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di Samuele Fioravanti
LA GUERRA IN GIARDINO. SPUNTI DALLE CARTOLINE IN FRANCHIGIA DI CAMILLO SBARBARO di Samuele Fioravanti
Il poeta Camillo, il soldato Pietro
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Se dovessimo basarci unicamente sulle Lettere a casa dal fronte, 500 Sbarbaro, che pur frequentò il corso per allievi ufficiali a Sandrigo501 dove fu nominato sottotenente di fanteria, sembrerebbe non aver preso parte alla guerra del ’15-18. Tuttavia i ricordi del conflitto occupano tre delle cinque sezioni delle Cartoline in franchigia (Tempo dei primi «Trucioli», Primo dopoguerra e proprio le Lettere). La nota d’autore del 9 febbraio 1917 (Vigodarzere, Padova) resta comunque esplicita: sebbene Sbarbaro abbia indossato l’uniforme, non fu Camillo a portarla (p. 591): «Scrivetemi all’indirizzo: soldato Pietro* S[barbaro], Deposito Convalescenza e Tappa 8a Compagnia. […] | *Come il primo nome di battesimo voleva, da soldato fui Pietro. L’avventura fu così risparmiata a Camillo».
Otto mesi dopo, il «soldato Pietro», non pago di rimpiazzare Camillo, si risolve persino a liquidarlo, rimandandolo a casa dove lo aspettano la sorella Clelia e la zia Benedetta. La sostituzione simbolica avviene in un passaggio epistolare redatto nei pressi di Asiago, località Morar, in ottobre. Sbarbaro ricorre a una curiosa operazione di investitura e può tornare in Liguria tramite spedizione postale, in allegato (p. 601): «Quando potrete, datemi notizia del mondo; io ne sono fuori. “Compiego” un funghetto, ricordo della trincea dove cresceva puntualmente sugli aghi di pino, caduti e marcescenti. Accoglietelo; desso è il vostro Millo».
Il dotto pronome in corsivo (d’autore), l’hapax virgolettato e forse un certo compiacimento impressionistico («marcescenti») dichiarano apertamente quanto sia sorvegliata la costruzione dell’intero passo. Il gesto dell’invio appare dunque eminentemente letterario. Tanto il soldato Pietro è sradicato e «fuori dal mondo», quanto Millo è abbarbicato al suolo, già ricovero di un folto sottobosco. La spedizione del «funghetto» si limita a confermare cerimoniosamente quanto era stato scritto il 31 luglio. Dopo qualche giorno di congedo genovese, Sbarbaro chiarisce che a ripartire per il Veneto è una sua miserabile controfigura, il soldato Pietro appunto. Anche in questa carta, il motivo della sostituzione si lega a una manifesta intenzione letteraria (p. 596): «Ma una cosa mi preme dirvi: se una cosiddetta disgrazia dovesse capitare, non ve ne dolete: il meglio di me rimane con voi, e nelle righe che lascio scritte (Angelo Barile le raccoglierà). Il resto, credete, non è che miseria».
Camillo (o Millo) rimane ostinatamente aggrappato a casa (al suolo), mentre il futuro sottotenente di fanteria è poco più di una caricatura d’uomo. Goffa appare la soldataglia tutta («Bella la città [Bologna], ridicoli noi quando l’attraversiamo per andare alla Montagnola a fare il dietrofront»), burlesco è l’equipaggiamento («Non poteva, la CRI, sostituire lo spadino con qc. di
500 Le Lettere costituiscono la terza e ultima sezione delle Cartoline in franchigia (prima ed. Vallecchi 1966, ora leggibili nella ne varietur C. SBARBARO, L’opera in versi e in prosa, a cura di G. LAGORIO e V. SCHEIWILLER, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1985, pp. 544-617, d’ora innanzi OVP, mentre per la sezione delle Lettere si userà specificamente l’abbreviazione L). La vicenda del testo è nota: ad Angelo Barile, destinatario e collettore delle missive sbarbariane dal 1909 al primo dopoguerra, Sbarbaro affida anche la «corrispondenza dal fronte a casa, per salvaguardarla dal rischio più che probabile che in mano [sua] andasse distrutta» (prefazione in corsivo, L 587). Ringrazio il prof. Domenico Astengo che mi ha permesso di accedere alla propria biblioteca nella quale sono custoditi gli autografi dai quali Sbarbaro trasse il materiale per le Cartoline in franchigia. La corrispondenza Sbarbaro-Barile, integra, è classificata per anno in buste distinte. Purtroppo non resta alcuna traccia del carteggio di Sbarbaro con i familiari. 501 Marzo 1917, probabilmente dalla località veneta Orsara: «Proprio in questo momento ho avuto la notizia che il corso allievi ufficiali si inizierà il 15 maggio» (L 592).
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meno farsesco?»
502) e la divisa è frusta («Non parlo della mia tenuta, ma la potete immaginare” p. 595); l’intero sfondo bellico risulta un’impostura tanto che, nelle parole del luglio ’18, la guerra prende le sembianze de «la Buffa». 503 Eppure la macabra farsa non ha niente di cavalleresco e, nonostante l’elemento tragicomico, non sfiora una qualche variante donchisciottesca. Al contrario, vi stona la sagoma del «colto ufficiale di cavalleria: Rasponi, d’una famiglia di Ravenna che a suo tempo ospitò Byron; elegante monocoluto.» E, come per Byron, è ribaltata anche l’allusione a Petrarca (p. 604): «Ameni colli: un poeta laureato (che non amo) vi trapassò, al dire delle cronache, soavemente. Meno soavemente vi sbarchiamo noi le giornate tra levatacce, ordini sparsi, marce d’avvicinamento».
La scissione Camillo/Pietro ricalca quindi una seconda frizione: letterario/militare. Mentre Camillo non stenta a scrivere, a riconoscersi nel fungo tenace o a ritrovare «i poveri occhi» della sorella nei «fioretti celesti» di campo (un’altra metamorfosi vegetale, p. 592), la controfigura militare diviene di giorno in giorno più sorda alle suggestioni paesaggistiche.504 Rimozione della guerra e transfert Millo-«funghetto» non sono però i soli mascheramenti che Sbarbaro si impone. Il meccanismo sostitutivo arriva persino a salvare la vita al poeta (agosto del ’18). Nel raccontarlo, il periodo ha un’impennata anacolutica (p. 609): «Di ritorno qui, una cattiva notizia: il ragazzo che all’ultimo momento era venuto a farmi da attendente, ero appena partito per la licenza e uno sharpnel… Non posso levarmi dagli occhi il suo viso che raggiava per il nuovo incarico. Mi pare sia morto in mia vece… Arrivata la promozione a tenente».
Il sinistro avanzamento di grado conferma la chiusa del 24 giugno: «la guerra pare un controsenso» (p. 608). Da quest’orrida arena Sbarbaro preleva Camillo per spingervi il tenente Pietro, burattino della sorte, come fosse uno stuntman inanimato. 10 luglio: «Sono una marionetta che si sente sempre tale». 505 Lo scenario del fronte, rivisitato a parole, diventa una «villeggiatura ognitanto appena scomoda», 506 traversata da velivoli sonori come libellule e da mitraglie d’aia come pollame, rovinata magari da qualche noiosa zanzara.507 È lo stretto necessario per la scenografia, come rileva il corsivo sbarbariano: «l’indispensabile per crederci al fronte» (p. 597). L’ambientazione rimane vagamente agreste anche nei menù, diligentemente descritti (uova sode, lattuga, sformati di formaggio) e consumati in bicocche pastorali;508 persino Genova si trasforma a distanza in un «ridente paesello» (p. 600). Lo stesso arcadico sapore classicheggiante ritorna nella qualificazione toponomastica veneta: «Dueville, assordante di nidi» (p. 596) non può che ricordare
502 Entrambe le citazioni sono tratte dalla prima pagina delle L: le missive – dicembre 1916 – hanno un ruolo incipitario tale da prestare la propria coloritura a tutto il plico (L 589). 503 L 608. Anche l’espressione «Grande Guerra» suona risibile in bocca a Sbarbaro. Si veda la lettera del luglio 1917 in L 597: «Tra i resti di paesini, freschezza e innocenza della vegetazione! Indifferenza di tutto ciò che è eterno alla nostra Grande Guerra». Con questo spirito, nell’aprile dello stesso anno, il poeta canzonava il «Corriere della Sera» (L 594): «Tra i miei compagni ce n’è uno che ha sulla manica il distintivo di ardito. Allora ho spillato un avvertimento che dice: ATTENZIONE! Contiene ARDITO. Questo vi dica il mio buonumore o, come vuole il Corriere, L’ALTO MORALE». 504 Da Galzignano in aprile, L 604-5: «Mi sapete a riposo […], felice anzi per l’incanto di questi luoghi (sebbene anche da quel lato mi sia un po’ insordito)». Più avanti, maggio: «Richiamati d’urgenza al reggimento, l’ospite fece in tempo a regalarci, uno alla volta, l’emozione del volo. Nessuna emozione». 505 L 608. Ma la matrice è la stessa del testo coevo Lusen nei primi Trucioli (Vellecchi, Firenze 1920): «Burattino anch’io, se a Dio piace». La repulsione di Sbarbaro per le marionette ricorre altrove ed è motivata dall’assimilazione del fantoccio inerte a un presentimento di catatonia e di mancanza di senso. Per una scena analoga si vedano almeno gli Scampoli (Vallecchi 1960, p. 39): «Di me tra le fiamme bianche degli olivi non si muove che la marionetta sinistra». 506 Dalla prefazione (L 587); ma ancora, settembre 1918: «Il nuovo fronte è una villeggiatura» (p. 611). 507 «Compaiono spesso i velivoli nostri, men di spesso quelli loro: sembrano libellule e propagano un grande sbattimento metallico» (gennaio 1917, L 590); «Ci sono anche, sì, coccodé di mitragliatrici e fuochi artificiali e zanzare (o sharpnels), ma nessuno se ne preoccupa» (agosto 1918, p. 597). 508 Luglio 1917, L 596: «Adesso siamo “distaccati”: abitiamo un castello del settecento, chiamato Il tugurio, in piena campagna, tra Sandrigo e Breganze». E poco oltre: «Oggi, 31 luglio, siamo ancora al tugurio». Settembre dello stesso anno, p. 598: «Vi scrivo ora dalla seconda linea, abito in un fitto di abeti una comoda baracca». Per il menù citato: L p. 590 e p. 597, ma gli esempi potrebbero essere molti e diversificati (penso ai datteri a p. 604).
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un qualche epiteto iliadico, come la «Tisbe ricca di colombe» (Il. 2.502). Un calco virgiliano è persino letterale, forse un’erronea citazione a memoria dalle Georgiche (L 599).
… domani è il primo d’ottobre e ancora dulces sub arbore somni (Lina spieghi il latino all’ignorantissima Benedetta). Volta mi scriveva questa frase in maggio: come scappa il tempo. Se verrò in licenza (ma non contate su novembre) porterò per il giardino del terrazzo tanti bulbi di ciclamino. A giorni uscirà una Riviera ligure con miei dotti scritti; intanto, in questo odor di resina così forte al sole, sto scrivendo un truciolo su via Montaldo…
Tornano in queste poche righe i consueti motivi. L’invio postale di quanto di più prezioso offra il fronte sub specie herbaria, il radicamento metaforico al suolo/a casa (i bulbi, la strada di casa a Genova, addirittura la testata che Sbarbaro menziona traspira un’aria ligure) e, soprattutto, il travaso di un nucleo letterario (i primi «trucioli» scritti in guerra e usciti appunto sulla «Riviera ligure»509) dalla pagina all’esperienza sul campo. Se letterario è il ricordo dell’indirizzo di casa,510 non meno letterario è il sopore all’ombra dell’albero, il cui modello può essere inequivocabilmente rintracciato nei mollesque sub arbore somni (VERG. G. 2.470). Del resto Virgilio è richiamato anche dal proverbiale tempus fugit (VERG. G. 3.284) dell’amico Volta.
L’intera sezione delle Lettere a casa dal fronte ricorda un epillio. Penso, per fare un titolo, alla celebre Ecale, la cui voce narrante abdica al resoconto del conflitto per indugiare invece sull’assetto della bicocca e sul menù campestre (frammenti 248, 251, 334 Pf.). Il rifiuto della «Buffa» e dei suoi ingranaggi511 corre quindi sul filo di una scelta semantica precisa, di ascendenza virgiliana. I dulces sub arbore somni non sono gli unici lemmi a trovare esatta rispondenza nelle Cartoline in franchigia. Recitano le Georgiche (2.469-71): «Speluncae vivique lacus et frigida Tempe / mugitusque boum mollesque sub arbore somni / non absunt». Né mancano a Sbarbaro grotte512 e fresche vallate,513 i prodotti bovini514 e i sogni sotto le fronde, nelle Cartoline in franchigia, ma le simmetrie non si esauriscono qui.
Sbarbaro poeta di due guerre
L’ambientazione delle Lettere ricalca la semantica del Ciclope euripideo, tradotto in versi da Sbarbaro e uscito per la collana del «Veliero» dell’Editrice ligure Arti e Lettere.515 Le corrispondenze potrebbero sembrare poco più che pretestuose, se la versione sbarbariana non fosse stata realizzata mentre il poeta era sfollato fuori Genova proprio nel ’44, nel pieno della Seconda Guerra. I due grandi conflitti armati che attraversarono la vita di Sbarbaro sono quindi accomunati dalla stesura di testi che, sfruttando un lessico agreste classicheggiante, tentano di affrontare la guerra di scorcio.
509 Per una ricostruzione della vicenda, vedi l’edizione critica dei Trucioli, a cura di G. COSTA, Milano, Scheiwiller, 1990. 510 Il «truciolo» Via Montaldo 13-8 comparirà sul numero di giugno 1919 della «Riviera ligure», per poi essere incluso nella prima edizione dei Trucioli (op. cit. 1920, p. 199); nella seconda edizione (Trucioli, Milano, Mondadori, 1948, p. 67) il titolo passerà a un più franco Strada di casa, col quale è leggibile oggi in OVP p. 175. 511 L 606: «Chi mi comanda […] quell’Alemanni cui, un giorno di constatata inettitudine al grado, avevo presentato domanda di essere retrocesso a soldato e che, invece di punirmi, pazientemente mi aveva persuaso che la richiesta non era inoltrabile». 512 Per esempio la cavernetta di L 598 e la caverna a p. 600. 513 «Siamo in una valletta chiamata Magnaboschi: neve e abeti». È l’aprile del 1917 (L 593). 514 Formaggio a p. 597, burro e latte a p. 605, addirittura caffelatte a p. 602. 515 EURIPIDE, Il Ciclope, Genova, Editrice ligure Arti e Lettere, 1945. Sbarbaro lavorò alla stesura di una traduzione in prosa (di cui non resta traccia) che convertì presto in versi. Da questa seconda traduzione, il poeta dovette poi trarre una nuova copia in prosa per rispondere alle esigenze dell’editore Bompiani. Un’accurata ricostruzione in P. ZOBOLI, Sbarbaro e i tragici greci, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 287-309.
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Per l’ultimo atto delle Cartoline in franchigia (datato 1916-1919) si è parlato di epillio, mentre per il Ciclope si considererà ovviamente il dramma satiresco: entrambi i generi sono, per così dire, deviazioni dal tronco di un genere più solenne (l’epica nel primo caso, la tragedia nel secondo). Con la sua caratteristica maniera “in minore”, Sbarbaro non affronta la guerra squadernando pagine documentarie; si affida piuttosto a scene eloquenti situate sull’orlo della catastrofe. Di qui, la scelta di un genere conforme. L’epillio trascura lo scontro letale fra Teseo e il toro di Maratona, così come il dramma satiresco evita di portare sulla scena il pasto antropofago del ciclope; tuttavia ciascun’opera, come le Lettere a casa dal fronte, vive sul ciglio del disastro. L’ufficiale Pietro usurpa la stessa «caverna-ricovero» 516 che fa da quinta al dramma di Euripide (Sbarbaro traduce «caverne solitarie» nel prologo del Ciclope517); benché la Grande Guerra non avvenga sullo «scoglio d’Etna» (C 628), anche il Veneto assapora un brandello di «Sicilia, nei dolci fatti con fichi, cedri, mandorle tostate» (L 603). I soldati dormono su pagliericci (L 595) come i ciclopi su un «giaciglio di frascame», il legno d’abete fornisce riparo o materia prima (L. 598, C 645) e, nel tentativo di dare un nome all’orrore, laddove la guerra è «la Buffa», il ciclope è apostrofato «il Bellone» (C 651). La «lieta baraonda» e il «festoso schiamazzar» 518 dei fauni mordaci (C 628) non distano molto dalle «occhiate beffarde e qualche lazzo» dei bolognesi (L 589) né dalle «burlesche parole d’ordine» del tenente Pietro (L 599). I ciclopi e gli eserciti, ugualmente divoratori di uomini e di latticini (C 633-5 et alibi), non si curano della «pioggia battente» (L 592) o dell’«acquazzone» (C 641); qualora ci sia «neve alta e nevic[hi]a stracciasacco» (L 603), soldati e ciclopi si «imbacucca[no] ben bene in velli» (C 641) e si consolano con «l’ineffabile bibita dell’uva» (C 646), «l’uva dorata» (L 602). Qui, il nodo centrale.
Per scampare alla ferocia del conflitto, Camillo Sbarbaro, come l’Ulisse tradotto venticinque anni dopo, ricorre al vino. Nelle Cartoline in franchigia, il «fiasco di finto Chianti» (L 598), il vino coi datteri (L 604) e il paesaggio di filari di vite (L 607) mitigano il massacro, non diversamente da come aiuteranno Ulisse a evitare la strage. L’ebbrezza di Polifemo occupa il cuore del dramma (secondo stasimo, secondo e terzo episodio), l’ubriacatura dell’ufficiale Pietro cade, parimenti, al centro delle Lettere (L 606), dove anche le «foglie» autunnali sono «avvinazzate» (L 600). Ma soprattutto l’eroe dell’Odissea evade dall’antro di Polifemo grazie al vello ovino (Od. 9.431-5), lo stesso che veste il tenente Pietro nell’ultima pagina delle Cartoline in franchigia (L 617): «Di preda bellica, solo una pelliccia che m’inflissero. Come giusto, è di agnello».
La coincidenza non è isolata: Sbarbaro stesso aveva istituito il paragone (OVP 582): «Arrivai a dorso d’asino e sul piazzale della chiesa mi congedai dai miei soldati tacitamente: Fate ch’io non m’accorga che ci siete e non v’accorgerete ch’io ci sono. Discorsetto non meno efficace di quello di Ulisse».
Non stupisce, quindi, che la solidarietà dell’eroe omerico trovi in Sbarbaro un’attenta replica. Mormora tra sé Ulisse, alla fine del secondo episodio, fuori dall’antro del ciclope:
Certo, potrei, adesso che son fuori, battermela. Ma non vo’. Sarebbe brutta se, tirandomi io solo dalla trappola,
516 Aprile 1917: «La scorsa notte ho dormito alla bella stella, vicino a una caverna-ricovero» (L 593). Alla bella stella vorrebbe sdraiarsi anche Polifemo nel secondo stasimo del Ciclope tradotto da Sbarbaro (OVP 651): «Dolce erbetta, tu m’alletti, | tu m’adeschi, primavera, | a trascorrere la sera| coi germani miei diletti». 517 L 628. La traduzione del Ciclope in versi è ora leggibile alle pp. 621-62 di OVP (dalla quale si riporteranno a testo i numeri di pagina come per le Lettere a casa dal fronte [L], precedute dall’iniziale C). L’edizione critica del dramma satiresco è invece compresa in P. ZOBOLI, Sbarbaro e i tragici greci, cit. pp. 411-56. 518 Nel carteggio tra Sbarbaro e il pittore Giovanni Solari (Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2015) figura una carta del 1947, in cui il poeta promette all’amico varianti d’autore al Ciclope riportate a matita sul volume del ’45. Le varianti sono effettivamente presenti nella copia di Solari, ove non si legge «festoso schiamazzar» bensì «strepito di sicinnidi». Tutti i sedici interventi (che non compaiono nell’edizione critica di Zoboli) sono del resto tesi a una più ricercata espressività.
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in trappola piantassi i miei compagni, essi che mi seguirono fin qui.
Aveva scritto l’ufficiale Pietro alla sorella, tra due bisbigliate parentesi del ’17 (L 601-2): «Non andrò più né in trincea né di pattuglia né all’assalto (non morire mi spaventa, ma la responsabilità di condurre 30 uomini a morire)».
Trascorrono decenni e variano gli eserciti, non muta il poeta.
Bibliografia
OPERE CITATE DI CAMILLO SBARBARO
Trucioli, Firenze, Vallecchi, 1920. Il Ciclope di Euripide. Dramma satiresco, Genova, Editrice ligure Arti e Lettere, 1945 («Il Veliero»). Trucioli, Milano, Mondadori, 19482 . Scampoli, Firenze, Vallecchi, 1960. Cartoline in franchigia, Firenze, Vallecchi, 1966.
OPERE SU CAMILLO SBARBARO
D. FERRARI (a cura di), Camillo Sbarbaro in versi e in prosa. Convegno nazionale di studi. Spotorno, 14-15 dicembre 2007, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2009. D. ASTENGO, V. SCHEIWILLER (a cura di), Camillo Sbarbaro, Milano, Fondazione Cassa di Risparmio di Genova e Imperia - Scheiwiller, 1997. G. LAGORIO, Sbarbaro. Un modo spoglio di esistere, Milano, Garzanti, 1981. A. PERLI, Sbarbaro: “La guerra vuol dire” o la voce dell’innocenza, «Critica letteraria», II, 2004, pp. 283301. C. SBARBARO, Lettere a Alceste Angelini 1962-1967, a cura di M. NAVONE, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2014. C. SBARBARO, Lettere a Giovanni Solari 1942-1965, a cura di S. FIORAVANTI, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2015. C. SBARBARO, Lettere a Mario Novaro 1913-1919, a cura di V. PESCE, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2012. C. SBARBARO, L’opera in versi e in prosa, a cura di G. LAGORIO e V. SCHEIWILLER, Milano, GarzantiScheiwiller, 1985. C. SBARBARO, Trucioli, edizione critica a cura di G. COSTA, Milano, Scheiwiller, 1990. P. ZOBOLI, Sbarbaro e i tragici greci, Milano, Vita e Pensiero, 2005.
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