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di Luca Meloni

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di Fabio Libasci

di Fabio Libasci

IL CONFINE DEL NIENTE: JEAN RENOIR E LA GRANDE ILLUSIONE

di Luca Meloni

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Nel 1937, La grande illusione di Renoir portava a compimento le inclinazioni pacifiste della cinematografia francese del periodo interbellico comuni anche a Mademoiselle Docteur di Pabst e alla versione sonora di J’accuse! di Gance (quella muta, Per la patria, era stata distribuita in Italia nel 1919).

Sebbene il titolo del film citi testualmente il saggio economico-politico del 1910 del Premio Nobel per la pace Norman Angell, il regista ne sminuì più volte durante gli anni la derivazione ideologica, tenendo a precisare che la scelta fosse stata determinata esclusivamente dal fatto che «il ne voulait rien dire de précis». L’illusione a cui si allude, pertanto, è passibile di svariate e suggestive interpretazioni: dalla più ovvia, la guerra (al tenente Maréchal che si augura che questa possa essere l’ultima della storia dell'uomo, Rosenthal risponde ironicamente «tu te fais des illusions!»), all’oblio imminente dei valori della nobiltà ottocentesca («Boëldieu», precisa Stroheim nei panni del Capitano von Rauffenstein, «je ne sais pas qui va gagner cette guerre. La fin, quelle qu’elle soit, sera la fin des Rauffenstein et des Boëldieu») e alle frontiere, linee di demarcazione socio-economiche finalizzate alla separazione illusoria di popoli e nazioni. L’ultima scena del film supporta consapevolmente tale ipotesi dal momento che, nonostante i soldati tedeschi rinuncino a sparare sui fuggitivi perché “entrati” in territorio svizzero, a causa della neve nessuna reale indicazione accerta che la suddetta frontiera sia stata effettivamente oltrepassata.

«Il meno contestato dei film di Renoir è costruito sull’idea che il mondo si divida orizzontalmente per affinità e non verticalmente per barriere»,826 argomentava Truffaut richiamando lo sviluppo sociologico del plot (la marcata messa a confronto di personalità del tutto eterogenee per provenienza, livello culturale e classe sociale) e l’utilizzo dell’artifizio narrativo del doppio (comune al romanzo ottocentesco) come sua chiave di lettura e metafora relazionale. Si ricordi, a tal proposito, la comicità sottile e contenuta del dialogo sui ristoranti parigini, dove Boëldieu ammette di preferire senza alcun dubbio Chez Maxim mentre la preferenza di Maréchal ricade sui bistrot (dove si può bere del buono ed economico pinard) e quella dell’insegnante interpretato da Jean Dasté sui pranzi del cognato (perché «moins cher» si affretta ad aggiungere in primo piano).

Se il film, in un certo qual senso, sublima programmaticamente la guerra (le allusioni ad essa, non a caso, richiamano spesso la dimensione del gioco e dello spettacolo: «d’un côté, des enfants qui jouent au soldat; de l’autre, des soldats qui jouent comme des enfants») spostando l’azione in una sorta di microcosmo parallelo (il campo di prigionia allestito nell’immaginaria fortezza di Wintesborn), ancora illusorio è il limite costituito dalle lingue, il cui amalgama sembra rispondere alla convinzione autoriale che esse siano simultaneamente barriere e luoghi di identificazione privilegiati (sono tre quelle utilizzate dalla sceneggiatura: il francese, il tedesco e l’inglese, quest’ultima investita di un ruolo esclusivo e sovranazionale). In quest’ottica, le sequenze ambientate nella fattoria di Elsa si rivelano centrali perché è lì che l’utilizzo di idiomi e linguaggi non verbali diviene fattore tangibile di un’interazione declassata e scevra di cerimoniali. Ancora una volta la regia di Renoir sostiene la narrazione e registra il passaggio della parola da un personaggio all’altro, liberando la macchina da presa e trasformandola in un autentico veicolo di complicità comunicativa (essa, difatti, si muove fluida attraverso lo spazio scenico, evitando i tagli di montaggio e la tecnica “dialogica” del campo/controcampo).

Presentato alla Mostra di Venezia del 1937, proibito dalle autorità del governo nazista e nominato all’Oscar come miglior film straniero nel 1939, La grande illusione è a tutt’oggi un modello di “invenzione realista” armoniosa e pittorica. La sua dissimulata complessità sintetizza scrupolosamente l’impegno politico del Renoir degli anni Trenta e anticipa, allo stesso tempo, il

826 F. TRUFFAUT, I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 1989, p. 44.

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crollo dei valori umanistici e l’umorismo pirandelliano alla base della critica sociale delle pellicole immediatamente successive (La Marsigliese, L’angelo del male e soprattutto La regola del gioco).

Bibliografia di riferimento C. FELICE VENEGONI, Renoir, Firenze, La Nuova Italia, 1975 («Il castoro cinema»). F. TRUFFAUT, I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 1989. J. KERANS, Classics Revisited: “La Grande Illusion”, «Film Quarterly», XIV, Winter 1960, pp. 10-17.

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