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La regione del Corno d’Africa, valenza strategica e presenza militare

La fregata ALPINO in manovra nel

porto di Gibuti. Impegnata sin dal 2005 nelle operazioni antipirateria, la Marina Militare è diventata ormai una presenza costante e affidabile negli spazi marittimi del Corno d’Africa.

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Nell’ultimo decennio, la regione del Corno d’Africa ha registrato un aumento sostanziale degli schieramenti militari stranieri, un fenomeno peraltro in essere sin dall’inizio del XXI secolo e che vede protagonisti un’ampia gamma di realtà statuali e non, a livello locale e internazionale. Infatti, alle forze militari — peraltro contenute — delle nazioni presenti nella regione, si aggiunge una nutrita presenza militare straniera, comprendente sia infrastrutture terrestri (basi, porti, piste di atterraggio, campi di addestramento, strutture semi-permanenti e hub logistici), sia Forze navali schierate in permanenza e a cadenza periodica in questa strategicamente importante porzione dell’Oceano Indiano occidentale. La valenza marittima dello schieramento militare è, infatti, rappresentata da due elementi correlati: la proliferazione di strutture militari nelle zone costiere lungo il Mar Rosso e il Corno d’Africa e la crescente presenza di Forze navali attorno allo stretto di Bab-el-Mandeb, all’ingresso meridionale del Mar Rosso e nel Golfo di Aden. La motivazione geopolitica di questo fenomeno risiede nella configurazione della regione. Sotto il profilo geografico, il Corno d’Africa è abitualmente associato a quattro entità statuali — Eritrea, Etiopia, Gibuti e Somalia — in cui le condizioni di sicurezza sono inficiate da un elevato livello d’instabilità, dovuta a contrasti sui confini e sulle risorse idriche e alimentari e a rivalità tribali e che nel caso della Somalia hanno portato a una frammentazione del potere politico-militare e alla presenza indisturbata di agguerrite fazioni terroristiche di matrice religiosa. L’unica eccezione a questa regola è Gibuti, nodo di transito marittimo geostrategico fra l’Europa e il continente asiatico e dal cui porto affacciato sul Golfo di Tagiura transitano annualmente da 1.000 a 1.700 unità mercantili, in prevalenza dedicate al trasporto di materie prime energetiche quali petrolio greggio e gas naturale (1).

Poiché le Forze militari straniere presenti nell’area operano normalmente in un contesto interforze e anche internazionale, la regione del Corno d’Africa si può definire come uno spazio di sicurezza composto dalle quattro entità statuali citate in precedenza e da nazioni quali Kenya, Seychelles, Sud Sudan e Sudan, in aggiunta ad aree marittime di rilievo quali il Mar Rosso meridionale e i già citati Golfo di Aden e Stretto di Bab-el-Mandeb. Inoltre, i reparti militari stranieri dispiegati al di fuori di questo spazio di sicurezza operano in un contesto extraregionale che parte dal Sahel, abbraccia anche il Golfo Persico e giunge fino ai margini dell’Oceano Indiano occidentale, ma lavorano a stretto contatto con altre forze e infrastrutture fisicamente presenti nel Corno d’Africa. Pertanto, pur avendo concentrato l’analisi di quest’ultimo complesso di risorse su questa regione, non si devono disconoscerne sia i legami con quella del Golfo Persico,

Mappa generale, risalente al 2019, della regione del Corno d’Africa (e del Golfo Persico) in cui sono rappresentate le principali infrastrutture presenti a Gibuti e nelle nazioni limitrofe, nonché le numerose Forze navali multinazionali operanti nei teatri marittimi (H. Ahlenius, Nordpil).

sia la sua appartenenza al più ampio contesto del Mediterraneo allargato: l’analisi è stata eseguita rispettando l’ordine alfabetico, dando priorità alle nazioni che a Gibuti dispongono di strutture fisse.

Le mosse di Riad

Grazie anche alla sua lunga costa occidentale sul Mar Rosso, l’Arabia Saudita ha notevolmente aumentato la sua presenza militare nel Corno d’Africa, legata al conflitto nello Yemen, dove Riad opera contro i ribelli sciiti Houti. Reparti militari sauditi erano inizialmente basati a Gibuti, ma dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra quest’ultima Repubblica e gli Emirati Arabi Uniti (2015), l’Arabia Saudita ha cercato altre opportunità altrove, in particolare nel porto di Assab in Eritrea, nonché potenziando il proprio dispositivo militare incentrato su Jeddah. Nel 2016, l’Arabia Saudita ha concluso un accordo di sicurezza con Gibuti, finalizzato alla realizzazione di una base militare, aperta solamente nella primavera del 2021; la consistenza

delle Forze militari ivi dispiegate non è nota, ma è presumibile che la loro funzione si sostanzia al supporto tattico e logistico per i reparti in azione nello Yemen, al largo del quale l’Arabia Saudita ha mantenuto una significativa presenza navale.

La presenza francese

La Francia è presente a Gibuti sin dall’istituzione del protettorato risalente al 1883-87. Dopo l’indipendenza ottenuta da Gibuti nel 1977, Parigi ha mantenuto diverse infrastrutture e una discreta guarnigione militare, evolutasi nelle «Forces Françaises stationnées à Djibouti», FFDJ e che rappresenta il più grande contingente permanente di forze francesi nel continente africano. La presenza delle FFDJ rientra nel trattato di cooperazione per la difesa tra la Francia e la Repubblica di Gibuti, in vigore dal 1o maggio 2014, dopo che il Libro Bianco della Difesa e Sicurezza del 2013 aveva assegnato una valenza strategica alla presenza permanente di Forze militari nella regione. Nel tempo, il numero dei militari francesi ivi dislocati è diminuito da 4.300 nel 1978 all’attuale livello di circa 1.450, inquadrati nel 5o Reggimento interforze d’oltremare, di cui fa parte un distaccamento di forze speciali su base periodica e un’aliquota di mezzi blindati: a Gibuti vi è inoltre una base aerea con velivoli ed elicotteri da combattimento e da trasporto, una base navale e un centro d’addestramento per le operazioni in ambiente desertico. Le infrastrutture vere e proprie sono situate a nord dell’aeroporto internazionale di Gibuti-Ambouli, mentre la base navale si trova a Hèron, nella zona settentrionale del porto, in una posizione defilata rispetto alle banchine normalmente impiegate da unità navali di altre nazioni in azione o in transito nella regione. A Hèron sono distaccati circa 60 militari della Marine Nationale, per dare assistenza alle circa 50 navi da guerra francesi (fra cui anche sottomarini d’attacco a propulsione nucleare) in sosta ogni anno a Gibuti e a fornire protezione diretta su specifiche unità navali; la sicurezza della struttura è responsabilità di ulteriori 30 militari specializzati e dispiegati a rotazione.

Il compito principale delle FFDJ riguarda l’impiego in caso di crisi nel Corno d’Africa e nelle sue adiacenze, compreso il dispiegamento nell’Oceano Indiano e nell’intero Medio Oriente, con un reparto di pronto intervento responsabile della protezione di cittadini e interessi francesi nell’area; fra i compiti delle FFDJ vi sono anche la difesa della sovranità territoriale di Gibuti, il supporto alle operazioni NATO e UE nell’area — in primis quelle connesse al contrasto della pirateria marittima — e la protezione dei traffici commerciali marittimi. La base francese ospita periodicamente anche distaccamenti militari spagnoli (2), nonché lo staff logistico dell’operazione UE «Atalanta». A carico

Unità navali della Marina francese nella base navale di Hèron nella zona settentrionale del porto di Gibuti (Comando FFDJ). In alto: la componente navale delle «Forces Françaises stationnées à Djibouti», FFDJ, comprende circa 60 militari per dare assistenza alle circa 50 navi da guerra della

Marine Nationale (qui inquadrata la fregata GEORGES LEYGUES) in

transito e in sosta ogni anno a Gibuti, nonché a fornire protezione diretta su specifiche unità navali (Comando FFDJ).

delle FFDJ sono anche le attività addestrative a favore di Forze militari di alcune nazioni africane e il supporto alle operazioni multilaterali e bilaterali condotte in Africa e a cui partecipa Parigi (3).

Dalla Germania e dal Sol Levante

Fra i contingenti permanenti di consistenza contenuta che stazionano a Gibuti vanno annoverati quelli di Germania e Giappone. Il personale tedesco non supera normalmente 80 elementi ed è ospitato nelle stesse infrastrutture di quello francese, testimoniando dunque anche nel Corno d’Africa un’alleanza politico-militare radicata nel cuore del Vecchio Continente. La Germania è coinvolta militarmente nella regione sin dal 2011, dai tempi dell’inizio delle operazioni contro le organizzazioni terroristiche di matrice islamica, ma la sua attenzione si è poi concentrata sull’operazione «Atalanta», con il dispiegamento non permanente di un velivolo da pattugliamento marittimo P-3C «Orion», utilizzato essenzialmente per missioni di sorveglianza e ricognizione.

La presenza del Giappone a Gibuti risale a tempi più recenti di quella tedesca, ma ha assunto una dimensione più ampia. A partire dal 2009, unità navali giapponesi partecipano regolarmente alle operazioni antipirateria del Golfo di Aden, supportate da due velivoli basati nel comprensorio statunitense di Camp Lemonnier, esaminato più avanti. Nel 2011, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale e a seguito di alcuni provvedimenti legislativi approvati dal parlamento di Tokyo, Forze militari giapponesi sono basate in permanenza in una nuova infrastruttura situata a ovest rispetto a quella francese, dotata di hangar e in grado di ospitare circa 200 militari. Col passare del tempo, le funzioni e le dimensioni della base giapponese si sono evolute oltre il mandato iniziale per comprendere anche l’assistenza e il soccorso a cittadini giapponesi vittime di attacchi terroristici e di violenze tribali (4) e al personale nipponico impegnato nella missione ONU nel Sud Sudan. Negli anni scorsi, in virtù di una postura più attiva assunta da Tokyo in tema di difesa e sicurezza anche al di là dei confini nazionali, la base giapponese a Gibuti è stata ampliata al fine di potenziarne le capacità di supporto militare e addestrativo: tuttavia, a causa delle limitazioni tuttora presenti nella Costituzione nipponica e al di là di un miglioramento qualitativo delle risorse aeree destinate alle operazioni antipirateria, la presenza nipponica a Gibuti assume un valore più politico che militare e s’inserisce nel contesto della cooperazione strategica con gli Stati Uniti e delle misure per controbilanciare la penetrazione in Africa della Repubblica Popolare Cinese (5).

La BMIS italiana

La prima missione militare italiana per il contrasto alla pirateria marittima risale al 2005, quando il pattugliatore di squadra Granatiere fu inviato al largo della Somalia in una missione all’epoca denominata «Mare sicuro» (6). Dopo che l’impegno della Marina Militare nella regione del Corno d’Africa, inquadrato nell’operazione «Atalanta», divenne praticamente continuativo, nel 2013 fu costituita la Base Militare Italiana di Supporto, BMIS, con la scelta di Gibuti motivata dal fatto che l’area è un crocevia strategico per le linee di co-

L’ex ministro della Difesa giapponese, Tomoni Inada, ripresa durante una visita alla base nipponica a Gibuti, svoltasi nella primavera del 2017. Il contingente militare giapponese è formato da circa 200 militari (Japan MoD). In alto: pattugliatori marittimi P-3C «Orion» della Marina giapponese schierati a Gibuti e impiegati per la sorveglianza antipirateria delle principali linee di comunicazione marittima della regione (JMSDF).

La targa all’ingresso della Base Militare Italiana di Supporto (BMIS) a Gibuti, costituita nel 2013 e intitolata al tenente MOVM Amedeo Guillet (difesa.it). In alto: personale dell’Esercito italiano della BMIS prepara un’operazione militare. La base può ospitare fino a 300 effettivi ed è soprattutto impegnata al supporto delle operazioni aeronavali nella regione del Corno d’Africa (difesa.it). Al centro: due ufficiali della fregata

BERGAMINI illustrano le sistemazioni della plancia al personale della

Guardia costiera gibutiana; la diplomazia navale è uno dei compiti affidati alla Marina Militare in azione nelle acque del Corno d’Africa.

municazione marittima che dal Mediterraneo sono dirette, attraverso il Canale di Suez, verso il Golfo Persico, il Sud Est asiatico, il Sudafrica e viceversa. Anche la BMIS è situata nei pressi dell’aeroporto internazionale di Gibuti-Ambouli, a ovest rispetto a Camp Lemonnier, ed è stata intitolata al tenente Amedeo Guillet (7): in grado di ospitare fino a 300 effettivi e al comando di un colonnello o di un capitano di vascello, la base è impegnata soprattutto al supporto delle operazioni aeronavali nella regione del Corno d’Africa, nonché a soddisfare le esigenze logistiche degli assetti nazionali in transito sul territorio di Gibuti e a quelli impegnati in operazioni nell’area (8). Fra le attività della BMIS vanno ricordati l’addestramento delle Forze di polizia di Gibuti, a cura di un contingente di Carabinieri e l’impiego, a cura di un reparto dell’Aeronautica Militare, di velivoli a controllo remoto MQ1 «Predator» per la sorveglianza aeronavale.

L’avamposto del Dragone

Sebbene la Repubblica Popolare Cinese avesse avviato relazioni commerciali con nazioni africane già alcuni decenni orsono, una svolta significativa politico-militare è maturata nel 2008, con l’inizio delle missioni antipirateria nel Golfo di Aden e con il mantenimento di una presenza navale ininterrotta nella regione del Corno d’Africa che ha avuto come corollario strategico l’apertura, ad agosto 2017, della base militare a Gibuti. Nel 2011, l’importanza di un caposaldo nella regione era divenuto evidente, quando fu necessario evacuare via mare e per via aerea 35.000 cittadini cinesi bloccati in Libia; a maggior ragione, Gibuti assunse un significato strategico nel 2015, quando la Marina cinese evacuò 500 cittadini dallo Yemen, impiegando una fregata e il porto gibutino per rimpatriarli. La base militare cinese a Gibuti è ufficialmente impiegata per il supporto logistico agli impegni dei reparti militari di Pechino coinvolti nelle missioni antipirateria e di peacekeeping in ambito ONU, nonché per la protezione delle crescenti risorse umane e infrastrutturali che la Repubblica Popolare Cinese ha creato e sta creando oltremare, nell’ambito della direttrice marittima dell’iniziativa politica meglio nota come Belt & Road Initiative (BRI). Situata a occidente del centro urbano di Gibuti, la base militare cinese si trova a ridosso della zona portuale

La cerimonia di inaugurazione della base militare della Repubblica Militare Cinese, avvenuta nell’agosto 2017: prevalente la presenza di divise bianche (Xinhua). In alto: la cartina mostra i tre progetti di sviluppo finanziati da Pechino sul territorio gibutiano al fine di facilitare la realizzazione della propria base militare: si tratta della ferrovia fra Gibuti e l’Etiopia, di un centro per la raccolta di informazioni governative e delle infrastrutture portuali a Doraleh (OpenStreetMap & ESA Sentinel).

di Doraleh, in cui sono in corso lavori di potenziamento infrastrutturale finalizzati alla creazione di una vera e propria base navale in grado di ospitare anche portaerei: le immagini satellitari mostrano edifici per lo stoccaggio di combustibile, armamenti e munizioni, oltre che officine di manutenzione per unità navali e velivoli, mentre la presenza di altre aree edificabili suggerisce che la base potrebbe ospitare fino a 10.000 militari. La sorveglianza satellitare e diversi elementi provenienti da fonti cinesi non classificate evidenziano alcune delle capacità e delle potenzialità della base cinese di Gibuti, per esempio depositi sotterranei di combustibile e munizionamento, una pista lunga 400 metri, diversi hangar e una torre di controllo, una decina di edifici adibiti ad alloggi, due vie d’accesso alla base e un perimetro di sicurezza multiplo.

Appare evidente che la base cinese a Gibuti rientra nel quadro del potenziamento infrastrutturale intrapreso da Pechino a partire dal Mar Cinese Meridionale e proseguito lungo l’Oceano Indiano, teatro marittimo di una crescente presenza militare cadenzata lungo il cosiddetto «filo di perle», di cui fanno parte anche strutture in Birmania, Pakistan e Sri Lanka e, potenzialmente, altre nazioni africane, un potenziamento finalizzato a far assurgere la Repubblica Popolare Cinese nel breve-medio termine a potenza marittima interregionale e successivamente globale (9).

Gli Stati Uniti a Camp Lemonnier e altrove

Gli Stati Uniti sono calati in forze a Gibuti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, con l’obiettivo di combattere la minaccia terroristica in prossimità delle possibili aree stanziali del nemico. Proprio al 2001 risale la realizzazione di Camp Lemonnier, diventata una base expeditionary dell’US Navy e successivamente sede della «Combined Joint Task Force-Horn of Africa»,

CJTF-HOA, avente responsabilità operativa e d’intervento su Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Seychelles, Somalia e Sudan, nonché di operazioni condotte pure nelle isole Comore e Mauritius e in Liberia, Ruanda, Tanzania e Uganda (10). Nel corso della sua esistenza, Camp Lemonnier è stata ampliata e potenziata in relazione al crescente coinvolgimento, anche di natura «covert», di reparti militari statunitensi nella regione del Corno d’Africa e in quelle limitrofe. Situate a ridosso dell’aeroporto internazionale di internazionale di Gibuti-Ambouli (la cui pista è stata adattata per le operazioni dei principali velivoli da trasporto dell’USAF), le infrastrutture sono distribuite in una superficie di 500 acri, estesa fino alla costa orientale di Gibuti e tale da permettere anche le operazioni con i mezzi da sbarco a cuscino d’aria in dotazione a tutte le unità anfibie dell’US Navy. Gli alloggi e le relative sistemazioni logistiche possono accogliere su base permanente circa 4.000 militari inquadrati nel CJTFHOA, anche se è verosimile che in circostanze particolari Camp Lemonnier ospiti un maggior numero di persone, soprattutto quando sono in corso operazioni di natura particolare. In effetti, la base è stata concepita per accogliere un’ampia gamma di reparti terrestri, aerei e navali, compreso il rischieramento di velivoli da combattimento F-15E e F-16, aviocisterne e altre risorse impegnate in operazioni condotte nello Yemen e nel Sud Sudan.

Fisicamente separata da Camp Lemonnier e situata a sudovest di quest’ultima, ma sempre in territorio gibutiano, vi è la base aerea di Chabelley, un’infrastruttura aggiuntiva resasi necessaria per soddisfare i requisiti sempre crescenti di ricognizione e strike contro obiettivi sensibili nella regione. Di conseguenza, la base è diventata la sede degli UAV «Predator» e «Reaper», spesso impegnati in operazioni sotto il controllo

Foto satellitare di Gibuti in cui sono indicati i perimetri approssimativi di alcune infrastrutture di nazioni straniere, in particolare Stati Uniti (Camp Lemonnier, in giallo), Francia (la base aerea in prossimità dell’aeroporto internazionale e quella di Chabelley, in viola), il comprensorio giapponese (in verde) e la base militare della Repubblica Militare Cinese (in località Doraleh, in rosso) (Google Earth). In alto: una foto aerea degli hangar e del piazzale principale dell’aeroporto di Chabelley, dove sono visibili numerosi velivoli a controllo remoto; la base è impiegata da Stati Uniti, Francia e Italia (SIRPA, FFDJ).

del Joint Special Operations Command, JSOC, e della CIA: sorta in poco tempo in un ambiente desertico isolato e perciò facilmente controllabile, la base dispone di una pista lunga circa 2 chilometri e risulterebbe saltuariamente utilizzata anche da UAV francesi e italiani, ma non sono note le sue capacità logistico-alloggiative. Il collegamento comunque esistente fra Chabelley e Camp Lemonnier ha reso quest’ultima il fulcro di un’architettura operativa di sorveglianza e strike estesa

I dromedari condividono con un Hover Craft dei Marines statunitensi la spiaggia che funge da confine orientale alla base di Camp Lemonnier, la più grande esistente a Gibuti (US Navy).

in tutto il continente africano, oltreché fungere da hub alternato per le operazioni aeree nel Golfo Persico.

Poiché le forze speciali statunitensi operano in tutta la regione del Corno d’Africa, in nazioni prossime a Gibuti sono state realizzate basi operative avanzate, strutture militari con un piccolo contingente statunitense permanente (militari e/o contractors) e attrezzature preposizionate, ma che possono essere rapidamente ampliate per operazioni protratte nel tempo. Distribuite anche in regioni africane lontane dal Corno d’Africa, queste basi sono denominate «Cooperative Security Locations», CSL, e il loro impiego non è ovviamente pubblicizzato come avviene per Camp Lemonnier: in Kenya, esiste da 2004 Camp Simba, una struttura costiera a Manda Bay dotata anche di un aeroporto idoneo alle operazioni dei C-130 e che ospita normalmente circa 250 militari (11). In Somalia, nella zona meridionale del Basso Scebeli, è invece situato Camp Baledogle, 60 miglia a nordovest di Mogadiscio, una base area realizzata per contrastare, con operazioni a cura di UAV, soprattutto le organizzazioni terroristiche fondamentaliste islamiche e per addestrare le forze speciali somale: di conseguenza, la base è stata oggetto di attacchi che sembrano tuttavia non averne scalfito le capacità. Anche in Etiopia vi è una presenza militare statunitense permanente, a Camp Gilbert, a Dire Daua, non distante da Gibuti e anche in questo caso per l’impiego di UAV per sorveglianza e strike contro obiettivi legati al terrorismo fondamentalista.

Proiezione nel Mar Rosso e oltre

Nella regione del Corno d’Africa non poche sono le nazioni che per motivi di geografia, opportunità politicomilitare e indisponibilità di spazio hanno fatto ricorso a forme di presenza sul campo differenti da una base permanente nell’ormai affollata Gibuti. L’Egitto di al-Sisi si pone come baluardo contro l’estremismo islamico, rafforzando le Forze navali, mantenendo il controllo sul Canale di Suez e inaugurando nel 2017 un nuovo quartier generale per l’aliquota della flotta destinata a operare nel Mar Rosso e a cavallo dello Stretto di Bab-el-Mandeb, d’interesse strategico per Il Cairo. Rilevante anche il coinvolgimento nel conflitto yemenita, a cui la Marina egiziana partecipa con il blocco dei porti dello Yemen, soprattutto per contrastare il contrabbando d’armi via mare di provenienza iraniana. Più discreta rimane la presenza di Israele, con due piccoli distaccamenti della Marina a Massaua (Eritrea), in Etiopia e sulle isole Dhalak, a supporto delle stazioni di ascolto e raccolta d’informazioni che monitorano i movimenti delle forze iraniane nella regione, soprattutto verso le coste yemenite (12). Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con Gibuti (2015), gli Emirati Arabi Uniti hanno costruito una pro-

La fregata russa ADMIRAL GRIGOROVICH in banchina a Port Sudan. Mosca sta negoziando con il governo sudanese per la realizzazione di una base

stanziale sulla sponda occidentale del Mar Rosso (Al-Arabya).

pria base militare ad Assab, in Eritrea, dotandola di un aeroporto, ampliando le infrastrutture portuali e realizzando le infrastrutture logistiche per ospitare reparti terrestri alquanto consistenti nonché velivoli da combattimento con cui operare sul fronte yemenita. Negli ultimi anni, la proiezione militare emiratina si è concretizzata anche attraverso la riattivazione e il potenziamento delle infrastrutture di Berbera, nel Somaliland, a suo tempo costruite dall’ex Unione Sovietica e poi abbandonate. La disponibilità economica e gli accordi politici — avversati dal governo di Mogadiscio — permettono agli EAU di finanziare anche programmi di assistenza alle entità simil-statuali somale che condividono gli obiettivi politici di Abu Dhabi: importante è anche una presenza militare sulle isole di Socotra e di Perim, funzionale alle operazioni nello Yemen, ma di cui non è nota l’entità.

Alle infrastrutture sulla costa sudanese sono molto interessate la Turchia e la Russia, con Ankara peraltro già presente a Mogadiscio dal 2017 con una base militare presidiata da 200 militari e formalmente dedicata all’addestramento del personale somalo: un accordo politico fra Turchia e Sudan siglato nel 2017 e di durata venticinquennale prevede fra l’altro la costruzione di un’infrastruttura portuale sull’isola di Sawakin, nei pressi del confine con l’Egitto, utilizzabile da naviglio mercantile e militare e possibilmente associata a capacità aeree. Nonostante Ankara neghi le accuse di espansionismo militare, la mossa turca s’inquadra in un processo di proiezione politica extra-mediterranea, in direzione dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico, giustificato dalla partecipazione della Marina turca alle operazioni antipirateria nel Golfo di Aden e nelle aree marittime limitrofe. Le rivendicazioni geopolitiche di Ankara sono sgradite all’Egitto, all’Arabia Saudita e agli EAU, nazioni a cui si contrappone un fronte comprendente, oltre alla Turchia, Iran e Qatar (13).

A una politica militarmente assertiva nella regione del Corno d’Africa non si poteva ovviamente sottrarre Mosca, ricordando forse il ruolo ivi giocato a cavallo del 1980. Sebbene la presenza navale russa nelle operazioni antipirateria marittima sia stata a carattere non permanente, negli anni scorsi non rare sono state le soste a Gibuti di unità navali russe. Le manovre politiche di Mosca si sono concretizzate nel 2020, con la firma di un accordo generale di cooperazione venticinquennale con il Sudan che, oltre a prevedere massicci interventi di natura «civile», comprende anche la creazione di una base navale a Port Sudan, dove peraltro navi russe hanno sostato in passato durante il trasferimento dal Mar Nero all’Oceano Indiano e viceversa. Tuttavia, nell’estate 2021 sono circolate voci — peraltro minimizzate da Mosca — di una revisione dell’accordo su insistenza delle autorità sudanesi; in attesa di chiarimenti in merito, è possibile soffermarsi su due

aspetti: il primo riguarda l’urgenza per il Sudan di cospicui aiuti finanziari esterni che ne possano sollevare l’economia e la società, distrutte da anni di tribolazioni e lotte tribali e religiose (14). Il secondo aspetto è relativo alla possibilità per Mosca di seguire un approccio non dissimile da quello usato in Siria, con una base a Port Sudan dapprima utilizzata dalla Marina russa solamente per scopi tecnico-logistici e ricreativi, con una presenza di personale inizialmente limitata a 300 uomini, ma successivamente incrementata in accordo con il potenziamento militare della base stessa, destinata a diventare in prospettiva una bolla A2/AD (Anti Access/Area Denial) non dissimile da strutture similari già esistenti a Tartus, in Crimea e altrove.

La dimensione marittima «allargata»

Ormai da vent’anni, le aree marittime che bagnano il Corno d’Africa rappresentano lo scenario d’azione di diverse operazioni aeronavali a livello multinazionale o per iniziativa di determinate nazioni. Si è più volte accennato all’operazione «Atalanta» a guida UE a cui la Marina Militare contribuisce in maniera regolare, così come accadeva con l’operazione «Ocean Shield», a cura della NATO e conclusa nel 2016: l’operazione aeronavale più consistente è la Combined Maritime Forces, CMF, iniziativa a guida statunitense avviata nel 2002 (15) e avente come obiettivi il contrasto al terrorismo, la prevenzione della pirateria marittima, il rafforzamento della cooperazione regionale e la realizzazione di un ambiente marittimo sicuro. La CMF opera tre Gruppi navali multinazionali distinti: la Combined Task Force 150, CTF 150, con compiti antiterrorismo e sicurezza marittima nel Golfo di Aden e al largo dell’Oman; la CTF 151, responsabile dell’antipirateria marittima; e la CTF 152, con compiti analoghi alla CTF 150, ma a cavallo dello Stretto di Hormuz. L’architettura delle CMF è tale che diverse nazioni hanno reso, e rendono, disponibili, numerose unità navali in azione nel Mar Rosso, nel Golfo di Aden e in quello dell’Oman, nel Golfo Persico e nel Mar Arabico settentrionale: fra le Marine collaboratrici maggiormente assidue vi sono quelle di Australia, Corea del Sud, Turchia, Giappone e Pakistan, mentre una menzione a parte è necessaria per la Royal Navy. Oltre ad avere un contingente ospite di Camp Lemonnier, l’attenzione di Londra è maggiormente concentrata nel Golfo Persico, mediante la partecipazione alle CMF, l’attivazione di due basi navali in Oman (a Doqum) e Bahrein, la presenza di un Gruppo navale permanente di contromisure mine nel Golfo Persico e la partecipazione all’operazione «Sentinel», iniziativa politico-militare avviata qualche anno fa dagli Stati Uniti per assicurare la protezione del traffico commerciale della regione, ultimamente messo a rischio da manovre apparentemente occulte, ma attribuite da molti osservatori all’Iran. Da parte sua, Teheran ha cercato di ottenere una base navale permanente in Mar Rosso e nel Golfo di Aden, con l’obiettivo di accrescere la sua influenza regionale e aprire un nuovo fronte di «contenzioso navale» con le monarchie filoccidentali sfruttando anche il conflitto nello Yemen: durati fino al 2015, i tentativi non hanno portato a nulla di concreto, con l’eccezione del transito occasionale di naviglio militare nel Mar Rosso e con l’invio, anch’esso occasionale, di un paio di unità navali per le operazioni antipirateria (16). Assai più attiva in tal senso è la Marina indiana, che pur non disponendo di basi permanenti già da tempo dispiegava un’unità navale per missioni antipirateria, una funzione progressivamente ampliata nella qualità e nella quantità con la crescente presenza navale cinese nella regione del Corno d’Africa e che ha portato a un accordo con l’Oman per l’uso del porto di Doqum (17).

Considerazioni conclusive

Nell’ultimo decennio, l’incremento della presenza militare a Gibuti, compresa l’apertura della base cinese, ha esaltato la valenza strategica della regione del Corno d’Africa, attirando una considerevole attenzione verso aspetti geopolitici di cui fanno parte anche presenze militari sulle coste del Mar Rosso, della Somalia e del Kenya, in un contesto a spiccata connotazione marittima. Come già accennato, le tendenze in atto nel Corno d’Africa sono strettamente correlate con quelle del Golfo Persico e alle operazioni delle CMF e di EUNAVFOR «Atalanta», tendenze da cui è possibile derivare l’atteggiamento di determinate nazioni: gli Stati Uniti e la Francia sono molto attivi e presenti in entrambe le regioni, con diramazioni importanti in profondità nell’Oceano Indiano quali Mayotte e La Rèunion per Parigi, Seychelles e Diego Garcia per Washington e Londra: quest’ultima mantiene un profilo basso nel Corno d’Africa, ma è molto

attiva nel Golfo Persico nel quadro della proiezione verso l’Indo-Pacifico manifestata anche con il dispiegamento del Gruppo portaerei incentrato sulla Queen Elizabeth. Importante rimane anche l’azione dell’Italia, con la BMIS e la costante partecipazione ad «Atalanta» quali testimonianze dell’importanza attribuita al mantenimento della stabilità in un’area strategica per gli approvvigionamenti energetici del nostro paese. Alla luce degli eventi più recenti, le minacce prioritarie non sembrano più derivare dalla pirateria marittima, peraltro da non sottovalutare, ma per il cui contrasto e sradicamento più o meno permanente è forse necessario trovare una soluzione diversa dal mantenimento all’infinito nella regione di Forze aeronavali e non di secondo piano. Piuttosto, quello che preoccupa è l’atteggiamento di alcuni attori «turbolenti», statuali e non, che minacciano il regolare flusso dei traffici commerciali marittimi e la stabilità politica della regione: per fortuna e a parte la guerra civile nello Yemen, non vi sono state situazioni conflittuali fra le varie e numerose Forze militari presenti nel Corno d’Africa, anche perché la realizzazione delle basi e il dispiegamento dei contingenti è avvenuto secondo un approccio cooperativo nei confronti di una gamma di minacce non tradizionali, quali appunto la pirateria marittima, altri crimini legati all’ambiente marittimo, l’evacuazione di connazionali e l’assistenza umanitaria alle popolazioni civili.

Tuttavia, l’attenzione sugli sforzi congiunti per promuovere la sicurezza regionale è passata in secondo piano di fronte alla tragedia afghana maturata ad agosto 2021 e all’attivismo manifestato nella regione del Corno d’Africa da soggetti — Cina e Russia in primis — spesso interessati alla competizione geopolitica, commerciale e militare, più volte con effetti negativi per la stabilità regionale. Pertanto, è imperativo migliorare la cooperazione regionale al fine di gestire queste tensioni e concorrenze emergenti, in particolare quelle derivanti dalla presenza di forze straniere, attraverso un’attenta opera di sorveglianza, presenza e dissuasione che riguarda quest’importante porzione del Mediterraneo allargato, scacchiere d’importanza primaria negli scenari strategici del XXI secolo. 8

NOTE

(1) Il porto di Gibuti gestisce ogni anno 932 mila TEU (unità di misura per container «twenty-foot equivalent», cioè lunghi 20 piedi, pari a 6 metri), che corrispondono a più di 20 milioni di tonnellate di merce. (2) La consistenza del personale militare spagnolo è mediamente di 50 elementi, a supporto di navi e velivoli delle due nazioni periodicamente impegnati in «Atalanta». (3) Fra esse, la più importante è stata l’operazione «Barkhane», iniziata nel Sahel nel 2014 e in corso di chiusura, con un impegno massimo di circa 5.000 militari francesi. Da ricordare che oltre a Gibuti, la Francia schiera Forze militari nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico. Dall’indipendenza di Gibuti, il numero di militari francesi ivi stazionali è passato da 4.300 nel 1978, a 2.400 negli anni Duemila, giungendo fino agli attuali 1.450 previsti dal trattato stipulato nel 2011 con Parigi. (4) Nel 2013, la base giapponese fu usata per il soccorso ai civili nipponici vittime di un attacco a un giacimento di gas in Algeria, mentre nel 2016 funse da hub operativo per l’evacuazione di cittadini giapponesi dal Sud Sudan. (5) Oltre a supportare l’operazione «Atalanta», i militari tedeschi di stanza a Gibuti operano a sostegno dell’operazione «Enduring Freedom». Il personale militare nipponico presente a Gibuti svolge anche funzioni di supporto alle operazioni antipirateria e di addestramento per forze militari di Nazioni africane nella regione del Corno d’Africa. (6) La missione «Mare sicuro» condotta dal Granatiere nel 2005 non deve essere confusa con l’operazione «Mare sicuro» avviata dalla Marina Militare il 12 marzo 2015 nel Mediterraneo centrale a seguito dell’evolversi della crisi libica e tuttora in corso. (7) Noto anche come «Comandante Diavolo», Amedeo Guillet era un ufficiale di cavalleria del Regio Esercito, distintosi in Africa Orientale. Trasferitosi nello Yemen dopo la resa delle forze militari italiane nell’ex-Africa Orientale Italiana, Guillet riuscì a rientrare in Italia e dopo l’avvento della Repubblica, lasciò l’Esercito Italiano per iniziare una carriera diplomatica che lo avrebbe portato a ricoprire la carica di ambasciatore in Marocco e in India. Il 2 novembre 2000, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì ad Amedeo Guillet la Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia: il «Comandante Diavolo» si è spento a Roma il 16 giugno 2010, alla veneranda età di 101 anni. (8) https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/BMIS/Pagine/default.aspx. Attualmente la consistenza massima annuale autorizzata dall’Italia per il contingente nazionale impiegato nella BMIS è di 117 militari e 18 mezzi terrestri. (9) Michele Cosentino, Il Potere Marittimo della Repubblica Popolare Cinese nell’era della globalizzazione, Supplemento Rivista Marittima, novembre 2021. La Cina ha acquisito il 25% del porto multifunzionale e commerciale di Doraleh, con un investimento di 590 milioni di dollari e costruito dalla China State Construction Engineering. Nella base militare cinese è presente una compagnia di fucilieri di Marina e circa ulteriori 400 militari con compiti operativi, tecnici e logistici: tuttavia, la base ha una capacità alloggiativa di circa 2.000 militari. (10) Dal 2008, la CJTF-HOA è subordinata al neo costituito AFRICOM (AFRIcan COMmand), responsabile per le relazioni e le operazioni militari statunitensi che si svolgono in tutto il continente africano ad esclusione del Egitto. AFRICOM ha sede a Stoccarda, in Germania. (11) Le forze statunitensi possono utilizzare anche gli scali portuali e aeroportuali di Mombasa. In generale, i velivoli statunitensi, pilotati e non, presenti nella regione del Corno d’Africa sono impiegati per una panoplia di missioni comprendenti pattugliamento marittimo, ricognizione, sorveglianza, guerra elettronica, attacchi contro obiettivi sensibili, ecc. (12) Anne Ahronheim, Rebel spokesman: Houthi missiles can hit covert Israeli bases in Eritrea, Jerusalem Post, 1o October 2017. (13) In Qatar è stata realizzata una base militare che ospita circa 3.000 militari turchi e dove risulta in corso anche la costruzione di una base navale affacciata sullo Stretto di Hormuz. Middle East Monitor, Qatar signs Turkey naval military base agreement, 14 March 2018. (14) Gli interventi riguardano le telecomunicazioni, l’industria mineraria, l’agricoltura e l’aviazione commerciale. Sergey Sukhankin, Russian Naval Base in Sudan Stays for Now: What Happens Next?, The Jamestown Foundation, 12 May 2021. (15) La guida delle CMF è a cura dell’ammiraglio statunitense alla testa della Fitfh Fleet dell’US Navy, schierata nella regione del Golfo Persico. (16) Di tale contesto fa parte anche il Taviz, un’ex-mercantile iraniano militarizzato, probabilmente gestito dai Guardiani della Rivoluzione e alla fonda nel Mar Rosso, non distante dalle coste yemenite. Danneggiata da un attacco di probabile matrice israeliana condotto nell’aprile 2021, il Taviz è in pratica una base galleggiante per unità sottili veloci in azione a supporto degli Houti. (17) L’India è inoltre impegnata, sempre in chiave anticinese, nella realizzazione di una rete di centri d’ascolto e sorveglianza nel Madagascar settentrionale e nelle Seychelles, nonché in cooperazioni con Giappone e Stati Uniti per un’utilizzazione periodica delle infrastrutture a Gibuti.

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