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di Riccardo Benedettini

BLAISE CENDRARS SCRITTORE E SOLDATO

di Riccardo Benedettini

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Nel titolo di questa lezione ho voluto mettere in rilievo, accanto al nome di Blaise Cendrars (18871961), i termini di «scrittore» e «soldato» perché è su queste due parole che penso ci si possa soffermare per comprendere il nesso tra la Grande Guerra (Cendrars, «Matricule 1529», vive in prima persona l’orrore del fronte) e il mestiere di scrivere («le métier de l’homme de guerre est une chose abominable et pleine de cicatrices, comme la poésie!»). In questo itinerario di comprensione delle varie forme di «écriture» assunte dal nostro scrittore (Cendrars fu poeta, romanziere, autore di mémoires, giornalista, ma anche fotografo, cineasta, pittore ...), il discorso sulla guerra acquista un rilievo particolare. Se da un lato, infatti, la guerra in generale non è certo propizia alla letteratura («C’est la guerre de 1914. [...] Quelle perte pour la poésie!») – e ricordo che Cendrars, a differenza degli amici Apollinaire e Aragon, scrive molto poco negli anni del primo conflitto e sembra quasi limitarsi a immagazzinare delle immagini («Survint la guerre. [...] Une flamme créatrice me dévorait, mais je n’écrivis pas une ligne: je tirais des coups de fusil»87) –, d’altro lato, il giovane poeta di nazionalità svizzera le riserva una posizione speciale. L’esperienza della guerra permette a Blaise Cendrars, naturalizzato francese il 16 febbraio 1916, di «rinascere»: alla vita e alla scrittura. Facciamo un passo indietro e risaliamo alla scelta del nome «Blaise Cendrars» al posto del patronimico Frédéric-Louis Sauser: una constatazione, forse semplice, ma non priva di significato se consideriamo che essa è stata in qualche modo segnata da tutto quel che lo scrittore sentiva intorno a sé e che avrà soprattutto degli importanti risvolti nella creazione successiva. Se, come scrive Jean Starobinski, «le nom est vraiment une identité, si l’essence d’un être humain peut y être atteinte et violentée, le refus du patronyme tient lieu d’assassinat du père».88 E in effetti, è noto, Cendrars vuole, in primo luogo, cancellare simbolicamente il «côté alémanique» presente nel nome del padre (originario dell’Oberland bernese) e, dandosi un nome che, anche a livello di suono, risulti molto più francese, egli sembra volersi creare una vita da cui esca il proprio nome («Je me suis fabriqué une vie d’où est sorti mon nom»). All’origine di tutto, il fascino per il fuoco (le feu, quasi un anticipo dell’omonimo romanzo di Henri Barbusse) e la cenere (la cendre): «Une cendre brûlante où rien n’est allumé, / Mais où tout ce qu’on jette est soudain consumé», come già Cendrars annotava in un Cahier Noir il 18 ottobre del 1906 a San Pietroburgo. Dal fuoco alla brace (la braise), dalla brace alla cenere. Braise ardent, da cui Blaise Cendrars, appunto, con uno scambio tra la -r e la -l: «Ainsi, mon nom l’indique: CENDRARS. Tout ce que j’aime et que j’étreins / En cendres aussitôt se transmue... [...] en riant de cette étymologie pragmatique: – Et Blaise vient de braise. Confusion des R - und L - laute»; 89 ma anche un rinvio a Saint-Blaise, comune del cantone di Neuchâtel, nonché, più letterariamente, a Blaise Pascal e a un altro scrittore pieno di ardeur e a lui caro: Henri Beyle, lo Stendhal autore della «Vie d’Henri Beyle Brulard». Dunque, scelta di rottura che, a partire dagli anni 1912-1913 – dopo il viaggio-rivelazione a New York durante il quale il giovane poeta errante e tormentato conoscerà la solitudine e la miseria dell’uomo, avvicinandosi a quello che poi sarà un motivo ricorrente di tutta l’opera, vale a dire la Passione del Cristo e il motivo della resurrezione (rinvio al lungo poema del 1912, Les Pâques à New York, strutturato in quattordici strofe, come le quattordici stazioni della Via Crucis, composte da distici che oscillano tra la litania medievale e la prosa poetica più moderna, nonché alle figure di Lazzaro, di Maria Maddalena e all’immagine mitica del phénix che rinasce dalle proprie ceneri e

87 M. CENDRARS, Blaise Cendrars, Paris, Balland, 1984, p. 847. 88 J. STAROBINSKI, «Stendhal pseudonyme», in L’Œil vivant, Paris, Gallimard 1961, p. 192. 89 B. CENDRARS, Une nuit dans la forêt, in Œuvres complètes, Paris, Denoël, 1960-1964, t. VII, p. 17. Quasi tutte le mie citazioni rinviano a questa edizione Denoël; HF e MC sono le abbreviazioni usate per rinviare a L’Homme foudroyé (1945) e a La Main coupée (1946).

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che negli anni di guerra sarà identificato con le mitragliatrici, «ces oiseaux phénix que sont les mitrailleuses à la voix de feu et qui renaissent sans cesse de leurs cendres») –, segna la vita e l’intera opera letteraria dello scrittore, uno svizzero che da anni mostra di avere «le mal du pays». Freddy (come lo chiamavano affettuosamente in famiglia) già pare meritarsi il celebre appellativo di «bourlingueur», quel giudizio leggendario di “vagabondo giramondo” che per molti anni ha influenzato anche l’approccio critico alla sua produzione letteraria («Mieux vaut être un vagabond: telle demeure sa devise», scriverà Henry Miller, grande amico del poeta per 45 anni, come possiamo capire anche dalla ricca corrispondenza tra i due): bambino a La Chaux-de-Fonds, dove è nato, si trasferisce ben presto (1894-1896) a Napoli, via Parigi, Marsiglia e l’Egitto, per tornare come studente in Germania e a Basilea (1896-1902), quindi a Neuchâtel (1902-1904), città che in seguito definirà «petite ville académique et de bigots»; ma è nella Russia degli anni 1904-1907, paese dove Cendrars soggiornerà di nuovo nel 1911, che egli avrà il primo contatto con la guerra: «Fin septembre 1904. Moscou est belle comme une sainte napolitaine. [...] La guerre russojaponaise tirait à sa fin; les premiers craquements de la révolution se faisaient entendre. [...] Bientôt, la révolution éclatait», leggiamo in Moravagine, 90 un testo dalla gestazione lunga, difficile e il cui narrato risente molto delle conoscenze in ambito psichiatrico dello scrittore, e come poi ritroviamo nei versi della Prose du Transsibérien ou de la petite Jeanne de France (1913):91 «En ce temps-là j’étais en mon adolescence / J’avais à peine seize ans et je ne me souvenais déjà plus de ma naissance / J’étais à Moscou, où je voulais me nourrir de flammes / Et je n’avais pas assez des tours et des gares que constellaient mes yeux / En Sibérie tonnait le canon, c’était la guerre / La faim le froid la peste le choléra / Et les eaux limoneuses de l’Amour charriaient des millions de charognes / Dans toutes les gares je voyais partir tous les derniers trains / Personne ne pouvait plus partir car on ne délivrait plus de billets / Et les soldats qui s’en allaient auraient bien voulu rester... / Un vieux moine me chantait la légende de Novgorode». Si tratta sempre di quella guerra russo-nipponica, di cui ci ha così ben parlato Rita Giuliani nella sua lezione «Si scrive “guerra”, ma si chiama rivoluzione»: la guerra in Russia e il caso di Andreev.

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Ma l’immagine della guerra, inscritta tra le prime importanti produzioni del poeta, ha avuto un rilievo fondamentale a seguito della partecipazione attiva dello scrittore alla campagna 1914-1915. In quanto svizzero, Cendrars avrebbe potuto non partecipare alla guerra, ma:

L’heure est grave. Tout homme digne de ce nom doit aujourd’hui agir, doit se défendre de rester inactif au milieu de la plus formidable déflagration que l’histoire ait jamais pu enregistrer. Toute hésitation serait un crime. Point de paroles, donc des actes. Des étrangers amis de la France, qui pendant leur séjour en France ont appris à l’aimer et à la chérir comme une seconde patrie, sentent le besoin impérieux de lui offrir leurs bras. Intellectuels, étudiants, ouvriers, hommes valides, de toute sorte – nés ailleurs, domiciliés ici –nous qui avons trouvé en France la nourriture matérielle, groupons-nous en un faisceau solide de volontés mises au service de la plus grande France. Signé: Blaise Cendrars, Leonars Sarlius, Csaki, Kaplan, Berr, Oknosly, Schoumoff, Roldireff, Kozline, Essen, Lipschitz, Frisendahl, Israilivitch, Vertepoff, Canudo.93

90 B. CENDRARS, Moravagine. Roman, Paris, Bernard Grasset, 2013 [1926]1 ,pp. 65-66. 91 In B. CENDRARS, Du monde entier au cœur du monde. Poésies complètes, Édition de C. LEROY, Préface de P. MORAND, Nouvelle édition, Paris, Gallimard, 2006. 92 Qui alle pp. 73-82 con il titolo: Leonid Andreev e la Grande Guerra. Un’eco russa dell’Apocalisse. 93 Questo «Appel aux amis de la France» fu pubblicato centinaia di volte. Sul sito della «Bibliothèque de documentation internationale contemporaine» (http://www.bdic.fr) si può prendere visione della versione uscita il 2 agosto 1914 sul quotidiano «Le matin».

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Sono queste le parole che, insieme all’italiano Ricciotto Canudo («le barisien parisien», discepolo di D’Annunzio e autore, come ricordava stamani Mireille Brangé, del manifesto «La nascita della settima arte», proprio quel cinema tanto caro al nostro), Cendrars redige e fa pubblicare, il 29 luglio 1914, su un gran numero di giornali parigini. Un «claironnant appel», rivolto agli stranieri residenti in Francia e «amis» di questo paese. Decisione, questa dell’«engagement», che non deve essere iscritta all’interno di una ideologia nazionalista bensì in un’ottica di solidarietà verso il paese di accoglienza. Lo scrittore, il poeta, deve essere soldato. Il 2 agosto, la Germania dichiara guerra alla Francia. Il 3 agosto, Blaise e Ricciotto si mettono in fila per firmare un «engagement» di principio che sarà seguito, il 3 settembre, agli «Invalides», da quello definitivo: «J’avais signé le manifeste de mon nom de poète; mais j’avais signé mon engagement d’un faux nom anglais. Au régiment, je restai un inconnu. Nul ne savait que j’étais un écrivain» (MC 405). Blaise Cendrars, soldato di prima classe, con la testa rasata sotto il chepì della Legione straniera, parte subito per il fronte («notre engagement n’était pas de cinq ans comme celui de la Légion, mais seulement pour la durée de la guerre» MC 408), dove rimane circa un anno: il 28 settembre 1915, infatti, durante il violento attacco alla «ferme Navarin», in Champagne, l’esplosione di un ordigno bellico (quell’«obus» che Cendrars accosterà a «autobus» perché «il y a BUS dans autobus et aussi dans obus» e «il paraît qu’il y a des poilus qui ont vu un autobus avant de mourir. Il est vrai que c’est en rêve» MC 352) gli porta via l’avambraccio destro, con la mano della scrittura. Dopo la rinascita legata al nome, Cendrars è ora costretto ad una nuova obbligata rinascita: l’«écriture de la main gauche», come l’ha definita Claude Leroy. Blaise Cendrars nuovo poeta «manchot», come già fu Arthur Rimbaud, cui certo lo accomunano anche la passione per l’esotismo e l’«invitation au voyage». Ed infatti la guerra è per Cendrars uno sfogo al proprio desiderio di avventura, alla necessità di viaggiare, di «aller jusqu’au bout»: «Je m’étais engagé, et comme plusieurs fois déjà dans ma vie, j’étais prêt à aller jusqu’au bout de mon acte. Mais je ne savais pas que la Légion me ferait boire ce calice jusqu’à la lie et que cette lie me saoulerait, et que prenant une joie cynique à me déconsidérer et à m’avilir [...] je finirais par m’affranchir de tout pour conquérir ma liberté d’homme. Être. Être un homme. Et découvrir la solitude» (MC 413). Quella stessa solitudine che, si è visto, Blaise ha incontrato per la prima volta a New York e che lo fa ora entrare in contatto con i legionari, definiti dei desperados: «Le desperado est un homme usé par la sensation forte, d’où la répétition de plus en plus forte. Plutôt qu’un désespéré c’est un homme perdu. Mais ces enfants perdus qu’étaient les conquistadores partaient à l’aventure dans un nouveau continent, alors que nous... Quel sale métier on nous faisait faire!» (MC 452). Se la guerra è dunque uno “sporco mestiere”, anche l’arte militare si riduce a ben poco: «L’art militaire est affaire des culottes de peau. Une sale routine. Marche ou crève» (MC 371); e: «À la formule marche ou crève on peut ajouter cet autre axiome: va comme je te pousse! Et c’est bien ça, on va, on pousse, on tombe, on crève, on se relève, on marche et l’on recommence. De tous les tableaux des batailles auxquelles j’ai assisté je n’ai rapporté qu’une image de pagaïe» (MC 380). Ne risulta una rappresentazione referenziale della violenza, dove le dichiarazioni di odio e di rabbia non hanno un risvolto puramente linguistico ma vogliono essere racconto di quanto realmente si respirava nelle trincee.

Ma prima di arrivare a questa descrizione della «fin du monde», condotta secondo un principio che si vuole reggere, almeno in apparenza, sul bisogno di dire il vero («l’heure est venue d’être vrai; mon dernier espoir n’est pas d’entrer à l’Académie mais d’être enfin couché dans cette terre de France qui s’entr’ouvre et pour laquelle j’ai versé mon sang bien avant toute ambition d’écrire» HF 200), vorrei presentare, pur se molto rapidamente, quegli unici due testi sulla guerra che Cendrars pubblica durante il conflitto. Il primo consiste in una poesia, La guerre au Luxembourg (octobre 1916); il secondo in una prosa, J’ai tué (Nice, 3 février 1918).

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Con i versi di La guerre au Luxembourg, 94 la mostruosità diventa divertimento: l’universo qui rappresentato è quello dei parigini giardini di Lussemburgo dove le madri portano i figli a giocare. Un giorno è uguale all’altro (« ... Le lendemain ou un autre jour») e il gioco messo in scena è sempre lo stesso: la guerra. «Il n’y a que les petits enfants qui jouent à la guerre. [...] Il y a une tranchée dans le tas de sable / Il y a un petit bois dans le tas de sable. / Des villes / Une maison / Tout le pays / Et peut-être bien la mer / L’artillerie improvisée tourne autour des barbelés imaginaires / Un cerf-volant rapide comme un avion de chasse ... ». Nello spazio ludico dell’infanzia fanno capolino solo pochi adulti: un ferito («Un blessé battait la mesure avec sa béquille»), il guardiano («On part à l’assaut du garde qui seul a un sabre authentique»), le madri o le domestiche («On attend le zeppelin qui ne vient pas / Las / Les yeux aux fusées des étoiles / Tandis que les bonnes vous tirent par la main / Et que les mamans trébuchent sur les grandes automobiles d’ombre»). I bambini non vogliono più leggere Jules Verne ma le notizie della vera guerra («Et un petit garçon: – Non pas Jules Verne mais achète-moi encore le beau communiqué du dimanche»), perché i giornali, con le loro foto, sono molto più interessanti (nota è la passione di Cendrars per la fotografia, passione che lo porterà anche, nel 1924, a scrivere una raccolta poetica dal titolo emblematico, Kodak. Documentaire). Ironia che permette a questi versi di ottenere il visto della censura (come accadde anche al già ricordato Le feu. Journal d’une escouade di Barbusse). Eppure, accanto a questa guerra fatta per ridere, l’iniziale dedica ai morti ben ricorda la guerra combattuta dal caporale Cendrars: «Ces ENFANTINES / sont dédiées à mes / camarades de la / Légion étrangère / Mieczyslaw KOHN, Polonais, / tué à Frise; / Victor CHAPMAN, Américain, / tué à Verdun; / Xavier de CARVALHO, Portugais, / tué à la ferme de Navarin; / Engagés volontaires // MORTS / POUR LA FRANCE». Tutti stranieri morti per la Francia, dunque, morti che seguono il susseguirsi dei combattimenti: da Frisa a Verdun passando dalla «ferme Navarin»; dal 1914 al 1915 e 1916, anno della prima battaglia di Verdun. L’interesse di questo testo poetico credo possa inoltre risiedere nel fatto che siamo di fronte ad un’opera che è al tempo stesso «poème» e libro: versi scritti da Blaise Cendrars, illustrati da Moïse Kisling e editi da Dan Niestlé, come si evince anche dall’esergo alla «dédicace» firmata dai tre. Si tratta di un procedimento già noto a Cendrars. Non posso non ricordare che La Prose du Transsibérien... realizzò il primo libro simultaneo da un’idea di Cendrars e di Sonia Delaunay («Robert Delaunay, le peintre de la tour Eiffel, l’inventeur du Simultané»): un’opera, di due metri di altezza e trentasei centimetri di larghezza, fatta per essere vista e letta nello stesso tempo, perché l’occhio doveva percepire simultaneamente il ritmo delle parole e quello dei colori e delle forme, colori dove dominano i rossi e i gialli, chiaro rinvio al sole e, ancora una volta, al fuoco. Con J’ai tué95 la descrizione della guerra è condotta in maniera ben differente e troverà specchio nei testi degli anni Quaranta. Innanzitutto, siamo di fronte ad un racconto in prima persona: l’azione dell’omicidio è la lecture di un «aveu» di Blaise Cendrars. Raccontando l’episodio dell’uccisione, coltello alla mano, di un tedesco, Cendrars fa, per citare Rousseau, «le premier pas et le plus pénible dans le labyrinthe obscur et fangeux de [ses] confessions». Ci torneremo. Quel che ora mi interessa mostrare è il contrasto con quanto abbiamo appena visto in La guerre au Luxembourg. In questa prosa (che, va detto, voleva rientrare in un progetto più ampio fatto di J’ai tué / Touché / J’ai saigné / La main coupée), la narrazione procede con un ritmo incalzante che prepara il lettore alla confessione finale: dapprima, l’arrivo dei soldati, «Ils viennent. De tous les horizons. Jour et nuit. Mille trains déversent des hommes et du matériel. [...] On marche soudain sur une profonde litière de paille fraîche qui absorbe le bruit traînard des milliers et des milliers de godillots qui viennent. On n’entend que le frôlement des bras balancés en cadence, le cliquetis d’une baïonnette, d’une gourmette ou le heurt mat d’un bidon. Respiration d’un million d’hommes»; quindi, dopo i canti di marcia, la descrizione di un universo apocalittico, «Grincements. Chuintements. Ululements.

94 In B. CENDRARS, Du monde entier au cœur du monde, cit. 95 J’ai tué, in B. CENDRARS, Aujourd’hui 1917-1929..., cit., pp. 15-22.

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Hennissements. Cela tousse, crache, barrit, hurle, crie et se lamente. Chimères d’acier et mastodontes en rut», da cui Cendrars sembra proteggersi pensando alla Géante di Baudelaire (altrove egli troverà sollievo ricordando i Nocturnes di Chopin, ma anche Rimbaud, Rilke, Jules Verne, Les Mille et une Nuits, il Tiers Livre di Rabelais o, al momento di rapidi interventi chirurgici sul campo, l’opera di Ambroise Paré); infine, il lettore è pronto ad accogliere l’«aveu»:

Et voilà qu’aujourd’hui j’ai le couteau à la main. L’eustache de Bonnot. «Vive l’humanité!» Je palpe une froide vérité sommée d’une lame tranchante. J’ai raison. Mon jeune passé sportif saura suffire. Me voici les nerfs tendus, les muscles bandés, prêt à bondir dans la réalité. J’ai bravé la torpille, le canon, les mines, le feu, les gaz, les mitrailleuses, toute la machinerie anonyme, démoniaque, systématique, aveugle. Je vais braver l’homme. Mon semblable. Un singe. Œil pour œil, dent pour dent. À nous deux maintenant. À coup de poing, à coup de couteau. Sans merci. Je saute sur mon antagoniste. Je lui porte un coup terrible. La tête est presque décollée. J’ai tué le Boche. J’étais plus vif et plus rapide que lui, plus direct. J’ai frappé le premier. J’ai le sens de la réalité, moi, poète. J’ai agi. J’ai tué. Comme celui qui veut vivre.

Sia sul piano delle azioni che su quello del linguaggio la narrazione è diretta, senza esitazione. Si rispetta la legge del taglione. Una relazione che vorrei mettere in rapporto con un altro testo sempre del 1918, terzo scritto degli anni di guerra, e ancora una volta testo poetico: Le ventre de ma mère.

96 L’elemento del corpo è qui essenziale: Blaise (meglio sarebbe forse dire Frédéric-Louis) non è ancora nato («C’est mon premier domicile / Il était tout arrondi / Bien souvent je m’imagine / Ce que je pouvais bien être...») e la fusione con il corpo della madre («Les pieds sur ton cœur maman / Les genoux tout contre ton foie / Les mains crispées au canal / Qui aboutissait à ton ventre») è tale da fargli avvertire le «étreintes» come le «bourrades» del padre. Di questa catena di sensazioni e rivelazioni («Si j’avais pu ouvrir la bouche / Je t’aurais mordu»), l’anello più saldo è certo dato dal verso conclusivo, «Merde, je ne veux pas vivre!». Rifiuto del padre, della madre, della vita stessa: un rifiuto che pare anticipare quello del Céline di Mort à crédit (1936): «Ma mère [...]. Elle a tout fait pour que je vive, c'est naître qu'il aurait pas fallu». E qui insorge un altro problema, legato all’identità e agli elementi di leggenda che il nostro «Suisse errant» (Max Jacob) si diverte ad affiancare accanto ai ricordi reali, quasi a voler imbrogliare le tracce. Cendrars, che la guerra e la ferita (la «blessure») fanno volgere verso la prosa, arriva a crearsi un nuovo luogo di nascita, la Parigi dell'Hôtel Notre-Dame, «Je suis revenu au Quartier / Comme au temps de ma jeunesse / Je crois que c’est peine perdue / Car rien en moi ne revit plus / De mes rêves de mes désespoirs / De ce que j’ai fait à dix-huit ans. [...] La maison où je suis né». Questo spostamento – che ha fatto sì che molti critici, caduti nel piège, parlassero addirittura di un Cendrars nato a Parigi –, deve essere inteso sempre all’interno della creazione di una Vita Nuova: «Je ne suis pas le fils de mon père / Et je n’aime que mon bisaïeul / Je me suis fait un nom nouveau / Visible comme une affiche bleue / Et rouge montée sur un échafaudage / Derrière quoi on édifie / Des nouveautés des lendemains». Aspetti che trovano ulteriore conferma in 229 Rue Saint-Jacques, frammento poetico ritrovato grazie a Raymone Duchâteau, la vedova di Cendrars, e da lei lasciato a Miriam Cendrars, la figlia e l’autrice della grande biografia Blaise Cendrars: «Jamais une bombe allemande / Ne te fera dégringoler / Vieille maison de Paris / Où fut écrit / Le Roman de la Rose // Une plaque est au premier étage / Moi je regarde au quatrième une fenêtre éclairée / Je ne sais pas qui habite aujourd’hui la chambre / Où je suis né // Une plaque au premier étage / Dit que c’est bien là / Que Jehan de Meung écrivit / Le Roman de la Rose / Dans une vieille maison de Paris / * / C’est par une nuit semblable pleine d’étoiles / de bouches d’yeux, de saccades / et de succions / Que je suis venu au monde / Le 1er septembre 1887». Un intreccio tra verità e finzione, tra realtà e leggenda per crearsi un «monde à part» dove il sogno e la vita, il mondo e la sua rappresentazione sono elementi

96 In B. CENDRARS, Al cuore del mondo preceduto da Fogli di viaggio, Sudamericane, Poesie varie, a cura di R. CORTIANA, Milano, Libri Scheiwiller, 1992.

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di un progetto di rinascita fatto di corrispondenze mistiche, come avviene per la mano perduta che diventa la costellazione di Orione, «Ma main coupée brille au ciel dans la constellation d’Orion» (in Au cœur du monde), ma anche un «lys rouge» misteriosamente caduto dal cielo:

Orion. C’est mon étoile Elle a la forme d’une main C’est ma main montée au ciel Durant toute la guerre je voyais Orion par mon créneau Quand les Zeppelins venaient bombarder Paris ils venaient toujours d’Orion Aujourd’hui je l’ai au dessus de ma tête Le grand mât perce la paume de cette main qui doit souffrir Comme ma main coupée me fait souffrir percée qu’elle est par un dard continuel (Feuilles de route 78);

Nous avions bondi et regardions avec stupeur, à trois pas de Faval, planté dans l’herbe comme une grande fleur épanouie, un lys rouge, un bras humain tout ruisselant de sang, un bras droit sectionné au-dessus du coude et dont la main encore vivante fouissait le sol des doigts comme pour y prendre racine et dont la tige sanglante se balançait doucement avant de tenir son équilibre. D’instinct nous levâmes la tête, inspectant le ciel pour y chercher un aéroplane. Nous ne comprenions pas. Le ciel était vide. D’où venait cette main coupée? Il n’y avait pas eu un coup de canon de la matinée (MC 542).

Come è prerogativa dei grandi scrittori, non importa se tutto sia vero o in parte inventato. Prova ne è tutta l’opera degli anni Quaranta relativa ai ricordi del fronte e che ci è servita per un gran numero di citazioni finora riportate.

Proprio in questo mese, l’editore Fazi ha pubblicato, con traduzione di Gregorio De Paola, il volume di Marc Bloch La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e Riflessioni (1921). Lo scritto del grande storico francese si apre con questa dichiarazione di intenti:

Ho avuto l’onore di partecipare ai primi cinque mesi della campagna 1914-1915. Adesso mi trovo a Parigi, in licenza di convalescenza, e mi riprendo a poco a poco da una grave febbre tifoide che il 5 gennaio scorso mi ha costretto ad abbandonare il fronte. Utilizzerò il tempo libero per fissare i miei ricordi prima che il tempo ne cancelli i colori, oggi molto freschi e vivi. Non riporterò tutto. Bisogna concedere all’oblio ciò che gli spetta. Ma non voglio abbandonare ai capricci della mia memoria i cinque mesi straordinari che ho appena vissuto. Essa è solita fare del mio passato una cernita spesso poco giudiziosa. Si ingombra di minuzie senza interesse e lascia che svaniscano immagini di cui anche i minimi particolari mi sarebbero stati cari. La selezione che essa compie così male voglio che questa volta sia rimessa alla mia ragione.

I souvenirs di Cendrars, scritti a distanza di oltre trent’anni dall’esperienza vissuta, nel bel mezzo di un’altra guerra mondiale, come ben mette in evidenza la raccolta di reportages di Chez l’armée anglaise, raccontano degli aneddoti, tracciano dei caratteri e delle anime, mostrano la paura e le passioni degli uomini. Cendrars è scrittore, non storico («Je n’écris pas l’Histoire»). E tuttavia il suo intento, come si è anticipato rinviando alle Confessioni rousseauiane, consiste nel voler lasciare una testimonianza che abbia soprattutto un carattere di verità, come mostra la già menzionata Une nuit dans la forêt, testo datato 1925-1927 e che porta, quale significativo sottotitolo, «premier fragment d’une autobiographie». Ma è chiaro che il ricordo di guerra, la cui scrittura inizia solo il 21 agosto 1943 – così ci informa lo scrittore stesso nella celebre lettera a Peisson, inizio «Dans le silence de la nuit» dell’Homme foudroyé –, non può certo avere quella fedele trasparenza tanto ricercata: «À présent nous voyons les choses comme dans un miroir, en énigme», secondo le parole di san Paolo

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(I Cor., XIII) che Cendrars sceglie per l’esergo del suo Vol à voile. Non è un caso che lo scrittore stesso parli di «mémoires qui ne sont pas des mémoires» e che egli non si ponga né come storico né come autobiografo: «Je me relis comme un somnambule, intercalant dans la vision directe celle, réfléchie, qui ne peut se déchiffrer qu’à l’envers comme dans un miroir, maître de ma vie, dominant le temps, ayant réussi à le désarticuler, le disloquer et à glisser la relativité comme un substratum dans mes phrases pour en faire le ressort même de mon écriture» (B VI 157). In questo senso, voglio ricordarlo, Philippe Lejeune nel suo pacte autobiograpique definisce Cendrars (ma anche Céline) con il termine, forse un po’ dispregiativo, di «mythobiographe».

I testi cui faccio qui riferimento sono quattro (tant’è che, al riguardo, si è soliti parlare di «tétralogie» o, se vogliamo utilizzare una parola che rinvii alla musica, elemento importante nell’opera, come dimostrano le Rhapsodies gitanes, di «quatuor»), tutti pubblicati da Denoël, lo stesso editore di Céline ma anche di Chêne et chien (1937) di Raymond Queneau: L’homme foudroyé (1945), La main coupée (1946), Bourlinguer (1948) e Le lotissement du ciel (1949). La nostra attenzione si è concentrata in particolare sul secondo récit, La main coupée, quello più autobiografico, a metà tra il racconto di guerra e il martirologio medievale, ma non possiamo escludere L’homme foudroyé: innanzitutto, per l’utilizzo di questo aggettivo presente nel titolo, foudroyé, che indica da un lato, l’uomo fulminato, che salta in aria a seguito dell’esplosione di un ordigno:

En effet, comme nous partions à l’assaut, il fut emporté par un obus et j’ai vu, j’ai vu de mes yeux qui le suivaient en l’air, j’ai vu ce beau légionnaire être violé, fripé, sucé, et j’ai vu son pantalon ensanglanté retomber vide sur le sol, alors que l’épouvantable cri de douleur que poussait cet homme assassiné en l’air par une goule invisible dans sa nuée jaune retentissait plus formidable que l’explosion même de l’obus, et j’ai entendu ce cri qui durait encore alors que le corps volatilisé depuis un bon moment n’existait déjà plus. À part ce pantalon vide, je ne retrouvai rien d’autre de van Lees; il n’y eut donc pas de mort à enterrer. Que ce petit ex-voto de l’homme foudroyé lui serve d’oraison funèbre! (HF 55);

dall’altro, la folgorazione della scrittura:

Et alors, j’ai pris feu dans ma solitude car écrire c’est se consumer... “L’écriture est un incendie qui embrase un grand remue-ménage d’idées et qui fait flamboyer des associations d’images avant de les réduire en braises crépitantes et en cendres retombantes. Mais si la flamme déclenche l’alerte, la spontanéité du feu reste mystérieuse. Car écrire c’est brûler vif, mais c’est aussi renaître de ses cendres (HF 49).

In secondo luogo, perché con L’homme foudroyé il lettore si trova davanti ad un libro ben articolato nel quale sono individuabili parti distinte e soprattutto in linea con le tematiche più care a Cendrars: a) la guerra e la morte; b) Lazzaro, identificabile nella città di Marsiglia («Lazare, cet homme qui me passionne parce qu’il est le patron des lépreux et que le premier homme que j’ai tué était un lépreux. Mais cela est une autre histoire...» HF 85), Maria Maddalena (in realtà le «trois Maries») e la resurrezione; c) la rinascita, con la figura del Cristo e della fenice. Infine, perché è in quest’opera di apertura che si hanno le principali indicazioni temporali relative alla scrittura di questi testi di guerra: a) la ricordata «lettre à Peisson» («Aix-en-Provence, le 21 août 1943»), che Cendrars firma scrivendo «Avec ma main amie», e nella quale egli, scrittore, evoca la più terribile notte mai vissuta, quando, soldato, si era trovato solo al fronte, nel 1915 («Dès que tu fus sorti, je ne sais pourquoi, mon cher Peisson, je me mis à penser à ce que tu venais de me raconter, et au sujet de tes

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réflexions nocturnes, je me mis à évoquer d’autres nuits, tout aussi intenses, que j’ai connues sous les différentes latitudes du globe, dont la plus terrible que j’ai vécue, seul au front, en 1915...»); b) il racconto di Peisson relativo all’occupazione da parte degli invasori nell’agosto 1943 spinge Cendrars a scrivere nuovamente dopo un silenzio di anni («j’allai dénicher ma machine à écrire, l’époussetai et me mis incontinent à taper pour toi le présent récit, tu devines avec quelle émotion, mon cher Peisson, puisque, depuis juin 1940 [...] tu sais que je n’ai pas écrit une ligne»), silenzio che deve essere accostato a quanto già si era verificato nel periodo 1917-1923 («Cela se passait en octobre 1923, à mon retour de Rome où j’avais tourné un grand film [...]. Mon premier million gagné par mon travail depuis que j’avais dit adieu, non pas à la poésie, mais aux poètes et à Paris, et pour toujours. La septième année de ma vie d’homme commençait. Et j’étais de retour à Paris. Et je repartais de zéro»). E così, dal 1943 al 1949, Cendrars conduce un’esistenza da monaco della scrittura; c) i fatti storici sono precisi e gli avvenimenti reali coincidono con gli aneddoti, come dimostra il “computo” (parola tecnica utilizzata per indicare l’insieme dei calcoli all’interno del calendario cristiano per determinare le feste mobili e, dunque, le Pâques care al poeta) della sua vita di uomo, scrittore e soldato, computo che Cendrars redige «aujourd’hui, 1944»: «Le comput de ma vie d’homme commence en octobre 1917 le jour où, pour de nombreuses raisons dont je vous fais grâce mais dont la principale était que la poésie qui prenait vogue à Paris me semblait devenir la base d’un malentendu spirituel et d’une confusion mentale qui, je le devinais, ne tarderaient pas à empoisonner et à paralyser toutes les activités de la nation française avant de s’étendre au restant du monde, je clouai dans une caisse en bois blanc et déposai dans une chambre secrète à la campagne un manuscrit inédit: “Au cœur du monde”» (HF 177-178). È lo stesso «fragment retrouvé» di Au cœur du monde all’interno del quale noi oggi abbiamo letto di Orione e della leggendaria nascita parigina dello scrittore; ma è soprattutto il silenzio del 1917 che qui maggiormente deve interessarci, specie se consideriamo l’importanza di questa data nel vissuto di Cendrars: è dopo il primo settembre del 1917 che egli riceve l’illuminazione notturna e scopre la scrittura della mano sinistra; è il 26 ottobre 1917 che si ha l’incontro con Raymone Duchâteau, la compagna di una vita. E così il 17 diventa la sua cifra magica: innanzitutto perché XVII, in latino, è anagramma di VIXI, ‘ho vissuto’; ma 17 è anche una cifra malefica e sinistra, legata, nella smorfia napoletana, alla sfortuna, come l’écriture de la main gauche fa pensare al gauchir, al biaiser, al dévier; e il 17 è anche, in quel gioco dei tarocchi che Cendrars conosce attraverso Gérard de Nerval, l’arcano, segno di mutazione e di rinascita. Un numero privilegiato – come lo sono anche il 7, che rinvia alla creazione, e il 33, agli anni di Cristo – che Cendrars concepisce dunque in termini di rinascita, dopo la ferita della guerra, e di ricerca di una nuova vita e di una nuova forma di scrittura. Volontà di creare dei rapporti che lo porterà anche, come si è visto, a confondere le tracce del reale: Au cœur du monde viene così retrodatato al 1917, quando invece sappiamo che il testo è del 1918; oppure, lo si è appena visto a proposito del computo del 1917, Cendrars avverte l’échec di un movimento, quello surrealista, il cui primo manifesto data invece, come tutti sappiamo, 1924. Divinazione? Più probabilmente spirito dadaista, come lascia intendere il «malentendu spirituel» citato, o ‘errori’, forse scarti, nella cronologia che hanno fatto parlare di prochronie (stato che si pone accanto a quello di sincronia e diacronia), una ricerca del tempo perduto che si basa sul ritorno della ferita liberatrice. Per concludere, vorrei sottolineare che se i quattro testi degli anni Quaranta possono essere letti come un insieme omogeneo, certo in stretto legame con il resto della produzione poetica e narrativa dello scrittore, ognuno di essi ha di fatto un proprio carattere, una propria tematica e una costruzione singolare. Inclassificabili all’interno dei generi tradizionali, essi ci rivelano come per Blaise Cendrars vivere e scrivere si completino e si oppongano allo stesso tempo. È quel rapporto tra scrittura e vita messo ben in luce da Henry Miller nella sua préface all’Homme foudroyé: «Cendrars est un obsédé. Il faut, pour écrire, être obsédé, possédé. Par quoi Cendrars l’est-il donc? Par la Vie». L’interesse di Cendrars consiste nello scrivere o, in certi momenti della propria vita, nel

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decidere di non scrivere. In questo senso la sua opera è varia, come varia fu la sua vita, segnata da una guerra che, come ogni guerra in ogni epoca storica, è il momento in cui «tout va au plus mal dans le plus moche des mondes».

Suggestioni bibliografiche B. CENDRARS, Œuvres autobiographiques complètes, I, Édition publiée sous la direction de C. LEROY, avec, pour ce volume, la collaboration de M. TOURET, Gallimard, Pléiade, 2013. ID., Œuvres autobiographiques complètes, II, Édition publiée sous la direction de C. LEROY, avec, pour ce volume, la collaboration de J.-C. FLÜCKIGER et C. LE QUELLEC COTTIER, Gallimard, Pléiade, 2013. ID., Œuvres complètes, Paris, Denoël, 8 vol., 1960-1964 (ed. da cui citiamo; vol. 5: L’homme foudroyé. La main coupée. Préface par H. MILLER). ID., Aujourd’hui 1917-1929 suivi de Essais et réflexions 1910-1916, Paris, Denoël, 1987 ID., Moravagine. Roman, Paris, Bernard Grasset, 2013 [1926]1 . ID., Du monde entier. Poésies complètes 1912-1924, préface de P. MORAND, Paris, Gallimard, 1967 [1947]1 . ID., Al cuore del mondo preceduto da Fogli di viaggio, Sudamericane, Poesie varie, a cura di R. CORTIANA, Milano, Libri Scheiwiller, 1992.

L. PARROT, Blaise Cendrars, Paris, Seghers, 1948. Y. BOZON-SCALZITTI, Blaise Cendrars ou la passion de l’écriture, Lausanne, L’Âge d'Homme, 1977. M. CENDRARS, Blaise Cendrars, Paris, Balland, 1984. Blaise Cendrars, J.-M. DEBENEDETTI éd., Paris, Veyrier, 1985. A.-M. JATON, Cendrars, Genève, éditions de l’Unicorne, 1991. Blaise Cendrars et la guerre, Actes du colloque de Péronne, 11-13 octobre 1991, C. LEROY éd., Paris, Armand Colin, 1995. Cendrars le bourlingueur des deux rives, C. LEROY et J.-C. FLÜCKINGER éd., Actes du colloque du Centre culturel suisse de Paris, 31 mars-2 avril 1995, Paris, Armand Colin, 1995. C. LEROY, La main de Cendrars, préface de M. CENDRARS, Villeneuve d’Ascq (Nord), Presses Universitaires du Septentrion, 1996. M. T. RUSSO, Ai margine della soglia. Saggio su Blaise Cendrars, Palermo, Flaccovio, 1999. M. TOURET, Manipulations poétiques. Autour de La guerre au Luxembourg de Blaise Cendrars, «Études françaises», vol. 41, n. 3, 2005 (consultabile on-line: http://id.erudit.org/iderudit/012058ar). Blaise Cendrars 6, Sous le signe de Moravagine, textes réunis et présentés par J.-C. FLÜCKIGER et C. LEROY, Revue des Lettres Modernes, Minard, 2006. L. GUYON, Cendrars en énigme. Modèles mystiques, écritures poétiques, Paris, Champion, 2007. G. BIENNE, La Ferme de Navarin, Paris, Gallimard, 2008. R. CORTIANA, Attorno alla poesia di Cendrars. Simbolismo, modernità e avanguardie, Venezia, Studio LT2, 2010. Blaise Cendrars et ses contemporains: entre texte(s) et contexte(s), sous la direction de M. T. RUSSO, Palermo, Flaccovio Editore («Lingua e testo»), 2011.

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