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Gn canto nostalgico dei cecoslovacchi
partecipato al bombardamento sulle Bocche di Cattaro, condotto infine la cosiddetta "beffa di Buccari" facendosi, appunto, beffe del nemico a bordo dei motosiluranti MAS.
Il due giugno e poi ancora l'otto, d'Annunzio aveva tentato inutilmente di portare a termine l'ultima arditissima impresa che progettava da più di un anno: il volo su Vienna. Ma la fortuna sembrava proprio non arridergli: la prima volta gli aerei avevano dovuto desistere per le condizioni atmosferiche pessime, la nebbia aveva infatti reso impossibile il volo della sua squadriglia di tredici SPAD, rendendone addirittura inutilizzabili tre; durante il secondo tentativo, un forte vento contrario aveva di nuovo impedito il completamento del viaggio. Come non bastasse, durante l'ultimo volo, uno
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ieli vittoriesi, 9 agosto, ore 09:10
(fllustrazione 15 a p. 91) Nonostante il cappotto di pelliccia, casco, guanti, occhialoni e sciarpa, faceva un freddo infernale. Gli avevano concesso l'onore di volare nel posto anteriore di quello SVA e quell'onore gli stava regalando anche tutto il vento in faccia, che se lo avessero fatto sedere dietro, dove ora stava il pilota, forse era meglio. Del resto, per farlo partecipare a quell'impresa, gli avevano modificato quel velivolo appositamente e con tanta premura, trasformandolo in tempi record da monoposto a biposto, così non aveva osato eccepire su nulla. Aveva giusto fatto una battutina sul suo sedile posizionato proprio sopra il serbatoio, chiamandolo scherzosamente "la seggiola incendiaria". Meglio così, se proprio un incidente doveva capitare, preferiva la certezza di saltare in aria senza troppi "ma" e "se". In realtà, con un occhio solo, era già molto che gli avessero permesso di essere lì, si preoccupavano troppo
degli aerei in difficoltà aveva dovuto sganciare
un ingente carico di volantini in territorio austriaco per alleggerire il velivolo che altrimenti non sarebbe riuscito a rientrare alla base. L'effetto sorpresa era compromesso. Del resto, percorrere mille chilometri in dieci ore di trasvolata in balia di aerei di legno e tela non era esattamente uno scherzo, ma, altrimenti, non sarebbe stata un'impresa degna di lui. Doveva ritentare un'ultima volta l'indomani, prima che i volantini perduti avessero il tempo di rivelare il suo intento. Il 9 agosto, alle 5:30 del mattino, undici aerei SVA partivano dal campo di aviazione di San Pelagio, nei pressi di Padova, determinati a portare a termine l'ennesima arditissima impresa di propaganda voluta dall'ormai celeberrimo poeta. I --··
per lui e per la sua incolumità, fosse anche soltanto per le ripercussioni negative sulla propaganda che avrebbe avuto un suo fallimento o, ancor peggio, la sua dipartita. Ormai, aveva rischiato la pelle incoscientemente così tante volte che si erano quasi rassegnati alle sue pazzie, del resto gli era sempre andata bene ed i risultati pagavano.
«Vienna!!!» urla d'Annunzio, scuotendosi dal torpore dei suoi pensieri ed agitando le mani in direzione dell'enorme agglomerato urbano
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1918
·;ti D'Annunzio a bordo del suo SVA in volo su Vienna
che inizia a profilarsi all'orizzonte. Si volta con fatica verso il suo pilota, imbacuccati come sono, nessuno dei due può vedere niente del viso dell'altro, per cui sono le mani ad agitarsi in un frenetico etiforico gesto di vittoria. Sugli altri sette SVA, in formazione a cuneo, gli altri piloti fanno cenni nello stesso modo. Inizia la discesa, 1000, 900, 800 metri! Gli abitanti di Vienna fuggono sentendo il boato dei loro motori sempre più vicini e riconoscendo il tricolore nemico dipinto sotto le loro ali. Alcuni rimangono bellamente a bocca aperta, con il viso rivolto all'insù, mentre una pioggia di volantini volteggia sopra le loro teste. Cinquantamila piccole bandiere italiane portano un messaggio di sfida ed un invito alla resa al contempo, sopra di esse le parole del Vate e di Ugo Ojetti, in italiano e tedesco: gli austriaci scelgano pure quale aggrada loro di più, ma si arrendano infine, non alle armi, bensì al coraggio indomito degli italiani!
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Quel che accadde dopo
Degli undici velivoli partiti per l'impresa su Vienna, solo otto riuscirono a compiere l'intero volo, due dovettero rientrare poco dopo la partenza per un'avaria, un terzo invece, pilotato dal tenente Giuseppe Sarti, per un guasto dovette atterrare in territorio nemico. Sarti fece appena in tempo a dare alle fiamme il velivolo prima di cadere prigioniero di alcuni ufficiali austriaci. Il volo su Vienna ebbe ampia eco in Italia, riaccendendo gli animi con una propaganda fatta non solo di parole ma anche di coraggio. Parimenti si ebbe una forte reazione anche a Vienna, dove i quotidiani austriaci accusarono le autorità di non essere in grado di gestire un possibile attacco: se infatti gli aerei fossero stati carichi di bombe si sarebbe verificato un terribile disastro, senza che la popolazione fosse avvisata in tempo e senza che alcun sistema antiaereo avesse rilevato e ostacolato l'incursione nemica. Un giornale rilevò già allora la stessa mancanza di cui Krauss, a fine guerra, accusò l'impero: '1 Dove sono i nostri d'Annunzio?".
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DAL PUNTO DI VISTA DI ...
iaz, presso il suo comando ad Abano, teneva fra le mani l'ennesimo telegramma di Orlando. La richiesta, nella consueta formulazione "sì, no, forse, ma veda lei", in buona sostanza era sempre la medesima: attaccare l'Austria-Ungheria. Secondo gli Alleati, non esisteva un momento più propizio: il Generale tedesco Ludendorff era impegnato a contenere la terribile offensiva degli Alleati (a cui si erano unite finalmente anche le truppe statunitensi) che stava tenendo sotto pressione l'esercito imperiale tedesco sul fronte francese. Inoltre, la guerra stava portando all'esasperazione il fronte interno in Austria così come in Germania, dove il dissenso continuava ad aumentare. Francia e Regno Unito insistevano dunque affinché questo momento di debolezza degli avversari fosse sfruttato per attaccarli in forze e l'Italia era tenuta a fare la sua parte. Grazie al cielo, rifletteva Diaz, ora nel suo Esercito le cose andavano diversamente, l'umore delle truppe non era nemmeno paragonabile a quello dei tempi di Caporetto. Il felice esito della Battaglia del Solstizio aveva avuto una risonanza positiva persino verso gli eserciti alleati, che ora si aspettavano uno sforzo ulteriore. Ma Diaz non voleva e non doveva dimenticare Caporetto, almeno lui la lezione l'aveva appresa. Non poteva chiedere troppo alle sue truppe, intendeva andarci piano: oramai, aveva un esercito di giovani per le mani. Già durante la Battaglia del Solstizio aveva cercato di risparmiare il più possibile i ragazzi del 1899, ma se la guerra si fosse protratta troppo? A seguire rimaneva la classe dei giovanissimi del '900, come avrebbe combattuto? Come avrebbe resistito? Diaz non intendeva iniziare un'offensiva senza prima avere le spalle coperte dall'America ... la speranza dell'apporto americano era l'unica vera garanzia che questa volta avrebbero piegato gli austro-tedeschi e, allora, la guerra sarebbe stata vinta. Del resto, non stavano forse i francesi ora già beneficiando dell'aiuto delle truppe a stelle e strisce? Ebbene, anche l'Italia aveva il diritto di avvalersene. Tuttavia, era costantemente pressato da richieste di offensive da parte degli alleati ed il suo procrastinare rischiava di costargli il ritiro delle ultime divisioni francesi e britanniche lasciate in Italia, con la scusa che potevano essere utili su altri fronti. Anche Diaz aveva pianificato un'offensiva generale sul Piave e attendeva il momento più propizio per attuarla, nel frattempo, per accontentare gli alleati, aveva predisposto un'azione dimostrativa sul fronte della l3 Armata sul Pasubio. Afferrò dunque la cornetta per contattare il Generale Pecari Giraldi e Cavallero.
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Bargagli Petrucci, il Capitano al comando di un Gruppo Bombardieri chiamato a supporto della 1 a Armata, si stava avviando anche quel giorno presso la zona di scarico dell'ultimo tronco di teleferica che, dalla valle ai piedi del Pasubio, arrivava in quota, ossia dove il Gen. Pecori Giraldi aveva spedito lui ed i suoi bombardieri. Petrucci, figlio di un conte, laureato in legge, docente di storia dell'arte e Soprintendente dell'Istituto delle Belle Arti di Roma, ad inizio guerra non aveva esitato ad arruolarsi come volontario nei Lancieri di Novara, giacché, come gli intimava sempre il padre, il suo rango gl'imponeva d'esser cavaliere. Ben presto tuttavia, finì con l'interessarsi all'arma di artiglieria e, non appena vi fu occasione,
1916
chiese di essere messo al comando di un Gruppo di Bombardieri. Infatti, la bombarda, un'arma antichissima che a prima vista poteva sembrare una sorta di rudimentale cannone, aveva suscitato in lui un grande fascino: ancora ad avancarica, si rivelava indispensabile per colpire le trincee, giacché il suo tiro a parabola finiva con il cadere perpendicolare al terreno, dritto in testa al nemico. Al contrario, il tiro teso dei cannoni, a meno di non dover colpire un qualcosa di rilevato dal terreno - come un fortificazione od una postazione di montagnaera pressoché inutile contro le buche delle linee difensive, giacché la traiettoria del suo proietto viaggiava parallelamente al terreno, finendo con lo sradicare al massimo qualche guglia di filo spinato o qualche albero, ove non avesse incontrato altro. Il Capitano Petrucci, da qualche settimana era stato inviato sul Pasubio affinché le sue bombarde andassero a colmare gli spazi vuoti fra quelle già schierate in linea. Ebbene, questa richiesta non l'aveva digerita bene, giacché/ non gli andava di dislocare qui e là gli uomini e le armi della sua unità, peraltro così ben affiatata ... ma questo si era rivelato ben presto il punto meno complicato della questione. Infatti, durante l'offensiva che sarebbe stata sviluppata di lì a pochi giorni, il Generale lo aveva incaricato di far eseguire ai suoi bombardieri un'azione che rasentava l'impossibile. L'obiettivo della sua sezione era quello di distruggere i reticolati della vetta del Dente in mano agli austriaci, nonché le teleferiche ed i baraccamenti che stavano dall'altra parte. Fin qui, tutto regolare. Ma dopo arrivava il bello: alla fanteria lanciata all'attacco occorreva garantire un fuoco di copertura che le spianasse la strada, man mano che si fosse spinta innanzi a conquistare terreno. Generalmente si risolveva il problema allungando il tiro, ma in questo caso non era sufficiente. Gli avevano dunque ordinato, una volta partiti i fanti, di smontare una Batteria di bombarde da 240 e, con l'aiuto del personale di altre tre Batterie, di trasportarla a mano fin sul Dente Austriaco, per rimontarla subito e fare fuoco sul Col Santo e le retrovie avversarie. Tutta quell'operazione gli era sembrata fin da subito un'opzione impraticabile, davvero senza speranza, e si chiedeva se davvero non vi fosse alcuna alternativa... piuttosto sconfortato, stava riflettendo su queste considerazioni quando venne fatto chiamare dal Colonnello Comandante del settore. Subito, il Capitano gli fece notare che le bombarde non avevano ruote, non disponevano inoltre né di cavalli né di muli e pesavano parecchi quintali! Senza contare che tutta l'azione si sarebbe svolta sotto il fuoco nemico. E poi non bastava portare i tubi di lancio, vi erano gli affusti, i paioli, i sottopaioli, le cariche, le bombe che pesavano 68 chili l'una e che necessitavano di due uomini per trasportarle. E poi occorreva tempo per rimontare le bombarde, orientarle, fissarle e infine fare fuoco ... Il Colonnello aveva capito, ma rimaneva stranamente irremovibile. Il Capitano si rassegnò: aveva detto le sue ragioni ed ora non discuteva più, pronto ad eseguire l'ordine. Era oramai passata qualche settimana da quel colloquio, i suoi uomini avevano preparato tutta l'operazione con cura ed ora non vedevano l'ora di passare all'azione. Ma l'ordine di attaccare non arrivava mai. Qualcosa non gli tornava, eppure erano giunti in visita persino degli ufficiali Alleati, proprio per appurare che i preparativi per l'offensiva fossero a buon punto: si erano fermati a vedere le bombarde e gli avevano persino chiesto quale fosse il piano di attacco. Eppure, da quel momento, più niente.
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Cavallero, Capo Ufficio Operazioni del Comando Supremo, era un colonnello di nuova nomina. Aveva ottenuto il suo incarico grazie al prestigio conquistato durante il ripiegamento di Caporetto e la sua partecipazione ai piani per la Battaglia del Solstizio. Era ora alle prese con quello che poteva divenire il piano di attacco per la battaglia