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di Elena Munafò
MRS. DALLOWAY VA ALLA GUERRA: CLARISSA E LA SCELTA DI SEPTIMUS
di Elena Munafò
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Scritto a sette anni dalla fine del conflitto mondiale, Mrs. Dalloway racconta ciò che era avvenuto attraverso gli occhi di un giovane reduce, Septimus Warren Smith, tornato dal fronte con la mente sconvolta. In questo breve intervento analizzerò il ruolo giocato dagli effetti della guerra all’interno della narrazione, in particolare nel rapporto che s’instaura tra i due protagonisti, alter ego l’uno dell’altro, e tra l’autrice e le sue creature.
Prima di tutto è necessario sottolineare la novità dell’operazione compiuta dalla Woolf: fino a questo romanzo, infatti, si riteneva che alla base del racconto di guerra dovesse esserci l’esperienza diretta, e che per questo una donna non avesse il diritto di affrontare questo tema. Il racconto del conflitto era considerato una prerogativa prettamente maschile: le donne, infatti, non avendo combattuto al fronte, non potevano scriverne o parlarne.
Il legame tra esperienza diretta e racconto è molto interessante perché, com’è stato più volte sottolineato dalla critica,827 spesso chi aveva sperimentato il conflitto direttamente non era in grado di dire la verità rispetto a ciò che aveva vissuto. Durante la guerra, infatti, la censura non permetteva ai soldati di raccontare apertamente nelle lettere ciò che stava avvenendo: una delle forme di comunicazione più diffusa era rappresentata dalle cartoline prestampate, sulle quali i soldati trovavano una serie di frasi tra le quali scegliere quella che più si avvicinava alla propria situazione. Tali cartoline erano un modo per orientare la comunicazione della guerra, nascondendo a chi era rimasto a casa la realtà tragica del conflitto.828 Anche una volta a casa, quando la censura ufficiale non avrebbe più potuto ostacolare la comunicazione, il racconto di ciò che era realmente accaduto continuava ad essere interdetto per un complicato meccanismo di autocensura che impediva ai soldati di condividere la loro esperienza: la distanza tra chi era stato in guerra e chi era rimasto a casa portava infatti a creare delle memorie di guerra edulcorate, ancora fedeli alla retorica ufficiale della propaganda, e a nascondere invece la realtà del conflitto. Si trattava di un modo con il quale, inconsciamente, i reduci proteggevano loro stessi dalla vanità del loro trauma, ma che aveva la conseguenza importante di minare il valore di testimonianza dei loro racconti.
Un esempio del processo di rimozione e rielaborazione dell’esperienza di guerra in forma letteraria è il romanzo di Hemingway A Farewell to Arms, nel quale l’autore mette in atto una serie di strategie per cercare di rendere materia di scrittura il proprio vissuto, scontrandosi con la difficoltà – e insieme la necessità – di rappresentarlo in maniera veritiera.829
Il caso di Hemingway, così come i numerosi altri esempi riportati da Fussell, porta a postulare l’indicibilità della guerra, l’impossibilità di darne una restituzione realistica in letteratura: se infatti da un lato l’esperienza diretta è una condizione necessaria alla rappresentazione letteraria, dall’altro essa è ciò che la impedisce. In questo modo, se i soli autorizzati a scriverne non possono farlo, il racconto del conflitto diventa impossibile.
Virginia Woolf sfida tutto ciò scrivendo Mrs. Dalloway, un romanzo già solo per questo scandaloso: la Woolf, come era solita fare, si intromette in un territorio nel quale la voce delle donne non era ammessa.830 Non solo nel romanzo si parla della guerra, ma l’autrice lo fa mettendone in luce gli aspetti più drammatici, descrivendo l’umanità distrutta di un giovane reduce.
827 Cfr. P. FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 2000, in particolare alle pp. 214220. 828 Ivi, p. 233. 829 Cfr. su questo L. BRIASCO, Retoriche del Conflitto. Identità, amore e guerra in A Farewell to Arms di Ernest Hemingway, Roma, Lozzi e Rossi, 2001. 830 Lo farà ancora più direttamente anni dopo, ormai scrittrice affermata, con Tre ghinee.
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In Mrs. Dalloway non troviamo infatti l’eroismo dei soldati, né i valori della retorica ufficiale, ma assistiamo da vicino agli effetti del conflitto sulla mente dell’uomo.
Raccontando la guerra attraverso la malattia mentale, la Woolf avvicina inoltre la propria esperienza a quella del soldato, attribuendo al suo personaggio alcuni dei sintomi da lei vissuti durante quei periodi di crollo nervoso che lei chiama mistici.
Septimus Warren Smith, il cui nome, come scrive Nadia Fusini,831 rimanda al martire di guerra (war smitten), è uno di quegli uomini che il linguaggio popolare italiano avrebbe chiamato gli “scemi di guerra”:832 il suo corpo è sopravvissuto al conflitto, ma la sua mente è rimasta sul campo di battaglia. Per Septimus è come se la guerra non fosse mai finita, egli continua ossessivamente a rivivere le scene della vita in trincea e in particolare la morte di Evans, il suo amico e ufficiale, avvenuta davanti ai suoi occhi.
Le allucinazioni non sono però il sintomo più grave della sua patologia, che consiste invece nell’incapacità di provare emozioni e sentimenti. È proprio per sfuggire a questo che Septimus si sposa e cerca di costruirsi una vita normale, senza però riuscire ad intaccare questa forma di apatia emotiva. Nel romanzo viene detto che le prime avvisaglie della patologia sono legate proprio alla morte di Evans. Inizialmente, Septimus si stupisce di aver reagito bene, di non essere stato eccessivamente colpito dalla perdita del suo amico:
[…] when Evans was killed, just before the Armistice, in Italy, Septimus, far from showing any emotion or recognising that here was the end of a friendship, congratulated himself upon feeling very little and very reasonably. The war had thaught him. It was sublime.833
Poco dopo, però, a confitto finito, si rende conto di non essere più in grado di dare valore a ciò che gli accade, di aver sviluppato una forma di indifferenza alla vita:
For now that it was all over, truce signed, and the dead buried, he had, especially in the evening, these sudden thunderclaps of fear. He could not feel. […] beauty was behind a pane of glass. Even taste (Rezia liked ices, chocolates, sweet things) had no relish to him. […] But he could not taste, he could not feel. In the tea-shop among the tables and the chattering waiters the appalling fear come over him – he could not feel. […] he could add up his bill; his brain was perfect; it must be the fault of the world the – that he could not feel.834
L’assenza di sensazioni descritta dalla Woolf è particolarmente interessante perché si tratta di uno degli elementi ricorrenti nelle patologie post-traumatiche dei reduci di guerra, non solo della Prima guerra mondiale, ma anche dei conflitti moderni. È un sintomo che torna spesso, ad esempio, nelle diagnosi dei reduci dall’Iraq.835 È come se, per sopravvivere alla guerra, fosse necessario
831 N. FUSINI, «Introduzione» in V. WOOLF, I capolavori, Milano, Mondadori, 1994, p. XIX. 832 Cfr. il film Scemi di guerra di Enrico Verra, allegato al volume Q. ANTONELLI, Storia intima della grande guerra, Roma, Donzelli, 2014. 833 «[…] quando Evans fu ucciso, appena prima dell’armistizio in Italia, Septimus, lungi dal dimostrare una qualsiasi emozione, o dal riconoscere che era la fine di un’amicizia, si congratulò con se stesso per non aver sentito quasi nulla, per aver reagito con tanto buon senso. La guerra gli aveva insegnato qualcosa. Era magnifico». V. WOOLF, Mrs. Dalloway, Londra, Collins Classics, 2013, p. 80. La traduzione italiana è di Nadia Fusini in V. WOOLF, I capolavori, cit., p. 286. Le citazioni da Mrs. Dalloway sono tratte nell’originale dall’edizione Collins e in traduzione dall’edizione Mondadori: da qui in avanti verranno indicate solo con il numero di pagina. 834 «Perché anche se ormai era tutto finito, l’armistizio firmato, i morti sepolti, specialmente di sera, lo prendevano d’improvviso quegli attacchi di paura. Non sentiva più nulla. […] la bellezza restava dietro una lastra di vetro per lui. Anche i sapori (a Rezia piacevano i gelati, i cioccolatini, i dolci), non gustava più. […] Ma lui non sentiva più nessun sapore, non provava più nulla. Nella saletta fa tè, tra i tavolini e il brusio dei camerieri, lo assaliva il terrore – di non sentire più nulla. […] sapeva fare i conti, il cervello era perfetto; la colpa era del mondo, dunque – se non sentiva più nulla». Ivi, pp. 80-81 (tr. it., pp. 286-288). 835 Lo sviluppo di una forma di indifferenza patologica nei confronti della violenza è raccontato, ad esempio, nel film di Paul Haggis Nella valle di Elah, del 2007.
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costruire una barriera tra il sé e la realtà che permetta di vedere la guerra come qualcosa di distante, come uno spettacolo al quale si assiste da lontano. Una conseguenza di ciò è la nascita di questa sorta di apatia emotiva, una forma particolare di cinismo che diventa però irreversibile, impedendo al soldato di tornare a vivere pienamente la propria vita una volta finito il conflitto. È notevole che la Woolf abbia individuato questo aspetto così rilevante dell’esperienza della guerra, attribuendo questi sintomi al personaggio del veterano.
Septimus soffre quindi di allucinazioni e di apatia emotiva, ma allo stesso tempo l’autrice suggerisce che egli abbia raggiunto una particolare forma di saggezza: il giovane coglie nella natura delle corrispondenze, dei legami, che gli altri non sono in grado di vedere e che lui non riesce a comunicare o a condividere, e che quindi lo portano a escludersi sempre più radicalmente da qualsiasi rapporto sociale. Questo è uno degli aspetti autobiografici di Mrs. Dalloway: la Woolf racconta infatti nei suoi diari di sentire gli uccelli cantare in greco, come Septimus nei suoi deliri. La malattia mentale è per la Woolf spaventosa, difficile e pericolosa, ma allo stesso tempo è una via per raggiungere un livello più profondo di coscienza, per penetrare nell’oscurità. Quando ne emerge, la Woolf è provata nel corpo e nell’animo, ma si sente più ricca, pronta a tornare a vivere e a scrivere con nuova forza. Anche per Septimus è così. La Woolf riconosce questa vicinanza quando, nei suoi diari, afferma: «Of course the mad part tries me so much, makes my mind squirt so badly that I can hardly face spending the next weeks at it».836
Il legame tra l’autrice e il suo personaggio risulta ancora più evidente se si nota che Septimus prima di arruolarsi era un aspirante poeta e che ha scelto volontariamente la guerra perché spera così di salvare la civiltà occidentale dalla rovina. Septimus, scopriamo, «was one of the first to volunteer. He went to France to save an England which consisted almost entirely of Shakespeare’s plays and Miss Isabel Pole in a green dress walking in a square».837 Salvare Shakespeare, dunque, e Isabel Pole, una giovane che teneva conferenze sull’Antonio e Cleopatra, di cui Septimus si era perdutamente innamorato. È forse per questo che Shakespeare continua a tornargli in mente nel suo delirio, in particolare con alcune parole del Cimbelino, «Fear no more the Heat of the Sun», più non temere il calore del sole.838
Si tratta di un verso che la Woolf usa come leit motif per collegare i due protagonisti del romanzo, Septimus e Clarissa. Anche Mrs. Dalloway, infatti, pensa spesso a queste parole, che legge in un volume spalancato nella vetrina di una libreria. Le tornano in mente in vari momenti, quando sta affrontando un pensiero difficile o una situazione dolorosa.
Il significato di questo verso sembrerebbe consolatorio, ma lo è solo in apparenza: in Shakespeare, infatti, esso fa parte di un canto funebre intonato per Imogene creduta morta dai suoi fratelli. Il canto le dice di non temere il calore del sole perché, da morta, non può più recarle danno: i dolori dei mortali non la riguardano più. Un canto del genere può essere rassicurante solo per un morto, o per chi sta morendo: nella sua origine shakespeariana, queste parole rivelano quindi un lato perturbante e ambiguo. All’interno del romanzo, l’ambiguità prende forma al momento del suicidio di Septimus, prima del quale il verso di Shakespeare affiora ancora una volta sulle sue labbra. In un gesto di sfida, Septimus si getta dalla finestra per sfuggire allo psicologo che vuole internarlo, dicendo significativamente che ad ucciderlo è la “Natura Umana”.
Clarissa apprende del suicidio di questo ragazzo, che lei non conosce, durante il suo party, che rischia ora di venir rovinato dall’intrusione della morte violenta. La sua prima reazione sembra di un’incredibile superficialità, ma subito dopo Clarissa si rifugia al piano di sopra a pensare alla
836 «Naturalmente, la parte della pazzia, mi snerva tanto, mi fa schizzare a tal punto il cervello qua e là che non oso affrontare il pensiero di impiegarci un’altra settimana».V. WOOLF, The Diary of Virginia Woolf, Vol. 2: 1920-1924, Harcourt Brace, San Diego, 1980, p. 248, tr. it. in EAD., Diario di una scrittrice, Milano, Beat edizioni, 2011, p. 76. 837 «[…] fu tra i primi a partire volontario. Si imbarcò per la Francia, allo scopo di salvare un’Inghilterra, che consisteva quasi interamente delle opere di Shakespeare e di una certa Isabel Pole, che vestita di verde passeggiava in una piazza». Mrs. Dalloway, pp. 79-80, (tr. it., p. 284). 838 W. SHAKESPEARE, Cimbelino, Milano, Feltrinelli, 2014, atto IV, scena II, v. 327.
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scelta di questo giovane e, in uno dei più bei momenti del romanzo, accoglie su di sé la morte di Septimus, facendo sua la scelta dell’altro. Clarissa vive una sorta di rivelazione laica, che passa attraverso l’empatia e la capacità di superare la propria individualità. Mentre riflette, le tornano ancora una volta in mente le parole di Shakespeare e comincia a sentirsi proprio come quel giovane che si era ucciso. È così che la signora Dalloway arriva a comprendere la scelta di Septimus e decide di non compatirlo: Clarissa crede che la sua sia stata una scelta di libertà, di amore per la vita.
The young man had killed himself; but she did not pity him, with all this going on. […] with this going on, she repeated, and the words come to her, fear no more the heat of the sun. She must go back to them. But what an extraordinary night! She felt somehow very like him – the young man who had killed himself. She felt glad that he had done it: thrown ita way while they went on living.839
Quell’uomo si è ucciso, pensa Clarissa, per salvare ciò che di bello c’è al mondo, affinché la vita possa andare avanti, affinché la festa possa andare avanti: il party si spoglia così della sua frivolezza mondana e acquista una dimensione quasi allegorica, diventando l’opera d’arte di Clarissa. Negli scritti della Woolf, spesso un evento mondano diventa metafora della creazione artistica: la festa di Mrs. Dalloway, come la scrittura della Woolf, è un atto formale, un gesto che ordina il caos dell’esperienza, dandogli forma.840La festa deve continuare perché è il capolavoro di Clarissa, il suo personale contributo alla bellezza del mondo.
In conclusione, Mrs. Dalloway può essere visto come una battaglia privata di Virginia Woolf, il suo ingresso in guerra. Attraverso la rappresentazione della malattia di Septimus, la Woolf descrive la guerra come qualcosa di intimamente connesso alla propria esperienza individuale, assumendo su di sé l’orrore dell’esperienza del fronte. Allo stesso tempo, attraverso il personaggio di Clarissa e la sua capacità empatica, la scelta di Septimus assume un significato diverso, positivo, un senso di speranza per la continuazione della vita che passa anche attraverso la possibilità (e la necessità) della creazione artistica.
839 «Quell’uomo s’era ucciso, ma lei non lo compiangeva; l’orologio batteva l’ora, uno, due, tre, ma non lo compiangeva, con tutto ciò che continuava. […] tutto continuava, ripeté, e le vennero alla bocca quelle parole, non temere la vampa del sole. Doveva tornare dagli ospiti. Ma che notte straordinaria! Si sentì proprio come lui – il giovane che si era ucciso. Fu contenta che l’avesse fatto; che l’avesse buttata via, la vita, mentre loro seguitavano a vivere». Mrs. Dalloway, p. 174 (tr. it. p. 391). 840 Questo procedimento ricorda quello descritto da Eliot in riferimento a Ulysses di Joyce, quando parla del metodo mitico come un modo per dare forma al caos della storia contemporanea. Cfr. T.S. ELIOT, «Ulisse. Ordine e mito», in Opere (1904-1939), Milano, Bompiani, 2003, pp. 642-646.
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