizione impiegati. Tutto ciò che prescinde da quelle impronte, o che le deforma per strumentalizzarle in modo distorto, entra e fa entrare nel caos che è sempre alle spalle e ai fianchi dell'intelligenza.

Così, anche a volerlo, non ci è concesso di considerarci mai al nostro ultimo servizio di pattuglia . Semmai, perennemente al primo.

L A SOSTA: UN COMPLICATO FENOMENO SEMPLICE.

Dimmi come sosti e ti dirò , non chi sei, ma da quale e quanta fatica provieni, e quale e quanta fatica devi ancora affrontare. Su questa base, dopo sarò forse in grado di dirti anche chi sei.

L'uomo, in genere , può mascherare, più e meno, entro certi limiti , qualunque lato del suo essere, in un momento o per un certo tempo; ma la stanchezza può so lo illudersi di masc herarla , sia essa fisica, o psicofisica, sia essa spirituale, o morale, o sia, sbrigativamente , sta nchezza, vera stanchezza, e basta. Nella maggior parte dei casi, anzi, non c'è miglior modo di dar segni di stanchezza che sforzarsi di nasconderla; infatti, ciò facendo, finiamo per perdere, nelle parole e nei gesti, la nostra identità abituale , senza riuscire, peraltro, ad averne un'altra accettabile. Una so rta di sdoppiamento. Chiunque abbia memoria di qualche marcia forzata sa che la storia del « dormire marciando affardellati >> non è una balla. Ne abbiamo avuto esperienza e ne abbiamo un ricordo tipicamente, classicamente, onirico. Naturalmente, stiamo parlando di « stanchezza», di quella coi baffi; voce di sirena e pugno da K.O.

La sosta ha i connotati della stanchezza cui rimedia, fino alle sfumature, e i suoi diversi modi rivelano altrettanti uomini. La sosta è riposo , ma non è « il >> riposo; non solo non è il congedo, ma non è neppure la licenza, sia pur breve. La strada percorsa tira giù l'affaticato in sosta; ma quella da percorrere , come una smania, o come uno sguardo di ghiaccio, lo tira e in sù e in avanti l modi del sostare si diversificano a seconda delle miscele di abbandono e resistenza che si creano, volta a volta, in ognuno e in ciascuno. E la mi sce la , perciò abbiamo di proposito scomodato il verbo cc cr eare n, è opera della persona- lità, dello spirito singolare e di quello di corpo del sostante. Ci viene spontaneo di dire che la sosta appartiene, più che al riposo, ai modi di vivere la fatica. E ci viene pure spontaneo pensare a certe opere d'arte, anche di nobile discendenza, che rappresentano soste, più o meno esplicitamente, ma non , diremmo , come modi di vivere la fatica , bensì come intervalli t r a certe faccende che potrebbero, in fondo , essere certe altre. Su di esse non abbiamo ritenuto di doverci soffermare, nelle nostre ricerche, e manteniamo le nostre riserve. Quando si stempera la verità, cioè, quell'intimissima coerenza tra intuizione e rappresentazione d'un fatto (è un fatto anche una linea, in arte) che va perseguita con fedeltà non meno rigorosa di quella con cui la persegue un vero scienziato, si può anche salvare la faccia della pittura e della scultura; però si gioca, ci si diletta, per non dire che ci si balocca, ma non si crea. Quantomeno, dopo aver dichiarato di voler fare una cosa, se ne fa una parte, o se ne fa addirittura un'altra . E ', in genere, il limite di certe opere che si propongono di rappresentare soldati nei vari momenti della loro vita, ma che in realtà riescono solo a fare delle colorite prediche paesistiche, panegirici del volume, eleganti passi fermi di danze; in definitiva, cose nelle quali i soldati possono essere sostituiti, a piacere , con personaggi di qualunque altro ge n ere, tipo , impegno. Non vogliamo dire che tali risultati siano privi di valore; vogliamo dire, soltanto, che essi ci parlano guardando altrove, come se non si accorgesse ro, o volessero, di proposito, non accorgersi di noi che pure siamo lì dietro formale invito.

I testi scelti rappre se ntano soste di uomini che stanno facendo la guerra; e ciò vale anche per i due del primo testo , sostanzialmente in guerra nonostante siano formalmente in pace, perché si tratta di uomini appartenenti alla stessa dimensione dei quattro delle prime due « pattuglie >> precedentemente presentate: dìremo presto perché.

La sosta tra le fatiche di guerra è il più vero tra i modi di vivere la fatica in sé: essa rappresenta insieme la sintesi concreta e l'immagine- limite di quell'ininterrotta fatica che è l'esistenza, da nessuno consumata senza nutrirne la morte. Ne proponiamo cinque raffigurazioni: la prima è concentrata sulla lotta per la difesa della legge come perenne residuo, nei tempi di pace, delle tensioni morali della guerra; la seconda sembra uno «spuntino>> di memorie e problemi in un angolo di « guarnigione »; la terza racconta, a bassa voce ma in tono epico, di soldati che anche nel sonno continuano a marciare verso la linea del fuoco; la quarta, pervasa di tormento, sconvolge ogni cosa coinvolta nella finta calma che precede immediatamente lo scatenarsi della battaglia; nella quinta, infine, tanto più drammatica quanto più vorrebbe essere umoristica, un uomo che ha già visto in faccia Madama, sfangandola, e che sa di doverci presto rifare, schioda e reinchioda i suoi complessi da trincea in una mescita di retrovia, e trova che la femmina di turno è tutt'altra cosa.

Cominciamo da « La sosta » di MARIO Bucc1 e diciamo subito perché l'abbiamo contemplata tra le soste di uomini in guerra.

Non c'è pace, per il carabiniere, neppure in tempo di pace; il carabiniere è un soldato che trascorre tutta l'esistenza nella dimensione della guerra. Cos'è, infatti_, la guerra? In ciò che, solo, può giustificarla e farla accettare, essa è la lotta contro il male visto nella sua più appariscente ed incessante manifestazione: la negazione ad oltranza, per principio, del << tu » o del <( voi », al fine di affermare ad oltranza, incondizionatamente, l' « io» o il «noi». Tale negazione, che tende, in progressione, a dividere per distruggere, lavora per la morte anche quando, truffando tutti e tutto, suona i violini e i flauti della selezione naturale e storica indispensabile per la continuità della vita, che intanto offende e devasta. Un lavoro a vastissimo, universale, raggio, e ca- pillare, che consiste praticamente nella imposizione programmatica di tutti i doveri al (( tu » o al « voi >> e nella attribuzione di tutti i diritti ali' << io )) o al << noi ».

La lotta dell'uomo contro il male non ha tregua. Ma in stato di guerra ad essa è tenuto e chiamato, direttamente o indirettamente, un intero popolo: fatiche , dolori, sacrifici, fino alla morte, si distribuiscono , pur se mai equamente, tra milioni di cittadini. Quando, invece, lo stato di guerra è cessato, quando sono finite giuridicamente , ufficialmente, le ostilità, quando « ritorna la pace», quei milioni di cittadini riprendono le consuete attività, tornano alle normali occupazioni, e ci tornano, nella stragrande maggioranza, felici, affamati di bene, di opere, di amori, di svaghi entro un ordine che garantisca il sacro equilibrio tra i diritti e i doveri di rutti e di ciascuno. Perché questa è, in parole povere, la sostanza del vivere in pace. Il male, però, non firma nessun trattato di pace, e neppure armistizi, con nessuno; i suoi « no >> continuano, imperterriti, come le raffiche d'un sistema di mitragliere ad alimentazione perpetua. Su scala ridotta, al coperto o non troppo allo scoperto, con sempre nuove, aggiornate, risorse trasformistiche, l' « io » o il « noi >> restano sul sentiero di guerra. Se non ci fosse chi accetta e rintuzza anche in pace la sfida mortale, la nostra storia sarebbe ben presto nulla più che una lunga marcia di rientro in caverna.

Il carabiniere (non lui solo, ma particolarmente lui) sceglie di restare ininterrottamente in guerra perché tutti gli altri, anche i miliziani del dio No, possano , almeno in pace, vivere in pace Chi non capisce queste verità elementari, non potrà mai capire quale sia il segreto, prima ancora che del prestigio o dell'efficienza, della forza intima, morale e anche spirituale, dei nostri carabinieri. Come certi religiosi cui d obbiamo, volenti o nolenti, tante buone e grandi cose della nostra storia, i carabinieri entrano nel mondo e si schierano perennemente in campo aperto soltanto dopo, si direbbe, una dura, severa, ma profondamente umana e civile meditazione delle due bandiere.

Hanno scelto il c< sì >> : sono per un tutto in cui l' « io>> e il « tu >>, il « noi » e il cc voi >> tendano ad affermarsi reciprocamente, senza assurde illusioni o pretese , per realizzare il massimo consentito di unità e di libertà nel rispetto di quei veri e propri patti giurati che sono, come minimo, concedendo a qualunque disincantamento, le leggi. Il << no)) ' pertanto, è il nemico di sempre; ad esso, dic hiarata una volta per tutte, guerra è e guerra sia. Anche sostando.

Il testo di Bucci dà subito il senso anche di questa verità. Basta considerare subito, prima ancora dei due personaggi e dei loro cavalli, la pressione interiore esercitata dalla ristrettezza d ' uno spazio che chiude, rinchiude la scena pur lasciando intravvedere la vastità del territorio da perlustrare C'è un po' di cielo, una linea (senza ricercatezza grafica) di rilievo collinare, un albero come una colonna mozza a destra , un altro accennato, obliquo, a sm1stra, troppo palesemente oppressivo, ostruente, per non esser voluto, un altro ancora, di fattura deliberatamente sommaria, il tanto da creare, con un piumoso verde, il contrappunto alla doppia colorazione ten era della casetta; la quale, sia giusto nei colori, sia nella collocazione, così in cassata e, più che nascosta, protetta, vigilata, mette una nota lievemente infantile nel contesto. Così le figure non hanno molte possibilità di muoversi; stanno come dentro una simbolica nicchia , che dà loro sicurezza, defilandole, ma soprattutto custodendo la concentrazione, vera protagonista incarnata . del quadro. Sul quale son state date interpretazioni più o meno condivisibili proprio relativamente alla trattazione delle due figure umane come di due esemplari, diciamo, antropologici, etnici. A noi sembra, e la nostra è ovviamente un'impressione personale, che la chiave giusta per la lettura di questo testo sia un'altra. Mentre c'è una ben evidenziata diversità tra i due cavalli « in libertà vigilata », con due soste, o modi di sostare, per i due uomini c'è una, e una sola sosta: una sosta a due. Ecco , questo ci ha subito colpito nell'opera di Bucci: la verità sulla sosta di due carabinieri in perlustrazione. Chi è più stanco, dei due? Quello seduto? O non, piuttosto, quello semplicemente ma solennemente, vigorosamente , in piedi? Il se du to è rilassato, mentre il diritto è teso?

Il primo, infatti, sembra perduto dietro qualche ricordo , mentre l'altro sembra « in posa » davanti al Bucci che lo ritrae. Vorremmo dire che, in verità, il carabiniere in piedi , e in piedi alla maniera palese dei non pochi (non -solo tra gli uomini in divisa; per esempio tra gli uomini dei campi e specialmente tra i pastori) che hanno la capacità di riposarsi stando fermi in piedi, integra il relax del carabiniere seduto col suo esser già pronto a muoversi ed eventualmente anche a scattare. Il carabiniere seduto , invece, sembra prestare in silenzio all' altro l'assicurazione della sua vigilanza, e, in parti uguali , anche il <<permesso breve » a qualche pensiero. In definitiva, secondo noi , i due stanno in modo mirabilmente unitario , complementare. Le mani del seduto sono, plasticamente, due mani pronte ad agguantare, non meno di quelle del diritto, divise tra la briglia e la criniera. Lo sguardo fiero dell'uno è anche pensoso; lo sguardo pensoso dell 'altro è, in realtà, pensoso con diversa ma uguale fierezza. Tra due che un impegno profondamente sentito profondamente unisce, sempre , e tipicamente nel mondo dei carabinieri, la diversificazione è un'ulteriore prova di unità, di vera unità. C'è, e non crediamo di inventarla , ovvero di proiettare un'impressione sulla oggettività intima, una grande coerenza anche nel rapporto dei due cavalli tra di loro e coi rispettivi cavalieri. Un primo piano di testa notevolmente bello sul fondo d'uno scorcio disegnato a linee dolci, musicali; il primo, realistico, d'una familiare pateticità, il secondo più << evocato », con una leggera punta di fiabesco; l'uno e l'altro con una resa coloristica veramente felice. Il cavallo del seduto sembra svagato, meno concentrato, come il suo amico in divisa, ma sta, a suo modo, in piedi e <s affardellato » ; l'altro punta il suolo, fo rse qualche ciuffo d'erba, ma la cosa più importante che sta facendo è, a nostro avviso , la seconda nota lievemente infantile della scena: il romanticone si sta godendo le rudi ma affettuose cc carezze » sulla criniera. Decisamente, questo ci sembra un elemento di rilievo, di tutto rilievo. L'unità è çlunque completa: una sosta a quattro, con tanta umanità. Il fiero in piedi è uno cui nulla potrebbe sfuggire con facilità, ed è ben teso; ma il suo cavallo è il suo cavallo, la mano sulla criniera tradisce un incontenibile sentim ento . E se è vero che l'altro sembra perduto dietro qualche ricordo , è vero anche che proprio su quella mano e su quella crinie ra semb ra volto il suo sguardo. Così come sul piede sinistro del seduto sembra dirigersi, in uno dei moti di collo ùpicamente equini, il muso del dolce (sì, è decisamente dolce) animale, non più giovane e, a guardarlo, il più stanco dei quattro.

E' la sosta di due, anzi, di quattro , che si conoscono bene e continuano a condividere gesti, pensieri, affetti, che condividono da tempo e che per molto tempo, forse, continueranno a condividere. L'unico vero contrasto, nell'opera, ove ci fosse , potrebbe essere indicato, e come una nota positiva, nel modo di portare la divisa, da parte di ciascuno dei due, anche in perlustrazione, in aperta campagna, con la strada già fatta e con tutta quella sugge rita dallo sfondo ancora da fare. Non è una « battuta >> : è una cosa importante, che atùene alla comp rensione d'uno stile, e non certo in se n so- formale.

Quanto diversa l'angolazione cui ci costringe il testo di UMBERTO FRANCI dedicato a « Soldati di guarnigione» l Anche qui, poco spazio e qualcosa di incombente che incapsula per far vedere un clima che si potrebbe solo sentire e ben di dcmtro , nel profondo del cuore. Oltretutto, trattandosi d'una silografia, non c'è possibilità di scampo attraverso i colori. Sulla destra, l'apertura indica un sistema di altre chiusure: si è protetti, ma ciò che protegge è anche ciò che favorisce le insidie: attacchi improvvisi, agguati, taglio di rifornimenti. In questa sorta di antico castello naturale, i soldati hanno un curioso essere, stare e muoversi d'armi geri vecchio stampo. Infatti, con una interessante fedeltà mimetica all'ispirazione, il Franci ha messo al centro della scena un « narratore», che a giudicare dall'ampio, pacato gesto oratorio e dall'intento ascolto dei commilitoni, è dotato di eloquenza. Accosciato ma con mi certo garbato stile, che salva, quasi uno strascico, il panneggio della « palandrana >>, è evide nte che dice cose di grande importanza: in quei punti, fisici e spirituali, dell'esistenza le cose importanti attengono alla vita o alla morte, con un taglio netto; e quando se ne parla in un certo tono , si finisce per profetizzare. Profetico, infatti, è l'atteggiamento di quel volto e di quel braccio levati, in sintonia, verso il commilitone che ascolta in piedi, appoggiato al fucile come ad un bordone, e verso la materia del narrare, invisibile ma dominante. Entrambi i due in ascolto, anche quello seduto, mezzo disteso, ma col fucile ben st r etto nella mano sinistra, sono in atteggiamento da discepoli; non è un « chiacchierare»; è, pur se l'argomento fosse una previsione sulla durata delle operazioni, o su una << pattuglia >> imminente, o la comunicazione di notizie da casa, un vero e proprio filosofare, nel quale so n coil).volti persino i muletti ai quali guardano, rilassati, i due che, uniti da un gesto fraterno, si appartano in vena di confidenze. Intanto, sulla sinistra, un altro soldato sembra in atto di scivolare dalla scarpata, aiutandosi col fucile, quasi attratto da qualche rum ore sospetto, o dal bisogno di muoversi. Sentiamo di dover confermare : ci sem brano , tutti, armigeri d'altro tempo; sono veri, verissimi, però in una ec,ocazione operata dallo stesso narratore, a sua volta autoevocato, poeticamente. Se non fosse per i fucili (ce n'è uno lungo disteso per terra, in primo piano, è quello del narratore) penseremmo ad un bivacco di pastori al pascolo montano. « Se non fosse per i fucili>>, abbiamo detto; ed aggiungiamo che le immagini di pastori ex combattenti, o solo militari in congedo, ancora quasi in divisa, non sono state infrequenti in certi periodi e in certi luoghi. Questa è una sosta con distacco, nella quale anche l'impegno più grave e sacro diventa già legno da far ardere nel fuoco della memoria, in quella pace particolare che aleggia intorno ad ogni operazione di memoria. Di un ritmo così preciso, forte ma non rumoroso, questa scena rischia di nascondere, ad una lettura poco ;1ttenta e provveduta, la sua autenùca bellezza. Si guardi, in primo piano, la fattura preziosa ma non leziosa degli scarponi, delle gambe fasciate, la naturalezza delle diverse positure; e poi si diano, subito, i rispettivi volti, la rispettiva identità, ai gesti, agli atteggiamenti: tutto è in - tenso, respira e popola lo spazio che gli spetta come se il momento fosse, invece, un piccolo assoluto. In una simile condizione, la sola voce in grado di far sobbalzare e scattare dovrà essere quella d'un allarme. In guarnigione, ripensiamo, si può essere distanti in ugual misura da casa e dalla linea del fuoco. Ma soltanto la linea del fuoco può crearsi, e abbagliare mettendo in fuga ogni evocazione, da un'ora all'altra: la casa è un valore da difendere, lottando, sempre da lontano Ma l'uomo è, fortemente, memoria; e la memoria è, fortemente, creativamente, evocazione: un risultato di cui si giunge a temere, però, a maggior ragione, and1e e soprattutto una centrale di energia senza la quale avremmo, specie nelle circostanze più gravi, tanto più buio e tanto meno coraggio.

Non loderemo mai abbastanza gli artisti che, nelle loro opere, si sono lasciati « prendere » dagli uomini, da se stessi e dai loro simili, più che dalle cose. I <<campi di battaglia», le grandi nubi di polvere e fumo, i marosi di cavalli e di mezzi d'og n i genere: bene, a volte benissimo; ma i soldati, guardati, amati, interpretati, rivissuti, ricreati, questo è meglio, sempre meglio. Finché non si dia la sciagura più sciagurata, quella che ci farebbe perdere ogni vera identità, l'Esercito è anch'esso, in tutte le sue articolazioni, i soldati.

I soldati come questi, ecco, come i « Fanti in sosta su lo Scindeli >> di ANGELO PINCII\OLI. Il pensiero corre, fulmineo, ad alcuni fra i più struggenti ed epici motivi alpini: « siamo arrivati sul Monte Canino -e a ciel sereno abbiamo riposa' >>; « Tra le rocce, il vento e la neve - siam costretti la notte a vegliar>> di « Monte Cauriol ». E' naja, sempre naja, della specie più dura; ma è soprattutto dramma, sempre dramma, della specie più alta. Piccoli uomini alle prese con cose tanto ma tanto piu grandi di loro: con la natura in veste di maestà gelosa e suscettibile e poco propensa alle confidenze eccessive; con la guerra da fare, spesso, spremendo proprio cuore, dal profondo delle origini, tutto ciò che deve supplire alle carenze di vario genere, dalle armi alle munizioni al cibo. Piccoli uomini, più eroici di tanti « eroi » , perché al sicuro, per elezione e per scelta, dai pericoli di tutto ciò che può e non può esser c•ero , autentico; piccoli uomini che diventano uomini in tutta e nella migliore estensione del termine. La loro grandezza si sprigiona dall'offerta, senza complessi di debolezza, della loro debolezza, della loro fragilità di creature bisognose di tante cose, e particolarmente di riposo, di qualche ora, almeno, di sonno; dall'offerta della sosta in cui tutto, corpi, anime , armi, fardelli, si stringe , si unifica in un inconscio ma non meno vero abbandono di preghiera.

L'opera è di quelle che noi, senza chiedere autoriz z azioni accademiche, chiamiamo esemplari. Corale senza sovrappopolamenti, inutili e spesso nocivi, si affida ad una distinzione senza confusioni: un quintetto, nel quale le cinque voci fondamentali entrano in comunione profonda , capace di ottenere, sostanzialmente e con rigore assoluto , tutto ciò che può essere espresso da centinaia e anche da migliaia di esecutori; e qualcosa di più. Comunione profonda anche in altro senso, non musicale ma strutturale, compositivo in senso architettonico: il trattamento per volumi delle figure , particolarmente redditizio nella resa della forza, della solidità, della concretezza (senza bisogno di ricorrere alle soluzioni materiche di certe avanguardie), si scioglie, si libera, dalle sue intrinseche pesantezze, attraverso l'aiuto della orizzontalità, in cui meglio riesce ad esprimersi la stanchezza come incentivo al ricupero di se stessi attraverso il sonno. E' forte, solido, pieno di comunione, anche il colore, basso, un po' cupo, di tono, da < ( notturno», ma di una proprietà indiscutibile.

Certo, la stanchezza di questi soldati è di quelle che iperbolicamente ma efficacemente si chiamano « mortali » « Sono stanco da morire », « sono morto di stanchezza»: sono modi di dire di consumo quotidiano che risalgono a circostanze sempre drammatiche, nelle quali l'uomo più sicuro di sé si ridimensiona, e al tempo stesso si rivaluta, in un superiore equilibrio che gli consentirà, attraverso la migliore conoscenza dei limiti, un più fruttuoso comportamento. E drammatica, altamente drammatica, è questa circostanza. Si va, si viene, si ritorna : il punto di riferimento è sempre la linea del fuoco, lunga , ininterrotta, o spezzata, frammentat a . Questi uomini h anno già combattuto , a distanza , forse anche a corpo a corpo, sulla << s triscia azzurra »; e torneranno a combattere. A stanchezza mortale , sonno di piombo. M a la testa è ancora piena di << botti » di mortai o, dì trapani di mitragliatrici, di mille <( ta- pum >> riprodotti a centinaia dì migliaia dag li echi; e di gemiti, di urla improvvise, di silenzi più ghiacciati e agghiaccianti della n eve. A stanchezza mortale , in questo caso, dormive gl ia , so nno allucinato, un salisce ndi di sensazioni e immagini tra inconsc io e lucidità; ma un saliscendì stranamente fisso come tutti i moti vortìcosi. E fissa , dolorosa nella sua epicità, è la scena: pittura su fondamenta di scultura. Suggeriremmo una lettura che parta dal soldato che veglia, a destra, facendo il suo turno di guardia, e ad un tempo mangia qualcosa e si scalda con l'alito le mani, avendo ai piedi il fardello e il fucile. Seguendo i tre del secondo piano e poi quello del primo piano fino alla punta del suo piede destro, si traccia una linea che vorrebbe , e non riesce, sbloccare tanta staticità con un tentativo di serpentina. E' un cresce ndo. Il primo dei tre in gruppo, oppresso, s'è liberato del fardello e s'è appoggiato alla spalla del compagno che sembra proteggerlo, per agevolargli il riposo , col calore d ' un braccio. Lui è più solido: il gomito dell'altro braccio sul ginocchio, la guancia sulla palma della mano, tiene per due. Il terzo non ha fatto neanche « zaino a terra»: porta l'elmetto c he gli altri due non portano e stringe leggermente il fucile appoggiato tra coscia e bra cc io , pronto al minimo evento; gli basta appoggiarsi , senza abbandonarsi, con la testa sulla mano. Ma tutta la potenza della scena è ca ricata, comp ressa , nella figura distesa in primo piano: una specie di autoritratto in cui Angelo Pinciroli, fante reduce dal fronte greco , ferma in modo indelebile una decisiva esperienza della sua vita. Si capisce (come potrebbe non essere?) che dietro questa magnifica figura distesa di dormi ente tra la vita e la morte, c'è tutta la storia della più grand e arte italiana. M a come assimilata e fatta propria , co me restituita con gli intaessi, come , nelle sue più alte conquiste, usa- ta, impiegata, al momento gi usto nel più felice dei modi! Sono morti di stanchezza, e dormono lo stesso quasi- so nno irrequieto , anche il fardello incollato alle spalle e sapientemente sfruttato come ·cuscino e spalliera, e il fucile , supino e sempre a portata di mano. Se c'è chi vuol chiamare in causa le varie « Deposizioni » di cui si onora la grande pittura , lo faccia pure. Noi abb iamo parlato, più sopra , di offerta , di rendimento : ci siamo , sembra. Una sosta religiosa, nel se nso che tutti possono accettare. D a que sta figura in particolare e da tutto il gruppo in generale, spira un altro elemento che possiamo definire « religioso » : la fiducia. E' un dramma; non, però, una tragedia. E', lo ripetiamo, un momento sussu rrato d'un' « epopea» che era stata e sa rebbe stata ancora, << detta » a voce alta e alt iss ima , a volte gridata. L ' uomo deve vincere; ma anche quando perde , per sventura o per altro, ha sempre, può sempre avere almeno un modo di vincere ugualmente, nonostante tutto.

Di tutt 'al tra qualità (psicologica, non artistica) il quarto testo, la silogra fia di PIETRO SANCHINI ispirata alla sosta che precede lo scontro cruento e che s' intitola, proprio , << Pr ima della battaglia >> Una scena senza ripensam enti , disegnata col respiro corto, tormentando il legno fino a farlo percorrere da un incessante ritmo di tremiti e di sussulti che sbalza sul piano gli uomini, allontanando il paesaggio, culminante in alto a destra sulla posizione da conquistare, sotto una rete « dantesca » di tronchi, rami, profili di pietre e asperità: lo stesso cielo è reso con << brividi » di strisciature in fuga. E' veramente una sosta : gli uomini hanno raggiunto la base di par tenza per l'assalto decisivo e vi attendono il segnale. Sono otto, evidenziati e di st inti in quattro coppie, due delle quali in si le nzio e a contrasto, due assorte in dialogo: affollano, letteralmente, violentemente , dal basso verso l'alto, i due terzi della scena, che nel restante terzo è graficamente terremotat a fino all'unico punto in pace , il vertice in alto a destra. L'albero a sini stra , oltre a servire da divi sorio , con le sue ramaglie, al tea t ro d ello sco ntro, peraltro invaso da un'altra ramaglia sulla de st ra , separa, tra spalle e schiene, i due della prima coppia a contrasto, e, secondo il nostro modo di leggere, esprime tutto il tema, lo dichiara. Il combattente quasi ingabbiato tra il tronco e il confine della tavola, dal profilo appena visibile sotto il carico dell'elmetto, volge le spalle all'obiettivo e lo si intravvede, e più lo si intuisce, tempestosamente concentrato e pronto a esplodere solo al momento giusto. Il suo <1 antagonista », emotivo, tutto estroverso, già lancerebbe la bomba pronta, ben stretta in pugno, contro il nemico sul quale non vede l'ora di scagliarsi; sarà il primo a scavalcare il (( ridotto »; è un (( capo >> nato, il suo dovere è trascinare, dare l'esempio e pagare per primo, o per primo conquistare la posizione . Subito dopo, su un piano leggermente più basso, due piccole masse d'urto, anch'esse già in piedi, una delle quali, la più alta, ha anche un volto, sia pure soffocato per metà dall'elmetto, un volto deciso ma ca lmo , da veterano; somiglian o entrambi a quello nascosto dall'albero, anche lui, forse, un veterano. In questi quattro si realizza il collegame nto degli uomini col paesaggio. Poi, sce ndendo , in secondo e in primo piano, il sottofo ndo , il commento corale ma risolto come in un lungo, sepolto, brontolio staccato dal piano orchestrale. La prima coppia si compone di due elementi, caratterizzato il primo dalla testa scoperta, una testa vigorosamente disegnata, il secondo dalla bomba tenuta tra le due mani come un oggetto qualunque e come tale guardato: stanno parlando, e giureremmo che non stanno p arlando dell'as sa lto; anche al rischio mortale, è vero, si fa un certo tipo di assuefazione; i due siedono come quasi certamente son soliti sedere davanti a un fiasco. La seconda coppia dialoga, per interrogativi, proprio sulla battaglia.

C'è un po' di smarrime nto nello sguardo dell'uomo di sinistra; quello di destra, dal profilo ostinato, regge, con ansie ma regge.

L'imminenza d'una battaglia, come quella di tutti gli eventi che possono essere definitivi per un'esistenza, determina reazioni raramente prevedibili. E la sosta in cui tale imminenza si consuma non la si può inventare; bisognerebbe essere veramente grandi artisti, dotati , ma veramente::, di genio. Nella normalità dei casi, e parliamo, sia chiaro, di t'eri artisti, è necessario poter ricordare ciò che si è vissuto, trasfigurarlo, interprctarlo, tutto ciò che si vuole, ma sempre sulla base d'un'esperienza diretta, personale c interpersonale di alcuni tra i mille e mille modi di reagire a certe sollecitazioni, di alcuni tra i mille e mille modi di affrontare, a freddo, in sosta, la morte, che anche in battaglia ha mille e mille modi diversi di falciare. La rettorica, la falsità, dì tante e tante opere d'arte, si potrebbe risparmiare a se stessi e agli altri scegliendo di fare opere d'altro contenuto, rifiutando certe «ordinazioni >> o trattando/e diversamente; ed anche evitando di commettere certe opere ad artisti bravi ed anche qualificati, capaci, ma non di fare quelle opere. Un mangiatore, al limite , e solo per fare un esempio per analogia, potrebbe pur sempre confondere, se non ha mai sofferto veramente, la fame, questa con l'appetito, di cui, evidentemente , deve avere una grossa esperienza, ma che non ha nulla a che vedere con la fame.

Forse è per questo che ci capita di vedere, su uno stesso tema, opere di autori celebrati che non reggono affatto il confronto con opere di autori cosiddetti di poco conto. Tant'è.

Siamo così alla lettura del quinto testo: << Retrovi e » dì PIETRO MoRANDO, un artista e un soldato (ardito della « Grànde Guerra ») di cui diremo più avanti, e che siamo spesso tentati di considerare un po' come l 'Ungaretti del disegno.

Questa tavola raffigura una sosta dopo la battaglia, dopo le battaglie, e l'abbia mo scelta, senza esitazioni, per due precisi motivi: per le sue qualità grafiche, tipicamente morandiane come avremo modo di dire; per un'altra qualità, in totale contrasto con il suo aspetto letterale: il candore.

Partiamo, come ormai ci capita di fare, dal fondo. Trascuriamo l'insegna della mescita, che pure ha un suo valore di impaginazione, e consideriamo quelle due figure che paiono inquadrate con una essenzialità estrema su una prospettiva marittima, portuale, intensamente evocativa e provocatrice di reazioni emotive. Potrebbero esse fare da insegna, ma non ad una mescita, bensì ad un intero stand dedicato ad un amaro capitolo della nostra storia e intitolato « Retrovie 191 7 >>.

Il principio fondamentale della danza e della mimica è basato sulla possibi lità di esprimere e comunicare at traverso le sole espressioni del volto e attraverso i gesti, e quindi ancora attraverso le sole movenze del corpo. Lavorare di contorni, delimitando un'area espressiva nella quale si concentri un'intera personalità umana suggerita per segni elementari ma stracarichi di contenuti, significa fare qualcosa di simile, ma a fermo e da fermo, come è costretto a fare il disegnatore. Evidentemente, per ciò fare, bisogna avere analizzato e assimilato tutto il complesso sistema dei segni attraverso i quali ciascuno di noi si mostra e appare così come, più o meno, è e appare agli altri. Bisogna aver fatto questo da artisti, cioè da uomini dotati della qualità indispensabile a tracciar linee come facendo delle vere azioni , facendo fatti concreti Dentro i contorni di quelle due figure vivono due esemplari umani che noi ben conosciamo, che abbiamo quasi da sempre conosciuti: il loro dramma ci si trasmette per una forza elementare e diventa cosa nostra, ci appartiene. Appartiene anche al personaggio di profilo a sinistra della donna , un grumo di noia, grigiore, mediocrità e bisogno di riscatto che si avv ia verso l 'uscita come verso una qualunque uscita dalla sua condizione. Quella dimensione tutta subì t a, passiva con rancori malamente masticati, è divisa da un mezzo bicchiere di vi no da un'altra dimensione, abitata dal protagonista della scena, da un suo compagno che lo fronteggia ghignando, e da una donna emblematica ma al tutto t'era, reale, la cui presenza è una presenza di ruolo, portata con un leggero disgusto di sé e degli altri, ma con pena non minore di quella che affligge un po' tutti Puttana, meretrice, prostituta, sgualdrina? Tutti nomi grossi, anche se scontati. Ci sembra più proprio dire, intonandoci a quel clima, « donna da soldati » << donna per soldati ». « Sei sempre stata coi vecchi alpini - non sei figlia da maritar! )) Questa è una delle tante versioni, tutte poetiche, dell'Osteria che ((c i sta>> con buona pace delle accademie, « di gua e di là dal Piave » e nella quale, ed è quel che conta, << c'è da bere e da mangiare - ed un bel letto da riposar )) . Si guardi attentamente la sequenza, nei dettagli, perché in tanta sintesi ciascuno di essi è sostanza. La sedia, la sediaccia, vale un trono per l'uomo retro cesso dalla trincea, che si gode un po' di tranquillità dopo aver vissuto in condizioni primordiali e con la pelle appesa a una ragnatela. Egli siede tutto comodo, e mette in mostra un piedone, o meglio una « fangosa » gigante che calca sull'impiancito con evidente so ddisfazione. E ' uno di quelli con un naso tendenzialmente alla Cirano, dall'accenno di « scucchia » si indovina che le donne gli sono sempre piaciute. Ora, dopo il lungo penare, la sua mano sempre facile diventa facilissima, e non fa lo schizzinoso; tanto, non ha molto da sceglie re. Lassù l'unica Donna era « una poco di buono » ancor più di questa cui tenta saggiare il morbido; così poco di buono che andava evitata come il suo s te sso nome. Questa, in fondo, al confronto risulta affascinante. Il gesto, così triviale in sé, nel contesto risulta di una normalità sconcertante; poi appare patetico; infine risulta persino drammatico, come il sogghigno un po' sapiente e un po' corrosivo del << barbuto n che forse ha più pretese, forse è talmente disincantato da passare neutro in quel clima d'angoscia mal repressa.

Una sosta che sembra ancora più incrostata di fango di quelle concesse in trincea dalle pause tra i bombardamenti e gli assalti alla baionetta. Ma con un desiderio di risveglio , del mezzo sbadiglio che apre certe giornate. E anche dell'amore, che passa pure per il corpo d'una donna e che spesso , quando lo spirito dorme per grandi dosi di droga violenta quanto può esserlo la dimestichezza con il sangue e la strage, ci passa e ci si arresta , incapace di volere e di fare qualcosa di più e di meglio.

Una sosta che riassume tutte le altre rhe si pongono come modi di vivere la fatica; ma quella particolare fatica che è, per l'uomo, vivere a lungo senza amare e senza essere amato.

La Batt

TUTT I E CIASCUNO IN DIFESA DELL'ULTIMO CONFINE.

Prima e dopo di ogni guerra, si fa politica, filosofia e storia: ma durante ogni guerra si fa la guerra, si combattono le batt51glie. In battaglia, la miglior difesa è l'offesa; dunque l'offesa è difesa; anche l'attacco; e la vittoria non è che la difesa più garantita, nello spazio e nel tempo. Sono in molti a credere che si combatte per attaccare un sempre ultimo confine: l'espansionismo , d'altronde , è una categoria storica. In realtà, l'espansione non è che l'apparire della concentrazione. Infatti, la concentrazione dilata e la dilatazione concentra, fino all'esaurimento del ciclo: questa, a noi , sembra una legge bell'e buona. Ora, tutto ciò che si è concentrato, che si ha (progressivamente), lo si difende, contro altri che nutrono gli stessi pensieri . C'è una sola obiezione, anzi, una sola presa di posizione, ed è sacra: c'è difesa e difesa , di veri e di falsi diritti. Ma chi difende falsi diritti non dice mai che attacca i veri diritti altrui : dice, al contrario, che difende i veri diritti suoi. Al dunque, quando si è smesso di discutere e si comincia a sparare (ma ormai si spara anche mentre sono in corso le discussioni), non c'è chi non sia disposto a giurare che sta difendendo l'ultimo confine. Giusto: perché sta difendendo il confine tra la vita e la morte, tra quelle proprie e quelle degli altri. In battaglia la verità, la nostra verità, quella che tutti fabbrichiamo giorno per giorno con le nostre azioni e persino coi pensieri più nascosti, si scatena, esplode: la nostra storia si identifica con la natura. Le chiacchiere stanno a zero; la rettorica, semmai, aspetta nelle retrovie la fine dell'atto per entrare in scena; dell'atto o dell'intero dramma. Tra tutti i misteri dei quali è impastata la storia dei popoli e di ogni singolo uomo, quello che si condensa in una battaglia è il più spesso: for- se proprio per questo l'uomo continua a uscirne, quando ne esce, ancora uomo, e non di rado più uomo. Sull'ultimo confine, la verità abbaglia, consuma tutte le apparenze, mette a nudo ogni essenza, riesce addirittura a smascherare false bontà e ad accendere insospettabili luci in coscienze ritenute morte. Ci sia consentito di dire che, nella estrema difficoltà di spartire il bene e il male della nostra storia, è più facile segnalarne e va l utarne la presenza, volta a volta, nei momenti in cui l'esercizio della vita e della morte non ha possibilità di rinvii o di mezzi termini risolutivi.

Gli artisti han sempre sentito queste verità: in modi diversi , a seconda dei tempi , delle circostanze e anche della particol are personalità di ciascuno, ma sostanzialment e in uno stesso spirito. Gli illustratori e i commentatori le han sentite di meno, restando sempre alla superficie (sempre simile) di eventi che di volta in volta, nel profondo, sono da rivivere come novità.

Proponiamo al lettore due serie di testi, di diversa ispir a zione e tecnica, sui quali conterremo di proposito il nostro intervento entro i limiti dell'an notazione. Questo saggio- proposta, nel suo svo lgimento terminale, cresce in immagini, e ciò per due motivi : anzitutto perché entriamo nella dimensione più affollata e più visitata delle testimonianze artistiche sulla vita dell ' Esercito; in secondo luogo , perché ormai le conclusioni del discorso finora fatto sono, per consenso o dissenso, affidate alla discrezione di chi abbia avuto la cortesia di seguido almeno con benevolenza. Per noi è questione di coerenza.

Riteniamo opportuno, per ogni buon fine, dare l'ordine di successione dei testi medesimi. Eccolo, qui d i seguito

.. La battaglia d i C ustoza >> di GrovAKI'I FATTORI - c< Il 23 giu g no a San Martino » di MrcHELE CAMMARANO - << La carica dei Carabinieri a Pastrengo >> (sec onda versione) di SEBASTIANO DE ALBERTIS - l< Studio di battaglia >> di SEBASTIANO DE ALBERTIS - << Carica di cavalleria » di GIOVANNI FATTORI - cc Cavalleria bombardata » di GIUSEPPE - << Cavalleria all'assalto >> di GIUSEPPEcc d'assalto >> di PIETRO MoRAl\"DOu Assalto alla baionetta >> di GIUSEPPE CoMINETTI - <<Trincea dopo il combattimento >> di GIUSEPPE CoMINETTI - « Due squadre portaferiti » di GIUSEPPE CoMINETn - << Episodio del carabiniere Ruffo >> di G IUSEPPE BERTI. Riconosciamo volentieri che si tratta d 'una piccola giungla di provocazioni, d'un intrico più per accetta che per braccia. Ma come in ogni battaglia, il lungo fiato dell'ordine corre sul caos, incessantemente; l'ordine, infatti , non è un assetto nel senso statico, raggiunto, ma piuttosto un'attività continua sul caos, che è come la sua materia prima, dalle scorte, si direbbe, inesauribili : più che « ordine ,, dovremmo dire 11 metter ordine >>, 11 ordinare n. Scegliere, meditatamente; e anche sbagliare, relativamente; ma vivendo e dando vita.

Nella « Battaglia di Custoza » sembra che il paesaggio, come sempre in certo Fattori , assorba, beva tutti i rumori; e che sciolga in sé anche i gesti, le operazioni degli uomini. La natura prova a divorare la storia, nella sua finta, strana, pace. I morti, uomini ed animali , fanno da contrappunto ai viventi all'interno d'una lenta, quasi pesante, armonia. Tutto è misurato; quasi statico; la morte è ovvia quanto la vita, in una sconcertante ma vera unità. Non è che l'Autore abbia preso le distanze; è che ha puntato essenzialmente sulla resa d'un mistero di forza , e di forza coraggiosa; per questo, calma, senza orgasmi. Una sconfitta militare, non una disfatta degli uomini.

D'altra intonazione (( Il 23 giugno a San Martino>>. Tutto si muove, compreso il paesaggio che l'indiscutibile sapienza prospettica del Cammarano spinge, più che non sfondi, in grandi slanci, fin dove è possibile giungere sotto quel cielo gonfio di lieviti. Qui, in clima di vittoria quasi scontato, fatale , il terreno , gli a lbe ri , sono luogo di passa ggio, punti di riferimento per qualcosa che avanza , sì, in direzione d'un obiettivo imperiosamente additato , ma dal di dentro , col vigore limpido dell'entusiasmo. Il grave, il drammatico di questa giovanile rincorsa è tutto e soltanto nei solchi profondi (matericamente trattati, con torm ento) che le ruote del pezzo lasc iano come il sigillo della storia sulla natura dominata. Un senso di certezza senza possibilità di smentite è in tutti questi uomini. Per i due dal cappello piumato , usi a bruciare col solo sguardo ostacoli e distanze, ora si vive; la morte può attendere.

Le due opere, profondamente diverse, si prestano mirabilmente a stabil ire , per comparazione, quanto e fino a che punto sia possibile e quanto fecondo un proposi to di lettura unitaria della battaglia nell' arte , sulla base di alcuni elementi costanti , se non proprio fissi: tra i quali, a titolo di ese mpio , la qualità e anche la quantità del paesaggio- teatro, sia come dimensione obbligata sia come dimensione scelta; e la sua importanza nei confronti degli uommt m aztone.

La famosa, meritamente famosa, « Carica dei Carabinieri a Pastrengo >> di SEBASTIANO DE ALBERTIS è disponibile all'eventuale esercizio del lettore per una sorta di verifica, quasi di controprova. Ci siamo risolù a ripresentarla , rassegnati anche all'accusa di incoerenza , solo a questo fine. D elle quattro versioni abbiamo scelto la seconda, sia p erché è la meno scontata, sia perché anche a noi, come a molti altri, sembra la migliore. E l'abb iamo accompagnata a questo < l Studio di Battaglia>>, prezioso acquerello dello stesso Autore, che è verisimilmente uno studio per la << Carica », proprio perché i rapporti scena - azione, a raffronto in due visioni dello stesso episodio, acquistano un valore tutto particolare. E' l'azione ad essere inserita in un paesaggio o è il paesaggio ad essere attribuito ad un'azione? Sì! l'interrogativo può sembrare addirittura idiota. Ma può esserlo assai meno di quanto può sembrare. Delle qualità liriche assegnate alla « Carica >> unitamente a quelle epiche , nella resa effettiva del testo da noi scelto non sembrerebbe restare granché: c'è uno spazio che si dilata quasi all'infinito , ed è spazio epico , supporto e condi- zione alla c, bellezza » de ll a scena. Perché l ' opera è bella, indiscutibilmente bella. Ritornando sul motivo del fiore finto e del fiore vero cui abbiamo in precedenza dedicato alcuni pensieri, diremmo: « Sembra un film! »; così come avremmo dovuto dire , fin da molti anni fa , vedendo tante (e tante!) sequenze filmiche , di westerns e no; cc Sembra la carica di Pastrengo!».

D 'altronde, nell'unità dello spirito, la sublimazione anche in bellezza dello stile di dovere e di sacrificio con impeto da forza di natura, a tutto spazio, è rigorosa, sacrale Il De Albertis non ha certo bisogno di noi per c< far testo». Tanto è vero che .testo, definitivamente , ha fatto.

Chiediamo, a questo punto, se in ug'ual misura ha fatto testo il Fattori Al maestro « macchiaiuolo )) non sarà inoppor tuno né inutile dedicare, a competente livello, in debita sede, un supplemento di attenzione e di studio che pr ecisi meglio la sua posizione di pittore di soldati. Noi, qui, non lo possiamo fare e in un certo senso ce ne rammarichiamo. Questa « Carica di cavalleria », che affidiamo, fiduciosamente, al lettore, è, per dirla, ma a ragion veduta, con espressione abusata, « emblematica)>. La apparizione centrale, un uomo tra eroico e dolente montato su un cavallo bianco sfuocato dalla folata di mischia, erompe o sta per sprofondare: il solito mistero resiste, dal caos, all'ordine lanciato a tormentoso galoppo Tutti eroi e tutti uomini. E' un'altra dimensione. Ci limiteremo ad osservare che, a nostro parere, l'opera di FATTORI ispirata all'Esercito, ai soldati, va riletta, e riletta nella sua propria chiave, diversa, sempre a nostro parere , da quella dell'opera restante. Potremmo errare; e no.

Nella Storia, e in ogni storia personale, c'è e non c'è soluzione di continuità Il momento della crepa, dello spacco, dell'aprirsi d'un baratro, è innegabile se non di proposito, per principio; ma non è un'interruzione, è un momento, anch'esso, della continuità sotto la regìa della libertà e pertanto sdegnosa dei nostri schemi, specie quando essi altro non sono che il tentativo di condizionare a nostro favore ogni possibile svolgimento.

Così, la viSIOne risorgimentale della battaglia e dei suoi episodi esplode e salta, frantumando certe unità e moltiplicandole attraverso la frammentazione. Non è soltanto merito o colpa della maggiore velocità dei processi: sarebbe troppo semplice. E d'altra parte non sembra neanche un vero e proprio giudizio di valore sullo stesso fenomeno, la battaglia, la guerra, dal momento che molti dei testimoni del fatto non sono meno combattenti che artisti; e non di rado combattenti volontari. Dunque, cresce la pietà per l'uomo, per sé e per glì altri, il sentimento drammatico della vitamorte s'impenna in tragedia , e la tragedia si slancia alla furiosa ricerca d'un suo più alto e profondo significato. La bellezza si sporca , si incolpa per meritare redenzione.

Ecco i testi apocalittici di GIUSEPPE CoMINETTI: « Cavalleria bombardata » e r< Cavalleria all'assalto » L'ordine piomba imperioso nelle stesse viscere in tumulto del caos e rischia d'essere assimilato. La vita animale e umana si scatena, cozza, forza la sua stessa struttura, si spappola: sembra venir meno la gravità, ma il galleggiamento è falso, non è calmo, si rifiuta e ribeHa; tutto si fa mostruoso , e l'uomo più d'ogni altra cosa. Non, però, in << Cavalleria bombardata», dove l'uomo torna uomo proprio mentre precipita nel vuoto aperto dalla forza nemica: un burrone cui fan da cigli i cavalli già strumenti del suo dominio ed ora ridotti a slabbrature. Notevole, ai fini della lettura, il cavallo di sinistra: ricorda nella sua posizione, ma trag icamente, un « ammaestrato » da circo che si drizzi davanti al domatore. Nel primo e nel secondo testo il paesaggio è << in bottiglia», pressurizzato: si riduce, congestionatissimo, a teste di cavalli sottoposti a tortura, a teste di nubi costrette in vagheggiamenti di sembianze umane terrorizzate . Uno spazio scomodo sia per la vita che per la morte

Non muta il tono del discorso in << Assalto alla baionetta>>; anzi, l'assenza dei cavalli ed un certo ritorno d'ordine, di simmetria, nella composizione, esaltano la peculiarità umana dell'evento , in tutte le sue implicazioni: l'animale sparisce, assimilato dall'uomo, e riappare nelle scariche di necessità, di meccanicismo

-88- st ravolto, attraverso le quali l'uomo stesso pena l'ennesima volta per uscire dal caos , per trionfarne a prezzo di sa ngue. Spazio da tremendo . E non apporterebbe contributo apprezzabile alla lettura la collocazio ne del testo in un quadro da droga. Sarebbe come , secondo noi, collocare nello stesso quadro la verità in genere Veda il lettore.

Ma prima di approfondire , di sprofondare bene, lo sguardo, e di se ntir si s pinti alla struggente pietà di << Trin cea dopo il combattimento >l, gioverebbe soffe rmarsi, sostare, davanti alla « Ondata ·d'assalto >> di PJE.TRO MoRANDO. Le differenze stilistiche , di temperame nto , di personalità, non servono ad altro che a dire in modi diversi le stesse cose. Qui non c'è ancora il corpo a corpo, la strage in atto; le armi sono pressoché invisibili , ma ne senti scrosciare le raffiche sui capi chini, sui dorsi, se ne antici pano , a contrattacco, gl i scatti asciutti (quando le bombe a mano usciranno dai tascapani), e i brividi ghiacciati dei pugnali. Ogni figura è un confine tra vita e morte, resa con maggiore semplicità, con più contenuta forza, ma scoperta, dissimulata nella sua verità. Qui non si celebra, non si ricorda a ono re e a gloria; qui si culmina, si vive il dunque, corale solo perché strettamente perso nale nell'unità. Al limite, si direbbe che c'è tempo , sia pure un soffio d'attimo, per un'estrema, lucidissima coscie nza del punto. Una delle lezioni di MoRANDO, questo ardito, più volte ferito, pluridecorato, fatto prigioniero, evaso, riatciuffato e sopravvissuto, che ha disegnato in trincea come Ungaretti ha sillabato in tr in cea: le testimonianze più valide e alte , i mòniti più sacri. Non c'è nulla da sprecare: quattro o cinque segni valgono un pens iero vastissimo . E fanno da spartiacque tra l'accettazione del sacrificio e tutte le restanti finzioni.

La << Trincea dopo il combattimento >> fa un silenzio e una pace senza possibilità di veri comme nti (quel caduto prono a breve distanza da quello supino di cui parlano le gambe pendule !), e carica la drammatica sollecitudine (da << deposizione >>) delle << Due sq uadre di portaferiti >> Torna ancora il CaM INETTI, ma un Caminetti decantato , filtrato da una spietata pietà, religiosa nella più ampia significazione: il caos è ridotto ancora all'ordine dall 'amore, sulla morte.

Concludiamo ques to capitolo prevalentemente visivo con un t es to - limite, utile ai fini del nostro discorso quanto artisticamente valido e quanto, anche, dirompente nella struttura del capitolo m ede s im o. Questo << Episodio del Carabinie re Ruffo >> di GIUSEPPE BERTI è un assolo in una grande corali tà. Ad indicarne la fattura preziosa , la br avu ra « berniniana >> di cui testimonia a pro d'un Autore indiscutibile, rischieremmo di offendere il lettore, lo stesso Autore e un po' noi stessi . L 'evidenza non ha bisogno d'essere dimostrata perché è essa stessa strumento di dimostrazione e dimostrazione tout court. Ciò di cu i non possiamo fare a meno è, invece, la proposizione dell 'opera come esempio di arte non- prohlematica, di arte come giudizio su un fatto fornito attraverso la ricostruzione di esso nei momenti più oggettivi e, possibilmente, più evide nti. Si tratta d'un modo di leggere la realtà e, successivamente, di raccontarla , senza l'ombra d'un dubbio, senza il minimo desiderio critico . Ed è una cosa importante se considerata nel quadro dell'attuale situazione dell'a r te, e particolarmente della scultura. Chi oserebbe negare validità << artistica >> ad opere simili? E d'altra parte chi oserebbe negarne ad opere che sembrano, con la loro altrettanto innegabile validità « artistica ))' escludere la validità delle altre?

Torniamo all'assunto di fondo del nostro saggio: c'è tanto da rileggere e da reinterpretare. E proprio per la presenza di ope re solari fino all'ovvietà, che hanno giusto in questo loro co ntrassegno la disponibilità alla provocazione, attiva e passiva. Ceno, le cose continuano a procedere , ad esser fatte e a fare , a loro volta , anche se l'arte le propone o ripropone in un suo modo, sempre diverso. Ma attraverso l'arte le cose vengono tramandate a chi, senza l ' arte, non potrebbe averne più memoria. E non è faccenda di po co conto

Speriamo nella benevolenza del lettore; in una benevolenza, possibilmente, attiva , partecipante, integrante.

Siamo, infatti, nella zo na cui più si addice il discorso impostato nella Premessa relativam ente alla demitizzazio11e e al ripemamento, alla scoperta e rùcoperta delle parole e dei valori, alla riconquista della parola- fatto. In questa zona, l'arte (e anche la critica d'arte e la storia dell'arte) è costretta a schierarsi, per sé> dalla sua propria parte, o dalla parte (quale che essa sia) del giudizio di valore già dato o da dare sull'avvenimento proposto alla fantasia creatrice o al mestiere obbediente. Mentire, falsare, travisare e trasfigurare si può e si potrà sem pre, almeno intenzionalmente; ed anche preterintenzionalmente. Ma quanto, e fino a che punto, se una critica verace e una spregiudicata storia intervengono a ristabilire le giuste proporzioni? Che un artista rappresenti una battaglia per libera scelta o su commissione poco importa, o importa relativament e : ciò che importa prima durante e dopo l'opera è, invece, la contrapposizione, innegabile, tra l'artista e la battaglia come fatto la cui caratteristica è quella di essere non fatto ma da fare. Ora , la storia militare d'una battaglia non può affidarsi che alla storia militare: l'arte è chiamata, evidentemente, a dare un contributo diverso da quello della storia militare. Ma quale? Di che tipo? A queste domande possono rispo ndere solo le opere d'arte, di volta in volta, singolarmente, e periodicamente in modo non proprio unitario ma complessivo. Il che pone grossi problemi sia alla critica d'arte che alla storia dell'arte; il più grosso dei quali riguarda proprio la reale possibilità o meno di sganciare l'opera d'arte dall'intero contesto in cui viene concepita e prodotta , così da poterla leggere in modo radicalmente autonomo, quanto dire in chiave d'a ssoluto. In tal caso non sa rebbe né difficile né scandaloso, al limite, affermare che, apportando alcune modifiche, una battaglia può trasformarsi in un qualunquè altro assembramento di uomini, valido più o meno ugualmente per le sue intrinseche qualità formali, pittoriche o plastiche. E si potrebbero, per analogia (pur considerando le notevoli differenze tra musica e pittura o scultura) rich iamare i t< riversamenti » in opere drammatiche di « motivi » scritti per opere comiche, o viceversa: sempre al limite. Ma tant'è: il problema esiste; e non è il solo.

Questo che significa? Per noi significa, anzitutto, che dobbiamo leggere i testi artistici sull'Esercito e le sue battaglie in chiave artistica e in nessun'altra chiave; subito dopo, che dobbiamo immettere i risultati di tali letture nella stessa dimensione in cui, volta a volta, immettiamo i risultati di tutte le altre letture sull'argomento per confro nto e integra zione progressivi. Diversamente, potremmo anche raggiungere qualche risultato, ma non quello fondamentale, che è la comprensione dei nostri atti, valida in sé, come verità, anche quando (purtroppo per noi) non siamo, o non vogliamo essere, in grado di farne strumento di crescita .

Significa, però, anche altre cose, collaterali, di valo re apparentemente tattico, ma sostanzialmente strategico.

Eccone una: le diversità su un assunto cui ci sentiamo vincolati non molestano solo noi, ma si molestano a vicenda; e mentre sembrano chiuderci lo specchio del nostro bersaglio , in realtà ci allargano il campo d'azione. Ed eccone un'altra: la nostra posizione (qualunque sia), più è chiusa, preci sa, più è isolata e più è vulnerabile, anche se munitissima. Più sei come gli altri e più gli altri sono come te (come o con); chi gode di tanto spazio non può secondo giustizia temere di vederlo popolarsi . E un'altra ancora: in tutti i tempi e in tutti i luoghi, l'arte « serve» a qualcosa nella mi su ra in cui le si garantisce di non dover servire a niente. Ciò perché l'arte, come le più alte manife stazion i umane , realizza la più completa libertà personale possibile solo attraverso la libera accettazione della più rigida e autentica disciplina: quella che assicura la continuità della vita inquadrandosi nei ranghi della verità. L a disciplina dell'universo.

Se a ripensare e verificare i nostri valori siamo noi stessi, e tempestivamente, gli altri giungeranno in ritardo, oppure non riusciranno che ad avanzare giudizi concorrenziali e resi dallo stesso ritardo anco r più discutibili di quanto non lo sarebbero, comu nque, di per se stessi.

No, non sono parole dure; e il ricorso al fiancheggiamento dell'arte non è davvero un artificio. E ' soltanto un profondo bisogno di tutto ciò che contribuisce ad assicurare misura , equilibrio. - 90-

Nei primi del 1941, a Torino , nella caserma di Via Cernaia, un generale, piuttosto quotato, teneva un discorso a un battaglione di fanti universitari, « rapati )) e << vestiti )) di fresco. Ad un tratto, interrompendo un'argomentazione, lasciò cadere una pausa di silenzio sugli ascoltatori. Poi, con voce impassibile, declamò: << Chi per la Patria mlllor vissuto è assai )). Si fermò ancora e, alzando la voce in un grido, sentenziò : << L'è una ba'la! Per la Patria bisogna vivere, non morire! )) . Santa, fondamentale, verità.

Per qualunque scopo, per qualunque ideale, bisogna vivere, non morire. Il che significa, anche, il possesso, o l'acquisto, meglio la conquista, della capacità di morire, del saper morire. Il che, però significa soprattutto che la vita apre e chiude tutto; che se l'amore, il gusto, della vita, qualifica l'uomo, ciò non si dà né per caso né per necessità, ma solo, e non ci atterrisce l'idiota ma meravigliosa tautologia, per la Vita . La quale, se è creazione, è amore; se è amore è libertà, perché solo l'identità Amore- Libertà è ragione attendibile di tutto; se è amore e libertà è personalità, in principio come P rincipio e sempre come conseguenza nella durata. Tutta l'evoluzione è stata una progressiva individualizzazione: giunta all'uomo, si accetti la creazione o si accetti il clamorosamente ovvio salto di qualità, essa è esplosa e continua ad esplodere in una inarrestabile personalizzazione Le cavallette, quando invadono (ne abbiamo ricordi apocalittici), passano fiumi m p1ena asfaltando il corso del- l'acqua di morti in una vicenda di voli a raffiche cieche, finché le ultime annate vanno come sull'asciutto. Ma noi non siamo cavallette; di masse si può parlare e anche disporre, ma vi vive di persona per persone. E morire in senso assoluto sarebbe il più gaglioffo nonsenso.

Certo, tutto ciò non si può dimostrare. Ci mancherebbe altro! Più di ogni dimostrazione già data, e dì ogni dimostrazione possibile , conta proprio ciò che rende possibile qualunque dimostrazione: la Storia, per intenderei, è tutta da dimostrare e crediamo sia ben chiaro che l'analisi non è una dimostrazione , essendo radicalmente da dimostrare essa stessa.

L'arte non dimostra e non si dimostra: propone, propugna, protesta, professa, provoca; soprattutto produce e proclama; e più s'impregna e si spregna di morte, meno vuoi saper di morte. Animale, l'uomo; ma un ben strano animale, l'unico che non vuoi morire, e se accetta la morte, l'accetta solo come vita.

Vada, anche questo, come una delle tante chiavi di lettura per tutti quei capitoli dell'arte, particolarmente di quella ispirata all'Esercito, dominati dalla fenomenologia della morte, con e senza aggettivi particolarmente qualificativi. Il gusto estetico! E cos'è? Una pedata più vigorosa alla vanga, oppure un più rabbioso morso di ruspa, e giù, sempre più giù, ecco qualcosa che manovra e spiega anche il gusto, quello vero e quello falso.

Chiediamo venia: in nome della vita, naturalmente; e d eli'amore che genera la libertà.

Quando Partire O Tornare

NON È CHE UN UN ICO DRAMMA.

Parte ritorna e riparte l'aria del respiro, parte ritorna e riparte il sangue; e subito al di là dei due circoli (che fanno pensare troppo ad una monotona cronaca d 'un automatismo) c'è il nostro corpo; e subito al di là del nostro corpo c'è tutto il mondo, assolutamente miracolosa vicenda di partenze e ritorni intessuti su se stessi dei propri stessi fili visibili e invisibili. Camminare, far strada, è, più che la condizione, il premio dell'es se r vivi sapendo di esserlo. Persino quando ci illudiamo d'esser fermi bruciamo le distanze in ogni direzione; ché nulla , neanche la luce , è capace di partire , fare il giro dell'universo , tornare e ripartire, come il pensiero, senza battere tempo.

Pure, per la neppur concepibile ricchezza della creazione sempre << in principio>>, ogni momento della realtà è come la realtà intera , perché ogni cosa ha bisogno di tutto e tutto ha bisogno d'ogni cosa. Ad ogni grado della coscienza, della consapevolezza, corrisponde una crescita di ca pienza da parte nostra, ed anche di produttività: dapprima più dolore che gioia, poi più gioia che dolore , infine più serenità che gioia, più verità che serenità Ma nella verità c'è la risata e il sorriso, c'è la lacrima e il singhiozzo e l'urlo, c'è il sos piro, il canto a bocca chiusa e quello a gola spiegata, c'è il semplice sguardo e lo sbracciarsi frenetico. C'è tutto, in perfettibile unità, e senza veri limi ti. Il « tragico », il « dramm atico» e il <<comico >> non sono certo momenti assoluti, autonomi: sono, semmai, gli elementi, gli ingredienti (alla lettera: ciò che mtra) di ogni nostro momento. Lontani , però , come siamo (purtroppo!) dallo stadio di verità, stra- analitici e stra- analizzati invece che unificati, riusciamo solo ad essere, volta a volta, o solo <c comici >> o solo " tragici >> o solo '' drammatici »; e buon per noi (e per gli altri!) quando riuscia mo ad esser solo « comici>>. Quel mostro d'un Dante Alighieri ce la fece ad esser tutto ; battendo persino Michelagnolo; persino Lionardo! I dittatori d'ogni tipo e misura, invece, prediligono e privilegiano il tragico, qualunque sia la loro parte in commedia.

Insomma , a parte il comune e universale bisogno di distensione come terapia per il mal di lavoro, d ' una risata o almeno d'un buon sorriso come difesa dal pestifero mal di serietà, questo « Commovente distacco ,, e questo « Gioioso ritorno » di A. CERVI son due testi che presentiamo a te sta alta, senza che neppur ci sfiori la mente il pensiero di giustificarci e meno che meno di scusarci, perché traboccano di tJerità: infantilmente, deliziosamente. Ben !ungi dall'offendere la diversa, diversissima, qualità dei testi successivi, fanno da nutrita e nutriente introduzione alla loro lettura. E siamo anche in questa circostanza grati all'Ufficio Storico dello SME per quel piccolo « pozzo di San Patrizio >> che è la sua cartolinoteca , dalla quale abbiamo tirato sù « L'assag gio del rancio >> di NovELLO e dalla quale , con più ampia disponibilità di spazio, avremmo tirato sù (senza rimandarlo giù) altro materiale degno d'essere proposto al degno lettore.

In che co n siste il <<comico >> di queste due << cartoline >>? In una serie di finzioni che tali sono soltanto per eccesso di misura, rappresentando in realtà una serie di rapporti veri.

I cavalli sono assimilati all'uomo (e di genere femminile , ben palesemente) nel cc distacco >>; gli uomini sono assimilati ai cavalli (e di genere maschile, ben paksemente) nel « ritorno». Nei due fatti, le effusioni sono seriamente amorose , e i ruoli s'intrecciano e s'inverto- no. Si guardi, nel primo, sulla sinistra, la cavalla ridotta <( uno straccio )) sul collo e sulla schiena del suo fedele; sulla destra, quella mezza Santippe e mezza <<tardona )) a quattro gambe che scarica il dispiacere -disappunto cominciando a fare ciò che dovrà continuare a fare in sostituzione del partente. Si guardi, nel secondo, la sottile caratterizzazione delle tre coppie, specie di quella centrale, nella quale sembra culminare l'allegra « carica '' tipicamente maschile che si profila sul fondo. Non è il caso, ci mancherebbe! di scomodare la psicanalisi, di qualunque chiesa e parrocchia; ma ce n'è di materiale, tra detto e alluso! Comico, sicuramente, ma, come sempre, cum grano salis. Ogni e qualunque unità che si spezza rattrista; ogni e qualunque unità che si ricostituisce rallegra. Non ci turba, forse , a volte, per alcuni, fino all'angoscia da presentimento più o meno superstizioso, la rottura d'un qualunque oggetto, d'una cosa? E' unità che parte e non si sa se ritorna. E chi è nello st adio della verità, così da ricordarsi, o vedere, che ogni resto d 'una rottura ricostituisce, a suo modo, un'altra unità? Siamo ancora, tutti , chi più chi meno, nello stadio << io))' al più in quello < ( noi»: siamo sommari, spicciativi, in tutto, per istinto; e l'istinto ci è caro, al punto che ce ne fidiamo più che delle nostre restanti potenze (la ragione non è la sola!). Ora, l'istinto, indispensabile in ogni sintesi, perché è la componente .fissa d'ogni nostra operazione, l'ineliminabile e provvidenziale automatismo, ci truffa di frequente (colpa nostra) ergendosi a strumento primario delle sintesi: eppure, contro tutte le apparenze e le prove, quanta analisi (e divisione) produce il sintetico istinto! Per questo, e solo per questo, l'amore e l'unità se lo trovano di continuo tra i piedi, come certe che più cercano d'aiutare e più 1mprcc1ano.

Più si è chiusi, limitati, più si soffre e più si gode; più si è aperti, ampi nei rapporti, anche quantitativamente, meno si soffre e meno si gode. In pace, stranamente, la maggior parte di noi finisce per chiudere e limitare pt0gressivamente la propria dimensione: senza credere di farlo, anzi, a volte credendo di tare l'opposto, incrementa, in luogo dell'unità che sola garantirebbe la continuità della pace, un:ì serie di attaccamenti , dì preferenze e di esclu· sioni che a un certo punto, sommandosi, ricreano condizioni da guerra. In guerra , pure stranamente, la maggior parte di noi finisce per aprire e slargare la propria dimensione; la rompe con un sistema di attaccamenti, di preferenze ed esclusioni a struttura più o meno obbligata e incrementa, in luogo delle credute divisioni, nuovi processi di unità in una più favorevole molteplicità.

Bisognerebbe realizzare ciò che si realizza in guerra senza fare le guerre . Già! In guerra si parte X, si ritorna Y e si riparte Z. Sì, è proprio strano; ovverossia, è proprio un dramma; e nasce dalla commedia.

Il <<Fante che parte per la licenza >> di ARTURO GrBELLINO esemplifica generosamente il nostro discorso; che probabilmente, per qualcuno, sarà stato troppo grosso tenuto conto delle immagini cui si riferisce , cosi ((modeste))' di scarse pretese. La scena è letteralmente dominata dal sentimento del distacco In alto, tra !abili segni di reticolato , un cielo di polvere umida, quasi assente; presen te- assente anche l'uomo in postazione all'arma: quello di sinistra, disteso, e quello di destra, in piedi in fosso, appena evocato. Caposaldo, prima linea; è guerra tutta guerra, fronte tutto fronte. E' difficile, per non dire impossibile (ma quanto è vero!), comprendere se i quattro. che restano e si levano a salutare (ci spuntano direttamente dal cuore , come rami, quelle braccia e quegli sgorbi di mani) siano meno lieti per il compagno che può rivedere la famiglia di quanto non siano tristi per se stessi inchiodati a un'unità di rischio e dovere. Tutto ha groppi e nodi in gola, anche la pietra, il cemento, anche il segno grafico. Il partente sembra sotto il segno, minuscolo ma ben evidenziato, di quella crocetta spuntata, miracolosamente, come uno strano fiore, in quel cantuccio. Quante cose non spuntano, miracolosamente, nella solitudine spesso allucinante d'un caposaldo!

E lì c'è la presenza ingigantita d'un compagno che ha fruito di ben altra licenza, che è veramente partito per un assoluto ritorno. Rivedere la famiglia e i luoghi amati è il sogno più concreto d'ogni normale combattente. Ma dividere, spartire, a lungo, vita e morte, col fiato, cog li odori più intimi, lega più del sangue. Il partente sembra, ancora, chiedere venia; la sua gioia è velata; la mano che, in tempo di pace, con lo stesso gesto avrebbe detto:

« Vi lascio la stecca » , ora dice, e sinceramente: << Arrivederci, tutti! A presto! >>. Perché in questo tipo di dramma la cosa meno sicura, partendo, è di trovare, al ritorno, tutti quelli che si son lasciati. Lo pensano, in primo piano a sinistra, gli altri due commilitoni che non hanno neanche il coraggio di mascherare il loro pensiero.

Nella << Partenza >> di MicHELE AGNOLETTO si può configurare il riflusso di questa marea esistenziale dal- fronte- a- casa. Tornano, e m prtmo ptano, personaggt compnman, coprotagonisti che avevamo lasciato dopo il primo capitolo, profondamente annidati nella memoria di ciascuno dei nostri uomini in divisa, ma occultat.i tanto più quanto più erompenti nel segreto delle viscere : una madre, una sposa, un figlio ancora lattante. E tornano in ispirito di verità, composti, veri, pieni di tenerezza ma anche di solidità. Pensiamo ad analoghe scene dipinte o scolpite in epoche meno inficiate di rettorica ufficiale, secondo canoni di tecnica e di gusto cui sorrise molto il successo: la « goccia di glicerina >> lungo il naso, le forzature degli occhi e dei gesti! Qui tutto sta in reale equilibrio sul filo d'un sentimento inattaccabile dall'esterno. Il « puttino >> è veramente , per non scomodare termini difficili, c< una pennellata», ed è il pu nto più profondo in cui culmina il crepaccio aperto dal distacco. Il commilitone già sul treno prefigura il mondo da raggiungere: il fronte, o solo un accantonamento , un campo. n paesaggio, ovvio, se vogliamo , nei suoi elementi , ma trattato con finezza da miniatura , come , del resto, lo stesso puttino, ed anche i profili delle due donne, va, secondo noi, apprezzato proprio per la sua ovvietà. E' pronto per esse r ricordato , è già materiale da memoria: ecco, è già, sfumando verso i monti e il cielo, un ricordo, lo spazio di quelli che tornano in sogno a noi quando noi non possiamo tornare concretamente ad essi. Il volto di questo soldato, con quello sguardo, non si può facilmente dimenticare. Con altro piglio pittorico, in chiave sempre semplice ma più smaliziata, ci si ripropone la sicurezza del mondo da cui abbiamo preso l'avvio per questo saggio.

Tutto ciò che ci siamo permessi di affermare per introdurre alla lettura di questi testi riesce probabilmente a spingersi oltre, a raggiungere le terre abitate da quelli che seguono, nell'altro capitolo. Così come nella commedia c'è già il dramma, nel dramma c'è già la tragedia. I fianchi malcelati dal sottanone della ancor giovane mamma, il sonno sognante angeli del puttino, la piccola mano dell'ancora acerba sposina, le mani e i piedi poderosi del partente , il paesaggio da poesia di bambino: troppe cose, troppi valori insieme, l'acqua fermenta e lievita nei fondali, come quando sta per scatenarsi, dalla bonaccia, il ponente o il pazzo maestrale. Tutta la vita è naja; ma va vissuta.

I PREZZI Più ALTI.

E sono prezzi, umanamente, assoluti. Non pagano l'acquisto di questo o di quel bene; non pagano nessun acquisto; pagano, per assurdo, una perdita, che a volte è, per molti, riparabile, a volte, per molti, irreparabile. Sempre assurdamente , prezzo che paga se stesso; come un miliardo nel deserto , privo, nonché di valore, di senso. La ritirata, per sconfitta o per rinuncia da impotenza, e la prigionia mettonò in crisi tutte le domande e risposte sui possibili acquisti della vita e sui relativi prezzi; infatti dicono, senza attendere obiezioni, affermano, perentoriamente, che l'umanità non ha altro prezzo che se stessa, perché di se stessa è moneta e merce, la sola valida, la sola degna. Per questa umanità Gesù, l'Uomo- Dio di noi cristiani, ha pagato lasciando morire in Cr oce la sua umanità: prezzo unico , non trattabile, definitivo; e a fondo perduto sia come prestito sia come investimento E' vero: per noi è questione di fede. Ma all'interno della fede sta una logica talmente poderosa che vi si possono fondare tutte le possibili matematiche di tutta la n ostra possibile storia.

Credenti o meno, scettici, agnosttcl o atei, tutti_ quelli che hanno patito una ritirata o una prigionia sanno, comunque, lo credono, che nulla è più terribile del non sentirsi più (poco a poco o d'un tratto) uomini. Du n que , essi sanno che soltanto un a ltro uomo vale un uomo; e non ci sono <c ma » che tengano. I conti della verità quadrano sempre.

Da cc La lunga marcia verso l'Ovest>> di Giacomo Raimondi abbiamo scelto una tavola di rara potenza nella quale ci sembra che, ancora una volta, l'autobiografia, l'estrema partecipazione personale, libera, ad una testimonianza corale, si avvalga , per esplicare tutta la sua efficacia, proprio dell'inquadramento in una estrema disciplina cosmica. Un vento senza pace incalza e piega tutti questi uomini an- cora tanto lontani dagli amici quanto già dai nemici cui volgono le spalle. E sono tutti ridotti a segni, a macchie, nero su bianco striato di nero, in lotta col più spietato, impassibile , dei nemici : lo spazio metallizzato dal gelo, dilatato fino al parossismo dalla solitudine e dalla stanchezza. Tutto il coraggio, tutta la forza, che non sono bastati a vincere militarmente , si stringono , si appallottolano su se stessi per resistere a quel vento alle spalle e a lle raffiche della disperazione dal cuore, per vincere nell'ultima istanza: quella umana , tenacemente, in alienabilmente umana, irrinunciabile. Torna la virtù dei c< giganti » morandiani, la pazienza, il sentimen t o del tragico illuminato, sia pur fiocamente, dalla speran z a. Bisogna giocare cc l'ultima mano»: e tutti coinvolti, . compresi i fedeli animali, i mezzi meccanici, le slitte. Chi cade definitivamente e deve esser lasciato sulla pista, troverà o ritroverà Qualcuno mai incontrato o dimenticato, da sempre pronto all'ult imo va rco di ctascuno.

Esodo, migrazione, e qualcosa di più: la strada dei progenitori fatta a ritroso, perché l'Eden c'è, ci deve essere. Come dire: la Storia ipotesi di esistenza; non tanto vita quanto ricerca sperimentale della vita. Ma quanta grandezza anche nei più piccoli segni- uomini appena visibili sotto il taglio feroce d eli' orizzonté!

La tavola a fronte, di GIAMBATTISTA P ieCARDI, pur se d'altra mano, sembra nata dopo l'epilogo del dramma già in atto nel gruppo centrale, in primo piano, della tavola di R aimondi. Tratta, anch ' essa, dalla cartolinoteca dell'Ufficio Storico dello SME , potrebbe fare a meno d'un titolo. Ma noi le diamo questo: « Veglia funebre> > N on è, convenzionalmente, bella. Vogliamo, però , (anzi, lo dobbiamo) dire di essa ciò che spesso si dice di certe donne: " Non è bella , ma è più e meglio che se fosse bella » Non ci sfiora neppure il pensiero, affermando ciò, di giustifica re la scelta. E' sem pre e soltanto tutta co lpa della fame e dell a sete di verità, di umanit à; bisogno irrefrenabile di proclamare ce rti primati. Ancora un ricordo del 1941. Nella Caserma degli Alpini , a Pinerolo, qualcuno av eva scritto su una p arete dei gabinetti (di decenza, sì!) ovverossia delle latrine , a carbone: .. Il mulo e l'alpino sono due animali pazienti». Ci nasce della reve renza , al ricordo; o rinasce, o si rinfocola. Era una scritta all ' acido muriatico: però , oltre alla pazienza, quanta umiltà , e solennità non fasulla! Se qualcuno sente leggendo quel che sentiamo noi scrivendo, usi pure il dorso della mano , anche se non è solo. Non c'è affatto da vergognarsi; anzi, è nobile. Certo, bisogna ro-vesciare ce rte prospettive; anche in materia di lettura e critica d 'ar te s iamo chiamati a convertirci. L'arte la fa c hi la fa, se nza bisogno di patenti o licenze; ma poi chiede occhi e cuori semplici. Così.

Il motivo della prigionia , rimeditato, ci ha imposto, tra tante testimonianze, un'altra dell e deposizioni - profezie di P rETRo MoRANDO: c< Verso l'esilio » Ci permettiamo, scusandoci col lettore, di richiamare l'attenzione sulla dedica: « A G. Puccini - A Plinio NomelliniA Ildebrando Pizzetti - All'avvocato A. SardiA V. Gemito = Gran Uff. A. Cagno/i ». E sulla data: 1917. Sono trascorsi sessant'anni di questo secolo di secoli; ma ne potranno trascor rere tanti e tanti altri: questa è arte e resta. Il volontario del 38° Regg imento Fanteria Pietro Morando, tre volte decorato al valore, fatto prigioniero durante la ritirata del Piave, si avvia con altri compagni e fratelli d'arme verso il campo di concentramento di Nagjmejer in Ungheria (di dove , con la medaglia d'oro Stefanella e il tenente Del Vescovo , riuscirà ad evadere, per essere riacciuffato mentre stava per raggiungere la Romania). Il suo discorso grafico, come al solito, va per le spicce: è necessità ed è vocazione. Calca e crea, tocca e crea , sfiora e crea, senza un cedime nto né alla stanchezza né alle lusingh e d e l narcisismo così facile a traboccare dall e v iolente e mulsioni delle g randi sofferenze. Sotto qu es to cielo smagliato da voli di corvi il paesaggio i n fuga per piani allusi, sugge r iti, ha già divorato e assimilato i volumi e le superfici degli uomini : schiene, schie ne e teste ch ine come framme n ti di territorio; corpi di caduti come interruzioni, asperità del sentiero, come già terra sulla terra. Per uno di essi i due uni ci sguardi della composizione, fradici di tutti i possibili sentimenti. Ora, veramente, sop ravvi ve re è il solo modo di se r vire, di militare. Che giova rendersi ulterio rmente conto di quanto gra nd e sia la piccola Terra, e dell'importanza di scoprirla, attraversarla, conquistarla per uma nizz arla, goderla , dal momento che è stata preparata proprio per noi? Tra poco rischi eremo d'essere pietre , alberi, e stecchiti, al più animali da cortile, in uno spazio da tomba, in un tempo di piombo. Un prezzo spaventoso, di per sé; e tendente a sali re con la fame , la sete, la sporcizia, il colèra, le torture, la nudità al palo con qualunqu e tempo. Di tutto ciò il MoRANDO ha lasciato un m emoriale di grande altezza, del quale , come in un vero e propri o preludio, sono qui presenti i motivi e i mòniti. Ma egli per primo ha pagato se stesso co n se stesso ed è sopravvissuto ed ha ripreso a vivere. Dunque, ha fatto bene a non mentir e, per sé e per gli altri. Anche per questo , è gi usto rinverdirgli un onore che gli spetta, come sol dato e come artista : come uomo.

Degnamente, ci sembra, il << preludio » mo-randiano può essere integrato da questo « intermezzo » : l'abbiamo preso da « Venti mesi tra i reticolati » di MARCELLO ToMADINI e porta una didascalìa pietosamente ironica: « Si cominciano a vedere i segni della denutrizione » . L a finta pace succeduta alla c< gra nde » guerra ha maledettamente s pi ga to in una Grande Guerra : tra il '17 e il '44 d el secolo di secoli so n tra sco rsi 27 anni , m a se mbra un 'unica sto-ria; i prezzi si mantengono alti, anzi si fanno sempre più alti. Non so no i nudi della « Visita medica » di BARATTI , non è <c La doccia » di QuiNTo CENNI : è una patetica fiera di esemplari declassati dalla siccità e dalla carestia; un canneto umano trapiantato in serra, all'asciutto, e vivificato da rad e e stente piogge artificiali. L'insiem e d ella co mposizione è di quelli che colpiscono a prima vista, ma poi , ad un seco ndo sguardo , de stano qualche perplessità per un che di ripetitit•o, di riprodotto, di moltiplicato, cui sembra artificiosamente affidato l'effetto. Ci vuole una terza visione, calma, una tranquilla, distesa, lettura: ed ecco, le perplessità si sciolgono dentro la prima impressione che torna, arricchita e unificata, in un lento malessere, in una musicalità rassegnata, con un sottofondo di pudore umiliante più che dolente, quasi di gioia mortificata. L'impianto, la linea del disegno e certo levarsi di braccia ricordano un po' il clima di alcune illustrazioni di scene dantesche: su un filo esilissimo di n dannazione » sbiadito dalla poca acqua, una danza di anime purganti . Ma ciò può attenere a un «g usto», ad una formazione artistica e soprattutto a un tipo di tecnica, di cc mestiere ». Tutto il resto, il meglio, è « comme- dia dell 'ar te », cc recita a soggetto», autonoma, personale, autentica. Fa cam po di concentramento, fa c• baracca » pur se c< bagno >> : è diario; è forse l'autobiografia condensata di quel dolente cristiano che si piega sulle ginocchia, scheletro tra scheletriti e protende il volto più barba che carne per guardare, ricordare, tramandare. C'è tanta for za di misericordia nel suo atteggiamento: verso i compagni ed anche verso se stesso, verso quel che rimane, via via , di se stesso nel cedere, dopo il superfluo, il necessario ai limiti dell'indispensabile. Per comune consolazione, sembra dire a nome di tutti: cc Finché c'è acqua c'è vita, però ; e speranza ». I segni della denutrizione si cominciano a vedere : è già qualcosa, anzi, è ancora tanto. -119-

Osservare all'alba il mondo che nnasce, mentre tutto ciò che è stato nella notte resta vero diventando ricordo; attendere ciò che accadrà sorvegliando ciò che intanto accade; ricuperare tutte le dimensioni, tranne quella immutabilmente riservata all'imprevisto.

Constatare (sul principio, nel mezzo oppure al termine d'una giornata , o dell'intera vita) che l'unico fatto preciso, dopo la nascita, è la morte, il non esserci più; che tutto il resto sembra preciso ma in realtà risulta sempre misurato male; salutare ciò che è finito e specialmente chi è morto, o meglio si è definitivamente sottratto al nostro solito modo di osservare, e staccarcene, accettando senza comprendere o comprendendo senza accettare.

Tra queste due operazioni, diremmo, si svolge tutto, a seguitare; e da esse, a vicenda o simultaneamente, vediamo scaturire la forza che, spingendoci verso il cosiddetto avvenire, fa brulicare di creazione l'inesauribile presente Il dramma accadere- accettare- comprendere è l ' ombra che il corpo vita- morte proietta al nostro passaggio sulla Terra anche senza il Sole, persino alla luce del buio.

Tutti i nostri problemi nascono dall a morte , non dalla vita; i valori nascono dai problemi; dunque è la morte che li inquadra, li illumina, li quota. L a nostra morte. Su questa si fonda la stessa politica, perché tra immortali il potere verrebbe totalmente risolto nel volere e il volere in fare, senza veri limiti, senza leggi. E vi si fonda anche l'arte, che dopo l'amore è il più reciso rifiuto d'ogni cessazione, d'ogni sparire, libro mastro tra i più antichi e attendibili dei valori della vita nel loro guadagnare, dall'abisso, lo specchio della coscienza e il fiore del pensiero.

I valori più alti sono, pertanto, da sempre e per sempre , quelli che l'uomo esprime nei momenti in cui, invece che l'ombra del dram- ma accadere- accettare- comprendere, il suo corpo vita- morte proietta luce perché alla luce si arrende , dalla luc e si fa attraversare e riempire fino all'assimilazione. Quando, cioè, l'uomo smette di chiamare « Io » tutto e tutti, uscendo dalla sua vera galera, diventando , da ·consumatore, produttore di storia.

Osservatore all'alba >> di P rETRO BrFFIETTA, !mposta delicatamente, con dolce forza, la prima parte del nostro discorso. La figura ha una modulazione lieve, lirica; l'abbandono un po' sognante, misterioso, è però compatto, raccolto; affiora dalla notte di veglia in una luce trepida ma già reale per il contrasto tra il tenero e il duro dei gialli, dei verdi, dei viola. L'arma è nel pugno con la sicurezza e la noncuranza delle abi tud ini; lunghi pens ten vanno e vengono tra notturne reminisce nze e ferme presenze di oggetti sot to lo sguardo esperto, maturo, di veterano d'un se rvizio tra i più carichi d i responsabilità. Ancora un inizio, un'altra apertura. Tutto può succedere e di fronte ad esso, an co ra solo possibile, quanto è sicu ram ente già accaduto è come se se lo fosse preso la notte. Il breve squar cio di paesaggio, in fondo, nasce appena, o forse sta per nascere. Passamontagna e mantella sprigionano e imprigi on ano a un tempo il bisogno di sonno; ma il tratto un p o ' gelatinoso del disegno non riesce a mentire. Così si sta s pesso s u mol t i tratti dei confini dell' esiste nza , quando si sa che sia m o particolarmente responsabili di tutti i co nvi ve nti. E come un res pir o di bambino, come un impercettibile tremore, tra freddo e caldo, alitiamo o ricordiamo una preghiera, canto di co nfine.

<< L'u ltimo saluto » d ello stesso PIETRO BIFFIETTA chiude, invece, là prima parte del discorso. Non sappiamo co me il lettore acco- g lier à qu esta « cosa da nulla )) Noi confessia mo che semplicità di questo ge n ere ci sconce rt ano , sempre; e non so lta n to all'inizio , ma anche al termine d ella lettu ra. Come si fa a rappresentare i l silenzio? Perché proprio il silenzio precede immediatame nte e immediatamente segue i fatti veram ente più importanti, quelli che splendono, a in cand escenza, di valori. Occorre conoscerlo, averlo vissuto: quello grande , interiore, che un solo gesto in più può rompere, violare, profanare; quello ch e sa lva dove e quando tutto il resto è, invece , rumore ; quello ch e spaven ta o solo m ette i n soggezione di fronte non tanto alla morte quanto al morto, propri o perché è, per assurdo , la vera voce dei valori che il frastuono della <• vita » così spesso soffoca e s penge . Il fante in ginocchio, poco più d'un ragazzo , «si scari ca » rassettando la terra sotto la croce come se ricomponesse la salma; il graduato , un po' più anziano, •< si ca ri ca )) imme tte ndo nella memoria quanto può della vita del morto e della morte in agguato sui passi d'ogni vivo. Anche qui , e ci ripetiamo nei confronti di qualche altro passo di questo saggio, amore si fa pietà , pazienza grazia.

Chi innalza un si mbolo innalza la co munità c he vi si riconosce e se n e fa rappresenta re , proc lama la sua appartenenza ad essa e si impegna solennemente a re nderl e te stimonianza; egli è g iusto, nel senso antico e perenne del termine , martire della comunità. E qual e che sia il simbolo, il segno, sempre importante, l'atto dell' innalzarlo è ancora più importante di esso: se, infatti, << il Sabato è per l 'uomo», anc h e il simbolo è per l'uomo, allo stesso ti tolo; da uomini e per uomini è stato ideato, proposto, scelto. Questo, !ungi dallo s minuirlo, ne fi ss a il valore e lo difende da qualunque conte stazi o ne Qualunque s imbolo decade e scompare soltanto quando non c'è più n essuno disposto ad innalzarlo in nome di qua n ti (molti o pochi che siano) lo ri co noscon o e gli rendono testimonianza a qualch e prezzo: perché dietro ogn i simbolo c'è una qualche verità e nessuna verità è se nz a testimoni. N el mondo degli uomini , i testimoni fa nn o la verità; e sull a base di ciò che cos ta farla , se ne stabilisce il valore. Il simbolo sin- tctizza, pragmaticamente, sia il far la verità, sia la verità, sia il suo valore. Anche il simbolo è un punto di partenza già stato punto d'arrivo, un centro di gravità risultante dalla condensazione di una molteplicità di già gravitanti. Anche per questo è così difficile, sempre, sconfiggere un simbolo, batterlo veramente in breccia, ed è talvolta impossibile distruggerlo.

Tra i simboli, la bandiera è uno dei più ricchi e caris matici Ma è anche uno dei più ambigui; in se e per se, naturalmente. La sua fortuna nella storia dei simboli è senza pari; il suo potenziale unificante e rappresentativo è tale che il suo stesso nome , in traslato, metaforicamente, riesce a far da segno di qualunque aspetto dell a realtà e persino delle intenzioni , dei pensieri segreti. La sua ambiguità è il prezzo pagato alla sua fecondità, prolifera come poche cose al mondo. C'è la Bandiera, e ci sono miriadi di bandiere e bandierine e banderuole. Ma quella che conta è la Bandiera , al punto che nessuno è più capace di farne a meno. Nei momenti più acuti del ricambio sto rico , quando si fanno saltare con la violenza cerniere, strutture, contenuti e segni del mondo sottoposto a giudizio marziale, si giunge a bruciare una Bandiera; però se ne crea e inalbera un'altra. I cortei politici che hanno sostituito le antiche processioni sono ormai navigazioni d'uomini e d'armi in oceani di bandiere. L'ambiguità c'è e come (nei nostri atteggiamenti, non nella Bandiera) ma la demitizzazione è sempre ed esclusivamen te una pura e semplice sostituzione. Mito per mito? Evidentemente il fatto ci risolve e soddisfa assai meno di quanto andiamo proclamando da sempre o quasi; al punto che non possiamo proprio fare a meno di levare al disopra di esso, e di ciascuno dr noi, e di tutti noi, un 'idea materialmente intessuta, multi o monocolore, nella quale siano e il fatto e il da- fare e il mai- fattibile. Di una Bandiera potrebbe fare a meno (ma in pratica, no) solo gente che prega, che sa pregare perché crede veramente in Dio. Ma chi non sa o non vuole pregare; chi vive, combatte, vince, perde, spera, dispera prima di morire nel ventre della realtà effettuale, leva come orazione la sua

Bandiera. Se la Fede è qualcosa di mtt1co, la Bandiera è allora l'ostensorio della F ede, Speranza e Carità laiche, rigorosame nte ma religiosamente umane. Non è materia di discussio ne politico- sociale, ma di culto civico e civile. Se la Storia è l'unità progressiva di tutte le nostre ipotesi d'esistenza in cerca di verifica attraverso la morte , la Bandiera è il simbolo di tutti i problemi che da tale ricerca erompono e dei loro rispettivi valori.

L'alzabandiera è dunque la preghiera storica, laica, del cittadi no , particolarmente del cittadino in di visa, del soldato: dove l'accettazione della disciplina come obbedienza sostituisce l'adorazione , ma dove domanda e ringraziamento sono presenti nella lode. Ed è preghiera di unità: particolarmente in guerra, al fronte, quando , per la distanza spesso enorme dalla propria terra , l'unità è tutta dentro, e i segni che scand isc ono lo spazio sono avversi, ostili.

Non siamo riusciti a dire qualcosa di meglio, o d'altro, proponendo al lettore « Alzabandiera in Russia » di ALVARO GIORDANO. Dov'è , qui, la Bandiera? E cos'è? E' tra le braccia del soidato che ci guarda tenendola ben stretta, si identifica con lui, se ne distingue solo per il colore. Ed è qualcosa di proprio, di intimo, non di c• ufficiale », non di cerimonioso: nasc e o rinasce da una disposizione d'anima rudemente, anzi, rozzamente, espressa, in un ambiente ridotto quasi a schema, d'una dolce- amara poeticità, non come un mito , ma come un oggetto caro , un'esperienza d'amore. Il massiccio, quasi informe, combattente, dal viso di terracotta e l'elmo fuori misura, jn bìlico, la tiene come una donna, come un figlio, mentre il compagno di spalle, di mi r abile impianto plastico, manovra come può, impacciato da tutto, la cordicella: delicato, in forte contrasto, nelle mani che a malapena si differenziano dali 'albero. Sotto altra ispirazione, o meglio in assenza di ve ra ispirazione, l'Autore avrebbe forse avuto paura di cadere nel dolciastro d'una romanticheria; forse anche di mancar di risp etto al simbolo: ecco, di demitizzarlo. Così, invece, ha dipinto come si cammina, come si respira: tutto normale, tutto naturale. La Bandiera è qui ed è sù, dove sta per andare, ma dove intanto già la contempla il <1 suo » soldato sotto le braccia protese e le mani che fuggono. Qui , solta nto qui, sono i due uomini , le gambe come gli a lberi, come le palizzate, i co rpi come muri maestri, i pensieri e i sentimenti domestici, pudichi, pi ù infantili che giovanili: perché questo può ben essere un ritratto d e lla fede, ed essi, con la loro fede, dànno valore a ciò che fanno. La loro presenza occu pa quasi per intero lo spazio in cui agiscono, in compagnia d ' un solo muletto, come se dove ssero qualificare il mondo inte ro. Si può vincere e si può perdere, ma la prima cosa è testimoniare. Quando non sei tu che sul campo hai s parso se mi di errore, se testimon i bene , veracemente, può essere che tra gli errori nasca s ul campo, per te , qualche verità. Onore , sempre , al simbolo innalzato bene, con cuore semplice e con mani pure. E il qualunquismo, se ntiamo il dovere di agg iunger e, è proprio tutt'altra cosa .

I testi che seguono : << La Mes sa>> di PIETRO MoRANDO e << Natale 1944- La M essa di mezzanotte» di M ARCELLO Tm.tADI NI , si stampano sul fondale dell'Assoluto, prospettano il supremo dei problemi, da cui germoglia un valore di abissale misteriosità e di tanta se mplicità da resistere alla mente più agguerrita e da cedere al cuore più inerme. Credere o non credere non agg1unge e non toglie nulla alla possibilità di sapere , di ca pire. Pure , n ea nche p er chi non crede l'Elevazione è l'equivalente religioso dell'Alzabandiera. Simbolo può esse re il sacerdote , il prete per alcuni; simbolo, ancor più che delle ce rtez ze, delle speranze, del bisogno di conforto, di conso lazione , del biso g no di pace almeno psi cologica. Ma quel pezzo di pane, quel ca lice di vino , per chi è nato e cresciuto n el clima della cultura cristiana, si a pur e genericamente, non possono essere simboli: o n on sono proprio niente, o sono pietra d 'inciampo , di scandalo, o sono una Verità total e per via d'una loro totale, nostrana, assurdità . Un fatto, irriducibil e a qualunque tipo di discorso che non si generi e si svolga dentro la dim ensione cui si accede per la « porta stretta »; un fatto che si ripete da venti secoli nelle più ovvie e nelle più im- pensabili situazioni geografiche, sto riche , es iste nziali , a tutti i livelli e in tutte le collocazioni sociali, economiche, politiche, culturali, antropologiche; i n pace e in guerra; nella g ioia più magma incandescente e nel dolore più pietra , più metallo; resistendo ai crolli di tutte le di ghe che hanno inesorabilmente s pazzato non pur truffe, menzogne e miti , ma anche uomini e cose portatori e portati di verità. Anzi, acqu istan do una consistenza sempre più concreta, fattuale, proprio nel vivo delle crisi che vedono tanti punti interrogativi sostituire le scienze sul tabellone di marc ia della Verità. Una cosa per noi sempre tropp o alta o troppo profonda, troppo a d estra o troppo a sin istra; eppure così s tretta che vi stiamo dentro come in sandwi ch.

E' che la « cosa » non sta né sù né giù, né a destra né a sinistra di tutti e di ciascuno: essa sta, invece, in tutti perché sta in ciascuno. Prendete e mangiate: questo è il mio corpo; prendete e bevetene tutti: questo è il m io sangue, versato per tutti in remissione dei peccati Questa c< cosa >>, o la chiami Cibo o non sai proprio co me devi chiamar La . E il cibo p assa per le mani e per la bocca; solido o liquido è corpo che e ntra nel corpo e div enta corpo e sa ngue: è ciò che garantisce la Vita. Ma è corpo e sangue di Dio Figlio diventato uno di noi restando Dio; con quel corpo e con quel sangue noi ci uniamo a Dio restando noi, uomini ma figli di D io. Che possibilità c'è di discuterne? Per poterne discutere, la fac cenda dovrebbe poter figurare in un qualunque or dine del giorno di tipo nostrano: per esempio, in quello d ' un congresso di pazzi. Inv ece si tratta , molto semplicemente, di prendere o lasciare: è così da venti secoli. E chi lascia dice più o meno quello che dissero, secondo il capitolo sesto di Giovanni , gli ebrei (i Giudei! ) commentando il più rivoluzionario e pazzesco discorso dell'intera s toria: « Come può mai costui darci a mangiare la sua carne >>? Gesù, infatti, stava loro dicendo: « Io so no il pane della vita. I padri vostri mangiarono nel des erto la manna , e morirono. Questo è il pane di sceso dal cielo affinché chi ne man gia non muoia. Sono io il pane vivo disceso dal cielo Se uno mangia di questo pane , vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo>>. E tra quei commenti insisteva, rincarando la dose : cc Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui >> Non era certo materia per esercitazioni accademiche. Però, secondo Giovanni, « queste cose disse Gesù insegnando nella sinagoga di Cafarnao » , nel vivo del suo poco accademico triennio di cattedra terrena . E fu sb rigativamente contestato; anzi, peggio, fu snobbato. cc Molti adunque dei suoi discepoli>> (figu r iamoci gli altri!) « udito che l'ebbero, esclamarono: Questo linguaggio è duro ! Chi lo p uò ascoltare? >> Infine, dopo avergli addirittura sentito dire << nessuno può venire a m e se non gli è concesso dal Padre >> tra il prendere e il lasciare scelsero questo. << Da quel punto molti dei suoi discepoli si ritrassero e non andavano p iù co n lui>>.

Ora, la Messa è tutto questo. Chi prende, non gl i passa per la mente neanche il minimo sospetto della possibilità di discutere. Stupenda, sublime opera, la cc Disputa del Santissimo Sacramento >> : un lusso, uno scialo vertiginoso di genio pittorico! Ma c'è più verità nella tavola di Morando. Quante navate scandiscono questi alberi- colonne in mezzo alla neve? Ce n'è di architettura! C'è persino un solen ne Altare della Confessione degno del Tabor, del Getsemani e anche del Golgotha. Ci sono sop r attutto , a ridosso del Cappellano che compie il meraviglioso gesto assurdo, questi uomini, questi « giganti » morandiani disegnati come anime, ripiegati su se stessi perché non hanno bisogno di cercare sù o giù, a destra o a sinistra, Q uello che o credono o rispettano dentro il cuore, nelle viscere. Essi stanno in cima alla loro esistenza, a picco; e sotto c'è un abisso da De profundis. O è vero l'inverso? Non è difficile, in ogni caso, sentirli di re: « Signore, che Tu ci sia o non ci sia io non lo capisco, n on l o posso capire. Io non capisco niente, tranne questo, e penso che Ti basti: Tu hai versato il Tuo sangue e lo stai versando di nuovo. Ebbene, anche noi: c'intendiamo. Dai un'occhiata, Ti prego, ai miei vecchi, alle donne e ai bambini; e danne una anche a me. Non tener conto di qualche mòccolo; sono le labbra , non è il cuore. Se domani non la sfango, mi piacerebbe proprio incontrarti. Mà vedi tu. Qui l'è dura; ma fu dura anche per te, anche peggio. Allora! >>. E non è difficile neppure unirsi a tanta preghiera. A cielo aperto.

11 testo di T omadini si precisa, per la sua chiusura, o, più prop r iamente , clausura, ed anche per la sua insegna natalizia, in termini non così epici (neanche, però, meno drammatici) , bensì, certamente, più paradossalmente angosciosi. L a stessa Eucaristia si celebra, in una baracca da prigionieri, nella memoria liturgica del primo grande atto dell'umana liberazione : una « occasione » che, nella nostra cultura, è potentemente, prepotentemente, domestica; anzi , addirittura casareccia, carica di abitudini , significati, ricordi, obblighi , con puntualizzazioni ineliminabili in volti, musiche, sapori, profumi e commozioni. Una immensa, incomparabile e probabilmente insostituibile sagra d'umanità che il « Bambinello» (qui, sì! sovente più simbol o che realtà) unifica segretamente, nascosto (tanto per cambiare!) nel cantuccio della servitù Non è cc La Messa »; è « La Messa di mezzanotte >> ; ed è Natale in prigionia.

Giova ripetere, anche qui, un'osservazione: se la Fede fosse sempre gioia, sia pur sepolta, qui non ci sarebbe Fede. Una grande tristezza lega tutti ques t i uomini intorno all'altare; non toglie nulla allo squallore di cui è fradicio l'ambiente: sfuoca le fisionomie; spenzola dalle cordicelle con gli << stracci >> stesi ad asciugare; accentua la << distrazione » di tutti e di ciascuno; sembra, dal gesto, molestare particolarmente il celebrante . Ma non può essere che questa, la verità. Il fronte è lontano, ormai; ma anche la patria, la propria casa, dunque tutto il mondo: succede come successe a Lui e a Maria e a Giuseppe.

La fede pura, la fede completamen te nuda, ai limiti dell'annientamento totale , può conoscere quella che noi chiamiamo, ordinariamente, gioia? E ' il salto nel buio , coscientemente accettato: è il punto zero d 'una realtà nuova sulla massima quota della realtà consueta. Anche di certa gioia, a volte, bisogna vi n cere la tentazione. Avviene quando, sia per chi crede sia per chi non crede nella Risurrezione, la libertà, che qualifica ]'uomo e che è la fonte della gioia in tutti i suoi modi, si confronta giusto col rischio dell'annientamento totale , con la morte personale, pur di proclamarsi , di celebrarsi, come l'unico accettabile significato dell'esistenza, singola e collettiva. Siamo in cima alla guglia della disciplina, dove l'obbedienza alla legge più alta si confonde con l'obbedienza al nostro mistero, con la scelta del mistero; e stiamo per staccarcene, per fare il « salto nel buio » che del buio è la più irriducibile negazione, sempre e dovunque .

Proponiamo al lettore il noto quadro di ALBERTo DE AMICIS, raffigurante un episodio della Resistenza, la « Difesa di Porta San Paolo)), del 1943, tra due alte testimonianze di verità artistica: « Figure di fucilati per un gruppo scultoreo » di GIUSEPPE MAZZULLO, e «Fucilazione» di MARIO MAFAI.

Non si tratta, per noi, di « Omaggio alla Resistenza >> : ripeteremmo, troppo comodamente, ciò che altri, a ben altro livello, ben più degnamente, han fatto. Si tratta di legare questi testi alla storia del nostro familiare discorso, in modo che risultino come i terminali sacri del capitolo sui valori più alti , a un tempo sigillandolo e spalancandolo alla meditazione ed alla prosecuzione da parte del lettore.

Il DE AMICIS ha fatto cronaca: di storia nuova tra le viscere della Storia perenne. Memento; per tutti, senza distinzioni; i debiti van pagati. E' criminoso quanto sciocco fingere d'ignorare quanto è costato ciò di cui godiamo.

Gli uomini del potente disegno di MAzZULLO, fermati nell'atto in cui non muoiono ma emergono dalla pietra della schiavitù, amiamo presentarli con le parole dell'Autore: c( L'ispirazione alla Resistenza non rappresenta per me qualche cosa di occasionale e di commemorativo, ma un soggetto che appartiene alla zona più intima e sentita della mia coscienza di artista. 11 sentimento di slancio verso l'ideale del riscatto dallo straniero e della libertà, di orrore e di indignazione per l'offesa alla natura umana che avvenne allora , di fraterna immedesimazione per le sofferenze subite in quel tempo, è un sentimento che direi si identifichi alle stesse forme e ai problemi stilistici della mia scultura »

Ci permettiamo di aggiungere, di nostro, solo questo: leggiamo il testo in senso ascensionale, da destra a sinistra, come se un solo patriota, dopo essersi raccolto nel suo sacrificio, si scuota e poi si sollevi, offrendo a noi tutti la libertà.

Anche la preziosa, essenzialissima, pittura di MAFAI giova presentarla con le parole dell'Autore. Essa fa parte « di un gruppo di circa 30 opere che furono dipinte dal 1939 al I943· I s9ggetti rappresentano diverse fasi di una rivolta umana dopo l'amara constatazione che nello stesso tempo, nello stesso spazio e nella stessa società in cui vivevo si era scatenata una tempesta di male. Sadismo, cinismo, ferocia ne erano i dominatori e la pietà, l'amore e il sacrificio non riuscirono a fermarli. L'uomo ha dentro di sé un contenu t o misterioso e sacro e il male non si può giustificare in nessun modo, né in nome della razza, né dei popoli, né delle ideologie. P iù tardi, dopo il ripetersi di nuove violenze e la conoscenza di quelle ant i che, ho pensato che il male è una malattia delruomo e che per eliminarlo bisogna rinunciare all'odio che ne è all'origine. Ma questo è difficile , quasi impossibile».

Le parole di MAFAI con le quali abbiamo chiuso il capitolo precedente sono drammatiche nella loro purezza e tragiche nella loro sostanziale disperazione. Dopo l'esaltante dichiarazione che « l'uomo ha dentro di sé un contenuto misterioso e sacro», per cui « il male non si può giustificare in nessun modo», sì sente l'Artista dire che « il male è una malattia dell'uomo>> e che << per eliminarlo bisogna rinunciare all'odio che ne è all'origine». Un tetto di saggezza, o forse addirittura di sapienza: dove, però, la diagnosi rappresenta il risultato estremo, l'ultima conquista; l'indicazione della terapia risulta, infatti, perfettamente inutile , in quanto rinunciare all'odio << è difficile, quasi impossibile». Anche quel «quasi », nel contesto, ci sembra inutile. Se rinunciare all'odio è impossibile, dobbiamo accontentarci di sapere che siamo ammalati di male, cioè dì odio, prenderne atto e regolarci di conseguenza.

In verità, di <<eccidi >> è seminata e fecondata la nostra storia, che alla superficie tende a coincidere con la storia del male, del nostro male. Ma chi rinuncia all'odio, elimina o no il male? Se il male è l'odio, sì: non quello altrui, ma quello proprio; comunque, sì. Chi, però, non rinuncia all'odio, sia o non sia compiuta l'identità odio- male, non elimina né l'odio né il male; né il proprio né l'altrui. Tra chi rinuncia e chi non rinuncia all'odio c'è un rapporto, stretto, anzi strettissimo; e lo si può mettere all'insegna matematica di tutte e quattro le << operazioni >>: addizione e sottrazione, moltiplicazione e divisione; quest'ultima è decisiva ed è finale. Uno strano discorso: il culmine dell'odio- male è la morte, orrendamente e sconciamente (sul piano etico), impassibilmente e perfettamente (sul piano matematico) distribuita. Non è una fine , non è un modo o un altro di finire : è la fine; e amen. Non è una tempesta di male periodica, magari ciclica, stagionale; per quanto ci riguarda, è << la bufera infernal che mai non resta ». Accettando la nostra condizione come una dimensione chiusa, la morte frustra, beffeggia, ridicolizza, prende per i fondelli, globalmente, la nostra umana natura, e di essa, partÌcolarmente, « l 'ideale del riscatto dallo straniero e della libertà», ideale perenne, mai spento, per il quale il sangue dell'uomo è sempre scorso, scorre e scorrerà, veramente, a fiumi. E di qual mai bestiale truffa saremmo vittime, da qualche milione d'anni, se alla fin delle fini c'è la fine, di ciascuno e di tutti? E i valori più alti ai più alti prezzi? E il valore, il valore - base, il valore fondo di garanzia d'ogni nostra ideale moneta? La strage di chi vuole la libertà, seguita dalla strage di chi non la vuole, e ancora dalla strage di chi la vuole? Allora la negazione dell'odio, la rinuncia ad esso, che sarebbe poi la proclamazione dell'amore come radice del bene, è soltanto un momento dialettico dell'odio, destinato a far la sua stessa fine, dal momento che persino ai tempi più lunghi possibili è scientificamente certo che il sole si spengerà.

Dev'esserci, Il Valore; perché c'è Il Problema e c'è Il Prezzo.

Ritorniamo un momento al forte, struggente, sconvolgente testo pittorico di MAFAI ed alla sua esplosività d'amore. Non per un discorso critico sul pittore Mario Mafai che non ha proprio bisogno di noi per essere quello che è e continuerà ad essere nella storia dell'arte; no; soltanto per una lettura, umile ed affettuosa, di questo « Eccidio » fatta nel modo più indifeso, non solo senza paura di ]asciarsene suggestionare, ma addirittura desiderando e confidando che la suggestione agisca.

E' impossibile, anzitutto, non accorgersi di quanto il testo si distingua da altri testi di ana- logo contenuto (e di grossi autori) proprio per una sorta di sovrapposizione di due ispirazioni e di due vision i ciascuna delle quali è stata « lavorata)) in un modo particolare fin quasi all'autonomia. Roba da mistici orientali: un dualismo che è unità e un'unità che è dualismo; cioè un dualismo che non è dualismo e un'unità che non è unità.

Il mondo già coinvolto e travolto nell'eccidio (una scrittura di macerie, un cupo frammento di cataclisma), stampato su un cielo , o meglio su un abisso primordiale che può essere (o è già stato) indifferentemente aria o acqua, è uno spazio pesante di pennellate sperimentali , a ricerca , sotto una volontà di confusione, di cecità, popolato di spunti, allusioni, forme possibili, umane, animali. Una distruzione che riceve, inghiotte, assimila, fa sparire: i colori son chiamati a testimoniare in proprio, a sfogarsi in cupo; c'è il bruciato e c'è il marcescente; ed anche la speranza dell'effetto.

Gli uomini che su un tale fondo, più che campirsi, bruciano e splendono, sono invece dipinti a sole , col sole. Color sole, più che carnicino; color sole, più che color fuoco, che color incendio, sono i sette nudi, profetici quanto più tragici , soggetti, più che oggetti, di pietà, variamente atteggiati a supplici , a mansueti immolati, a offerenti , a rivelanti, a giudicanti proprio nell'atto di passare (il terzo da destra). L'ottavo, tutto disteso, è sole su sangue, come saranno subito gli altri : è il compimento. Un forte, aspro, amaro sapore di trionfo dell'imperituro luminoso sul cupo in macerie, che è ormai l'aldiqua, non l'aldilà, il deserto già attraversato. Alle anime in libertà si addice una forma che l'artista si sforza di rendere nel tremulo del liquefarsi ma con la forza suprema di condensazione che è nella luce. E la luce rompe da tutti i problemi, ponendosi e restando come il problema decisivo: il problema, l'interrogativo vivente; il buon dèmone di Socrate, e di tanti artisti.

Come accettare, amare, vivere veramente, la vita senza rifiutarne un istante, se fossimo degli incurabili? La nostra è una strada, solo a pensarci bene, che ognuno percorre solo dopo averla configurata dentro di sé come con- ducente al meglio perpetuo: dal buio alla luce, dalla morte alla vita, dalla malattia alla salute , dalla povertà alla ricchezza, dall'obbedire al comandare, dalle sconfitte e dalle umiliazioni al successo e alla gloria , grandi o piccoli. E sempre a pensarci bene, la percorriamo, la vogliamo percorrere , sulla scorta della nostra prefigurazione , in direzione diametralmente opposta a quella reale. L'aspirazione dominante è una sortita, un'irruzione, che travolga tutto e ci assicuri tutto. Che possa o no chiamarsi odio, la carica, la spinta che ci lancia, universalmente considerata come segno di perfetta salute, è pur sempre qualcosa cui non si può ragionevolmente negare la qualifica di egoistico, di orgoglioso, ed anche, in definitiva, di irrazionale. In questo quadro non è facile (tutt'altro!) inscrivere una storia di speranza, personale e collettiva, che porti la nostra firma quotidiana e finale. Più facile, e vorremmo dire perfettamente logico, inserìvere la storia che ci è più familiare, dalle nebbiose origini ad oggi, a questi esemplari , perentorii, nostri giorni. Il V alore?

Questi e tanti altri pensieri ci si son levati come un vento nell'anima contemplando l'opera che proponiamo al lettore, testo di chiusura e di apertura, al termine del nostro lavoro. E' il monumento « Agli eroi >l di EDMONDo FuRLAN e si trova ad Aquileia. Questa è la copia che domina il Sacrario del Museo della Fanteria in Roma, vista con delicata e drammatica sensibilità dal fotografo dell'Ufficio Storico dello SME, maresciallo Vittorio Pontiggia.

Amiamo molto la semplice, umile, forte , dolce e misurata creazione di Furlan; vorremmo che molti altri condividessero il nostro amore per essa. C'è arte , autentica, c'è poesia, e c'è tanta fede, cristiana ed anche soltanto umana: Fede. Ma non intendiamo leggerla in chiave religiosa esclusiva; o meglio, non riteniamo giusto leggerla anzitutto in chiave religiosa. Ci permettiamo, ed il lettore , per un'ultima volta , sarà comprensivo, di suggerire un primo sguardo alla profonda unità, e di intuizione e di modellato, in cui vivono le tre figure.

Il caduto, cui l 'ultimo respiro sembra ancora lievitare il petto e far vibrare il volto e le mani, esprime dal folto del dramma un leggero brivido di gioia nascente: il suo abbandono, nelle membra giovani, belle, è totale , come quello del Cristo, che però è più buio, abissale , come quello di Chi nel più profondo abisso è voluto scendere per riscattare fino all'ultimo peccato. In mezzo, una figuraponte tra una stupita orizzontalità ed una tormentata verticalità sta per rialzare il caduto e per deporre il crocifisso come se le sue forze fossero pari al suo desiderio. E', per noi, lo stesso caduto- disteso, plasticamente colto nel momento di fruizione della Redenzione, ed è la mano schiodata del Crocifisso che, sfiorandogli il capo non più spento, lentamente lo fa risorgere, ne fa una nuova creatura: torna il vigore nelle gambe ben fasciate, tornano le giberne strette alla vita, il torace è ampio, le spalle sono una pietra angolare, tutta la persona sale dal sonno della morte totale a lasciarsi assimilare nel sonno di Chi la morte ha già vinto e si prepara al trionfo definitivo. E il vincitore della morte già come tale è visto nell'impianto della persona, che è atletica, da lottatore, pur nell'assenza più completa di violenza, nella mansuetudine più profonda che ne modula la struttura fin nei dettagli.

Subito dopo, ci sembra opportuno soffermarsi sulla linea intima dell'intera opera: una linea , e potremmo dire, musicalmente, un c< motivo», che si concretizza in un vero e proprio festone di braccia, un arco improprio, dove le mani sono insieme struttura e decorazione , segno di gioco e strumento della potenza più irresistibile. Là dove sembrerebbe cogliere una soluzione di continuità, proprio là, c'è la saldatura assoluta ad opera della Mano che ha mutato il corso della storia toccando, stendendosi, stringendo, benedicendo, trasformando pane e vino nel corpo e nel sangue dell'Uomo- Dio. E' la stessa mano che Michelangelo ha fermato alta nel giudicare , nel Giorno conclusivo: è La Mano, la Destra del Padre.

Proprio questa Mano, questa Destra del Padre, è il centro artistico- religioso della composizione, che ne risulta come suggellata, consacrata. C'è dunque una soluzione, in certo senso, pragmatica, attiva, pur nella dimensio- ne mistica, dell'opera. C'è un fatto: la morte , sul campo di battaglia e sulla croce; e c'è un altro fatto , opera di mani: la risurrezione da morte. Le mani , insieme strumento e simbolo della vita che è creatività, non sono fatte per la morte ma per la vita. Possono essere impiegate per la morte ; sono state , sono, saranno ancora usate per dar la morte; ma dopo la Redenzione sono state , sono e saranno usate per restituire la vita, per dare, definitivamente , la Vita. Con mirabile coerenza artistica e religiosa, la Lampada votiva che sta ai piedi del Crocifisso nello stesso Sacrario della Fanteria, opera dello stesso Furlan, è impostata su una mano: il lettore ne troverà una riproduzione sulla faccia posteriore della sovraccopertina.

La nostra morte e le nostre mani: questo è il più pietroso problema. Le nostre mani e il fare e dare la vita; le nostre mani e l'amore: questo è il Valore. Credenti o no, bianchi, gialli, neri , olivastri, genii o deficienti, dopo la Redenzione siamo tutti nella Vita, nella vita eterna. La terribile vicenda in cui si alternano , coinvolte, tutte le generazioni, non è dunque un unico , inutile, assurdo macello. E' un'ipotesi d'esistenza sbagliata, formulata pervicacemente su dati inaccettabili, su pretese camuffate da diritti e come diritti spacciate e imposte. E' un'ipotesi d'esistenza da sostituire, perché già sostituita, con un nuovo modo di esistere, sperimentale in via diretta, senza troppe mediazioni ritardatrici o devianti. Colui che lo ha proposto, questo nuovo modo di esistere; Quello che risuscita i milioni e i miliardi di combattenti caduti in tutte le guerre pubbliche e private, che dà senso e speranza a qualunque sacrificio _l'uomo debba ancora accettare o subire; Quello che non ci vuole morti ma vivi , ha fatto a ritroso la nostra strada, liberandoci anzitutto dai nostri pregiudizi e dalle nostre illusioni. Ndla dimensione infinita che Egli ha spalancato, mandando a ramengo , con amore perfetto, il labirinto dei nostri schemi , c'è tempo e spazio per tutti i nostri valori buoni , autentici : per tutto ciò che è, ma realmente, umano. Distruggere i vecchi schemi per sostituirli con nuovi schemi non è cosa seria. L'unica cosa seria è credere ferma- mente che nnunc1are all'odio non solo è facile, ma è necessario, urgente. E' facile perc hé l'Amore e la Libertà sono già dentro di noi : basta lasciarsi toccare da quella Mano. E' necessario, urgente, perché non sembra proprio che ci sia altro tempo da perdere, né alternativa di sorta: tranne una e tutti sappiamo qual è.

Vogliamo disarmare? Magnifico! Ma di dove e da chi si comincia? Da noi, da ciascuno: cioè, per esser serii e concreti , dall'unico punto a nostra disposizione, che è il nostro cuore, sempre più fradicio di odio. Cosa vale di più, una Patria nutrita d'amore o una superpatria nutrita d'odio; una entità mondiale, planetaria, ancora tutta da pensare veramente, o una realtà presente nella quale siamo, stiamo, e i cui atti, vogliamo o no, portano le firme di tutti e di ciascuno?

Si può voler difendere per amore e sì può vole r non- difendere per odio oppure per amor di se stessi e delle proprie egoistiche velleità. Un discorso né vecchio né nuovo: un discorso perenne. Ce lo facciamo, in intimittà, alla buona, anche con l'ausilio dell'arte, specie di quella che attraversa i tempi passando tra due muraglie d'acqua come gli Ebrei di Mosè nel Mar Rosso: meglio ancora, di quella che si lascia toccare il capo, ai piedi della Croce, dalla Mano che gronda di sangue proprio, non altrui, e soprattutto d'acqua di Vita.

L 'arte ci coinvolge nella sua capacità di distacco e di isolamento dal « mondo )) (è la misura d'una sua certa totalità e r elativa autonomia); ma lo fa nel tempo stesso in cui ci coinvolge in ogni possibile, unitaria, vicenda umana (è la misura della sua diaconìa) Che essa sia documento, tutti lo sanno e lo accettano; che essa sia strumento, tutti lo sanno ma non tutti lo accettano; che essa sia ciò che nessuno riuscirà a sapere che sia, nessuno di noi lo sa o l'acce tta veramente. Perèhé, tra l'altro, essa con la scusa dell'autonomia tende a prender la mano sia a chi la fa sia a chi ne gode; mentre con la scusa della diaconìa tende a << servire )> (a far comodo) sia a chi la fa sia a chi ne gode. Così negli uni sprigiona, per contrasto, la libertà; ne gli altri, sempre per contrasto, la condiziona; e in ogni caso mette a soqquadro i progetti personali e quelli collettivi. Si possono fare tutti i più bei discorsi di questo mondo, ma di tanto in tanto ci sorprendiamo a sentirei costretti, ossessivamente, proprio dall'arte, a moraleggiare, a eticheggiare , a ideologizzare e a far politica e religione (persino economia e commercio!), pur essendo impegnati, spesso in perfetta buona fede, a non far nulla di tutto ciò; anzi a negarne recisamente la legittimi tà, la liceità, l'opportunità, l'utilità, o addirittura la possibilità nuda e cruda. Ed è che l'aver inventato qualche parola, . o meglio qualche vocabolo in più, ci fa sicuri di inconsci a libi da produrre per difenderci , poi, in fondo in fondo, da noi stessi Vogliamo leggere e far legge re nella nostra li n gua, volta a volta, dimenticandoci sempre, immancabilmente, che le radici , anche della lingua, ci amano al punto non solo da sfidare ma da desiderare e sollecitare le nostre potature e i nostri innesti Bisogna (e chiediamo venia di questo verbo pesante) imparare a !asciarci leggere e scoprire, a !asciarci portare alla luce, come a mangiare e a bere, sicuri che nella trasparenza funzionano i filtri migliori della vita La gerarchia dei valori si fonda su un Valore che accredita tutti gli altri. Si possono ipotizzare valori infiniti, ma non si può postulare che un solo Valore; perché diversamente nessu n confronto è credibile: si ricade nelle pretese, nelle preclusioni e nell'odio. Bisogna cercare, sénza riposo, tutti gli aspetti, tutte le voci, tutte Je occasioni impedite, e farsi ricreare di continuo dalla Verità che alla distanza annienta tutte le resistenze stolte e colloca al giusto posto ogni realtà disponi bile nella libertà dell'amore.

Qual è il vero volto dell'Esercito, la sua vera figura, la sua persona nel vivo delle altre persone della nostra storia, di tutta la Storia? Lasciamolo legge re e scoprire, ]asciamolo portare alla luce anche dall'arte, da tutta l'arte, specie da quella meno conosciuta o addirittura sconosciuta. E facciamo in modo che la lettura sia unitaria , cioè compiuta, cioè molteplice, cioè zuppa fradicia di verità, da gemerne al so lo guardarla. E' il momento giusto anche per questa operazione: un tremendo ma grande mome nto, per tutto e per tutti .

CONCLUDENDO, MA NON PER CHIUDERE.

Questo libro comincia qui; la conclusione può essere soltantQ, e d'altronde vuol esserlo, un rifl ettore spietatamente sbarrato sulle zone vuote della mia ipotesi e del saggio- proposta di lavoro: Dò per scontate tutte le critiche, tutte le obiezioni, come se le avessi già sentite, anzi, ascoltate, desiderando e sperando fortemente che proprio da esse cominci, ad opera di uno o più dei tanti di me più d egni, il vero libro intitolato << L'Esercito Italiano ne li'arte » .

E' vero che esistono cose più importanti, anche assai gravi, cui pensare e provvedere; ma non è meno vero che l'arte paga sempre, o meglio rimunera semp re , e da grande signora: in moneta sonante di contributo invisibile alla realizzazione dei nostri concreti fini, volta a volta e continuativamente in senso globale, unitario. Non si può amare ciò che non si conosce e non si può difendere ciò che non si ama. A ciascun uomo e a tutte le comunità capita, periodicamente, di dover difendere cose e valori che sono, in pratica, pure e semplici astrazioni; o peggio ancora, oggetti di disprezzo e persino d'odio. La storia è piena di tragici esempi al riguardo. La carica di conoscenza, di coscienza, di consapevolezza, necessaria per potere, quando occorre, difettdere ciò con cui possiamo id entificarci, non perché lo dobbiamo, ma perché lo vogliamo , è una carica che non si può affidare alle improvvisazioni ingenuamente o irresponsabilmente giocate sul tavolo di pr es unte ovvietà di consensi. Essa deve avvalersi di tutto ciò che fa l'uomo, concretamente, anche se non sempre ostentatamente, clamorosamente : ha bisogno anche dell'arte, sia per esser piena, completa, sia per assicurarsi una vera continuità, una vera durata. Ci hanno saggiamente ammoniti che Natura non facit saltus, fin dall'infanzia. Ma forse che la storia (la Storia) li fa? Ricu- perand o un certo pudore, ci vergogneremmo , forse, d'avere i « salti di qualità» troppo facili sulle labbra, sulle tastiere delle macchine per scrivere e sulle ciglia delle cineprese. La storia umana non è una storia di canguri. Ciò che non è stato seminato, da te o da altri, non sperar mai di raccoglierlo; e non tentare sc ioccamente Dio.

Riconoscere l'importanza dell'arte, della sua funzione, implica anzitutto il preciso dovere di rispettare l'arte e di rispettarla non solo sostanzialmente ma anche formalmente , dandole il posto che le spetta. Dicendo « posto )) intendo riferirmi anche, ed anzitutto, ad una collocaziòne nello spazio, in un particolare spazio, la quale, nel tempo stesso in cui si pone come seg no di riconoscime nto della funzione, garantisca la possibilità che essa venga adempiuta. So di metter la mano su un braciere , ma sento il dovere di farlo; anche perché il problema dei Musei non chiama in causa soltanto l'Esercito, anzi ; tutte le Forze Armate , ma l'intero comprensorio dei nostri Beni culturali, a tutti indistintamente i livelli di responsabilità, diretta e indiretta.

Il fenomeno più diffuso è quello della co abitazione , in uno stesso Museo , ed anch e n elle medesime sale, delle opere d'arte coi più disparati materiali di documentazione sto ri ca e didattica , tra i quali mi sem bra giusto, nonché opportuno, includere anche opere che sono imparentate con quelle d'arte, perché si tratta di quadri , di sculture , ma solo per l'aspetto tecnico- formale della loro realizzazione. Tanti << ritratti » , « busti )), « figurini», importanti, ed anche molto , come documentazion e, starebb ero , anzi, stanno bene in un insieme documentario: sono un sussidio conoscitivo affine agli autografi, alle fotografie, alle piante e mappe originali, pertanto tutt'altro che inutili , ma assai meno affine alle opere d'arte; le quali sono sì, anch'esse, strumenti di conoscenza, ma su un altro piano, che se non va separato, staccato, va, però, distinto e chiaramente. Un Museo che possieda opere d'arte ha il dovere, e tutto l'interesse, di collocarle unitariamente, come tali, nello spazio più appropriato, con la luce giusta ed ogni accorgimento utile alla contemplazione estetica, un po' diversa, mi si consenta, da altri modi del guardare, ad esempio da quello del guardare fucili, cannoni, o ricostruzioni di fortezze e di battaglie.

Posso sbagliarmi, ovviamente, ma credo, più che non ritenga , di essere nel vero dicendo che quel fenomeno (e non solo quello) è nel cervello d'un altro fenomeno che non è più diffuso solo perché è il fenomeno di fondo , stallone e fattrice di tutti gli altri: la polverizzazione del materiale artistico in una veramente troppo molteplice molteplicità di Musei e dì Gallerie specialistici in un senso, e decisamente eclettici in altri sensi; tutto sommato, in verità, particolaristici, con fini discutibili almeno quanto nobili. Infatti, chi non ha la fortuna di possedere una quantità -limite di opere d'arte non ha la possibilità materiale di allestire una vera e propria, dignitosa, Sala d'arte, e pertanto si vede costretto ad inserire, ad incastrare , quello che possiede in tutto il complesso del materiale posseduto. Ora , che giova tanta dispersione? .E' più facile dire quanto nuoce. Che ogni « co rpo », ogni « specialità », col ti vi le s ue tradizioni e le sue glorie, tenga viva la sua storia, è sacrosanto. Ma quanti eserciti abbiamo? Non ne abbiamo uno solo, per caso? Due Musei d'una stessa entità militare che sorgano a pochi metri di distanza l ' uno dali' altro sono necessariamente destinati , e condannati, ad ammalarsi di solitudine; per un insieme di ragioni che sarebbe offensivo per il lettore enumerare. Almeno per quanto attiene all'arte, almeno per questo, una inversione di tendenza, una conversione mentale , una metànoia, almeno come punto di partenza, non solo è opportuna, ma si impone. Una Repubblica, un popolo, un Esercito. E' semplicistico? No: è soltanto semplice; ed è altrettanto produttivo. Mai, come oggi, abbiamo avuto bisogno di sa lvar e l'unità: neppure , per assur do ma non troppo, nel Risorgimento. L'unità, però, bisogna anche veder/a, guardarla, poter/a leggere, dentro e fuori di noi, in un contesto che unitario sia o possa dit,entare, essere. Ad essa, mettiamocelo bene in mente e nel cuore, non si contribuisce, non si è mai contribuito, permettendo alle distinzioni di trasformarsi in divisioni e alle divisioni in separazioni bell'e buone. Non è serio. Riflettiamo. Il « momento militare » è un momento obbligato, integrativo, fondamentale, della vita d'ogni cittadino: almeno fino a quando non potremo godere di « nuovi cieli e terre nuove>>. E per i militari di carriera, la loro « professione » è forse la somma di tutti i possibili momenti della loro vita? Facile o difficile che sia la risposta, io credo fermamente, in tutta sincerità e coscienza, che anche per essi dobbiamo parlare di « momento» militare: un mom ento temporalmente più esteso, ma qualitativamente identico nella stessa esistenza di cittadini.

L'avvocato tutto e soltanto avvocato, il metallurgico tutto e soltanto metallurgico, .l'agricoltore tutto e soltanto agricoltore, l'impiegato tutto e soltanto impiegato , non potrebbero essere che quote, frazioni di cittadini. D iversamente, la totalità, unitaria, d'un popolo non riuscirebbe mai a sussistere e consistere, non potendo mai nessuna « professionalità » altrui esser recepita come necessaria, fondamentale, integrazione della propria. Un popolo risulterebbe, anche in linea di principio, costituito da quanto si riuscisse ad ottenere mettendo insieme una congerie di elementi non soltanto autonomi ma addirittura sepa rati , e per giunta in conflitto, in guerra più o meno fredda, più o meno calda : in un'ipotesi ottimale, in conti nua concorrenza. Le attribuzioni e la consiste nza degli uni non potrebbero mai essere conside rate al servizio di tutti gli altri: una mera vi glia!

Il piano « civile >> è quello su cui acquista senso e valore anche la professionalità militare, la sua (ma sì! diciamolo) spiritualità di « momento>> che qualifica un'intera vita di « servi zio » Ecco, questo è il segno di tutte le distinzioni unificate. Infatti , anche in termini ufficiali, parliamo di sert•izio militare.

E in materia di se rvlZlo , il migliore non è chi cerca il primato, o se lo attribuisce , ma chi più serve, sa servire, con la più ampia dei comuni e dei personali bisogni.

L'arte è come il pendolino in mano al rabdomante: si muove, segnala, solo quando sente, in profondità, che c'è l'uomo, tutto l'uomo. F a parte del suo mistero. Le sue verifiche sono per noi pressoché indispensabili, anche se talvolta ci cogliamo a pensare che in fondo ci sono tante e poi tante (quali?) cose che valgono assai più dell'arte.

In que st'ordin e di considerazioni; nello stesso spirito in cu i mi son permesso di proporre l'unificazione di tutto il patrimonio d'arte ispirata all'Esercito disperso e avvilito in troppe ripartizioni; nel clima di gratitudine verso gli artisti dei quali ho « ricuperato » alc un e opere per questo lavoro , mi viene spontaneo il ri cordo della 11 Prima Mostra degli artisti italiani in armi » della quale ho già fatto cenno nel primo capitolo. E col ricordo , altrettanto spontan eame nte , mi nas ce il desiderio di vedere il lettore alle prese col Catalogo che della Mostra cu rò , nella primavera del r942, l'Ufficio P ropaganda dello Stato Maggiore del R. Esercito: alle prese per una valutazione personale di ciò che la mostra stessa si proponeva , di ciò che fu, e di ciò che i suoi frutti sono e saranno, oggi e domani. A riprova della validità del riferimento al 11 pendolino » . Dalla Presentazione dell'allora Maggiore di fanteria Francesco SAPORI risultano fatti d'importanz a storica non indifferente, proprio per il perenne rapporto tra l'arte e le ordinazioni, le commissioni, le circostanze e i relativi orientamenti, o pilotaggi. Furono invitati u6 artisti con un complesso di 797 opere, delle quali il Catalogo riprodusse solo 300, purtroppo, per noi , esclusivamente in bianco e nero. Vedrai tu stesso, lettore, quale possa essere il valore d 'una rilettura di certi tempi fatta in chiave d'arte; e quale possa essere, in qu alunque prospettiva, passata, presente, futura, il mi stero dell'arte vera, il potere magico dei filtri della trasparenza dentro qualunque spessore, fosse pure quello d 'u n muro di piombo. Era guerra, guerra fu: ma gl i artis ti vedevano , videro, se stessi e tuttl t loro simili nell 'occhio d'un ciclone. Soldati essi stessi, ci han consegnato soldati, uomini ai confini , ai punti estremi dell'esistenza: con un loro discorso, con un loro (oh veramente!) messaggio, con una loro partecipazione della verità Nutrirai ancora dubbi su una cer ta irrinunciabile funzione dell' arte?

Su un altro versante, e per questo di interesse tutto particolare, dopo circa un quarto di secolo, ancora a Rom a, ne gli ambienti del Palazzo Barberini , la Rassegna di arte figurativa contemporanea e retrospettiva, « Il Soldato italiano », organizzata dal Mini stero della Difesa e rimasta in piedi dal 1° novembre al 30 dicembre 1g65. Grossi nomi, di viventi nell'altra e in questa dimensione. Anch e di tale Rasse gna, lettore, c'è il Catalogo, curato dal Ministero della Difesa, con una Lettera d'apertura dell'allora Ministro del settore Giulio ANDREOTTI, ed una Introduzione alla Rasseg11a di Valerio MARIANI, e desidero vivamente vederti alle prese con esso; per un ripensamento, nel caso in cui avessi po tuto godere dell'esposi zione; per una acquisizione co noscitiva, pur sommaria, se anche a te , come a molti altri, la manifestazione fosse per un qualche motivo sfuggita Si e ra in pace e si lavorava per la pace: eppure, il repertorio era, con qualche eccezione, di guerra. Non è un giudizio: è solo un'osservazione, una considerazione. E te la porgo, con pudore e discrezione.

Tant'è: la vita militare occupa, nell'opinione comune, il posto d'onore tra le varie vite riducibili entro ri gidi schemi. Ben pochi si accorgono di co me e quanto la quasi totalità delle vite è così. Su un milione di uomini, quanti sfuggono alla cate11a di montaggio? Persino tra gli ozios i, tra i cosiddetti « liberi pensatori », tra i professionisti dell'amore ormonico attivo e passivo, solo una minoranza riesce a esistere in libertà. Le cosiddette vite, come condizione di fondo, si equivalgono. E' di dentro, solo di dentro, che si differenziano le condizioni esistenziali: non c'è scampo, ormai, se non nello spirito. Ma quanti vogliono realment e cercarlo? Gli schemi siamo noi.

Questo libro co mincia qui. Scrivilo, scnvetelo.

RINGRAZIO, ormai all'ìmpiedi, tutti quelli che mi sono stati d'aiuto. Anzitutto, e davvero non pro forma, l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore deJl'Esercito, che in parte invitandomi, in parte spingendomi a que sto vero e proprio « percorso di guerra » di giova nile memoria, mi ha in un certo se nso costretto a godere di certi scavi abbastanza pesanti. Lo ringrazio soprattutto per l'apertura e la disponibilità con le quali, a cominciare dal Capo, i suoi addetti mi so no venuti incontro specie nelle difficoltà.

Subito dopo, ringrazio Maria Grazia PASQ UALITTI, direttrice della Biblioteca dell ' Istituto d'Arch eo logia e Storia dell'arte, ed i suoi collaboratori (dei due sessi) che mi hanno agevolato nelle ricer che In modo particolare, la mia gratitudine va a Gabriella DE NARDIS, che del peso di molte ri ce rche mi ha, ma veramente, alleggerito, con intelligenza, professionalità e sensibilità squ isite nonché pazienti e tenaci.

Un pensiero, spontaneo più che dov eroso, al Pr esi dente del Museo Storico dell'Arma dei Carabinieri, Generale Francesco PoNTANI, ed ai suoi collaboratori; da essi ho ri cev uto, oltre a quello d e lla collaborazione, il co nsueto dono di uno stile che ci onora

Non minore , in nessun senso, gratitudine debbo al Generale Attilio BRuNo, Presidente del Museo Storico della Fanteria, ed al suo diretto collaboratore, Maggi o re Antonio M usm.

A tutti accomuno il Soprintendente alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Italo FALDI, che , insieme ai collaboratori, è andato ben oltre il contributo professionale in certo senso dovuto ai ricercatori io genere.

Infine, ma non co me ali 'ultimo, un grazie di cuore al Maresciallo Vittorio PoNTIGGIA, fotografo dell'Ufficio Stori co dello SME. Fotografo di razza , vero scrittore con la luce, lavoratore instancabile, inco ntentabile, assetato in ugual misura di libertà e di servizio, Pontiggia ha testimoniato ancora una volta il grande amore dell'arte che lo qualifica e come uomo e come soldato.

Però, e nessuno me ne voglia, il grazie più profondo è per te, lettore : per il tuo coraggio, per la tua pazienza, per la tua comprensione, o benevolenza. Senza di te, che sarebbe mai d'uno scrittore? E magari potes si motivatamente sperare che anche tu, a qu es to punto, ti sentissi spinto a dirmi, sottovoce : << Grazie anche a te, sconosciuto Giovanni Floris » Ne sarei, se non proprio felice, pago.

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