RAPPRESENTAZIONI DELLA GRANDE GUERRA

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IL CONFINE DEL NIENTE: JEAN RENOIR E LA GRANDE ILLUSIONE di Luca Meloni Nel 1937, La grande illusione di Renoir portava a compimento le inclinazioni pacifiste della cinematografia francese del periodo interbellico comuni anche a Mademoiselle Docteur di Pabst e alla versione sonora di J’accuse! di Gance (quella muta, Per la patria, era stata distribuita in Italia nel 1919). Sebbene il titolo del film citi testualmente il saggio economico-politico del 1910 del Premio Nobel per la pace Norman Angell, il regista ne sminuì più volte durante gli anni la derivazione ideologica, tenendo a precisare che la scelta fosse stata determinata esclusivamente dal fatto che «il ne voulait rien dire de précis». L’illusione a cui si allude, pertanto, è passibile di svariate e suggestive interpretazioni: dalla più ovvia, la guerra (al tenente Maréchal che si augura che questa possa essere l’ultima della storia dell'uomo, Rosenthal risponde ironicamente «tu te fais des illusions!»), all’oblio imminente dei valori della nobiltà ottocentesca («Boëldieu», precisa Stroheim nei panni del Capitano von Rauffenstein, «je ne sais pas qui va gagner cette guerre. La fin, quelle qu’elle soit, sera la fin des Rauffenstein et des Boëldieu») e alle frontiere, linee di demarcazione socio-economiche finalizzate alla separazione illusoria di popoli e nazioni. L’ultima scena del film supporta consapevolmente tale ipotesi dal momento che, nonostante i soldati tedeschi rinuncino a sparare sui fuggitivi perché “entrati” in territorio svizzero, a causa della neve nessuna reale indicazione accerta che la suddetta frontiera sia stata effettivamente oltrepassata. «Il meno contestato dei film di Renoir è costruito sull’idea che il mondo si divida orizzontalmente per affinità e non verticalmente per barriere»,826 argomentava Truffaut richiamando lo sviluppo sociologico del plot (la marcata messa a confronto di personalità del tutto eterogenee per provenienza, livello culturale e classe sociale) e l’utilizzo dell’artifizio narrativo del doppio (comune al romanzo ottocentesco) come sua chiave di lettura e metafora relazionale. Si ricordi, a tal proposito, la comicità sottile e contenuta del dialogo sui ristoranti parigini, dove Boëldieu ammette di preferire senza alcun dubbio Chez Maxim mentre la preferenza di Maréchal ricade sui bistrot (dove si può bere del buono ed economico pinard) e quella dell’insegnante interpretato da Jean Dasté sui pranzi del cognato (perché «moins cher» si affretta ad aggiungere in primo piano). Se il film, in un certo qual senso, sublima programmaticamente la guerra (le allusioni ad essa, non a caso, richiamano spesso la dimensione del gioco e dello spettacolo: «d’un côté, des enfants qui jouent au soldat; de l’autre, des soldats qui jouent comme des enfants») spostando l’azione in una sorta di microcosmo parallelo (il campo di prigionia allestito nell’immaginaria fortezza di Wintesborn), ancora illusorio è il limite costituito dalle lingue, il cui amalgama sembra rispondere alla convinzione autoriale che esse siano simultaneamente barriere e luoghi di identificazione privilegiati (sono tre quelle utilizzate dalla sceneggiatura: il francese, il tedesco e l’inglese, quest’ultima investita di un ruolo esclusivo e sovranazionale). In quest’ottica, le sequenze ambientate nella fattoria di Elsa si rivelano centrali perché è lì che l’utilizzo di idiomi e linguaggi non verbali diviene fattore tangibile di un’interazione declassata e scevra di cerimoniali. Ancora una volta la regia di Renoir sostiene la narrazione e registra il passaggio della parola da un personaggio all’altro, liberando la macchina da presa e trasformandola in un autentico veicolo di complicità comunicativa (essa, difatti, si muove fluida attraverso lo spazio scenico, evitando i tagli di montaggio e la tecnica “dialogica” del campo/controcampo). Presentato alla Mostra di Venezia del 1937, proibito dalle autorità del governo nazista e nominato all’Oscar come miglior film straniero nel 1939, La grande illusione è a tutt’oggi un modello di “invenzione realista” armoniosa e pittorica. La sua dissimulata complessità sintetizza scrupolosamente l’impegno politico del Renoir degli anni Trenta e anticipa, allo stesso tempo, il 826

F. TRUFFAUT, I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 1989, p. 44.

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Presentazione dei partecipanti

31min
pages 303-316

di Cinzia Vecco

12min
pages 298-302

di Davide Podavini

12min
pages 287-290

di Francesca Riva

9min
pages 291-293

di Chiara Tavella

10min
pages 294-297

di Elena Munafò

13min
pages 283-286

di Marijana Milkovic

3min
page 282

di Luca Meloni

3min
pages 280-281

di Luca Meloni

3min
pages 278-279

di Fabio Libasci

11min
pages 274-277

di Gert Brojka

11min
pages 266-269

di Roberto De Simone

11min
pages 270-273

di Carlo Sacconaghi

23min
pages 257-265

di Velania La Mendola

28min
pages 234-242

di Elena Quaglia

22min
pages 250-256

di Enrico Riccardo Orlando

24min
pages 243-249

di Federico Iocca

23min
pages 224-233

di Arianna Giardini

24min
pages 216-223

di Samuele Fioravanti

15min
pages 211-215

di Anna Ferrando

21min
pages 204-210

di Fabio Ecca

22min
pages 197-203

di Sara Di Alessandro

28min
pages 188-196

di Roberto De Simone

27min
pages 179-187

di Damiano De Pieri

23min
pages 172-178

di Ida De Michelis

28min
pages 161-171

di Francesca Bottero

22min
pages 155-160

di Marguerite Bordry

23min
pages 147-154

di Mireille Brangé

50min
pages 131-146

di Alberto Rizzuti

23min
pages 120-130

di Pier Giorgio Zunino Il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda

1hr
pages 9-29

di Anna Chiarloni

43min
pages 107-119

di Franco Marenco

49min
pages 92-106

di Riccardo Benedettini

31min
pages 83-91

di Rita Giuliani

28min
pages 73-82

di Giulia Radin

50min
pages 55-72

di Mario Pozzi

1hr
pages 30-54
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