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Mappa semplificata n. 3 (riferimenti geografici tavole 10-13, 16
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1917
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alloncello del Naklo, 24 ottobre ore 02:00
(Illustrazione 1 e 2 a p. 26
e p. 27) Sono le due del mattino quando un paio di soldati tedeschi innescano il dispositivo che attiva gli 894 proiettori gaswerfer, i terribili tubi lancia proiettili a gas, un ufficiale spara un razzo di segnalazione per consentire ai propri uomini, pronti all'attacco, di vedere per un istante le barriere avversarie che avrebbero dovuto superare di lì a poco nel buio. L'aria si riempie di migliaia di sibili seguiti da esplosioni sorde, mentre si sparge nel buio un terribile odore di fieno marcio che i soldati italiani in prima linea percepiscono con consapevole orrore. Il segnale martellante di latta battuta conferma il pericolo, è gas mortale. Gli italiani schierati in difesa indossano immediatamente le maschere e rimangono in attesa per ben quattro ore e mezza, sotto la pioggia di migliaia di proiettili di gas asfis~iante, prima che inizi il tuonare dell'artiglieria nemica che segna il passo della seconda fase dell'offensiva. Fortunatamente, la nuvola tossica sembra essersi dispersa in parte, il vento l'ha allontanata e quando _ le truppe d'assalto nemiche si lanciano all'attacco, s'infrangono in buona parte contro la resistenza pronta della prima linea. I furiosi combattimenti vedono lo sfondamento della linea italiana tenuta dall'37a Fanteria Brigata Friuli: i soldati della 22a Divisione Schutzen, armati delle terribili mitragliatrici leggere, riescono a passare ma soltanto a prezzo di molte perdite, inflitte dai reparti avversari che li respingono con ogni mezzo. Tuttavia, nel fondovalle, il gas ha mietuto le sue vittime anche in prima linea: due battaglioni dell'87a vengono annientati, le truppe nemiche possono contare su una breccia di almeno un chilometro. In aiuto alla Friuli giungerà anche una compagnia del Battaglione alpini del Ceva: di 230 alpini, solo 20 riusciranno
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Soldati tedeschi innescano il dispositivo dei proiettori gaswerfer, un ufficiale spara un razzo di segnalazione
a ritirarsi. Nel marasma dell'attacco, si percepisce l'assenza di parte dello schieramento italiano: il II Battaglione ed alcune compagnie del V Battaglione, dislocati tra Plezzo e l1sonzo, acquartierati nel valloncello di Naklo, rimangono in silenzio. Quando le truppe austro-ungariche conquistano il piano e giungono al piano ribassato del valloncello, rimangono essi stessi impressionati dalla vista delle truppe italiane di rincalzo, nelle retrovie per il turno di riposo. La morte fetida li ha colti nella fissità del momento del sonno, della partita a carte o dell'ultimo giro di corvée. Immobili nelle loro attività, come manichini esanimi, asfissiati in pochi istanti, giacciono accanto alle mute bestie che li hanno seguiti nel crudele destino. L'immane nube tossica non aveva dato tempo ai soldati ancora desti di porre mano agli allarmi anti-gas: la realtà dell'attacco si era palesata troppo tardi per alcuni, affatto per altri. I pochi superstiti, privi di forze, vengono fatti prigionieri dagli Schutzen austriaci, soltanto una piccola parte riesce a ritirare verso ovest. Il massacro, i cui numeri sono ancora discussi, vide la morte di centinaia di fanti.
5rONDAMENTO "MIRA<:OL050"
CONTESTO STORICO
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l piano di von Below, prevedeva una serie di attacchi compresi nella zona tra Plezzo e Tolmino, la maggior parte di essi avevano il solo compito di tenere seriamente occupate le truppe italiane su di un tratto di fronte molto ampio, così da disperderne le forze in tanti combattimenti. I numerosi attacchi avrebbero dunque impedito all'Alto Comando italiano di riuscire a concentrare le truppe nel punto in cui era previsto il vero sfondamento, ovvero a sud, nei pressi di Tolmino. Tuttavia, il Generale Krauss, che con le sue truppe austriache attaccava a nord nei pressi di Plezzo, aveva tutta l'intenzione di avanzare arditamente molto più di quanto von Below avesse preventivato. Nondimeno, l'impegno maggiore rimaneva riservato all'ala sinistra dell'esercito attaccante, formata per lo più dalle migliori fra le divisioni tedesche, che avrebbe dovuto aprire un varco nella difesa italiana a Tolmino per poi avanzare in profondità verso Cividale ed infine al Tagliamento. Al centro dello schieramento austro-tedesco, vi era invece la 12a Divisione slesiana, proveniva dal fronte francese e, degli orrori di quella guerra, non le era stato risparmiato davvero niente. Von Below mai avrebbe affidato alle truppe slesiane un compito diverso da quello di semplice fiancheggiamento delle eccellenti truppe dell'ala sinistra, nelle quali riponeva tutta la sua fiducia per il successo dell'offensiva. Ma i piani dell'Alto Comando austro-tedesco, come spesso avviene in guerra, dovettero fare i conti con una realtà inattesa. Mentre le divisioni tedesche dell'ala sinistra avanzavano con fatica di qualche chilometro combattendo contro le truppe di Badoglio, la 12a slesiana riuscì ad attuare l'azione più incredibile di sfondamento, al centro dello schieramento austro-germanico, proprio nel fondovalle dell'Isonzo, dove nessuno se lo aspettava.
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Quando il Generale Montuori, qualche giorno prima, aveva dato l'ordine di spostare la linea di contatto fra i due corpi d'armata italiani che si toccavano all'altezza di Gabrje, a nord-ovest di Tolmino, non immaginava di certo il danno che ne sarebbe conseguito. Nel momento in cui la 12à slesiana iniziò la sua offensiva, si trovò di fronte ad una zona pressoché sguarnita di soldati italiani, giacché la gran parte erano impegnati a spostarsi sul fronte per occupare le nuove posizioni assegnate, rivelando una grave discontinuità nello schieramento italiano; Fu così che i soldati slesiani poterono infiltrarsi in quel preciso punto delle linee difensive con relativa facilità e con loro stesso stupore. Dovettero preoccuparsi soltanto di annientare le poche resistenze che incontravano lungo la valle dell'Isonzo, già in parte represse dal preciso e violento bombardamento che aveva preceduto la loro marcia verso il paese di Luico ed il monte Matajur, obiettivi che avevano l'ordine di conquistare al di là del fiume. La situazione era drammatica per gli italiani, la superiorità numerica e tecnologica delle truppe avversarie era quasi schiacciante. Alle nuove mitragliatrici leggere si aggiunse l'azione coordinata delle
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artiglierie tedesche che, dalle postazioni nei pressi di Tolmino, colpirono con un tiro di precisione le linee italiane, la loro azione era infatti richiesta e ben indirizzata dagli stessi comandanti della 12a slesiana, grazie a linee telefoniche stese simultaneamente alla loro avanzata. Se le truppe in attacco poterono contare su collegamenti telefonici costanti con le artiglierie ed i loro comandi, per contro, il violento bombardamento che aveva interessato le postazioni italiane aveva danneggiato irrimediabilmente i loro mezzi di comunicazione, tagliando fuori le truppe dai loro comandi e le artiglierie da ogni possibilità di coordinamento. Fu così che le truppe italiane, colte di sorpresa ·durante il loro avvicendamento sul fronte, si trovarono all'improvviso ad osteggiare le schiere nemiche, di molto superiori per numero e potenza di fuoco, mentre già marciavano compatte sulle rive dell1sonzo, alle loro spalle. Le artiglierie italiane, anch'esse troppo avanzate per avere un tiro utile e comunque nell'impossibilità di avere ordini ed indicazioni di tiro per il fuori uso delle comunicazioni, caddero presto in mano all'avversario. Da quel momento, il ripiegamento divenne l'unica contromossa possibile.
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amno, 24 ottobre ore 12:30
(Illustrazione 3 nella pagina all'interno) Le truppe del 23° e del 63° fanteria slesiano marciano compatte rispettivamente sulla riva destra e sinistra dell1sonzo in direzione di Luico e Caporetto, dietro le spalle delle prime linee dell'Esercito Italiano, complice la nebbia che ne cela l'avanzata. Le uniche resistenze le incontrano principalmente alla loro destra, dove le truppe italiane, aggirate e bloccate fra i due schieramenti nemici, tentano di ostacolare la loro marcia ed al contempo di ripiegare, precedendo gli avversari in direzione di Luico ed il Matajur. Alle 10.30, non appena il paesino di Kamno inizia a profilarsi sotto le pendici del monte Spika, il 63° incontra l'ultimo reparto italiano di fondovalle, un battaglione del 147° Reggimento fanteria Caltanissetta, che blocca la via verso Caporetto. TI comandante tedesco ordina all'artiglieria un violento bombardamento davanti a sé, che si protrae per mezz'ora sulla linea italiana che tuttavia resiste. n comandante decide allora di inviare alcune delle sue mitragliatrici a tenere testa a quel gruppo di combattenti mentre il resto del 63° continua a marciare verso i propri obiettivi. Fra i soldati italiani, vi è l'ufficiale Maurizio de Vito Piscicelli, un tenente colonnello noto per la mira eccezionale non meno che per le sue imprese in Libia, dove aveva meritato la prima Medaglia d'argento, mentre la seconda era arrivata appena un anno prima in quella medesima guerra.
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Maurizio de Vito Piscicelli cade riverso a terra gridando
"Viva [Italia"
Ora, saldo alla sua mitragliatrice, egli tiene testa all'attacco nemico che miete tutti i suoi compagni all'intorno. Non sbaglia un colpo ma sa che questo non gli varrà come lasciapassare per il ritorno a casa, dalla moglie in dolce attesa. Gli italiani resistono combattendo quanto più possibile mentre alcuni di loro tentano di ripiegare sulla via che conduce a Caporetto. Piscicelli, vedendo il massacro, si alza disperatamente in piedi da dietro la barricata di fortuna, deciso a morire sì, ma colpendo quanti più uomini possibile grazie alla visuale finalmente libera. Spara all'impazzata fino a che non viene colpito a morte. Vittima delle nuove armi portatili, Piscicelli cade riverso a terra gridando "Viva L1talia". Accanto alla via di salvezza, sulla quale poterono riparare alcuni dei suoi uomini grazie al suo sacrificio, una grande lapide di marmo, da poco inaugurata, ricorda il grande tributo di sangue versato dalla Brigata Emilia proprio in quei luoghi, appena un anno prima.
Quel che accadde dopo
Krauss, nelle sue memorie, non esiterà a chiamare il successo della 12a slesiana e dell'intera offensiva il "miracolo di Caporetto", confermando implicitamente la parziale natura fortuita dello sfondamento.
Subito dopo il cedimento del fronte a Caporetto, verranno riportate cifre spaventevoli di "sbandati" ovvero disoldatiche "mollaronoilfucilee fuggirono" , più che ritirarsi. In realtà, molti, classificati come tali, erano invece semplicemente soldati portaordini, addetti ai servizi, alla logistica, ecc ... necessari sul fronte in gran numero nelle retrovie, ma ovviamente non pronti con l'arma in pugno, giacché non era il loro compito combattere. Questi soldati, unitamente agli artiglieri direttamente interessati dallo sfondamento, furono i primi a ritirarsi ed i carabinieri che avevano l'onere di catturare i fuggiaschi, testimoniarono in seguito che molti uomini fermati come "sbandati" in realtà appartenevano alle categorie di cui sopra, per questo furono lasciati andare. La gran parte dei soldati in prima linea sul fronte fra Plezzo e Tolmino, nel momento in cui fu sotto attacco, combatté e morì ove gli venne richiesto, ripiegò soltanto sotto l'ordine di un superiore, quando ormai era chiaro che non aveva più senso fare altrimenti.
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CONTESTO STORICO
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'attacco austro-tedesco venne sferrato contemporaneamente sull'intero tratto di fronte compreso tra Plezzo e Tolmino. Ovunque ci si trovasse, il tuonare dei cannoni austriaci contro le linee italiane riempiva l'aria di un crepitare sordo ed intenso in lontananza, forte e terribile all'intorno. In mezzo al sonoro martellare dell'artiglieria, vi furono degli scoppi poderosi, dei boati tremendi che vennero percepiti, in tutta la loro tragica differente realtà, soltanto da coloro che ne caddero vittima. Si trattava dell'esplosione di alcune mine che fecero saltare rovinosamente in aria parte delle trincee italiane. Una di queste, fu innescata sul Monte Rosso, situato quasi al centro dello schieramento italiano tra Plezzo e Tolmino, dove ebbe luogo lo scontro tra r80° Fanteria austropolacco ed il 223° Reggimento Brigata Etna.
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onte Rosso, 24 ottobre, ore 07:30
(fllustrazione 4 a p. 33) Alle 7 del mattino riuscire a vedere qualcosa oltre il parapetto del trincerone italiano è un'impresa. Il tempo uggioso e la nebbia offuscano la luce del sole che inizia solo ora a divenire poco più intensa, la neve rallenta i movimenti ed ovatta i suoni, ma non la voce imperiosa dei cannoni austriaci che faticano a colpire la roccaforte a 2163 metri di altezza. L'artiglieria cessa il suo tuonare all'improvviso, come da manuale, mentre dentro le trincee gli italiani attendono l'assalto dei fanti austriaci che si scatenerà a momenti. Passano i minuti e ancora nessuna avvisaglia, il che risulta un po' strano. La cima del Monte Rosso, sebbene molto alta, termina con una sorta di pianoro a cui stanno avvinte le due trincee, italiana ed austriaca, a circa 50 metri l'una dall'altra. Non si dovrebbe aspettare davvero molto prima di vederli arrivare, sono lì, a due passi, che aspettano? Eppure non si ode altro che il silenzio. Gli italiani della Brigata Etna si guardano interrogativamente, mentre d'un tratto ... un boato. Massi enormi si alzano dalla terra di nessuno e vengono scaraventati in aria, i corpi dei soldati dell'Etna sono scagliati lontano o polverizzati. L'esplosione avviene proprio accanto alla prima linea italiana ma l'onda d'urto ed i detriti coinvolgono anche una parte dello schieramento austriaco. I due soldati che hanno innescato l'ordigno, celati in una caverna, rimangono essi stessi annichiliti dall'imponente deflagrazione. Non avevano idea di quello che sarebbe realmente accaduto, i calcoli dei minatori austriaci si erano rivelati esatti, ma bastava qualche metro in più di errore ed a saltare in aria sarebbero stati proprio loro. La voragine aperta dalla mina fa intravvedere le interiora rocciose del monte fino a quel momento celate dalla neve, nella fossa i resti di una camera di scoppio lasciano intuire come l'ordigno sia stato posizionato scavando silenziosamente una galleria sotto la postazione italiana per colmarla infine di esplosivo. La breccia nello schieramento avversario è stata aperta, ora l'attacco austriaco può avere inizio.
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Due soldati austro-ungarici, dall'interno cli una caverna, fanno deflagrare la mina
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CONTESTO STORICO
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entre la 12a slesiana, al centro dello schieramento austrotedesco fra Plezzo e Tolmino, risaliva le rive dell'Isonzo per poi andare alla conquista dell'abitato di Luico e del monte Matajur, le truppe dell'estrema ala destra comandate da Krauss, si lanciavano alla conquista delle postazioni italiane sul massiccio del Rombon, a nord di Inezi o. Nevicava abbondantemente mentre il 59° Fanteria Rainer austro-ungarico andava all'attacco delle truppe italiane che tenevano saldamente la cresta del Cukla, la cima più vicina alle postazioni austriache arroccate sulla vetta Rombon, da cui prende nome tutto il massiccio. Nel frattempo, · gli Schtitzen del 26° Reggimento austriaco tentavano a valle di conquistare le postazioni di Pluzne, ad ovest di Plezzo. La conquista dei due presidi avevano in realtà il medesimo obiettivo, owero arrivare a prendere possesso dell'intero massiccio del Monte Canin, a cui pure Rombon appartiene. Mentre il 59° Rainer tentava di arrivare al suo obiettivo, passando per colletta Cukla, il 26° Schtitzen, con la conquista di Pluzne, tentava di tagliare i rifornimenti alle truppe italiane, per costringerle alla resa. Infatti, proprio da Pluzne partiva la mulattiera che collegava Plezzo al Cukla, owero la principale via per il transito di viveri e munizioni.
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ukla, 24 ottobre ore 12:00
(Illustrazione 5 a p. 37) Questa mattina il sole si percepisce appena, pallido, dietro quella che non si capisce se sia nebbia o nuvolaglia, a 1700 mt di altezza. La neve è sconvolta da ore di · furiosi combattimenti, il suo manto è macchiato di sangue ed ombre scure supine, senza vita. n terribile bombardamento dell'artiglieria austriaca cessa improvvisamente, dopo aver sconvolto le trincee presidiate dagli alpini del gruppo Rombon. Tutti sanno cosa significhi, gli italiani che stavano accucciati a terra sperando di venire risparmiati dal cannoneggiamento, ora si rialzano e riposizionano al meglio le loro armi sul parapetto sconnesso. La cima del Rombon, bianca di neve, li sovrasta magnifica e silente. D'un tratto, l'offensiva del valoroso 59° Rainer riprende, non ci si può credere! Attaccano in salita, inerpicandosi disperatamente sulla china che li separa dalle trincee italiane, avanzando in massa a gruppi sparsi, il loro coraggio non lascia indifferenti gli italiani. Le mitragliatrici, tuttavia, non esitano a fare fuoco, gli austriaci cadono sotto le raffiche, a ondate, come canne piegate dal vento. Dietro di loro ne giungono altri e altri ancora. Eppure essi sono consapevoli di non avere praticamente speranze, le postazioni italiane hanno il netto vantaggio di essere sopraelevate, difficili da raggiungere persino camminando, figuriamoci di corsa e con il fucile in pugno. Esplodono gli ultimi tiri di artiglieria, forse italiani, forse austriaci, cosicché rischiano di essere colpiti i due schieramenti allo stesso momento. Un flammiere austro-ungarico si fa largo con il suo terribile lanciafiamme, aprendo la strada ai suoi. Gli italiani faticano non poco a fermare quell'orda di uomini che si scaglia sulle loro linee, tuttavia riescono a tenere testa ai reiterati assalti. Le perdite da ambo le parti sono gravissime.
Quel che accadde dopo
Ore 18:30, agli alpini stremati del Rombon, arriva un ordine terribile: bisogna lasciare le postazioni così strenuamente difese. Gli alpini del Ceva, che tenevano testa agli attacchi del 26° Schi.itzen giù a Pluzne, sono stati sopraffatti mentre nel fondovalle gli italiani hanno perso Plezzo e stanno sgombrando la Stretta di Saga, pur non ancora raggiunta. È necessario, per le truppe del Rombon, ritirarsi al più presto: l'imbocco alla via dei rifornimenti che parte da Pluzne per il Cukla, è in mano nemica. Prima che lo schieramento austriaco abbia il tempo di agire ulteriormente, occorre cercare di ripiegare dietro le nuove postazioni italiane, verso Sella Prevala. Inizia una marcia disperata in cresta, sotto la tormenta di neve alcuni soldati esausti rimangono indietro, si perdono, si accasciano, alcuni cadono nei crepacci. La retroguardia, rimasta sul Cukla a coprire le spalle al ripiegamento, cade prigioniera. Gli austriaci, accortisi dello sfilamento delle truppe sull'unico sentiero che porta a Sella Prevala, decidono di attaccare parte delle truppe sul costone del Vratni. La colonna in marcia si arresta ed iniziano nuovi scontri. Riescono finalmente a ripiegare, sono quasi giunti a Sella Prevala ed ecco arrivare la loro salvezza: alcune aliquote di fanti del 134 ° Benevento, inviate dal Colonnello Cavarzerani sono giunte in supporto! I fanti si schierano insieme agli alpini a difesa delle nuove postazioni italiane di Sella Prevala e della mulattiera che li ha condotti fin lì, consentendo il ripiegamento di molte truppe alpine che avevano difeso le postazioni del Rombon fino a quel momento.
Le truppe di Cavarzerani concorreranno con gli alpini a condurre valorose azioni di retroguardia, senza subire sconfitta, riuscendo infine a ripiegare da Sella Prevala e Sella Nevea il 27 ottobre. Cavarzerani per quest'impresa verrà insignito della Croce dell'Ordine Militare di Savoia e del titolo di Conte di Nevea.
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ROMMEL ALLA CONQ\.115
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a 12a slesiana, vinte le ultime resistenze sulla riva sinistra dell'Isonzo, riuscì ad attraversare il fiume e, nel primo pomeriggio del 25 ottobre, occupò il caseggiato di Luico, il suo primo obiettivo. È quest'ultimo un paese situato su una erbosa propaggine che si lega al complesso montuoso del Matajur, chiamata appunto "sella di Luico" . Sulle medesime pendici, più ad ovest, vi è l'abitato di Potava. Da Luico partiva una camionabile che era la principale via di rifornimento per le truppe sulla cima del Matajur, ossia il caposaldo italiano che costituiva il secondo grande obiettivo dell'avanzata austro-tedesca. Va da sé che bloccare quella strada avrebbe obbligato alla ritirata i soldati che presidiavano il Matajur, inoltre, avrebbe privato tutti gli italiani schierati in quella zona di un'importante via di ripiegamento. Mentre la 12a slesiana, il 24 ottobre si avviava verso la conquista di Luico,
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poco più a sud, parte dell'Alpenkorps tedesco ,era intenta ad affrontare le pendici del complesso montuoso del Kolovrat. Questa barriera naturale, composta da una lunga catena di cime e rilievi fra loro variamente collegati, rappresentava per l'esercito italiano uno dei punti di difesa chiave contro l'esercito austro-ungarico già dai tempi della Repubblica di Venezia. All'ufficiale che avrebbe conquistato le postazioni italiane ivi distribuite, il comando austro-ungarico promise l'alta onorificenza "Pour le merite" che fu conferita al sottotenente Schèimer che, con la sua unità, conquistò le postazioni sul Podklabuc. L'Esercito Italiano tentò invano di riconquistare le posizioni perdute con numerosi contrattacchi, ma senza successo. Fra le truppe che si distinsero nella conquista di queste postazioni, vi furono
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due compagnie dell'Alpenkorps tedesche più una compagnia di mitragliatrici guidate dal giovane Tenente Rommel, appena ventiseienne. Queste ultime partirono la mattina del 24 ottobre dalle pendici dél Bucenica, non appena concluso il bombardamento delle artiglierie austriache sulle linee italiane. Investirono Costa Raunza parallelamente al corso dell'Isonzo, salirono sul Monte Piatto e, vincendo ogni resistenza sul loro cammino, aggirarono da sud il monte Kuk per piegare ad ovest verso Palava. Qui ingaggiarono battaglia sulla camionabile già ingombra di truppe italiane in ripiegamento, passarono dunque per Luico, già conquistata dalla 12a
slesiana, prima di iniziare l'ascesa al complesso montuoso del Matajur, di cui conquistarono la cima il 26 ottobre.
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amionabile Luico-Polava, 25 ottobre ore 14:00
(fllustrazione 6 all'interno della pagina seguente) Presso Ltlico (a destra dell'immagine) si è appena concluso l'intenso bombardamento dell'artigli e ria austro-tedesca, quando la 12a slesiana si lancia nuovamente all'assalto, mentre da alcune postazioni del Kolovrat le truppe dell'Alpenko,ps aprono un fuoco micidiale sul fianco sud degli italiani. Davanti al caseggiato, gli arditi del N Reparto d'assalto, provenienti dai bersaglieri ciclisti, stanno disperatamente combattendo in retroguardia al ripiegamento delle truppe del 14 ° e del 20° Reggimento bersaglieri che già stanno percorrendo la strada che conduce verso Polava ed oltre. I cadaveri dei soldati italiani giacciono numerosi a terra, vittime delle bombe ma anche delle molte mitragliatrici in mano agli slesiani, decisamente in superiorità numerica rispetto alle dotazioni italiane. I bersaglieri combattono e cadono fino all'ultimo uomo, soltanto per permettere ai compagni di riparare più all'interno ed organizzare una migliore difesa.
È il primo pomeriggio del 25 ottobre quando il 20° bersaglieri, proveniente da Luico, dopo aver percorso la tortuosa camionabile aggrappata a mezza costa alle estreme pendici del complesso del Matajur, giunge nei pressi di Po lava (sinistra dell'immagine). Gli italiani non sanno che, nascosti fra i fitti arbusti, gli uomini di Rommel stanno tendendo loro un agguato. I tedeschi e le loro mitragliatrici avevano trovato il modo di infiltrarsi alle spalle delle linee difensive italiane, arroccate sulle vette del complesso del Kolovrat, ed ora sono riusciti ad aggirare anche i soldati che stanno ripiegando da Luico. Li attendono per coglierli alle spalle, dove meno se lo aspettano. Non appena la colonna comincia a transitare sotto di loro, ad un cenno di Rommel, le truppe tedesche iniziano
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Gli arditi del IV reparto davanti al caseggiato di Luico combattono la 12• Slesiana
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Lo sbarramento di Rommel sulla camionabile nei pressi di Polava
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a sparare all'impazzata sul convoglio di mezzi ed uomini in movimento: raffiche di proiettili ed una pioggia di bombe a mano colpiscono in ogni dove, mentre i bersaglieri tentano di ripararsi dietro i carri ed il muretto che fa da argine al ripido pendio. Alcuni soldati staccano i pochi cavalli dai gioghi, lasciando i carri in mezzo alla strada, balzano in sella e tentano di allontanarsi per portare notizia ai comandi dell'imboscata e chiedere rinforzi, ma è tutto inutile. I bersaglieri rimasti tentano svariati assalti per infrangere il blocco tedesco, ma alla fine, i pochi sopravvissuti cadono prigionieri.
Quel che accadde dopo
Cadoma tentò di far arrivare sul fronte le riserve dislocate a sud, dove aveva ritenuto più probabile lo sfondamento, ma il loro arrivo fu tardivo ed il loro impiego azzardato. I rincalzi furono lanciati subito nel pieno dei combattimenti, non appena giunti sul posto, sovente del tutto impreparati sull'andamento del territorio che andavano a difendere e con scarsa dotazione di mitragliatrici e munizioni. Nondimeno queste truppe combatterono con alto spirito di sacrificio, tentando il tutto per tutto nell'intento di bloccare l'avanzata austro-tedesca (Battaglia di Cividale).
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QUI POTETE TROVARE
• I principali luoghi menzionati nel testo • La collocazione e l'orientamento delle tavole grafiche che accompagnano il racconto
M.RAGOGNA
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CONTESTO STORICO
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rano già trascorsi 4 giorni dallo sfondamento del fronte fra Plezzo e Tolmino, le rive dell'Isonzo oramai dovevano considerarsi perdute, così come i monti attigui. Durante la notte tra il 26 ed il 27 ottobre, Cadoma aveva dato disposizione ai suoi per un ripiegamento generale che doveva attuarsi in due fasi: fermare l'avanzata austro-ungarica sul Tagliamento e, se fosse stato necessario, dirigersi infine verso il Piave, considerata la migliore linea di contenimento in caso di conflitto con gli stati centrali fin dal 1882. L'esercito austro-tedesco stava avanzando sempre più nell'entroterra friulano, mentre l'Esercito italiano, che lo precedeva di poco, cercava di riparare dietro le nuove linee di resistenza, con difficoltà estreme sia per le marce estenuanti che dovevano superare in velocità quelle avversarie, sia per l'urgenza di approntare immediatamente delle trincee non appena arrivati, nelle posizioni indicate dagli alti comandi. Mentre il grosso del Regio Esercito riparava in questo modo dietro il Tagliamento ed in seguito dietro il Piave, poco più indietro, altre compagini di soldati - chiamate da altre zone del fronte non intaccate dallo sfondamento - scavavano buche, posizionavano le mitragliatrici ed attendevano infine le truppe nemiche ehe stavano arrivando, al solo scopo di rallentarne la
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marcia. Niente barriere di filo spinato, niente trappole o buche a frenare l'assalto dei nemici, avrebbero /dovuto affrontare una carica di una forza soprannumeraria di uomini in corsa e armati di mitragliatici leggere, potendo contare più sul proprio coraggio che sulle armi, consci più che mai che da quegli scontri difficilmente sarebbero usciti vivi. Cadorna nel frattempo cercava di organizzare delle difese. migliori dietro il Tagliamento, facendo approntare trincee e sfruttando vecchie fortificazioni, sperando che la nuova linea di fuoco e la barriera naturale del fiume fossero sufficienti ad arrestare per un po' l'avanzata degli austrotedeschi, tanto da permettere una migliore riorganizzazione del proprio Esercito.
Gli austriaci, da parte loro, non avevano nei piani di proseguire oltre, non si erano neppure preoccupati di portare gli equipaggiamenti da ponte necessari a superare le acque del Tagliamento, giacché lo stesso Alto Comando tedesco aveva previsto come limite massimo di
sfondamento le rive di quel fiume. Le medesime
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truppe germaniche non riuscivano nemmeno a superare in velocità quanto rimaneva dei soldati della 2a Armata italiana interessata dallo sfondamento, nonostante questi ultimi fossero spossati ed in grave difficoltà per la ritirata. Questo avvenne perché l'Alto Comando tedesco, a differenza di Krauss, non aveva riposto grandi speranze nell'impresa di riuscire a superare gli sbarramenti italiani con un attacco lanciato "nel fondovalle", ancora meno confidava che questa avrebbe aperto le porte alla conquista di ampi territori. Ora che l'improbabile impresa era andata a buon fine, l'esercito austro-germanico si trovava sprovvisto di truppe celeri, ciclisti o cavalleria che fossero, tali da poter guadagnare il terreno davanti a loro in velocità. Alle truppe tedesche, non rimaneva che tallonare l'esercito italiano in ripiegamento, tentando invano di superarlo e bloccarlo con azioni di accerchiamento. Fu questo l'errore che permise all'Esercito Italiano di uscire dall'impasse e di rovesciare le sorti della guerra.
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1917
onte Cuzzer, 27 ottobre, ore 21:00
(fllustrazione 7 a p. 45) Il buio si è già mangiato ogni cosa da qualche ora, le nubi coprono la luna mentre la pioggia non fa che intirizzire i soldati esausti e coperti di terra che avevano passato il pomeriggio a scavare la grossa buca in cui ora stanno riparati, tesi e nervosi. I giovani mitraglieri della 1203• compagnia mitragliatrici Fiat, aggregati al Battaglione alpini Pinerolo, cercano di posizionarsi come meglio possono a ridosso del ciglio della buca, preparando le cassette di munizioni accanto alla mitragliatrice, puntata verso la nera valle che si stende invisibile sotto di loro. Le orecchie sono tese alla minima avvisaglia che annunci l'arrivo dei nemici. Il tempo peggiora ed i lampi di un furioso temporale squarciano il cielo, illuminando a tratti l'erboso pendio sotto la buca, il Rio Barman al centro della valle ed il profilo familiaré del monte Canin all'orizzonte. Un portaordini striscia a terra fino alla buca dei mitraglieri e allunga un foglio zuppo all'aspirante ufficiale Ardito Desio. L'ordine è di combattere fino all'ultimo uomo. Desio non si scompone, è entrato in guerra da volontario e non ha nessuna intenzione di deludere la sua Nazione proprio ora. Nei giorni precedenti aveva visto morire o cadere prigionieri tutti gli uomini del Nucleo Minelli di cui faceva parte, chiamato dal turno di riposo per coprire la ritirata all'Esercito, solo la sua formazione era riuscita a salvarsi. Quella sera sarebbe toccato a loro. Ancora un tuono e poi uno squarcio apre di nuovo il cielo, illuminando la valle. Par di scorgere dei movimenti, laggiù in fondo: «attaccano!» comunica a mezza voce un mitragliere, mentre cerca di mirare davanti a sé nel buio. Si sentono allora le prime raffiche di mitragliatrice che paiono avvicinarsi e arrancare con i soldati che salgono correndo verso di loro. La mitragliatrice italiana è puntata nel buio
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Ardito Desio riceve il messaggio dal portaordini
verso quelle sventagliate, un lampo nel cielo li illumina di nuovo, finalmente, tante macchie nere che si spargono sul versante erboso che precede la buca ... la Fiat Revelli scarica tutti i suoi colpi sugli assaltatori che in parte cadono colpiti, in parte corrono ancora. Sono troppi.
Quel che accadde dopo
Le truppe italiane schierate in Val Resia resistettero fino al 28 ottobre sulle proprie posizioni, quindi si ritirarono, combatterono verso Resiutta, giungensero infine al Tagliamento, e, nel novembre rimasero accerchiati durante la battaglia di Pradis di Clauzzetto. In quest'area Desio ed i suoi caddero prigionieri. Desio approfittò della detenzione per imparare il tedesco. A fine guerra si laureò in scienze naturali, divenendo in seguito uno dei più importanti geologi ed esploratori italiani. La prima ascesa della storia al K2 fu pianificata da lui e rimase fra le imprese più celebri legate al suo nome. Fu anche molto discussa, in parte proprio in ragione dell'impostazione rigida e militare che diede alla missione, giacché organizzò i partecipanti alla conquista della vetta come aveva fatto con i suoi alpini in guerra.
C.AKIC.ATI
CONTESTO STORICO
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l 29 ottobre alle 3.30 del mattino, il comandante del VI Corpo d'Armata, generale Lombardi, ordinò al Gen. Filippini, comandante della 1 a Divisione di Cavalleria di schierare i propri uomini presso Pasian Schiavonesco e Pozzuolo del Friuli, allo scopo di coprire il fianco alla za Armata in ritirata, nonché per dare il tempo alla 3a Armata di oltrepassare i ponti a sud del Tagliamento. Il giorno seguente i Dragoni di Genova, comandati dal Col. Bellotti, ed i Lancieri di Novara, comandati dal Col. Campari, si schierarono a protezione della cittadina di Pozzuolo che assieme agli altri piccoli centri abitati all'intorno,costituiva una piccola linea difensiva dell'Esercito Italiano che, ben lungi dall'essere bastevole a contenere l'invasione, era tuttavia utile a rallentare l'avanzata nemica sulla direttrice volta ai ponti di Madrisio e di Latisana. Le truppe di cavalleria poste a retroguardia, avevano dunque il compito di tenere occupati gli austro-tedeschi almeno fino alle 18 del giorno dopo, concedendo al resto dell'Esercito Italiano il tempo necessario a ripiegare oltre il fiume ed organizzare un più congruo sbarramento difensivo. La
notte successiva, transitò da Pozzuolo l'ultima retroguardia della za Armata, ossia i bersaglieri / della divisione al comando del Generale Boriani, che lasciò in rinforzo duecento uomini ed un paio di mitragliatrici. Vennero dunque piazzate le mitragliatrici ai piani alti delle case, raccolti nei cortili un migliaio di cavalli, erette le barricate lungo le numerose strade di accesso al paese ed infine inviate pattuglie di cavalieri in continua perlustrazione, per identificare le località che il nemico andava rapidamente occupando a nord ed a est. L'attacco era imminente. Le truppe austriache e tedesche arrivavano da diverse zone del fronte isontino: buona parte proveniva dalla famosa ala sinistra dello schieramento austro-tedesco che attaccò a sud, nei pressi di Tolmino. Fra queste truppe, era particolarmente temibile la 117a Divisione slesiana che non aveva direttamente partecipato all'attacco, ma era stata invece inviata dopo lo sfondamento a guadagnare terreno con la rapida avanzata dei suoi uomini non ancora provati dai combattimenti: per questa divisione si trattava infatti della prima battaglia. Da est stava arrivando invece la 60a Divisione austro-ungarica, costituita da truppe bosniache, considerate tra i migliori combattenti dell'Imperiale Regio Esercito. Le truppe germaniche si stavano preparando a circondare il paese, mettendo un presidio presso ogni possibile accesso e via di fuga. Prima che l'accerchiamento venisse portato a termine, i Lancieri di Novara ebbero l'ordine di far uscire dal caseggiato uno squadrone a cavallo e di attaccare le truppe austro-tedesche che bloccavano le strade. A condurre l'azione fu il giovane Capitano Giannino Sezanne, un bolognese di appena 28 anni, che con i suoi uomini uscì dal paese, diretto in aperta campagna, per poi cogliere alle spalle le truppe nemiche appostate appena fuori dal caseggiato. I lancieri riuscirono a mettere in fuga le pattuglie che incontrarono allo scoperto, ma le mitragliatrici causarono loro non poche perdite. Sezanne venne ferito.
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1917
ozzuolo del Friuli, 30 ottobre, ore 15:00
(Illustrazione 8 a p. 50) La pioggia battente non da tregua. Le truppe italiane, asserragliate nel centro abitato di Pozzuolo, tengono valorosamente testa ai reiterati tentativi di assalto da parte degli austrotedeschi. Finiscono le cartucce in dotazione, mitragliatrici e fucili sono costretti al silenzio mentre i bosniaci intuiscono il fatto e si lanciano in un attacco da est. Inizia un furioso corpo a corpo per cercare di impedire alle truppe avversarie di penetrare al centro del paese. Il Col. Bellotti corre dai Lancieri di Novara: serve un'altra carica che spazzi via le truppe che stanno attaccando sulla via di Sammardecchia. Sezanne non ci pensa due volte, si mette alla guida del suo squadrone e si lancia nuovamente all'attacco delle truppe bosniache, incurante della ferita. Nei giorni a seguire, il sottotenente Eberhard della 117a Divisione slesiana, narrerà quei fatti così: "Scalpitio di cavalli, galoppo, cavalleria. É questione di secondi. Arrivano a spron battuto. Quello in testa dev'essere un ufficiale! Le redini infilate nel braccio, nella destra la sciabola nella sinistra la pistola, egli grida: «Viva l'italia, viva il Re!». Un capo brillante! Lo vedo ancora saltare
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Il giovane Capitano Giannino Sezanne si lancia all'attacco contro le mitragliatrici avversarie
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Il centro abitato di Pozzuolo e la via verso Sammardecchia da cui parti la carica di cavalleria
una mitragliatrice, attraverso la barricata. A cinque o dieci metri dietro di lui seguono circa dieci cavalieri. Io grido agli uomini a me vicini: «Fuoco! Fuoco!». Tutti sono sbalorditi! Babel estrae la pistola, il colpo non parte. Un colpo di lancia ci sfiora. Un altro lanciere colpisce di lancia il caporale Rossel che -riceve anche una sciabolata sulla testa. Finalmente il primo colpo di fucile. Ora spara anche il secondo dei due uomini. I cavalieri si curvano sulle selle, fanno dietro front, cadono, gridano. La mitragliatrice che era stata saltata dall'ufficiale italiano è nuovamente in azione. Knappik la solleva, e tenendola imbracciata come un fucile, spara da solo. Ra-ta-ta! La bella cavalleria è distrutta. Pochi minuti dopo - avevamo avanzato appena di cento metri - ecco una seconda carica di cavalleria che termina in modo anche più drammatico. I nostri uomini l'attendono in piedi, facendo fuoco con due mitragliatrici. Intanto la compagnia avanza in direzione della piazza del mercato, di barricata in barricata. Da tutte le case si spara. Prendiamo d'assalto quattordici barricate. Mi affretto a fare ritorno al posto di comando, per riferire al mio superiore. A circa cento metri da esso trovo l'ufficiale italiano che aveva fatto la prima balenante carica: era immoto presso il suo cavallo grigio, morto. n suo contegno mi aveva colpito. Mi faceva veramente pena: un giovane bell'uomo di appena vent'anni!" .
CONTESTO STORICO
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a 12a Divisione slesiana, la stessa che il 24 ottobre dal centro dello schieramento austro-tedesco aveva superato le linee difensive italiane dirigendosi verso Caporetto e Luico, infiltrandosi alle spalle delle truppe avversarie, ecco, quella medesima divisione aveva in seguito proseguito la sua avanzata nella pianura friulana per giungere infine, il primo novembre, presso le rive del Tagliamento. Già il 27 ottobre, von Below aveva impartito alla sua 14a Armata austro-germanica l'ordine di "conquistare i ponti sul Tagliamento, prima che il nemico li distrugga" ed ora quelli che la 12a slesiana aveva davanti erano i primi che la compagine austro-tedesca avesse raggiunto. La conquista dei ponti era l'unica possibilità che l'esercito imperiale aveva di oltrepassare le acque tumultuose del fiume, che in quel momento era in piena. Agli slesiani giunti nel pressi del grande corso
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d'acqua, si era unita la 503 Divisione di fanteria K.u.K. nonché l'artiglieria e un reggimento della 13a Divisione Schiitzen. Poco più a nord, per prendere il ponte di Comino, operava la 55a Divisione austro-ungarica del Principe Felix Schwarzenberg.
Mentre il grosso dell'Esercito italiano riparava dietro il Tagliamento per poi proseguire infine verso il Piave, Cadorna, come aveva già fatto in precedenza, faceva arrivare, dalle retrovie non interessate dall'urto dello sfondamento di Caporetto, delle truppe che mantenessero ancora efficienza e combattività tali da poter ingaggiare degli scontri di retroguardia con le divisioni di punta dell'esercito austrotedesco, che stavano arrivando nei pressi del grande fiume friulano. Occorreva rallentare più possibile la loro avanzata, altrimenti non ci sarebbe stato il tempo di organizzare al Piave una difesa adatta a fermarle definitivamente. Sapeva che le truppe più avanzate dello schieramento nemico stavano giungendo all'altezza del medio Tagliamento, nei pressi di Monte Ragogna che sovrastava il ponte di Pinzano. Chiamò quindi a difesa di quei luoghi le divisioni 20a e 33a della 3a Armata comandate dal Generale Antonino Di Giorgio, uno dei migliori comandanti al seguito di Cadorna. Già il 26 ottobre le due divisioni tentarono di arrivare sul posto ma, a causa della congestione dei trasporti ferroviari, il 29 riuscì ad arrivare soltanto parte della 33a Divisione. Giunsero dunque la Brigata Bologna, destinata ad arrestare l'arrivo dei nemici da Monte Ragogna, quattro battaglioni della Brigata Barletta, un reggimento della Brigata Lario e l'intera Brigata Lombardia destinati alla linea di massima resistenza, il tutto sulla riva destra del fiume. Quanto ad artiglieria, le due brigate potevano contare soltanto sull'appoggio di poche batterie di piccolo e medio calibro appostate sulle alture al di là del Tagliamento, per altro con scarsa dotazione di munizioni, mentre le trincee di cui disponevano sulla medesima riva erano appena abbozzate. Nel frattempo, per impedire l'attraversamento del fiume alle truppe austrotedesche, i ponti sul fiume venivano tutti minati, così da poterli far saltare in aria non appena gli ultimi soldati italiani li avessero oltrepassati, chiudendo la ritirata. Il ponte di Pinzano non faceva eccezione, anch'esso venne minato mentre la Brigata Bologna stava per affrontare le prime truppe avversarie giunte sul posto, coprendo l'attraversamento del ponte da parte degli ultimi raggruppamenti della 2a Armata. All'alba del 1 novembre, dopo un furioso bombardamento preventivo, la 12a Divisione slesiana, armata delle micidiali mitragliatrici leggere, e la soa austro-ungarica sferrano l'attacco decisivo verso le postazioni italiane di monte Ragogna.
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ressi del Ponte di Pinzano, 1 novembre, ore 11:25
(Illustrazione 9 all'interno di questa pagina) Sotto attacco, la Brigata Bologna combatte con ogni mezzo gli assalti delle truppe tedesche: furiosi corpo a corpo riescono a bloccare l'avanzata avversaria a 300 metri dal ponte ma la situazione è ormai disperata. All'intorno piovono le bombe dell'artiglieria italiana che spara dall'altra riva in direzione dell'assalto, colpendo entrambe le fazioni. Drappelli di truppe germaniche, armate di piccoli cannoncini e Minenwerfer (lanciamine) mirano alternativamente ai soldati italiani davanti a loro oppure all'altra sponda, nell'intento di danneggiare il sistema di accensione delle cariche di mina che i gruppi di minatori hanno posizionato per far saltare il viadotto. L'imminente pericolo che il ponte di Pinzano cada intatto nelle mani degli slesiani obbliga il Generale Carlo Sanna, comandante della 33a Divisione, a dare il via alla demolizione dell'arcata occidéntale del ponte, prima che la Brigata Bolog,na abbia il tempo di attraversarlo, riparando sulla riva destra del fiume. L'ordine che gli uomini della Bologna avevano ricevuto prima della deflagrazione era di combattere fino all'ultimo uomo ed a quest'ordine tengono fede. Con piena visione e consapevolezza del sacrificio imposto e della lotta impari, la Brigata Bologna ed alcune aliquote della Brigata Barletta non si arrendono e rendono onore fino all'estremo al compito loro affidato.
Dall'altra parte del ponte di Pinzano, sfilano gli ultimi soldati della retroguardia in mezzo ai carri del corteo disperato dei profughi, che qualche ora prima aveva affollato le strade che conducevano al viadotto, così riporta un testimone di quei fatti: "migliaia e migliaia di veicoli di ogni genere e di ogni forma, cannoni di ogni calibro, trattrici, macchine, buoi dispersi, morti distesi attraverso la strada. I fossi ai lati erano pieni di vetture rovesciate e di cavalli ancora attaccati che si contorcevano inutilmente
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La Brigata Bologna combatte sulla riva sinistra del Tagliamento
e disperatamente [ ... ]. I veicoli giungevano gli uni sugli altri, tentavano di sorpassarsi, si urtavano, si scontravano, si rovesciavano, sbarravano la strada sì che più non passavano nemmeno gli uomini [ ... ]. Appena si faceva un breve vuoto, dieci veicoli vi si precipitavano in velocità per sorpassare i pigri carri dei buoi e le carrette traballanti dei profughi e tutti si incastravano nel vano e non riuscivano più a proseguire. [ ... ] S'era fatta una gran ressa tumultuosa alla testata del ponte, ove vedevo pochi uomini tentare inutilmente di trattenere quei folli. Tutti volevano passare, tutti spingevano, tutti urlavano, tutti a gomitate cercavano di guadagnare terreno. Erano frammisti uomini e donne, soldati e borghesi in una sola mandria irrequieta ed urlante".
Quel che accadde dopo
Sul campo vennero raccolti nei giorni successivi allo scontro circa 400 cadaveri, soltanto 600 uomini su 5.500 dell'intera brigata riuscirono a mettersi in salvo al di qua del Tagliamento, a tutti gli altri, catturati nei combattimenti dal 30 ottobre al 1 novembre, spettarono i campi di concentramento degli imperi centrali. Prima di confinarli, il generale von Below volle rendere loro l'onore delle armi, per il valore e lo spirito di sacrificio dimostrato in battaglia. Già nel pomeriggio del 1 ° novembre, fu imbastita una cerimonia castrense a San Daniele del Friuli per i prigionieri della Bologna.
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aporetto, fin da subito, suscitò negli italiani due diversi tipi di reazione: lo scoramento, in tutte le sue declinazioni che possiamo immaginare, e quello che oggi chiameremmo "l'ottimismo della resilienza", arrivando fino all'esaltazione vera e propria. Se la prima declinazione apparve, e appare tuttora, giustificabile e naturale, la seconda ci lascia perplessi oggi come allora. Eppure, fra le due, fu determinante la seconda ed ancora ci si interroga su come ciò avvenne. Come fu possibile che una sconfitta così sofferta sia riuscita a portare all'istante i soldati da un sentimento di estremo sconforto alla determinazione a vincere? Come poterono i vinti di Caporetto, colpiti e decimati dallo sfondamento, riparare sfiniti sul Grappa e trasformarsi, istantaneamente, nei fieri vincitori della battaglia che riuscì ad arrestare l'avanzata nemica? Come vi riuscirono senza trincee, con armi ancor inferiori per numero ed efficienza, dopo una corsa disperata, dopo aver visto morire migliaia di commilitoni ed aver lasciato in mano al nemico così tanta parte del suolo patrio?
Adolfo Omodeo, un professore in uniforme che riuscì a portare in salvo la sua batteria dopo lo sfondamento di Caporetto, qualche tempo dopo confessò a Giovanni Gentile il sentimento di vergogna ed il senso di impotenza provati. L'interventista e futurista Marinetti, di quella sconfitta fece una malattia. Moltissimi ufficiali ne rimasero tanto sconvolti da non essere in grado di parlarne fra loro e nemmeno con i loro soldati. Alcuni comandanti coinvolti - fra tutti il comandante della 19a Divisione che aveva perduto lo Jeza ed il senatore interventista Franchetti si suicidarono, altri ne ebbero il pensiero, fra questi persino il ministro Leonida Bissolati. Fra i membri del governo, Francesco Nitti fu turbato dalla cattura del primogenito, Benedetto Croce disse che gli "pareva d'impazzire", Gaetano Salvemini si dichiarava ancora incapace di pensare e scrivere ad un mese dalla ritirata... Eppure, sebbene possiamo immaginare che fra i soldati al fronte i pensieri fossero analoghi se non peggiori, sul Grappa e sul Piave, l'Esercito resisteva. "Le colpe si espiano in piedi e combattendo" scriveva Croce, che quanto alla colpa alludeva non tanto alla sconfitta in sé, quanto alla rimarchevole conseguenza di aver perduto parte del territorio italiano. Fu proprio quetta perdita a dare la spinta agli italiani, soldati in trincea o politici che fossero, a reagire, combattere e resistere: non si trattava più della conquista di territori dai nomi stranieri difficili persino da pronunciare, ma al contrario di difendere la propria terra ed il proprio onore di italiani! Fin da subito, nel pieno della crisi, si rilevò una reazione in positivo tra gli effetti di quella grave sconfitta, quantomeno nel modo di affrontarla. Ora l'Italia non era più
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così divisa sul proseguire o non proseguire il conflitto, ma si univa al dolore delle centinaia di migliaia di profughi friulani e veneti, per poi trovarsi finalmente solidale anche con i soldati, che ora combattevano per riscattare quelle terre a cui non si poteva davvero rinunciare. E questa nuova realtà, questo appoggio unitario alla loro missione, finì con il rincuorare e motivare anche gli uomini in trincea. I politici con Diaz ebbero modo di mettere in atto una serie di misure per migliorare le condizioni dei combattenti, tramite l'ufficio di Propaganda, denominato Servizio P. Questa istituzione arrivò ad occuparsi non solo di tutte le esigenze del soldato ma anche a tutelarne economicamente la famiglia in sua assenza ed in caso di morte del capo famiglia. "C'è voluto Caporetto per capire che bisogna farsi capire. C'è voluto Caporetto perché ci si occupasse davvero, con la propaganda, che vale uno, con l'assistenza, che vale dieci, e con l'amore, che vale cento, del nostro popolo. Ed esso ci ha compensato con quella cosa enorme che è la vittoria" sostenne Prezzolini a fine guerra. Ma tutto questo fu molto dopo Caporetto, dopo il successo della Battaglia d'arresto ... e dunque, cosa mosse i soldati a resistere fin da subito? Cosa spinse il soldato a reagire alla sconfitta dopo esser giunti sulla linea Grappa Piave, immediatamente dopo il trauma della ritirata? Curzio Malaparte si espresse così al riguardo: "[il soldato] da sé e da solo ... riprese la sua coscienza morale ed il suo valore, istantaneamente, alla prova immediata di una sanguinosa e lunga battaglia". Quel che è. certo è che i soldati che erano arrivati a riparare oltre il Piave, erano fortemente intenzionati a combattere. Del resto, chi fra di essi non aveva sperato di far altro che dileguarsi o arrendersi, nel marasma della ritirata lo aveva già fatto o per lo meno ne aveva avuto la possibilità. Inoltre ormai era noto che le condizioni nei campi di prigionia all'estero non erano meno letali delle trincee: uno su sei moriva per la debilitazione indotta dalla farne, costituendo di fatto il più valido disincentivo alla diserzione. A questo si aggiungeva l'azione sanzionatoria dello Stato anche verso le famiglie del disertore, costrette a condividere l'infamia della viltà dell'uomo. A incidere fu anche il tipo di combattimento stesso che passò da offensivo a difensivo, di certo il secondo è certamente più istintivo e spontaneo nell'uomo prima ancora che nel soldato, ancor più se ad essere difesa è la propria terra. A questo si aggiunse una maggiore autonomia concessa Diaz alle unità minori: invece di condurre le truppe punto per punto all'obiettivo, il Comando Supremo si riservava ora soltanto di definire quest'ultimo, sulle modalità di conseguimento si dava invece libertà decisionale alle divisioni ed alle aliquote minori, che potevano valutare sul campo le migliori opportunità. Questa nuova formula, oltre ad essere più oculata sotto il profilo tattico, faceva sentire anche le piccole unità sul fronte degne di fiducia, direttamente coinvolte nell'azione singola e collettiva, protagoniste dell'impresa e dell'eventuale successo.
Soldati e ufficiali combattevano ora molto più uniti e solidali, in un clima di esaltazione per noi difficilmente immaginabile senza le testimonianze dell'epoca. Ecco come descrisse il morale degli italiani Armando Lodolini durante la Battaglia del Solstizio, in pieno attacco austriaco sulle rive del Piave, appena otto mesi dopo la grande ritirata: "Capisco allora perché gli austriaci non passeranno, malgrado la baldoria, la confusione, il frammischiarnento di cento reparti: perché dunque ci sono italiani fieramente decisi a ridere ed a morire. Non ho mai visto tanta allegria... Ecco l'anima collettiva che trasforma la folla vile in un quadrato di prodi. Ufficiali e soldati ci diamo a raccogliere fucili e bombe sparsi per ogni canto e a distribuirli: ognuno vuol aver per primo un'arma qualunque, come i bambini intorno ad un tavolo di doni. Cinque, dieci, trenta arditi intonano l'Inno di Mameli (non ancora inno d'Italia, ndr.)... Mi par di sognare. Mi prende un accesso di allegria, come me tutti ridono. Così arrivano le avanguardie austriache: pare che siano un migliaio di uomini. Non ho mai visto un ardore di battaglia come quello che c'invade tutti. .. !". Nonostante la storiografia abbia indagato e scritto molto sull'argomento,
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cercando di comprendere l'animo degli italiani e dei soldati nel terribile frangente della Guerra, nonché le variegate declinazioni di sentimenti e di emozioni che diedero vita ad inaspettate risoluzioni e propositi, le risposte risultano sempre, quantomeno, poco soddisfacenti. Ad interrogarsi sulle ragioni dell'efficienza dell'esercito vi è anche Giorgio Rochat che forse fornisce la risposta che più si avvicina al vero: nonostante vi fosse un margine di diffuso dissenso per la brutalità della guerra in quanto tale, "la realtà dominante era l'obbedienza ed il consenso dei soldati [ ... ] nessuno potrà mai spiegare in termini esaustivi perché costoro abbiano affrontato gli orrori della trincea e la morte. La ricerca storica può arrivare fino ad un certo punto, oltre rimane solo il rispetto per questi uomini ed il loro sacrificio" . Tuttavia, come rileva Fortunato Minniti: "politici e militari, poeti e musicisti, studenti e _ professori ... si dettero corpo e anima a rinforzare, militarmente alcuni, moralmente altri, la cima del Grappa e l'argine destro del Piave, tr~scinando con sé buona parte di coloro che avevano minore o nessuna consapevolezza della situazione e del significato che la resistenza assumeva in quel momento militare e politico. Soltanto per questa concentrazione di volontà e di sforzi tesi a sfruttare positivamente un evento demolitore, la madre di tutte le sconfitte ebbe poi per figlia la vittoria".
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-·• NOTA LL551(ALL •·-
DALLA STKAiEXf7EDITION A C.Af70KETTO: KITIKATE 171~ O MENO iAMOSE ... MA NON DISFATTE!
La Grande Guerra fu piena di "ritirate" attuate da tutti gli eserciti belligeranti, alcune addirittura "famose", come l'epilogo della "Strafexpedition" austriaca, dileggiata a lungo dai soldati italiani che trovarono un nuovo significato al verbo "strafare" con cui scherzare sul fronte. In effetti, nel 1916, la cosiddetta "Strafexpedition" vale a dire "spedizione punitiva", progettata ben prima dell'inizio della Grande Guerra dal nemico storico dell'Italia Gen. Conrad, veniva finalmente messa in atto lanciando all'attacco un quantitativo davvero imponente di armi ed uomini - potremmo dire "esagerato" in relazione alle forze schierate dall'avversario - pur di riuscire ad infliggere al vecchio alleato italico una sconfitta, ossia una . "punizione" memorabile. Per poco Conrad non vi riuscì, il Regio Esercito faticò nel tentativo di arginare quell'attacco che, fortunatamente, si esaurì con un parziale ritorno sui propri passi degli austro-ungarici. Il ripiegamento dell'esercito imperiale fu determinato in quel caso non solo dalla caparbietà della risposta italiana, ma ancor più dalla posizione sfavorevole raggiunta, troppo avanzata e dunque poco rifornibile, che non consentiva all'esercito attaccante di "tenere" le nuove posizioni, compromettendo di fatto l'integrità del fronte. Fu così che quell'azione degli austriaci sembrò agli italiani proprio un voler "strafare", un lanciarsi in un'impresa troppo grande, tanto da risultare ingestibile. Ecco che i soldati iniziarono a scherzare sul significato di "strafare" , alternando al significato italiano il significato tedesco di punire ("strafe") usato nell'accezione di "punire senza costrutto" oppure giocando con altri significati più o meno negativi, tendenti all'esagerazione: "con questo bello scherzo, i cartoni impermeabili della tettoia sono andati in malora, bisognerà andarli [i soldati responsabili] a strafare [a punire] ... In guardia! Altrimenti ti strafano
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OKIO VLNLTO
uesto racconto non vuole soffermarsi su ogni singolo avvenimento accaduto nell'ultimo anno di guerra, giacché l'obiettivo non è una rappresentazione completa ed esaustiva dei fatti, quanto piuttosto promuovere ad una riflessione su due macroeventi, ossia la più grande sconfitta e la più famosa vittoria italiana nella Grande Guerra. È come guardare due medaglie che mostrano facce diverse a seconda di come le si guardi: Caporetto è la maggior sconfitta italiana ed al contempo la più grande vittoria austro-tedesca su questo fronte, per contro, Vittorio Veneto è la più importante vittoria italiana ma anche la più terribile sconfitta austriaca. Se non fosse che la seconda battaglia fu definitiva e sentenziò la fine della guerra, le due medaglie apparirebbero assai simili: guardando i due eventi dalla parte dei vinti osserveremo come in entrambi gli schieramenti subentrò una crisi tattica e militare unita ad una morale e politica ancor più grave. Furono gli esiti ad essere differenti. Nel primo caso (nella sconfitta italiana a Caporetto) si ebbe una ritrovata coesione in virtù di un riconoscimento unanime dell'identità nazionale, nel secondo caso (nella sconfitta austriaca a Vittorio Veneto) si ebbe una disgregazione dell'Impero, dovuta alla ribellione dei popoli appartenenti che non riuscirono più a riconoscersi nell'unitarietà di quei confini. In entrambi i casi, la crisi, morale nel primo e identitaria nel secondo, precedette quella militare, contribuendo in modo assai diverso ( e controverso) ad innescarla. Accostare questi due avvenimenti, osservare entrambi i lati di ciascuna "medaglia", cercare di vedere con gli occhi di ciascun schieramento, aiuta a comprendere meglio quanto avvenne. Ciò nonostante, non possiamo passare direttamente dal racconto degli accadimenti di Caporetto alla narrazione dei fatti di Vittorio Veneto senza nemmeno fare un cenno a quanto intercorse fra questi due eventi, ovvero durante le due battaglie del Piave. Infatti, queste ultime, meglio contraddistinte come Battaglia d'Arresto e Battaglia del Solstizio, per una fazione crearono le condizioni della vittoria, per l'altra costituirono i prodromi della sconfitta. Cercheremo dunque di raccontare ciò che accadde dai primi di novembre del 1917 a fine giugno del 1918, attraverso le voci di alcuni fra i principali protagonisti, proponendoci di rendere la portata complessiva ed essenziale di queste due battaglie e dei retroscena interni a ciascuna fazione, in relazione a quanto è l'oggetto ed il fine di questa narrazione, evitando la menzione di tutti i singoli scontri che ciascun lettore può facilmente reperire ed approfondire da sé. Alla fine di questo piccolo racconto nel racconto, incontreremo due protagonisti d'eccezione, ossia una spia ed un eccentrico letterato: Tandura e d'Annunzio ci condurranno in volo direttamente alla battaglia di Vittorio Veneto.
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NEL MENTRE DELLA 1'ATT AQLIA DIAKKE5TO
DAL PUNTO DI VISTA DI ...
adorna, quindici giorni prima dell'attacco di Caporetto, si era trovato ad ispezionare i lavori di fortificazione che i suoi uomini stavano effettuando a Cima Grappa, valutando l'efficienza delle strutture difensive nel caso in cui un possibile attacco a tenaglia avesse coinvolto anche il settore trentino, insieme a quello dell'Isonzo. Appurato che non sembravano esservi avvisaglie di un nuovo immiµente attacco in quel settore, parimenti sentenziò: «Il Grappa deve essere imprendibile, poiché, quod Deus avertat, dovesse avvenire qualche disgrazia sull'Isonzo, io qui verrò a piantarmi». Era passato meno di un mese e quella disgrazia era divenuta reale, mentre proprio il Grappa diveniva il centro focale del nuovo schieramento. Già ai tempi della Strafexpedition aveva temuto un simile evento, tanto da aver ordinato i lavori per un possibile arretramento sulla linea GrappaTreviso-mare, facendo scandalizzare Salandra che minacciò di sostituirlo, qualora una simile ipotesi si fosse avverata. Anche per questo, ora era chiaro che il suo incarico sarebbe volto al termine. Era riuscito miracolosamente nell'impresa di far ripiegare le sue truppe dietro la linea Grappa-Piave, ora si stavano di nuovo schierando ed erano pronte a combattere, la guerra non era ancora perduta, ne era più che convinto. Tuttavia, era adirato con l'Italia dei neutralisti, che aveva minato il suo esercito con propaganda disfattista... ed ora, quella stessa Italia lo voleva colpevole di tutto. Con i Generali aveva tentato di stimolare i soldati alla rivalsa, con un proclama che condannasse la resa ed il tradimento, voleva che questo fosse un pungolo tale da far ritrovare la voglia di riscossa alle sue truppe. Ma quell'arma gli si era rivoltata contro, completamente travisata nelle intenzioni. "Cadorna accusa i soldati della sconfitta, si prenda invece le sue responsabilità!" avevano tuonato i suoi avversari, a nulla erano valse le obiezioni sulla buona fede di quegli ufficiali che con lui si erano trovati d'accordo per quel proclama. Sedette al tavolo del comando un'ultima volta, mentre la luce del sole iniziava appena a filtrare da dietro le tende ancora accostate. "Ordine del giorno, 7 novembre 1917" scrisse. Il giorno precedente, a Rapallo, gli alleati avevano chiesto la sua sostituzione, dubitava molto che qualcuno potesse convincerli altrimenti quell'oggi, nel prosieguo della riunione. Il suo avvicendamento era il prezzo richiesto per le undici divisioni francesi e britanniche che sarebbero giunte in aiuto sul fronte italiano. Scrisse le ultime parole al suo esercito, sperando che questa volta ne cogliessero la reale volontà di fondo. Si appellò a quella Strafexpedition che tanto era sembrata una vittoria nella sconfitta: "Già una volta sul fronte trentino, l'Italia fu salvata dai difensori eroici che tennero alto il suo nome in faccia al mondo ed al nemico. Abbiano quelli di oggi l'auste:ra coscienza del grave e glorioso compito a loro affidato, sappia ogni comandante, sappia ogni soldato qual è questo sacro dovere: lottare, vincere, non retrocedere di un passo", scrisse. I suoi soldati ora dovevano difendere la linea Grappa-Piave e combattere una partita che non aveva uguali con la precedente: "Noi siamo inflessibilmente decisi: sulle nuove
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