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di Fabio Libasci
«E LA TERRA TUTTA TREMAVA». LA GRANDE GUERRA NEL RACCONTO DI UN RAGAZZO DEL ’99
di Fabio Libasci
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Ci sono vite talmente interessanti che prima o poi decidono di farsi storie, quelle storie, poi, se a scriverle è Vincenzo Rabito, un semianalfabeta, possono diventare un caso, un unicum di cui varrebbe la pena raccontare la fabula. Rabito, classe 1899, tra il 1968 e il 1975 si chiude in casa e ostinatamente piegato su una vecchia Olivetti traccia la sua vita epica in una lingua tortuosa, magica, scavata negli eventi e nella storia, nella memoria di un uomo che non è mai andato a scuola. Scrive come sente, scrive fitto; né capoversi né capitoli ma un tessuto che si distende per metri e metri fino a coprire la superficie della propria vita e insieme quella della propria terra con le sue vicende, le sue storie e la sua Storia. Di quelle 1027 pagine di dattiloscritto nella versione Einaudi ne possiamo leggere 411. Sono pagine di rara bellezza barbara. Sono segni che lasciano il lettore in preda a una febbre. Come leggerle? Sono le pagine di un “capolavoro impossibile”, come suggerisce la nota dell’Editore?807 O, sono le pagine di un desiderio: raccontare con semplicità e a tutti le proprie esperienze di vita, come suggeriscono i curatori?808
Che Terra matta sia tutto questo, lo si capisce dalle prime pagine e ancor di più nella vasta porzione di pagine dedicate alla Grande guerra. Sono proprio quelle pagine ad avermi affascinato già alla prima lettura, sono quelle pagine che mi hanno spinto a indagare e a interessarmi a questa scrittura, infine a chiedermi cosa e come poteva scrivere della guerra un semianalfabeta della terra matta di Sicilia. Ho perciò proceduto leggendo talune antologie alla ricerca di esempi analoghi ma nulla o quasi vi trovai. L’Italia, e bastava leggere Asor Rosa per averne una prima ma importante conferma, non ha «espresso nessuna di quelle opere che hanno fondato la loro universale fortuna sulla deprecazione degli orrori bellici e sulla condanna della Prima guerra mondiale».809 E per il critico marxista questo non si può attribuire al caso. La condanna popolare della guerra non trova espressione nella letteratura; gli scrittori populisti, oggetto d’indagine del critico e campo di ricerca mio per qualche analogia col caso Rabito, sono a favore della guerra letta ora come risorgimentale ora come una guerra su cui basare un futuro riformismo ma mai arrivarono a preferire la pace per quel popolo tanto ammirato.
Rabito di tutto ciò non sa nulla e lo si capisce leggendo le sue pagine; di compiere un impegno non gli interessa. La patria è lontana e odiata, vituperata e infine accettata a malincuore e scritta con la maiuscola, sempre. Nulla, però, del dannunzianesimo furore traspare, nulla del pascoliano amore per i contadini sottomessi ma armoniosi, nulla, infine, degli umili manzoniani. La guerra è per Rabito miseria, miseria e disperazione per la madre senza marito che perde con i due figli maggiori, Vincenzo e “Ciovanne” chiamati dalla patria, la sua reale fonte di sostentamento. Per il diciassettenne è chiaro che «il ladro governo ni ha chiamato per antare a farene ammazare»,810 ancora più chiaro sarebbe stato il conforto: la bestemmia.811 Rabito nelle pagine che seguono la presa di Monte Fiore non smette di imprecare contro quella patria madre; senza retorica alcuna né cedimento il settantenne ora può scrivere, a proposito della paga da soldato, «era la butana Madre Patria che ci doveva pagare con 12 solde al ciorno e senza darece un soldo alle famiglie che morevino di fame»812 e ancora sulla censura e la riconoscenza verso i combattenti dice:
807 Nota dell’editore, in V. RABITO, Terra matta, Torino, Einaudi, 2007, p. V, 808 Nota dei curatori, in ID., Terra matta, cit., p. 7. 809 A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo, Einaudi, Torino, 1988 [1965], p. 73. 810 V. RABITO, Terra matta, cit., p. 20. 811 Ivi. p. 23. 812 Ivi. p. 62.
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…e tutte li parole scritte erino scancellate. E quelle che scrivemmo noie, quelle che dicevino: «Cara madre, stiammo bene e servemmo la Padria con tutto il cuore», la cenzura li lasciava passare, queste lettere, e lassava passare più presto quelle che scrivevino: «Cara madre, io voglio morire per la padria». E ora questa desonesta padria, doppo 50 anne di aspetare questo recalo che ci ha promesso di una fedenzia di lire cinque al mese, quelle desoneste più di prima non ci li vogliono dare, desgraziate e cornute! E ancora hanno la sfaciatagine di dire: «Padria«, che sono delinquente, che io, se muoro, quello che l’ultima parola che io ce devo dire è: «Sputatece a questa patria, perché non hanno coscienza per i combatenti della querra 15-18»!813
Ancora alla fine della guerra i sentimenti del giovane Rabito, nonostante la vittoria, non sembrano mutati, alcuno effetto sembra quella vittoria avere avuto sul racconto, nemmeno a distanza di cinquanta anni, «qualcuno magare moreva per la “crantezza della nostra Padria!” Che la “Padria ancora aveva bisogno di noie!” E quinte, “se se moreva per la Padria, non zi moreva!” […] Quinte, erino belle parole “morire di aroie”, ma erino parole che facevino compiare li coglione, se tutte la penzavino come la penzava io».814 Siamo di fronte a uno di quei casi in cui tutta la retorica della patria e dell’eroe, il “mito della patria e dell’eroe” secondo le parole di Guccini,815 si sgretola; in frantumi va l’ideologia di fronte a un soldato del ’99 che a quattordici mesi dalla fine della guerra ancora è sotto le armi e se ne frega di morire da eroe, di essere stato o essere un ardito. La retorica è messa tra virgolette, citata; è il discorso ufficiale che Rabito cita senza aderirvi, anzi nega il valore di quelle frasi con la chiusa che emette un giudizio insindacabile ma personale. Rabito, infine, ci lascia col dubbio che magari qualcuno poteva pur esserci che invece aderiva a quel discorso. Lontanissime sembrano essere le pagine di Jahier e del suo Con me e con gli alpini, lontana l’esaltazione del contadino-combattente che accetta il massacro della guerra per un ideale più alto.816 Si dirà che Rabito non è un montanaro come i protagonisti di Jahier e si dirà che Rabito non è certo un intellettuale che prova simpatia per il popolo. Proprio per questo si consentirà di credere di più alla sua prosa bassa. Prima di procedere con qualche altra campionatura, vorrei convocare qui un autore che ci può aiutare a dire qualcosa in più sullo “stile Rabito”: Bachtin.
La certezza di trovarci di fronte a un oggetto artistico originale, a un artigiano della parola ce lo consente. Siamo perfino tentati di chiamare Terra matta un romanzo autobiografico pluridiscorsivo. Che cosa fa la lingua di Rabito, in fondo, se non il verso alla lingua ufficiale, l’italiano? Alle narrazioni ufficiali? Alle voci ufficiali? Dalla periferia della sua Terra matta, Rabito mette in scena il suo universo; si contrappone forse inconsapevolmente alla lingua letteraria; parodia e polemizza contro la lingua, la sua morfologia e la sua sintassi e contro la cultura che in essa si esprime. Certo, occorre fare attenzione nell’uso delle categorie introdotte dallo studioso russo. Non siamo certo convinti né possiamo provare che Rabito quando dà la parola agli innumerevoli personaggi, dai semplici soldati agli alti graduati, stia producendo il discorso altrui in lingua altrui817 anche se qualche piccolo esempio siamo in grado di fornirlo. Siamo in trincea e Vincenzo viene affidato a un soldato più grande, “Cianpietro” calabrese, «io sono calabrise. E la Sicilia e la Calabria, mannaia alla Madonna, ci capiemmo subito».818 L’espressione “mannaia alla madonna” è tipicamente calabra; è la lingua dell’altro, il suo universo che Rabito attraverso quell’espressione ha inteso rappresentare. Che Terra matta possa essere davvero inteso come romanzo è ancora Bachtin a confermarlo: il romanzo antico o greco è un romanzo di avventure e di prove e Rabito come tali sembra vivere la vita di trincea, la battaglia sull’Asiago o sul Piave.
813 Ivi. p. 63. 814 Ivi . p. 135. 815 Cfr. La canzone Dio è morto. 816 Cfr. A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo, cit., p. 76-78. 817 Cfr. M. BACHTIN, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p. 133. 818 V. RABITO, Terra matta, cit., p. 50.
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Nella porzione di Terra matta che a noi interessa si può facilmente vedere che quale che sia il pericolo la bussola per Rabito è sempre la salvezza personale e il guadagno di qualche soldo da mandare a casa; rischiare ma non troppo. Ciò resta immutato durante il corso della guerra. Abbiamo visto che ideologicamente il nostro protagonista resta assai impermeabile alla propaganda e se combatte, lo fa più per paura di essere ucciso che per uccidere, più per quelle poche lire al giorno e per quel rancio che per la patria, «più non erimo soldate crestiane, ma erimo deventate pazze. Che magare certe volte ni sparammo tra noi, perché non sapiammo dove era il nemico, perché c’erino tante spieie austriache e tedesche che sapevino parlare italiano […]. È per questo che ci ammazammo tra noi, perché non sapemmo che era il nemico nostro».819 Il vero dovere è non morire; ad ogni battaglia, ad ogni nottata superata si produce un’epifania, il segno che il destino non è avverso, che anche questa volta la morte è toccata in sorte a un altro. Anche alla morte di Cianpietro a prevalere è la sensazione che dopo tutto in quell’inferno la vita pur lisa e sbrindellata come quella divisa ancora se la porta addosso. La morte più che mai nella trincea convive con la vita, non vi prende il sopravvento. Rabito la guarda in faccia, condivide con il lettore il puzzo di quei morti, la speranza che la neve conserva quei corpi, che i loro odori non intossichino i becchini nell’ora del seppellimento.
Quando Rabito ci parla, infine, di Asiago e del Piave, laddove per l’importanza del racconto ci si aspetterebbe il tono epico, vi ritroviamo il romanzesco, la familiarizzazione, il riso,820 il superfluo, «ci facevino caminare macare con la pancia a strescione per terra e paremmo tante maiale, e sempre facento tante corse e senza levarene li scarpe maie maie, e senza capiarece maie la biancheria»,821 il punto di vista e l’ironia «e così, come dice la storia, si hanno destinto li ragazze del 99, che ci hanno portato tutte nel piave cridanto: “Di qui non si passa!”. Perché noi ciovene del 99 erimo più sincere per fare la querra, perché l’abiammo defeso per davero la padria, perché quelle che avevino fatto 2 anne de querra erino più furbe per scapare per non si fare ammazare, come hanno scappato nella retrata di Caporetto».822 Per Bachtin il riso,
ha la forza straordinaria di avvicinare l’oggetto; esso introduce l’oggetto in una zona di brusco contatto, dove si può familiarmente tastarlo da tutte le parti, capovolgerlo, rivoltarlo, guardarlo dall’alto e dal basso, spezzarne l’involucro esteriore, gettare uno sguardo nel suo interno, dubitarne, scomporlo, smembrarlo, denudarlo e smascherarlo, studiarlo liberamente, sottoporlo a esperimento. Il riso distrugge la paura e il rispetto di fronte all’oggetto.823
L’ultimo esempio convalida quanto viene dette in queste frasi dallo studioso russo. È il 4 novembre, giorno dell’armistizio; il nostro narratore-eroe è testimone di un evento storico, vede passare in rassegna i grandi ufficiali, il maresciallo d’Italia Diaz, i generali e gli austriaci a testa bassa, «così, ci hanno fatto l’adunata, sempre senza rancio, e hanno chiamato l’apello per vedire che era asente. Poi, ci hanno detto che chi ave li callette e li scatolette si li mancia, e quelle che non ci n’abiammo manciammo questa mincia, e ci dovemmo contentare che avemmo vinto la querra. E tutte ci abiammo quardate in faccia e tutte diciammo: “ancora manciare per noi non ci n’è. Abbiamo vinto la querra e abiamo perso il manciare!”».824
Ho provato e non certo in modo esaustivo a parlare di un testo scritto in una lingua indomabile; ho provato a inseguirlo nella cornice della letteratura italiana e ho provato infine e con qualche imprecisione che mi sarà perdonata a parlare di Terra matta come di un romanzo autobiografico dove il narratore è l’eroe delle avventure raccontate; dove ogni avvenimento «perde
819 Ivi, p. 78. 820 Cfr. M. BACHTIN, Epos e romanzo, in G. LUKÁCS, M. BACHTIN et alii, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 194-195. 821 V. RABITO, Terra matta, cit., p. 45. 822 Ivi. p. 77. 823 M. BACHTIN, Epos e romanzo, cit., p. 203. 824 V. RABITO, Terra matta, cit., p. 119.
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la compiutezza, la desolante finitezza e immutabilità che gli erano intrinseci nel mondo dell’epico passato assoluto».825 Rabito mette in scena e con forza la problematicità che Bachtin individua essere propria del romanzo: l’eterna reinterpretazione, cioè rivalutazione. Nella porzione da noi analizzata si tratta della Grande Guerra, del mito della guerra nelle parole di uno dei tanti ragazzi del ’99.
E certo non sapremo mai quale impatto avrebbe avuto nel mondo delle patrie lettere se Terra matta fosse stato scritto e pubblicato all’indomani della Grande Guerra, diciamo verso il ’20 magari contemporaneamente al testo di Jahier; e non sapremo mai se Terra matta avrebbe potuto vedere la luce nel ’19 o ancora nel ’20. Forse è giusto che le circostanze fortuite abbiano deciso che Rabito scrivesse questo romanzo autobiografico, intriso di realismo meraviglioso, solo alla fine della sua vita e forse è giusto che il grosso faldone abbia aspettato paziente ancora un ventennio per essere conosciuto e poi pubblicato. Non deve essere, al contempo, giudicata erronea o superflua la sua difficile lettura né inutile queste parole scritte a un secolo di distanza, ora che quei giovani del ’99 sono tutti seppelliti accanto ai loro compagni morti in battaglia troppo giovani, troppo presto, troppo velocemente per lasciare una parola come testimone.
825 M. BACHTIN, Epos e romanzo, cit., p. 210.
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