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di Carlo Sacconaghi
DAL FRAMMENTO ALLA PROSA: IL LIRISMO ESPRESSIONISTA DI REBORA IN TRINCEA. di Carlo Sacconaghi
Nel giugno del 1913, un anno prima dello scoppio della guerra, la Libreria della Voce pubblicò i Frammenti lirici di Clemente Rebora, a quel tempo giovane insegnante di lettere in una scuola tecnica vicino a Milano. I 72 frammenti formano un canzoniere asistematico le cui disarmoniche stratificazioni, frutto di un lavorio decennale, documentano il risultato artistico di una aggrovigliata ricerca esistenziale.737 Lo stile è poliedrico, in molti luoghi caratterizzato da una carica espressionistica sconosciuta alla poesia italiana del tempo: violente torsioni linguistiche, forzature sintattiche, aritmie insistite attraversano la raccolta, a cui si aggiunge un lessico intriso di una complessa inquietudine filosofica.738 L’oltranzismo modernista di Rebora non trovò il favore della critica contemporanea, e i Frammenti furono relegati a margine della letteratura italiana per alcuni decenni.739
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Il mancato riconoscimento da parte di pubblico e critica non allontanò però il poeta dalla scrittura; l’espressione artistica era infatti per Rebora una «necessità», una compagnia benefica attraverso la quale egli dava voce al proprio intimo tormento.740 Le poesie, le prose e le traduzioni pubblicate nel decennio che separa i Frammenti lirici (1913) dai Canti anonimi (1922)741 furono raccolte per la prima volta da Vanni Scheiwiller nel 1961, e formano oggi la terza sezione dell’opera omnia canonica; 742 di questa, il nucleo principale costituisce un vero e proprio «libro fantasma»743 che comprende i 24 componimenti sulla guerra pubblicati di ritorno dal fronte, fra il 1916 e il 1920.744 Come documentano numerosi scambi epistolari,745 Rebora avrebbe infatti voluto pubblicare un «volume di poesie-prosa» sulla guerra 746 che testimoniasse le atrocità della trincea, ma tale progetto non fu mai realizzato.
Benché la produzione di guerra non abbia uno status editoriale indipendente, considerarla come una raccolta autonoma non solo offre una eccezionale testimonianza poetica della vita al fronte, ma permette anche di comprendere meglio l’iter poetico reboriano.747
737 Cfr. M. MUNARETTO, Il libro dei “Frammenti lirici”: struttura e senso poematico, «Quaderni di critica e filologia italiana», II, 2005, pp. 93-126. 738 Si rimanda qui al primo e ad oggi fondamentale contributo sull’espressionismo linguistico reboriano: F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, in Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Padova, Liviana, 1966, pp. 3-35. 739 La rivalutazione da parte della critica cominciò solo nel 1937, pochi mesi dopo l’ordinazione sacerdotale di Rebora, con gli articoli di Gianfranco Contini (Clemente Rebora, in ID., Due poeti anteguerra: Dino Campana e Clemente Rebora, «Letteratura», IV, 1937, pp. 111-118) e Carlo Betocchi (Su Clemente Rebora, «Il Frontespizio», IX, 1937, pp. 303-308). 740 Si vedano ad esempio la lettera a De Robertis del 13 marzo 1915, nella quale Rebora esprime il proprio dispiacere per non potersi «concedere alla […] necessità di scrivere e improvvisare musica», e quella a Prezzolini del 31 gennaio 1913: «Quei frammenti li amo, perché mi hanno fatto bene e mi condussero ad esser sincero e a ritrovarmi». 741 Cfr. O. MACRÌ, La poesia di Clemente Rebora nel secondo tempo o intermezzo (1913-1920) tra i “Frammenti lirici” e le “Poesie religiose”, «Paradigma», III, 1980, pp. 279-313. 742 Cfr. C. REBORA, III. Poesie e prose sparse [1913-1927], in Le poesie (1913-1957), a cura di G. MUSSINI e V. SCHEIWILLER, Milano, Scheiwiller-Garzanti, 1999, pp. 163-256. 743 L’espressione è di A. BETTINZOLI, Il libro di poesie-prosa sulla guerra, in La coscienza spietata. Studi sulla cultura e la poesia di Clemente Rebora. 1913-1920, Venezia, Marsilio, 2002, p. 63. 744 Riguardo alla complessa questione filologica e cronologica delle opere in questione cfr. ivi, pp. 65-75. 745 Cfr. ivi, nt. 1 p. 98. 746 Fu Rebora stesso a definire così il suo progetto nella lettera inviata a M. Novaro il 27 ottobre 1916. 747 Due recenti volumi hanno tentato di dare forma al progetto di Rebora: C. REBORA, Tra melma e sangue. Lettere e poesie di guerra, a cura di V. ROSSI, Novara, Interlinea, 2008; C. REBORA, Frammenti di un libro sulla guerra, a cura di M. GIANCOTTI, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2009.
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1. Grazie all’epistolario, documento di eccezionale valore artistico e filosofico oltre che storico e biografico, è possibile accostarsi all’esperienza che il poeta fece della guerra. 748
Richiamato alle armi, dalla metà di marzo del 1915 Rebora trascorse qualche settimana in una caserma milanese prima di essere trasferito a Gorlago, in provincia di Bergamo, per un mese di addestramento. Furono sufficienti poche settimane perché maturassero in lui una rassegnata sfiducia nei confronti dell’organizzazione militare italiana749 e una fervida avversione nei confronti dell’ideologica retorica interventista.750 Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’AustriaUngheria; Rebora trascorse i mesi seguenti nel vicentino e, raggiunto il grado di sottotenente del 72° reggimento di fanteria, a Mantova come istruttore di reclute. La chiamata al fronte arrivò alla fine di luglio: fu inviato in zona operativa presso il settore Arsiero-Asiago e dopo tre mesi di «villeggiatura» iniziò l’avvicinamento alla prima linea.751 Da metà novembre fu impegnato in una delle trincee più feroci dell’intero conflitto, sul fronte di Gorizia.
Giunto sul Podgora (in italiano “Monte Calvario”), Rebora provò a descrivere la propria condizione a parenti e amici. Le prime lettere dal fronte, nelle quali il tono si fa improvvisamente cupo e angoscioso, sono indirizzate alla madre Teresa:
Un saluto rapido ma intenso, fra il fango e il travolgimento di questi luoghi, che sono il Calvario d’Italia. La cicuta di Socrate è un’inezia ironica al paragone. Quanta umanità, in stato così terribile. [13 novembre 1915]
Sono nella guerra ove è più torva: fango, mari di fango e bora freddissima, e putrefazione fra incessanti cinici rombi violentissimi. E Checche,752 fatto aguzzino carnefice ecc. – Martirio inimmaginabile. – Del resto vivo; e sono, fra i più laboriosamente sereno per i miei soldati, mentre è la disperazione. [18 novembre 1915]
Per cercare di rendere comprensibili pensieri e sentimenti ai suoi cari, Rebora si serviva di descrizioni, immagini e paragoni; ma fin da subito la distanza con il mondo “normale” si mostrò incolmabile, come emerge da una risposta all’amico Monteverdi inviata pochi giorni dopo l’arrivo in trincea:
Tu ragioni come il mondo che non ha provato a vivere nella stanza dell’ammazzatoio di Barbableu! Sono, fra tane e orrore – abbrutito al Podgora. Quindi non posso significarti più nulla. Addio. [21 novembre 1915]
Oppure alla madre, ancora a fine novembre:
Chi è nella vita normale […] non imagina cosa sia questa routine macabra, e vana! […] bisogna essere carne anonima di fanteria per capire certe cose. [28-29 novembre 1915]
748 C. REBORA, Epistolario Clemente Rebora. 1893-1928: l’anima del poeta, vol. I, a cura di C. GIOVANNINI, Bologna, Dehoniane, 2004. A riguardo cfr. A. FRATTINI, L’esperienza della guerra nella coscienza e nella poesia di Rebora, «Humanitas», XLI, 1986, pp. 834-858. 749 «Si tenta di dare una coloritura bersagliesca alla tardigrada fanteria (quante cose si tentano all’ultimo momento, ma quale impreparazione negli ufficiali, in gran parte improvvisati! come italiano, caso mai ecc. non spererei che nell’iniziativa spiritosa della «bassa» truppa)» (alla madre, 17 aprile 1915). «Non ci fossero i monti e le marce […] e qualcos’altro, sarebbe intollerabile il vivere fra gli scaricabarile confusionari spostati del mondo ufficiale: imagina un’anarchia burocratizzata» (alla madre, 25 aprile 1915). 750 «Vorrei che taluni provassero e vedessero prima di credere alle loro idee e inorgoglirsene» (ad A. Monteverdi, 25 aprile 1915). «Qui – mentre si brontola qualcosa di molto vicino – la condizione è quella vera d’Italia, non dei retori patriotti dannunzieggianti» (alla madre, 6 maggio 1915). 751 «La mia villeggiatura qui, se ha un difetto, è per la comodità troppo signorile che contrasta al mio temperamento» (alla madre, 24 agosto 1915). «Io son sempre nella mia villeggiatura casermistica e tanti tuoni lassù» (a G. Boine, 22 settembre 1915). 752 “Checche” è un nomignolo di Rebora stesso.
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«Routine macabra» e «carne anonima»: questi due elementi – il carattere di anonimato dei soldati e l’abitudine all’orrore – ritornano insistentemente nella descrizione che Rebora fa della guerra. In ciò sta l’origine della brutalizzazione che la guerra opera nei soldati: l’io perde la propria unicità, il proprio valore singolare; in guerra, scrisse Rebora nel ’17, la persona è «spersonata».753 In una situazione tanto precaria l’unico palliativo sembra essere l’abitudine, o, come disse alla sorella, l’impietrirsi, la sospensione della coscienza.754
Il 7 dicembre Rebora spedì all’amico Antonio Banfi una lettera nella quale si definì «un ugolino anonimo, fra lezzo di vivi e morti, imbestiato e paralizzato per la colpa e la pietà, e l’orrendezza degli uomini», e aggiunse:
La vita […] ch’io lordo nella gora del tempo, è quella di un troglodita che chiude un cuore. Non il pericolo continuo – diviene una triviale monotona abitudine, il macello perpetuo a cui siamo esposti; non tanto nemmeno il patimento fisico (fango e gelo, barbuto e baffuto e rasato in capo come un galeotto – “menzogna”, e sofferenza d’ogni intorno, indicibilmente), ma l’interiore è terribile = e voi non potete farvene idea.
Fin dall’inizio di dicembre le lettere documentano il sorgere di un latente esaurimento nervoso – travaglio noto a Rebora già prima della guerra. 755 Pochi giorni prima del Natale del 1915, dopo oltre un mese di convulsa trincea, l’esplosione di un obice 305 causò a Rebora febbre reumatica e un grave trauma dal quale si sarebbe ripreso solo qualche mese più tardi; egli abbandonò dunque la trincea e dopo pochi giorni fu trasferito in un ospedale milanese.756
2. Sono sufficienti i brevi passi citati per osservare la levatura stilistica che caratterizza la prosa epistolare di Rebora.757 Si prenda ad esempio una frase estrapolata dalla lettera che egli inviò al padre Enrico il 10 novembre del 1915, quando cioè si trovava a poche ore dall’arrivo in trincea:
L’enorme rantolo di centinaia di cannoni squarcia un inno alla brutalità.
In questa citazione si distinguono alcuni elementi di quello che dagli anni ’60 è stato definito l’“espressionismo” reboriano.758 Il predicato squarciare per esempio, tipico del violento stilismo verbale del poeta milanese,759 conferisce materialità ai due elementi acustici (il rantolo e l’inno) e stabilisce fra di essi un rapporto dissacrante (un inno, per giunta, alla brutalità). Si tratta di un procedimento analogico, uno svolgimento ellittico impiegato frequentemente da Rebora, che ha qui anche carattere preposizionale; la particella di, infatti, crea un rapporto ambiguo fra il rantolo e i
753 Cfr. l’incipit di Arche di Noé sul sangue, prosa reboriana pubblicata nel maggio 1917 su «La Brigata»: «Accogli, Brigata, una parola – da uno che spersonato nel male del tempo rimane tuttavia insanabilmente uomo» (p. 106). 754 «Dì a Piera – che mi scrisse […] – che ho represso a stento un impeto di pianto (da tento tempo non mi veniva più –non poteva, tutto impietrito a vedere gli uomini)» (alla madre, 28-29 novembre 1915). Cfr. anche alla madre l’1 dicembre 1915: «Di me non dico: è un bene per la vostra tranquillità e conforto […] che ignorate il fango morale, la pietà e l’orridezza di ciò che avviene; e conosciate solo le notizie attraverso i giornali-tanin che ingannarono e ingannano la patria, e voi mamme! Del resto io resisto nel mio “dovere” – e sto bestialmente bene. Ho fede di ritornare per ciò che non vuol morire in me. L’unico vero pericolo è appunto l’abitudine ad esso: tu giri fra la morte ininterrottamente pronta come in galleria!». 755 Cfr. al padre Enrico il 6 dicembre 1915: «Il mio corpo più è battuto e “meglio” sta – solo da qualche giorno, mi rode l’esaurimento dei nervi (dove son vulnerabile)». 756 È in questa occasione che uno psichiatra gli diagnosticò la “mania dell’eterno”. 757 Cfr. F. FINOTTI, Lo stile della prosa, in Le prose di Clemente Rebora, a cura di G. DE SANTI e E. GRANDESSO, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 19-27. 758 Cfr. F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, cit.; per una definizione di “espressionismo letterario” cfr. G. CONTINI, voce Espressionismo letterario, in Enciclopedia del Novecento, II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977, pp. 780-801. 759 Sullo stilismo verbale di Rebora cfr. G. CONTINI, Clemente Rebora, cit., pp. 111-118.
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cannoni: in una sola immagine («L’enorme rantolo di centinaia di cannoni») vengono condensati l’inquietante rombo dei cannoni e il suo effetto, ossia lo straziante lamento dei soldati. Si notino poi la scelta del sostantivo deverbale rantolo, l’attento impiego delle figure di suono che crea un ingorgo di nessi consonantici duri e l’andamento ritmico del periodo.
L’epistolario dunque, che comprende un’ingente quantità di lettere private pubblicate post mortem e dunque prive di velleità letterarie, è ricco di passi che non stonerebbero se fossero incastonati in una poesia o in una prosa lirica. È quindi possibile desumere che l’espressionismo reboriano vive al di là delle opere strictu sensu: la sua radice è pre-letteraria e a-programmatica.760 Rebora stesso, in alcune lettere degli anni universitari, prova a descrivere ad alcuni amici la genesi del suo comporre – in musica prima, a parole poi – sottolineandone l’urgenza psicologica ed esistenziale.761 Già nel 1907 scrive a Monteverdi: «Ho deciso di starmene a Milano […] per compitare nella solitudine qualche po’ di musica, e avvicinarmi con la realtà dei mezzi d’espressione al grande fuoco che mi divampa qui, per ora distruggitore senza luce»; e l’anno seguente, a Daria Malaguzzi:
Talvolta, d’improvviso, [l’energia più buona] balza sì piena, sì armoniosa, sì veemente ch’io l’odo giganteggiare con sgomento insieme e con gioia; e allora una bontà malinconica e grande, un’infinita tenerezza diffusa mi culla in una dolcezza senza pari; in questo stato talora straripa l’arte e la bellezza oltre la mia sponda ed io m’ingegno a dominarla foggiandola in suoni e, più di rado, in parole. [4 marzo 1908]
A un anno dalla pubblicazione dei Frammenti Rebora manifesta al fratello Piero l’insofferenza provata nei confronti delle poetiche e dei programmi artistici, in quegli anni tanto dibattuti, e contrappone ad essi l’«indimostrabile necessità» del suo comporre versi:
Avrei voluto rispondere […] con l’inviarti due o tre nuovi frammenti […] – non per l’arte, la “profondità” ecc. che me ne strafotto, ma a causa della loro più indimostrabile necessità. [27 giugno 1914]762
L’espressionismo reboriano non nasce quindi dall’adesione a una poetica; esso ha piuttosto una matrice esperienziale: è l’esito linguistico di una sincera e travagliata ricerca psicologica ed esistenziale sfociata nella «necessità» dell’espressione artistica.763 Riconoscere tale vincolo, per il
760 Cfr. F. FINOTTI, Lo stile della prosa, cit., p. 19: «[Rebora] si appropria delle parole, e le trasforma espressivamente, cosicché il linguaggio pare attraversato da una impaziente energia». 761 Cfr. R. LOLLO, La prima guerra mondiale nella ricerca interiore di Clemente Rebora, «Rivista rosminiana di filosofia e cultura», LXXII, 1978, p. 300: «La lucidità della coscienza reboriana, manifestata attraverso invenzioni formali e strutturali […] nulla concede all’estetismo, ma vuole porre interrogazioni fondamentali alla coscienza». 762 Cfr. anche la già citata lettera del 13 marzo 1915 a De Robertis, neo-direttore della «Voce»: «Io non capisco (o non ho tempo di capire) cosa significhi grande o piccolo; è ridicolo infatti, e l’importante è tutt’altro per me. Io vivo specialmente, ossia sono un “anonimo”. Quanto alla Voce, mi scusi; io lavoro per la mia professione e per tutto il resto più di tre quarti della giornata; e son mesi che – salvo qualche notte – non mi posso concedere alla mia necessità di scrivere e improvvisare musica». 763 Cfr. F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, cit., p. 6: «Forse nasce qui quello speciale “correlativo oggettivo” che contraddistingue l’opera reboriana risolvendosi in espressionismo linguistico e in fitte “figure” analogiche: nel desiderio di un lirismo rinnovato, nel sentire lo stile non come un fatto stilistico ma come una conquista morale». Anche secondo Luperini la contraddittorietà che lacerava Rebora «non è risolta […] per via ideologica […], ma per via eminentemente stilistica» (R. LUPERINI, I poeti della “Voce”: l’espressionismo lirico di Sbarbaro, Rebora, Campana e il simbolismo di Onofri, in Il Novecento, I, Torino, Loescher, 1981, p. 234). E così Mengaldo: «Si può dire che questa aggressività e incandescenza stilistica sia in Rebora anteriore alla messa in opera del testo poetico, una specie di dato biologico […]. In pochi poeti come in Rebora lo stile, più che riflettere un’ideologia, è immediatamente ideologia, anzi si direbbe la surroghi e ne colmi i vuoti con una sorta di gesticolazione psicologica e morale che da un lato veicola l’attivismo del soggetto e la sua volontà d’intervento nel mondo, dall’altro mima il caos peccaminoso della realtà rugosa» (P.V. MENGALDO, Clemente Rebora, in Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 252).
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quale occorre rintracciare nel vissuto del poeta l’origine del suo stile, permette di comprendere adeguatamente la rilevanza che l’esperienza della trincea ebbe nella produzione artistica di Rebora.
3. I componimenti scritti durante il biennio 1916-1917 documentano il tentativo di Rebora di dire l’«esperienza non dicibile» della trincea.764 La guerra, oltre a offrire nuova materia alla lirica reboriana, a mio parere corregge e raffina lo stile dei Frammenti lirici. 765 Sottolineo di seguito tre elementi di discontinuità fra la produzione artistica pre- e quella post-bellica.
a) Dal «vecchio-nuovo», il nuovo.
In una lettera inviata a Monteverdi pochi mesi prima di pubblicare i Frammenti lirici, Rebora presenta la sua poesia come una combinazione di vecchio e nuovo. 766 Tale coesistenza è riscontrabile sotto ogni aspetto formale, ed è diversamente distribuita nei vari componimenti; alcuni di essi sono complessivamente più arditi e originali, altri dal sapore decisamente più tradizionale. Ma anche nei frammenti più innovativi sono rintracciabili echi lessicali e moduli retorici tipicamente ottocenteschi, e in particolare di marca leopardiana.767 Nel Fr. II per esempio, espressioni emblematiche dello stilismo reboriano convivono con costrutti retorici tipici della poetica vaga e indefinita che Rebora decantò in uno scritto del 1910;768 qui la terzina iniziale («Nella seral turchina oscurità / Pace su neve vaporando il piano / Sconfina melodioso»), nella quale l’accostamento analogico astratto-concreto tocca uno dei vertici dei Frammenti, è seguita da ridondanti periodi scanditi da un «Tu» anaforico riferito al «desiderio» del poeta, secondo un modulo già caro a Leopardi («Tu che fosti e sei il desiderio mio / Che tramutò gli aspetti / E non mai il suo dio», vv. 17-19). Così, nel Fr. VI, agli emblematici versi incipitari («Sciorinati giorni dispersi, / Cenci all’aria insaziabile: / Prementi ore senza uscita, / Fanghiglia d’acqua sorgiva», vv. 1-4) si accostano interiezioni enfatiche proprie di un lirismo ormai superato («Oh per l’umano divenir possente … », v. 25).
Nella produzione artistica dell’immediato dopoguerra, invece, la limatura del vecchio appare pressoché assoluta: Rebora si affranca dai moduli linguistici e retorici ottocenteschi, si emancipa dagli stilemi leopardiani che innervano buona parte dei Frammenti; l’espressionismo si fa più estremo e asciutto nel tentativo di rappresentare una realtà che non concede margini a magniloquenza e raffinatezza.
b) Dalla filantropia idealista all’oggettivazione dell’esperienza.
In una severa recensione ai Frammenti apparsa nel 1913, Emilio Cecchi definì Rebora un «fiacco poeta idealista […] escluso dalla realtà poetica perché sempre sospeso a una funicella dialettica».769 Il suo filosofeggiare in versi, che il frammento d’apertura («L’egual vita diversa urge intorno») sembra indicare a programma dell’intera raccolta, si declina in ripetuti riferimenti alle categorie di tempo, storia e soprattutto di idea. Si veda per esempio la chiusa del Fr. VIII:
764 A Monteverdi l’1 agosto 1915: «Sapessi quanta esperienza non dicibile, e quanta luce nuova mi ventila infuocata attendendo – se sarà destino – di irraggiare, per chi mi ama». Durante il periodo trascorso in trincea Rebora non scrisse poesie: «Si vive e si muore come uno sputerebbe […] Non so più scrivere né esprimere: saprò – non che voglia –quando canterò, perché non intendo morire» (a L. Mazzucchetti, 3 dicembre 1915). 765 Cfr. M. GIANCOTTI, Lettura di due prose liriche reboriane: Stralcio e Perdono?, «Per leggere», XV, 2008, p. 59: «I testi bellici portano al parossismo la tensione espressiva della prima raccolta, concentrando e accumulando l’energia della scrittura in grovigli sintattici e semantici». Cfr. anche A. FRATTINI, L’esperienza della guerra nella coscienza e nella poesia di Rebora, cit., p. 851 e Z.G. BARANSKI, Italian Literature and the Great War: Soffici, Jahier, and Rebora, «Journal of European Studies», X, 1980, pp. 169-173. 766 Nella lettera Rebora esprime le proprie perplessità nei confronti della «Voce» quale sede più opportuna alla pubblicazione dei Frammenti lirici: «A te poi dirò che [l’ambiente vociano] non mi pare troppo adatto alla varia comprensione del vecchio-nuovo della mia poesia» (27 febbraio 1913). 767 Cfr. C. RICCIO, Fonti ottocentesche di Clemente Rebora, Napoli, Loffredo, 2008. 768 Cfr. C. REBORA, Per un Leopardi mal noto, a cura di L. BARILE, Milano, Scheiwiller, 1992. 769 E. CECCHI, Esercizî ed aspirazioni: Rèbora e Mulas, «La Tribuna», 12 novembre 1913.
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«S’ingorga il minuto e ritorna / Con àlito morto l’idea. / L’idea che quando ritorna / Un fatto trascina; e per sempre» (vv. 40-43). Come notò precocemente Contini, all’idealismo si accompagna una sentita filantropia di stampo mazziniano che prende forma nella «bella gagliarda bontà» (Fr. I, v. 27), supremo ideale umano che anima l’azione civile del poeta.770
Ma l’idea e la bontà, lo storicismo e il moralismo non reggono all’urto della guerra; di fronte alla tragedia mondiale essi si rivelano categorie impalpabili e inconsistenti. Concetti e speculazioni lasciano così spazio alla rappresentazione di vivide scene di trincea nelle quali il vissuto del poeta è rispecchiato e oggettivato. In queste poesie la voce di Rebora, per lingua, ritmo e stile, manifesta caratteristiche già riscontrabili nei Frammenti, ma raggiunge un equilibrio e una coincidenza con l’esperienza evocata che forse solo l’undicesimo dei Frammenti («O carro vuoto sul binario morto») aveva raggiunto.771
La poesia Viatico772 è un esempio di mise-en-scène nella quale l’autore rivolge una straziante invocazione al «tronco senza gambe» di un ferito che «tra melma e sangue» implora l’aiuto dei compagni; la supplica del poeta di «affrettare l’agonia», di morire in fretta e «in silenzio», si compie nel verso finale, lapidario, che tocca il culmine della desolazione: «Grazie, fratello».773
Con Voce di vedetta morta774 la poesia di guerra reboriana raggiunge un vertice. Ad aprire il componimento un asciutto «C’è» introduce in medias res il lettore sul campo di battaglia; non si tratta di un ricordo, la scena è hic et nunc:
C’è un corpo in poltiglia Con crespe di faccia, affiorante Sul lezzo dell’aria sbranata. (vv. 1-3)
L’espressione «aria sbranata» è emblematica: attraverso il participio sbranata Rebora infonde una dose di materialità a una realtà non astratta ma impalpabile, l’aria, così da poterla aggredire e violare; tutta la realtà partecipa così della bestialità della guerra.
Dal quarto verso vi è un brusco mutamento di prospettiva, cambia la voce narrante: dalla terza persona esterna prende la parola proprio il «corpo in poltiglia», che dal titolo sappiamo essere una vedetta morta. Comincia quindi un monologo che rievoca quello dei grandi dannati danteschi:
Frode la terra. Forsennato non piango: Affar di chi può, e del fango. (vv. 4-6)
La vedetta ostenta imperturbabilità, ma dalle sue parole traspare un livore che affiora nel monito rassegnato rivolto a chi dalla guerra è riuscito a salvarsi:
Però se ritorni Tu uomo, di guerra A chi ignora non dire; Non dire la cosa, ove l’uomo E la vita s’intendono ancora. (vv. 7-11)
770 «Come nel rapporto dell’idea al reale lo storicismo declina verso il bergsonismo, così nel rapporto dell’uomo ai molti declina verso una filantropia mazziniana» (G. CONTINI, Due poeti anteguerra: Dino Campana e Clemente Rebora, cit., p. 117). 771 Cfr. M. GIANCOTTI, Lettura di due prose liriche reboriane: Stralcio e Perdono?, cit., p. 70: «Sembra che la scelta dell’oggettività del documentare implichi di per sé una forma espressiva contratta, stravolta nelle regole grammaticali e sintattiche: come se queste parole distorte e accartocciate su se stesse non fossero scelte dall’autore, ma pretese dalla realtà sconvolta della guerra. È così che il massimo arbitrio stilistico, e la massima escursione espressionistica dalla norma della lingua, diventano il più obiettivo strumento focalizzazione della tragedia». 772 Pubblicata su «La Raccolta», I, 1918, 15 maggio. 773 Il tema della “fratellanza” rievoca il coevo Porto sepolto ungarettiano (1916), ma la tonalità antitetica ne esaspera la brutalità. 774 Pubblicata su «La Riviera ligure», XXIII, 1917, 1 gennaio.
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L’abominio della guerra ha svelato l’inganno della realtà («Frode la terra»): «l’uomo» e «la vita» possono intendersi solo ignorando quanto è accaduto. Perfino nell’atto amoroso tale incompatibilità non può essere superata, anzi è proprio lì che essa emerge più acuta:
Ma afferra la donna Una notte, dopo un gorgo di baci, Se tornare potrai; Sòffiale che nulla del mondo Redimerà ciò ch’è perso Di noi, i putrefatti di qui; Stringile il cuore a strozzarla: E se t’ama, lo capirai nella vita Più tardi, o giammai. (vv. 12-20)
«Soffiale che nulla del mondo redimerà ciò ch’è perso di noi, i putrefatti di qui»; non v’è più traccia del programma solidaristico proposto nel primo dei Frammenti («Vorrei palesasse il mio cuore / Nel suo ritmo l’umano destino, / E che voi [bella gagliarda bontà] diveniste […] / L’aria di chi respira / Mentre rinchiuso in sua fatica va», vv. 23-29).
c) Dal frammento alla prosa.
La maggior parte dei componimenti di guerra sono prose. La prosa lirica era una forma inedita per Rebora, sebbene non lo fosse per l’ambiente vociano da lui frequentato. Si nota infatti una minore familiarità rispetto alla poesia, una sperimentazione alle volte incompiuta e acerba nella ricerca di una forma che esprimesse con maggior efficacia la materia trattata. Il metro, per quanto libero, comporta infatti una compostezza che può stonare con l’esperienza sconvolta della guerra. La prosa reboriana è lirica, anche per ritmo e architettura retorica, ma la veste è apparentemente meno governabile rispetto a quella poetica; si riconosce spesso una versificazione interna che distende un ritmo a tratti anche molto regolare, ma sempre intemperante, debordante.
L’esempio più compiuto di questo tentativo si ha con la prosa intitolata Perdòno?, pubblicata sulla «Brigata» nell’aprile del ’17. Dopo una concisa e deturpante ouverture paesaggistica, un intero paragrafo è dedicato alla minuziosa e macabra descrizione di un cadavere che ha fatto per una notte da giaciglio al poeta.
Stralunò il giorno. Allora, scrollandomi in piedi, mi volsi al giacile, ov’ero ammainato a dormire. Fungaia d’un morto saponava la terra, a divano.
Il cantilenante ritmo anapestico irretisce il lettore, e il linguaggio esasperatamente espressionistico dà forma a un’immagine ripugnante:775
Forse tre settimane. Schizzava il corpo, in soffietto, dai brandelli vestiti; ma ingrommata la testa, dal riccio dei peli spaccava alla bocca, donde lustravano denti scalfiti in castagna rigonfia di lingua. E palude d’occhi verminava bianchiccia, per ghirigori lunari.
Al termine della descrizione affiora l’io lirico, e il tono cambia per qualità e ritmo divenendo a tratti dolce e malinconico:
Feci come per tergerlo al cuore – ma viscido anche il mio cuore. Perdòno? Diedi come a fasciarlo di sguardi – ma senza benda i miei sguardi. Perdòno? Mamma – era un cosino che faceva pipì, una stella, da bimbo. Perdòno?
775 Il ritmo regolare, il violento consonantismo e la materialità del soggetto sono elementi che suggeriscono la declamazione del brano.
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L’impotente tentativo risolutore è scandito dal ritornello «Perdòno?»; da qui il poeta prende le mosse per sviluppare un pensiero universale sul contrasto fra la misteriosa unicità dell’io e la sua finitezza:
Era per sé irriproducibilmente creato; viveva: e forse gliela volevi tu, sorte, una donna. Perdòno? Indicibile uno, strappato al segreto suo vivo, per sempre finito; se per la gente a venire, in grandezza caduto – l’immemore tempo è nessuno, e non cade. Perdòno?
Ma in trincea non c’è spazio per pensieri tanto profondi, e la chiusa, formata dall’unico rigo separato dal resto della prosa, è spietatamente aritmica: una cadenza irrisolta e dissonante, un ordine esterno e perentorio in presa diretta che tronca brutalmente la riflessione del poeta e riporta il lettore alla nuda realtà:
«Staccatelo e seppellitelo qui. Via svelti!»
Una simile prosa poetica, polifonica e drammatizzata, da una parte mantiene l’inconfondibile accento stilistico reboriano, dall’altra documenta la novità che l’esperienza della trincea ha provocato nel linguaggio del poeta, e che lo condiziona anche nella stesura dei Canti anonimi (“anonimi”, appunto) del 1922.
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