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di Davide Podavini
LONTANO DALLA TRINCEA: LA GRANDE GUERRA NEI DIARI DI BIAGIO MARIN di Davide Podavini
Le riflessioni intorno alle scritture della Grande Guerra, quando ci si spinge nel territorio degli intellettuali giuliani, si articolano necessariamente in snodi particolari, accogliendo lo specifico –territoriale, culturale, spirituale – di un’area che dalla guerra ha ottenuto l’annessione all’Italia, perdendo contestualmente quell’identità, economica e culturale, che la sua posizione strategica all’interno dell’Impero asburgico le garantiva. La pace, a Trieste, non fu l’inizio di un tempo pacificato. Questa specificità, che ruota attorno alla profonda impronta politica e culturale che Vienna ha lasciato anche nelle province più periferiche, si lega alla meditazione sull’esercizio del potere – sull’incidenza e sulla percezione che il potere produce nei sudditi-cittadini – che, vinta la guerra, quegli stessi intellettuali irredenti, combattenti per la causa italiana, hanno voluto portare avanti. Fra questi, Biagio Marin.
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Il poeta di Grado rappresenta, tuttavia, un caso particolare: cittadino dell’impero, formatosi a Gorizia e in Istria in istituti di lingua tedesca, poi vociano a Firenze e studente universitario a Vienna, fu irredentista e interventista, ma non si trovò mai né in trincea né sul campo di battaglia. Il suo itinerario di giovane intellettuale irredento non ha previsto, a causa della tubercolosi, la partecipazione alla guerra. Questo dato non risulta meramente biografico, andrà anzi a condizionare nel profondo i suoi convincimenti intorno all’idea di patria e di nazione. Tali riflessioni e convincimenti sono in parte custoditi nei 132 taccuini che compongono i suoi diari,841 scritti dal 1941 fino a pochi giorni prima della morte, avvenuta la notte di Natale del 1985. Si tratta di materiali in gran parte inediti,842 la cui natura è quella di appunti estemporanei, non preparati, frammentari, spesso ripetitivi, in cui il discorso sul tempo presente si fonde con una forte vena memoriale: non soltanto il contingente, ma anche il passato e il ricordo sono elementi robusti di questa esorbitante narrazione dell’io; scritti ininterrottamente per quarant’anni, i diari accolgono anche una serie di ritratti dell’artista da giovane, nonché della storia che agiva intorno a lui e dentro di lui.
Nei diari si racconta dell’infanzia a Grado, della nonna Tonia che gli fu madre, delle scuole in Istria nell’amatissima Pisino, della Firenze vociana e della Vienna prebellica. Ma gli anni della Prima guerra mondiale sono raccontati di rado, e quando lo sono assumono spesso una forma aneddotica, in cui la scrittura si disegna nell’apologo edificante. Marin, disertore in Austria, riguadagnò il territorio italiano nel novembre del 1914, attraversando clandestinamente il confine, di notte, con l’aiuto di alcuni patrioti; era ormai chiaro, a quel punto, che l’Italia sarebbe presto entrata in guerra e l’intento del giovane irredento era di arruolarsi nell’esercito italiano. La malattia però lo costrinse dapprima al ricovero in ospedale, a Udine, e poi alla lunga permanenza nel sanatorio di Clavadel. Proprio a Udine incontrò per l’ultima volta l’amico Scipio Slataper. Nei diari ricorda così quell’episodio:
Scipio era venuto da Roma a Venezia per ragioni inerenti alla guerra che si preparava. Avendo saputo che ero ammalato era venuto a Udine per salutarmi. Io avevo in quel giorno molta febbre e ricordo molto confusamente l’accaduto. So che mi confortò e poi, andandosene, mi baciò come un fratello minore. Io gli volevo molto bene, e ancora sempre glielo voglio, e anche lui me ne voleva. Era così duro con tutti gli uomini, solo con me, che ero così lontano dal suo modo di essere, lui sano e forte, fisicamente e moralmente, io debole e ammalato, era pieno di calda e perfino tenera umanità. Qualche volta mi sgridava, mi faceva la paternale. Io lo ascoltavo, quasi
841 I materiali manoscritti sono conservati nell’Archivio del dipartimento di italianistica dell’Università di Trieste. 842 Attualmente sono stati pubblicati due volumi: La pace lontana. Diari 1941-1950, a cura di I. MARIN, Gorizia, LEG, 2005 e Vele in porto. Piccole note e frammenti di vita, a cura di I. MARIN, Gorizia, LEG, 2012.
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senza capirlo, e quando se ne accorgeva, si raddolciva e mi abbracciava, o mi posava la sua grande mano sulla spalla o sulla testa quasi a proteggermi. Ci amavamo per un’intuizione profonda l’uno dell’altro, quasi per istinto. Lui era l’eroe della forza, della purità, dello sforzo, dell’intelligenza costruttiva e vigile, della coscienza chiara. Io ero solo occhio capace di vedere. Non ero niente io. Tutto caos, con qualche vampa nel fumo e nelle nebbie. Ero solo occhio amoroso. Gli volevo bene per la chiarità che aveva nell’anima, per i suoi luminosi occhi di bimbo grande, per il suo sorriso di puro e cordiale. Gli altri conoscevano in lui solo il guerriero, il moralista, e lo temevano; io non vedevo nulla di tutto ciò: vedevo solo in lui Sigfrido, il puro folle. Sono passati 30 anni e il mio amore per lui non è invecchiato, non può invecchiare mai.843
A distanza di trent’anni, Marin rievoca quel momento di addio facendo della figura di Slataper un simbolo di tutti i compagni e gli amici che avevano combattuto in trincea; guarda da lontano il sacrificio di quelle vite con l’amore per chi ha combattuto e con l’ammirazione dello sconfitto che ha mancato l’appuntamento con la storia. Per se stesso, infatti, ritaglia il ruolo dell’inetto, del debole: «non ero niente io». Un senso di colpa inesauribile, che il poeta ha cercato di reprimere già nel 1918 quando, tornato in salute, decide di arruolarsi quasi fuori tempo massimo. Mentre la guerra volge al termine viene inviato alla scuola militare di Caserta. Ancora una volta, come era già accaduto in Austria alla scuola per ufficiali di Marburg, Marin indossa la divisa per imparare a combattere una guerra che non combatterà mai. Di queste due esperienze militari, i diari restituiscono un resoconto-confronto a tratti retorico, ma utile a indicarci le nuove conclusioni a cui giunge, siamo ormai nel 1953, l’intellettuale patriota:
Mi trovavo a Marpurgo ed era nella prima decade dell’Agosto 1914, e facevo parte della scuola allievi ufficiali del reggimento. Il comandante, un tenente anziano, ci convocò e ci disse: “Signori allievi ufficiali, si ricordino che pur essendo per ora dei semplici soldati, per il filetto giallo che portano alla manica, appartengono fin d’ora alla classe dei signori. Quel filetto dà loro il diritto di frequentare gli ambienti frequentati dai signori ufficiali, e anzi, di sedere a mensa, ove capitasse il caso, con sua Maestà l’Imperatore. Naturalmente questo implica una dignità di portamento e un senso sempre vigile di responsabilità. E ciò in caserma come fuori caserma, in servizio come fuori servizio. Io devo naturalmente fare il conto con il loro senso d’onore e di dignità, che non può non esistere in chi ha fatto la scuola media e magari l’università. La disciplina e lo stile militare vanno rispettati da loro allievi ufficiali in modo esemplare, anche perché non si può saper comandare se non si sa obbedire, e non si può ottenere l’ubbidienza dei subalterni se non si dà l’esempio. Esempio soprattutto di virile dignità.” E ripeté: “virile dignità”. Il discorsetto mi fece tanta impressione che ancora oggi lo ricordo e ricordo l’uomo che lo fece, il ten. Stary, e l’inflessione della sua voce. Nel 1918 fui al primo corso speciale allievi ufficiali a Caserta. Lì, un capitano, certo Viale, comandante la mia compagnia, dopo averci adunati ci disse: “allievi ufficiali, mettetevi bene in testa che per ora voi siete pezze da piedi”. Non ricordo altro perché avevo il sangue in testa e non potei più ascoltarlo. Finito il discorso uscii dai ranghi, mi gli si presentai e gli dissi: “Signor Capitano, io sono un volontario di guerra pronto a dar la vita per il mio paese e perciò non sono una pezza da piedi, né lo sono i miei compagni giuliani che sono già allo stesso titolo”. Naturalmente il Capitano mi rimandò bruscamente nei ranghi. Eppure, devo dire a suo onore, che era un ufficiale serio e che durante il corso ebbi modo di apprezzarlo. Ma lo sfondo nostro plebeo s’era rivelato anche in lui. Sui muri della reggia di Caserta, anzi nella soffitta che ci serviva da Caserma, era stampato a grandi caratteri: “dignitas suprema lex”. Ma la “virile dignità” del ten. Stary di Marburgo era qui solo scritta sui muri.844
843 II, 133, 3 dicembre 1945. 844 VI, 220-221, 5 agosto 1953.
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La sua posizione di irredento, il sentimento di appartenenza identitaria all’Italia, si scontrano fatalmente, una volta vinta la guerra, con la delusione: il sistema politico italiano, sentito come accentratore e distratto, fu incapace di misurarsi apertamente con l’impostazione civile e sociale che nei territori conquistati sopravviveva alla dissoluzione dell’impero. Di quella dolorosa delusione è espressione significativa la petizione inviata, nel febbraio 1921, al Ministro dell’istruzione pubblica Benedetto Croce. Un gruppo di insegnanti della Venezia Giulia chiedeva che il sistema scolastico godesse dell’autonomia regionale, al fine salvaguardare l’eccellenza delle scuole giuliane; eccellenza raggiunta sotto l’impero e messa a rischio dalla volontà di uniformare tutte le scuole del regno al sistema centralistico e mediocre dello stato italiano. Il primo firmatario della petizione fu Biagio Marin. Questo episodio, solo uno dei molti che testimoniano il suo attivismo politico e civile, precede di poco l’avvento del fascismo, che instaurerà una svolta nazionalista e razzista alla narrazione irredenta.
Il primo dopoguerra e il ventennio fascista, però, furono anche gli anni in cui molti intellettuali irredenti sopravvissuti alla guerra elaborarono l’eredità culturale della Cacania, costruendo quel ricco sistema di mediazione e riflessione di cui Claudio Magris (discepolo e amico di Marin) sarebbe stato il più efficace interprete. Nelle pagine del Mito asburgico, 845 come è noto, quella generazione ha trovato, finalmente, la lucida e organica storiografia culturale dell’Austria Felix ed è proprio a quella generazione che Magris riconosce il merito di aver salvaguardato, dopo averla ripensata nel profondo, la stimmung culturale della vecchia Austria:
I legittimi eredi dell’impero sono i suoi avversari che a suo tempo l’hanno combattuto e che hanno combattuto ancor più duramente i Leviatani che gli sono succeduti; che hanno rimeditato le ragioni e i torti di quella loro antica scelta e hanno cercato di trasmettere i valori positivi di quella tradizione (di cui sono stati partecipi per via negativa) in termini attuali e immuni da ogni coazione a ripetere. A Trieste, per esempio, i portatori di quella tradizione non sono stati e non sono né gli austriacanti né i nazionalisti né i borghesi moderati, bensì gli ex irredenti democratici o i socialisti (Devescovi, Marin, Voghera).846
Non una celebrazione nostalgica costruita sulle macerie della Grande Guerra, dunque, ma un tentativo di rinnovare, all’interno dei mutati assetti politici, il potenziale positivo dell’esperienza asburgica, in termini di coesistenza e autodeterminazione delle differenze, perché è proprio «il potenziale, non la realtà fattuale, della vecchia Austria a venir messo sul piatto della bilancia e confrontato con l’irredentismo e con le conseguenze del nazionalismo esasperato di frontiera, poi confluito nel fascismo. È l’idea di uno stato sovranazionale a venir commisurato agli errori politicoeconomici dello stato nazione italiano».847 Marin fu tra gli instancabili attori di questa riflessione, e con lui altri che gli erano fraterni amici: fra questi Ervino Pocar, il più convinto e spesso avversato mediatore della letteratura austriaca in Italia.
Biagio Marin, dunque, che tanto si era speso idealmente per affrancarsi dall’impero, si è battuto poi per riconoscerne gli ideali. Tra questi due percorsi solo apparentemente incongrui, la Grande Guerra ha agito in lui con la forza di un atto mancato, che lo ha spinto, da un lato, all’impegno per tramandare la memoria e il sacrificio dei suoi compagni caduti al fronte, integrandolo, dall’altro lato, con l’esercizio di una più matura visione di un sistema sovranazionale di pacifica convivenza fra i popoli. La forza di queste due spinte nutrirà la sua infinita ricerca di un luogo che potesse chiamare “patria”, un fastello inestricabile di identità, lingua e territori vissuti profondamente nella loro realtà anche fisica. Una ricerca che ritorna continuamente nei diari. Nel dicembre del 1952 Marin annota:
845 C. MAGRIS, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Einaudi, 1963. 846 C. MAGRIS, Dietro le parole, Milano, Garzanti, 1978, p. 224. 847 R. LUNZER, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del Novecento, Trieste, Lint, 2009, p. 301.
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Sono io davvero un “senzapatria”? Non ho amato da bimbo in su l’Italia? Non ho combattuto per renderla reale, in vari modi tutta la mia vita? Non sarei stato anche io felice di morire per la sua realtà nella storia? […] È molto sentirsi parte viva, integrante di un ordine umano, e sentir circolare nel proprio spirito il valore del proprio popolo, come un fiotto di sangue vivo e generoso. A me questa gioia, questo supremo bene, non sono stati concessi.848
Ancora il rammarico, quarant’anni più tardi, di non aver partecipato alla Grande Guerra, ma anche il disincanto di aver a lungo combattuto, sul fronte della cultura e della politica, senza ottenere per se stesso una chiara collocazione nella storia e nella geografia del mondo. Il disincanto e il rammarico del “senzapatria” gli saranno perpetua compagnia: nel 1978, in un fulmineo bilancio della propria esistenza, scrive: «Sono vissuto da sradicato, da evaso. Dove la patria, dove la buona terra, dove la mia con-umanità? Sono vissuto come uno zingaro, sempre evadendo».849
Un tragitto doloroso e senza meta, quello della ricerca di una patria, che comincia proprio con la Grande Guerra e con i suoi effetti deflagranti sulle certezze patriottiche dell’allora giovane poeta; una ricerca sempre viva nella pur intensamente vissuta vita di Marin. Ma la meta di quel tragitto, in verità, è sempre stata abitata, e infine riconosciuta: «Anche una foglia, a volte, piace a qualcuno e la raccoglie da terra, e se la porta in casa. Penso alle splendide foglie dei platani, che io ho raccolto spesso con molto amore e conservate a lungo. Dove è la mia patria? Nella luce e nella musica dei venti, non tra gli uomini».850 Così una nota del diario LI, scritta il 13 aprile 1978. Non una fuga dalla società, ma la costruzione di una propria Heimat degli elementi. C’è una tensione mai attenuata, in Marin, fra il suo essere «interventista permanente»,851 il suo stare, sempre, al centro del dibattito pubblico con posizioni mai accomodanti, e questo suo rifugiarsi in una patria della natura, benevola e pacificata. L’opera poetica di Marin, del resto, è un continuo rimodulare gli accenti e le figure di un mondo in cui l’umano è rappresentato o nell’irripetibile individualità della persona o come parte organica della creazione, un elemento che contiene le vestigia dell’edenico. È proprio la poesia di Marin ad essere, per questa nazione ideale e abitata nel tempo della felicità mentale, la più compiuta carta costituzionale.
Bibliografia essenziale A. ARA, C. MAGRIS, Trieste: un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982. A. DE SIMONE, L’isola Marin. Biografia di un poeta, Torino, Liviana, 1992. R. LUNZER, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del Novecento, Trieste, Lint, 2009. C. MAGRIS, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Einaudi, 1963. C. MAGRIS, Dietro le parole, Milano, Garzanti, 1978. B. MARIN, I delfini di Scipio Slataper, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1965. B. MARIN, La pace lontana. Diari 1941-1950, a cura di I. MARIN, Gorizia, LEG, 2005. B. MARIN, Vele in porto. Piccole note e frammenti di vita, a cura di I. MARIN, Gorizia, LEG, 2012.
848 VI, 81, 15 dicembre 1952. 849 LV, 182-183, 28 agosto 1978. 850 LI, 62, 13 aprile 1978. 851 E. GUAGNINI, Le “contraddizioni” della vita e la “funzione” dell'intelligenza, in B. MARIN, La pace lontana. Diari 1941-1950, cit..
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