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Storia di una baleniera
Nuovi elementi sull’«impresa di Alessandria», a ottant’anni dalla sua brillante esecuzione
(*) Claudio Rizza, (**) Platon Alexiades
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(*) Ufficiale superiore di vascello laureato in Scienze marittime e navali e in Scienze politiche. Ha ricoperto, tra gli altri, l’incarico di responsabile degli archivi dell’Ufficio Storico della Marina e collabora, oltre che con la Rivista Marittima, anche con i periodici Storia Militare e Gnosis. È inoltre membro del Comitato editoriale del Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare. (**) Consulente informatico. Nato ad Alessandria (Egitto), si è trasferito a Montreal (Canada) all’età di 18 anni. È cultore della storia navale fin dall’adolescenza e ricercatore indipendente presso gli archivi di Roma, Londra, Washington, Parigi e altri. È autore di Target Corinth Canal 1940-1944 (Pen & Sword, 2015) e di vari articoli per il Warship Supplement della World Ship Society. È tra i contributori del sito internet di storia dei sommergibili, uboat.net.
R. Claudus, Azione dei mezzi navali ad Alessandria il 18-19 dicembre 1941 contro le navi da battaglia VALIANT e QUEEN ELIZABETH, Olio su tela, cm 180x100, Roma - Palazzo Marina.
«(…) la mia nuova nave non è durata poi molto, dopo tutto. Siamo stati attaccati e affondati da bombardieri in picchiata il 19 agosto scorso. Sono stato fortunato a essere tra i sopravvissuti e adesso siamo in Libia. Come prigioniero di guerra ho molto tempo per pensare (…)» (1).
All’interno dell’asciutto fascicolo conservato al The National Archives di Kew e intestato al HMS Thorbryn, un’ex baleniera norvegese requisita dalla Royal Navy e trasformata in peschereccio armato antisommergibili, le informazioni sulla drammatica fine di quell’unità ausiliaria sono scarne. Il fascicolo si compone principalmente delle bozze delle lettere con cui l’Ammiragliato comunicava alle famiglie dei caduti la perdita del loro congiunto e di moduli prestampati sui quali i censori della Royal Navy trascrivevano le poche informazioni sulla perdita dell’ex baleniera desunte dalle lettere spedite dai sopravvissuti fatti prigionieri alle proprie famiglie. Poche note, come nel caso della trascrizione riportata in apertura, per descrivere la fine — quasi dimenticata — di un’unità ausiliaria il cui brevissimo periodo d’impiego nel Mediterraneo le fece meritare solo una breve menzione in uno dei tanti volumi che si sono occupati della guerra navale nel corso dell’ultimo conflitto mondiale (2). Eppure, a dispetto della scarsa importanza attribuita dalla storiografia ufficiale alle vicende del Thorbryn, quella piccola ex baleniera — o meglio il suo archivio segreto — contribuì in maniera determinante al successo di una delle azioni più audaci e fortunate che fecero la storia della guerra nel Mediterraneo: l’impresa di Alessandria, magistralmente condotta dai mezzi d’assalto italiani la notte sul 19 dicembre 1941.
Dall’Artico all’Africa
Il Thorbryn era una baleniera norvegese di 350 tonnellate di stazza lorda (tsl) realizzata dal cantiere Framnæs Mek di Sandefjord nel 1936 su commissione della società Frango (A/S Thor Dahl di Sandefjord) con il nome originario di Scott. Nel 1939 l’unità fu acquisita dalla società Bryde & Dahl Hvalfangerselskap (A/S Thor Dahl) che ne cambiò il nome in Thorbryn. A gennaio del 1941, la flotta baleniera norvegese, molta attiva nei mari del sud, fu decimata dalla nave corsara tedesca Pinguin (Schiff 33) che catturò non meno di quattordici imbarcazioni, tra navi-stabilimento e baleniere, in quel momento sotto nolo britannico (3). Il Thorbryn e la gemella Thorgrim (4) riuscirono, però, a scampare alla clamorosa cattura di massa poiché nel novembre precedente, mentre si trovavano a Città del Capo, entrambe le unità furono requisite dalla Royal Navy, che le trasformò in pattugliatori antisommergibile armandole, alla bell’e meglio, con dei vetusti cannoni (si trattava di armi realizzate nel 1889!) per andare a costituire il 25th Auxiliary A/S Group (5). Gli equipaggi delle due baleniere furono sostituiti per la maggior parte da marinai britannici, anche se alcuni dei pescatori norvegesi decisero di rimanere a bordo al servizio della Marina britannica.
Una rara immagine del THORBRYN nel 1937 quando la baleniera si chiamava ancora SCOTT (lardex.com). In alto: un’altrettanto rara immagine, purtroppo di scarsa qualità, della baleniera KOS XIX che fu sostituita dal THORBRYN nella sfortunata missione del 14 agosto 1941. Il KOS XIX (rinominato HMS COCKER) non ebbe sorte migliore; fu, infatti, silurata e affondata dall’E-boat tedesca S-57 il 4 giugno 1942 al largo di Tobruk (collezione ing. R. Pinelli).
Mappa tedesca delle difese di Tobruk IWM (MH5849). Accanto: l’ammiraglio George Hector Creswell, comandante della base di Alessandria nell’agosto del 1941 (National Portrait Gallery).
L’HMS Thorbryn (Temporary Lieutenant della RNR, Francis Albert Seward, capitano di corvetta della RNR, John Francis Hall dal giugno/luglio 1941) e l’HMS Thorgrim (tenente di vascello della RNR Benjamin Sparkes) salparono da Città del Capo il 20 maggio del 1941, e dopo tre soste, rispettivamente a Durban (24-27 maggio), Kilindini (3-12 giugno) e Aden (1720 giugno), giunsero a Suez il 25 giugno per il transito del canale. Il 27 giugno successivo le due unità si unirono alla Mediterranean Fleet ad Alessandria d’Egitto. In quel momento la situazione strategica nel Mediterraneo orientale era per i britannici ben lungi dall’essere soddisfacente. Creta era caduta poche settimane prima e la Royal Navy aveva dovuto subire gravi perdite nel corso dell’evacuazione delle truppe britanniche dall’isola. La Gran Bretagna era stata costretta a combattere le forze francesi fedeli al governo di Vichy in Siria dopo che queste ultime avevano dato accesso ai campi di aviazione alle Forze aeree dell’Asse che erano intervenute a sostegno della rivolta in Iraq. I combattimenti nel deserto del Nord Africa non stavano avendo un esito migliore. La Libia era stata evacuata dalle truppe imperiali a eccezione di Tobruk, dove la guarnigione australiana cercava a tutti i costi di resistere, fin dal 9 aprile precedente, grazie ai rifornimenti inviati via mare da Alessandria tramite un sistema di convogli costituito da piccole unità da trasporto costiero, il cosiddetto «Tobruk run». Tali convogli erano coordinati dal contrammiraglio George H. Creswell (comandante della base di Alessandria). Le difese costiere di Tobruk erano invece affidate all’Inshore Squadron, sotto il comando del capitano di vascello della RN Albert Poland, il quale si era distinto al comando dello sloop armato HMS Black Swan durante la campagna di Norvegia del 1940 meritandosi il Distinguished Service Order (DSO). L’Inshore Squadron era
A sinistra: il porto di Tobruk nel 1941 in una foto aerea della ricognizione britannica (IWM C5496); in basso, sbarco di rifornimenti da alcuni
D-Lighter ormeggiati nel porto di Tobruk nel gennaio del 1942 (IWM E8433). Sotto: il D.25 arenato su una spiaggia in vicinanza di Tobruk. L’imbarca-
zione britannica è usata da alcuni soldati dell’Asse come «stendi panni» in occasione di un bagno di mare (collezione ing. R. Pinelli).
inizialmente costituito dai cacciatorpediniere HMAS Waterhen e HMAS Vendetta (oltre al monitor HMS Terror che fu affondato il 24 febbraio del 1941), dalle cannoniere HMS Aphis, HMS Gnat e HMS Ladybird, dalla corvetta HMS Gloxinia oltre che da vari dragamine (l’HMS Bagshot, due dragamine ausiliari e tre pescherecci armati anti sommergibile) (6), questi ultimi fondamentali per mantenere i corridoi di approccio al porto, liberi dalle mine nemiche. Fino a che Tobruk continuava a resistere, la strada per l’Egitto era di fatto sbarrata per l’armata italo-tedesca. La fortezza era sotto costanti bombardamenti da parte dei velivoli della Regia Aeronautica e della Luftwaffe (7). Per tale motivo i convogli di rifornimenti per la guarnigione australiana dovevano essere costituiti da unità di piccolo cabotaggio che dovevano essere velocemente scaricate durante la notte per non essere affondate in porto dai bombardieri in picchiata dell’Asse durante il giorno. I convogli dovevano quindi giungere a Tobruk al tramonto e salpare, scarichi, alla volta di Alessandria alle prime luci dell’alba.
Le due piccole ex baleniere erano di dimensioni ideali per essere incorporate nel «Tobruk run», sebbene il loro armamento antiquato ne sconsigliasse l’utilizzo per quel tipo di missione. Si decise quindi di dotare le due unità di armi più moderne. Secondo quanto riportato dai sopravvissuti del Thorbryn durante gli interrogatori condotti dagli italiani, l’armamento delle due ex baleniere era in quel momento costituito da cinque pezzi d’artiglieria, una mitragliera pesante e varie mitragliatrici leggere.
Il 1o agosto l’HMS Thorbryn salpò da Alessandria per scortare a Tobruk la piccola nave da carico Lesbos (945 tsl, costruita nel 1910) (8). Il porto di Tobruk era stato appena riaperto dopo essere stato chiuso a causa della presenza di mine lanciate da aerei. Il primo viaggio del Thorbryn nell’ambito del «Tobruk run» ebbe pieno successo e l’unità poté far rientro ad Alessandria senza contrattempi.
Il 14 agosto successivo l’unità salpò per una nuova missione: stavolta avrebbe dovuto scortare a Tobruk due mezzi da sbarco del tipo D-Lighter dell’Esercito britannico (9). Il Thorbryn aveva sostituito all’ultimo
momento la baleniera armata HMS Cocker (ex Kos XIX), la quale non era potuta uscire in mare a causa di un’avaria. Il Thorbryn effettuò la prima tappa a Marsa Matruh, dove recuperò i D-Lighter D.16 e D.25, carichi entrambi di una dozzina di fusti di carburante, quindi, il 17 agosto, riprese il mare alla volta di Tobruk con i due mezzi da sbarco a rimorchio (10). Il suo arrivo nel porto della fortezza assediata era inizialmente previsto per la sera del 18 agosto successivo, ma la rottura di uno dei due cavi di rimorchio per il mare agitato causò un ritardo che si rivelò fatale. A causa del tempo perso nel riprendere il D-Lighter a rimorchio, il Thorbryn fu costretto a compiere l’avvicinamento a Tobruk con la luce del giorno, la mattina del 19 agosto e ciò segnò il suo destino. Alle 08:30, quando l’unità si trovava a circa 8 miglia dalla sua destinazione, la baleniera armata fu avvistata da alcuni bombardieri in picchiata Junkers 87 «Stuka» (11) del Fliegerführer Afrika e subito affondata con due bombe messe a segno con l’unità in posizione 32° 01’ N, 24° 09’ 15’’ E.
I sopravvissuti alle deflagrazioni riuscirono ad abbandonare la nave su una scialuppa di salvataggio e furono raccolti dagli equipaggi dei due mezzi da sbarco, i quali furono però a loro volta attaccati ne affondarono uno — il D.16 — e ne danneggiarono gravemente l’altro che finì per arenarsi, privo di propulsioni sul litorale libico a poca distanza dal porto di destinazione. Da Tobruk, dove si era potuto seguire il drammatico attacco aereo nemico, fu inviato in soccorso dei sopravvissuti del piccolo convoglio, lo Schooner armato F.1 il quale fu a sua volta centrato e affondato dai bombardieri in picchiata tedeschi. Alla fine fu fatto uscire anche il dragamine ausiliario Skudd V che poté però prestare soccorso solo ai naufraghi dell’F.1. I sopravvissuti del Thorbryn e dei due D-Lighter riuscirono invece a raggiungere a nuoto la terraferma per finire, però, prigionieri del nemico.
L’equipaggio del Thorbryn era composto di cinque ufficiali e ventuno tra sottufficiali e graduati. Due ufficiali e quattro graduati persero la vita nell’attacco aereo, mentre cinque rimasero feriti. Anche tre uomini dell’equipaggio del D.25 mancarono all’appello al termine del bombardamento nemico. I 32 sopravvissuti del convoglio (venti dell’equipaggio del Thorbryn, sette del D.16 e cinque del D.25) furono quindi trasportati in un campo di concentramento italiano vicino a Bengasi, dove, prima del loro trasferimento in Italia, furono interrogati dagli specialisti dell’Ufficio informazioni del Comando superiore Forze armate in Africa settentrionale.
I primi interrogatori ai sopravvissuti del convoglio «Thorbryn» furono condotti il 23 agosto successivo. Da quei colloqui gli uomini del Servizio informazioni del Comando superiore in Africa settentrionale, tra i quali erano sicuramente presenti anche agenti del SIS della Regia Marina, poterono ricostruire le vicende della ex baleniera norvegese dal momento della requisizione in Sud Africa al tragico evento del suo affondamento ma — come risulta dal relativo bollettino informativo (12) — nessuna informazione fu fornita dai naufraghi né sul porto di Alessandria né su quello di Marsa Matruh. Ben più incisivi dovettero essere gli uomini del Servizio informazioni della Regia Marina due giorni dopo poiché, stavolta, riuscirono a estorcere ai prigionieri parecchie informazioni sia sulla presenza delle unità della Mediterranean Fleet nel porto di Alessandria sia sull’ubicazione dei depositi munizioni e torpedini di quella base (13). Ma l’interrogatorio dei prigionieri, sebbene rivelatosi molto utile, non fu il vero «colpo grosso» messo a segno dagli uomini del SIS. Esso fu in realtà realizzato, come vedremo, all’interno del relitto del Thorbryn, probabilmente sulla scorta dell’esperienza maturata dal Servizio segreto della Marina con il recupero dei documenti segreti del cacciatorpediniere britannico Mohawk, affondato sulle secche di Kerkennah la notte sul 15 aprile precedente, durante l’attacco britannico al convoglio «Tarigo» (14).
Il segreto di Alessandria
In una lettera dell’ottobre del 1937, indirizzata al ministro della Guerra dell’Egitto (15), il comandante della missione militare britannica in quel paese nordafricano, generale J.H. Marshall-Cornwell, raccomandava al nuovo alleato di dare corso, al più presto, all’impegno preso con l’ex potenza dominatrice, di assumersi l’onere della difesa delle proprie coste, con particolare riguardo alla protezione del porto di Alessandria, ritenuto d’interesse strategico per il governo britannico. Per evitare spreco di tempo e denaro, il capo della mis-
sione militare britannica suggeriva, inoltre, al ministro egiziano, di richiedere ufficialmente al governo del Regno Unito l’invio in loco di un ispettore alle difese costiere del War Office, in modo che questi potesse fornire all’esercito alleato le raccomandazioni per l’ottimale fortificazione dei porti di Alessandria e Marsa Matruh valutando, inoltre, quantitativi e tipologia di materiali d’artiglieria che il governo di Sua Maestà avrebbe dovuto cedere all’ex colonia per l’esigenza. Contestualmente, secondo quanto caldeggiato dal generale Marshal-Cornwell nella sua missiva, l’Esercito egiziano avrebbe dovuto dar corso all’addestramento del personale destinato all’artiglieria costiera in maniera da rendere operativa la difesa delle proprie coste entro la metà del successivo anno 1938.
La visita in Egitto dell’ispettore delle difese costiere del War Office, generale F.W. Barron, ebbe luogo tra la fine di febbraio e la metà di marzo del 1938. Durante l’ispezione, all’alto ufficiale fu affiancato anche un ufficiale della Mediterranean Fleet, con il compito di fargli da consigliere in merito alla protezione dei porti di Alessandria e Marsa Matruh, le cui esigenze difensive erano state riassunte in un memorandum segreto elaborato con il supporto degli specialisti del centro per la guerra anti-sommergibile HMS Vernon di Portsmouth.
L’ufficiale della Mediterranean Fleet avrebbe dovuto, in particolare, illustrare al generale Barron le «potenzialità degli “Indicator Loop”, degli idrofoni per la difesa foranea e dei campi minati a brillamento comandato» (16), sistemi anti-sommergibile che la Marina britannica stava mettendo a punto — nel più totale riserbo — fin dalla fine del Primo conflitto mondiale, sulla base degli ammaestramenti ricavati dalla caccia ai battelli tedeschi (17).
Il primo a teorizzare un sistema di localizzazione dei sommergibili immersi basato sul fenomeno dell’induzione elettromagnetica fu il professor William Henry Bragg, premio Nobel per la fisica nel 1915 e nominato, nel corso del Primo conflitto mondiale, a capo della sezione per lo sviluppo dei sistemi anti-sommergibile del Board of Investigation and Research dell’Ammiragliato. Bragg ideò un sistema basato su una spira («loop») di cavo elettrico delle dimensioni di 600 per 25 yard la quale, posata sul fondo marino, avrebbe rivelato la presenza di un sommergibile immerso grazie alla corrente generata nella spira dal rapido passaggio dello scafo del battello al di sopra di essa.
Gli esperimenti con una versione migliorata del «Bragg Loop», costituita da tre cavi elettrici paralleli distanziati tra loro di 200 m, furono eseguiti, in prossimità del porto della Valletta, a partire dal settembre 1929 per la durata di sei mesi. Sulla base delle risultanze di tale sperimentazione, fu messa a punto una ulteriore versione dell’Indicator Loop costituita da sette cavi elettrici che, connessi tra loro, andavano a costituire una doppia spira larga 400 yard (200 più 200) e lunga 5.000. Tale doppio avvolgimento consentiva di determinare la direzione con la quale lo scafo sommerso passava al disopra dell’Indicator Loop e dunque, poiché la catena di sensori avrebbe dovuto essere disposta su un semicerchio centrato sull’ingresso del porto, di stabilire se il sommergibile attaccante si stava avvicinando oppure si stava allontanando dal sorgitore.
Dal 1931 i «loop» erano ormai considerati affidabili dall’Ammiragliato che decise, di conseguenza, di utilizzarli in maniera estensiva per proteggere i principali porti dell’Impero.
Nelle intenzioni dell’Ammiragliato gli Indicator Loop sarebbero dovuti essere affiancati, per la difesa dei porti d’interesse strategico dell’Impero, da speciali ecogoniometri posati sul fondo detti HDA (Harbour Defense ASDIC), una variante dei sonar imbarcati, anch’essa sviluppata dalla fine della Prima guerra mondiale. L’affiancamento dei due sensori avrebbe aumentato la possibilità di scoperta dei sommergibili diminuendo, al contempo, la probabilità di falso allarme del singolo apparato. Completavano il sistema difensivo portuale fisso messo a punto dalla Royal Navy gli sbarramenti di mine a detonazione controllata (i cosiddetti gimnoti) le quali dovevano essere fatte brillare a distanza dalla stazione di controllo del sistema, sulla base delle informazioni fornite dai sensori sommersi. Le stazioni di controllo avevano poi il compito di fornire l’informazione della presenza di un sommergibile alle postazioni di artiglieria costiera e alle unità anti sommergibile le quali sarebbero state fatte uscire in mare all’occorrenza.
Nella prima settimana di settembre del 1935, a seguito della crisi internazionale causata dalla evidente
volontà italiana di aggredire l’Etiopia, gli uomini della HMS Vernon realizzarono ad Alessandria alcune infrastrutture propedeutiche all’installazione delle difese anti-sommergibile fisse di quel porto. Furono in quell’occasione realizzati: un sito di assemblaggio dei gimnoti, due stazioni prefabbricate (Huts) di controllo e furono stoccate nei magazzini 192 di quelle armi assieme a 150 miglia di cavi elettrici necessari al funzionamento degli Indicator Loop e gli HDA in attesa della loro posa in opera sul fondale marino (18).
In accordo alla policy portata avanti dall’Ammiragliato fino a quel momento, il memorandum segreto consegnato al generale Barron raccomandava la messa in opera, nelle acque prospicenti Alessandria, di un perimetro esterno di scoperta basato su Indicator Loop posizionati su un semicerchio di raggio di 8 miglia centrato sul beacon del Great Pass con l’aggiunta di sensori tipo HDA collocati 1 miglio e mezzo più verso costa. Infine, si proponeva la posa di barriere di gimnoti per difendere la bocca d’ingresso principale del porto dal pericolo costituito dai bastimenti da blocco (block ship) o dai mezzi insidiosi. La posa di campi minati difensivi «tradizionali» (cioè costituiti da mine ancorate con innesco a percussione) era invece sconsigliata poiché la Royal Navy non possedeva nell’intero bacino del Mediterraneo né depositi di tali tipologia di armi né navi posamine per il loro posizionamento.
Il costo per la realizzazione dell’intero sistema fisso di difesa subacqueo, comprensivo della relativa stazione di controllo a terra situata presso il forte Agamy, era stimato in 243.500 sterline, mentre il tempo necessario alla realizzazione dell’opera era valutato in 5-6 settimane con condizioni meteo-marine favorevoli. Data la segretezza degli apparati da utilizzare, l’Ammiragliato consigliava infine di non rivelare agli alleati alcun particolare circa quel sistema di difesa portuale, al quale l’ispettore alle difese si sarebbe dovuto riferire, nei confronti degli interlocutori egiziani, solo in termini molto vaghi.
Qualche mese dopo il rientro dall’Egitto, nel maggio del 1938, il generale Barron consegnò al War Office il proprio rapporto sulla difesa delle coste egiziane, copia del quale fu inviata anche all’Ammiragliato oltre che al ministro della Guerra egiziano per il tramite della missione militare britannica al Cairo (19). In esso, oltre al numero e alla tipologia di batterie costiere che egli riteneva necessario disporre lungo le coste egiziane, l’ispettore faceva proprie le raccomandazioni della Marina per l’installazione di un sistema di difesa portuale fisso per la base di Alessandria basato sulla triade costituita da Indicator Loop, HDA e gimnoti.
La messa in opera del sistema di difesa raccomandato dal generale Barron subì però una lunga battuta d’arresto dovuta alla crisi finanziaria in cui versava il giovane governo egiziano, il quale, per tale causa, aveva proposto alla controparte britannica di sospendere per alcuni anni i lavori di realizzazione delle difese costiere. Solo alla fine di febbraio del 1940, a guerra già iniziata e con i rapporti diplomatici con l’Italia sul punto di rottura, il governo egiziano acconsentì a riprendere i lavori di realizzazione delle difese delle proprie coste. Sulla base di tale decisione, nel giugno di quello stesso anno, quasi in concomitanza con la dichiarazione di guerra dell’Italia, i lavori per la posa in opera degli Indicator Loop, degli HDA e dei gimnoti a difesa del porto di Alessandria, divenuto ormai la principale base della Mediterranean Fleet dopo il trasferimento cautelativo da Malta, poté finalmente essere avviata per concludersi, come originariamente previsto, circa un mese dopo.
Nel luglio del 1940 il porto di Alessandria aveva finalmente il suo sistema difensivo segreto contro le incursioni di sommergibili e mezzi insidiosi.
La fortuna aiuta gli audaci
Il segreto delle difese subacquee fisse del porto di Alessandria restò tale solo per poco più di un anno. Grazie all’affondamento del Thorbryn a poca distanza dalla costa controllata dalle forze dell’Asse, il Reparto informazioni della Regia Marina riuscì infatti a mettere le mani sul piano di operazioni che era stato redatto, il 5 agosto precedente, dal comando della base di Alessandria per la missione di scorta originariamente assegnata alla baleniera armata Kos XIX. Tale documento, a seguito dell’indisponibilità di quest’ultima, era stato fornito, sic et simpliciter, al Thorbryn che la avrebbe sostituita in quella missione. Allegato al piano di operazione vi era anche l’elenco messaggi QBC in vigore in quel momento per il porto di Alessandria (20). Pur-
La carta delle rotte di sicurezza per l’atterraggio ad Alessandria d’Egitto realizzata dal SIS e acclusa al fascicolo informativo relativo a quel porto. A sinistra: la copertina e la prima pagina del fascicolo informativo del SIS redatto sulla base delle informazioni acquisite grazie alla cattura dell’Ordine
di Operazioni originariamente redatto per l’ex baleniera KOS XIX. Nella pagina
accanto: carta del SIS con l’indicazione della zona minata a nord di Alessandria e del canale dragato di accesso a tale porto. La zona minata si riferiva quasi certamente agli sbarramenti (o di quanto di essi restava)
posati dal sommergibile italiano PIETRO MICCA nel giugno e nell’agosto
dell’anno precedente (USMM).
troppo non è dato sapere come tale fondamentale documento riuscì a essere acquisito dal Reparto informazioni della Regia Marina (21), ma è lecito supporre che, anche in quel caso, la cattura sia stata frutto di una accurata ispezione subacquea al relitto della piccola unità ausiliaria britannica.
A seguito della già citata missione magistralmente condotta dal comandante Porta sul relitto del cacciatorpediniere britannico Mohawk, si era infatti instaurata una proficua collaborazione tra il Reparto informazioni della Marina e la Scuola sommozzatori della Xa MAS di Livorno. Ne è prova quanto riportato dal tenente di vascello Aldo Cippico nel suo libro di memorie di guerra Dio punisca Anna Tobruk! (22). Nel giugno del 1942, infatti, Cippico, agente operativo del SIS, fu richiamato dalla missione di controspionaggio che egli stava conducendo in Sicilia a caccia di emittenti clandestine e inviato precipitosamente a Tobruk. La piazzaforte era stata da poco riconquistata delle truppe italo-tedesche cosicché l’ammiraglio Maugeri, capo protempore del SIS, pensò di affidare al TV Cippico la missione di recuperare tutti i documenti segreti che la Marina britannica non avesse eventualmente avuto il tempo di distruggere prima di abbandonare il porto di Tobruk. In occasione del suo passaggio al ministero, per ricevere di persona i dettagli della missione da compiere, Cippico ebbe modo d’incontrare nei corridoi di Palazzo il comandante Porta, il quale gli suggerì di esplorare, servendosi del supporto dei sommozzatori della Scuola di Livorno, tutti i relitti delle navi britanniche affondate in porto. È lecito dunque supporre che anche nel caso dei documenti provenienti dal Thorbryn, gli agenti del SIS in Libia abbiano fatto ricorso ai sommozzatori della Xa MAS o a risorse locali per setacciare il relitto della ex baleniera norvegese in cerca di documenti classificati (23). Fatto sta che alla fine settembre del 1941 il Reparto informazioni della Marina fu in grado di estendere il contenuto dei messaggi QBC reperiti sul Thorbryn sia a MARICOSOM — nel cui fondo archivistico sono tutt’oggi consultabili (24) — sia, ovviamente, al Comando della Xa Flottiglia MAS.
Ma se la consultazione dei messaggi QBC in vigore aveva consentito al SIS di localizzare sia le aree di posizionamento dei gimnoti sia i campi minati «convenzio-
Aldo Cippico ripreso in uniforme da allievo della Regia Accademia navale con la madre Margaret Howard McCallum, scozzese (collezione ing. R. Pinelli). In alto: fotografia scattata da un ricognitore tedesco del relitto
sommerso del MOHAWK. La sensibilità della pellicola utilizzata dai tedeschi
consentiva vedere gli scafi delle navi affondate sui bassi fondali (USMM).
nali» (25), niente, fino a quel momento, ancora era trapelato circa il segreto degli Indicator Loop e degli
HDA, se non un generico «avviso ai naviganti» (QBC n.108) nel quale si riportava la presenza di «zone proibite per la presenza di cavi», le quali erano indicate da una boa rossa e da una boa verde — entrambe sormontate da fanali lampeggianti — posizionate rispettivamente alla distanza di 4 e 7 miglia da Ras el Tin a cavallo del canale dragato d’ingresso al porto. La presenza di quei cavi sommersi fece probabilmente sorgere negli analisti del Reparto informazioni che essi potessero essere un qualche tipo di sistema avvisatore (26), ma la loro esatta disposizione sul fondale marino fuori Alessandria rimaneva purtroppo sconosciuta.
Poco più di un mese dopo, però, un inaspettato colpo di fortuna consentì di aggirare quell’ulteriore insidia. Il 2 ottobre del 1941, infatti, lo Stato Maggiore di collegamento tedesco con la Marina italiana a Roma indirizzò a Supermarina un foglio (27) con acclusa la copia fotografica di una carta nautica inglese — definita dai tedeschi «Beutekarte» (carta bottino) (28) — sulla quale erano riportati sia i canali dragati d’accesso al porto, sia — incredibilmente — la disposizione degli Indicator Loop a protezione del porto di Alessandria. Poiché, evidentemente, l’esistenza di tali dispositivi di scoperta era sconosciuta anche ai tedeschi, il Servizio informazioni della Marina germanica aveva ritenuto quelli sbarramenti essere delle linee di «torpedini da osservazione» (in pratica gimnoti) probabilmente a causa
dei cavi elettrici di collegamento che da ognuno di essi si dipanavano in direzione del forte Aiyana, ritenuto, pertanto, la stazione di controllo di quegli ordigni.
Si trattava di una valutazione errata, ma tanto bastava, comunque, per tenersi ben alla larga da quegli sbarramenti in caso di avvicinamento occulto a quella base navale.
Tutto era dunque pronto per un nuovo tentativo di forzamento del porto di Alessandria, dopo i due precedenti tentativi che avevano avuto come conseguenza la tragica perdita dei due sommergibili avvicinatori Iride e Gondar. Quei due dolorosi insuccessi, «la mancanza di precise informazioni sulla difesa della base navale britannica in Egitto e le maggiori possibilità di riportare successi contro gli obiettivi di Malta e Gibilterra avevano fatto, fino ad allora, desistere la Xa MAS da ulteriori tentativi» (29).
Ma nel novembre del 1941 la situazione era completamente cambiata. La Xa MAS disponeva di un nuovo gruppo di operatori SLC (cosiddetti maiali) addestrati e pronti per essere utilizzati in missione, ma soprattutto, di ottime informazioni sulle difese del porto di Alessandria, queste ultime ricavate principalmente dalla cattura dei documenti segreti del Thorbryn. Un nuovo assalto alla «tana» della Mediterranean Fleet aveva adesso buone garanzie di successo.
Carta realizzata dal SIS con i canali dragati, le ostruzioni e le zone minate in prossimità del porto di Alessandria. Come si vede, in essa non figurano
né gli HDA né la cintura di Indicator Loop a
protezione del porto poiché non riportati da alcun messaggio QBC. In basso: il capitano di corvetta
Juno Valerio Borghese, comandante dello SCIRÈ
nel corso dell’operazione GA3 (USMM).
Rotta verso la gloria
La missione GA3 nacque senza dubbio sotto una buona stella. Il primo pericolo scampato dal sommergibile Scirè fu al traverso di Taormina la notte del 5 dicembre 1941 quando fu avvistato un sommergibile, molto probabilmente nemico, la cui risposta al segnale di riconoscimento fu confusa e contraddittoria. Avendo avuto ordine di non attaccare, il comandante Borghese riprese a quel punto la navigazione di trasferimento verso Lero senza ulteriori contrattempi. Ma, l’episodio che ebbe dell’incredibile fu l’avvistamento dello Scirè da parte di un ricognitore britannico la mattina dell’8 dicembre 1941 a sud di Creta. Il velivolo fu avvistato anche dalle vedette dello Scirè, che in quel momento stava navigando in emersione, alle 10:50. Trattandosi di un aereo non identificato, da bordo del sommergibile fu fatto il segnale di riconoscimento ot-
Il sommergibile SCIRÈ in navigazione fuori La Spezia nel 194. Accanto: la
carta catturata dai tedeschi e la relativa lettera di trasmissione a Super-
marina con la disposizione della cintura di Indicator Loop a protezione del
porto di Alessandria. Essi furono scambiati dai tedeschi (e di conseguenza anche dagli italiani) per sbarramenti di gimnoti (USMM).
tico valido quel giorno per tutte le navi e i velivoli dell’Asse (30). Pochi istanti dopo, l’aeromobile sconosciuto, come se avesse appurato la correttezza del segnale ricevuto, cambiò rotta senza molestare in alcun modo il sommergibile avvicinatore italiano. Incredibilmente non si trattava di un velivolo dell’Asse, bensì di un aereo britannico, probabilmente un bombardiere Bristol Blenheim in missione di ricognizione (31). Questo incredibile colpo di fortuna fu appurato solo qualche anno dopo la guerra, quando i documenti segreti britannici cominciarono a essere resi pubblici presso l’allora Public Record Office (PRO) di Kew. A pagina 5 del rapporto segreto compilato dalla Naval Intelligence Division dell’Ammiragliato sul disastroso attacco subito ad Alessandria, è infatti riportato il seguente trafiletto: «Un U-Boat simile al Gondar fu avvistato a sud di Creta l’8/12/41 da un ricognitore del 201o gruppo. A quel sommergibile fu fatto il segnale di riconoscimento al quale rispose con un lampo verde che era il segnale corretto per quel giorno. Non fu quindi molestato» (32). Dunque, l’8 dicembre del 1941 i segnali di riconoscimento per le Forze aeronavali italo-tedesche e britanniche erano incredibilmente gli stessi, oppure l’equipaggio del ricognitore britannico sbagliò a riconoscere il segnale trasmessogli dallo Scirè, fatto sta che il sommergibile italiano riuscì a giungere, sano e salvo a Lero da dove, imbarcati gli operatori agli SLC, poté proseguire la sua missione di attacco al porto di Alessandria. La fortuna aiuta gli audaci, lo si è detto. Ma, l’avvicinamento all’obiettivo condotto dal comandante Borghese non fu solo fortunato, bensì un autentico capolavoro di professionalità, sangue freddo, capacità marinaresca e «situational awareness». Nel corso della sosta a Lero, al comandante Borghese furono fornite tutte le informazioni acquisite dal Reparto informazioni sulle difese del porto di Alessandria. Forte di quelle notizie Borghese effettuò un avvicinamento all’obiettivo semplicemente perfetto, nonostante esso fosse stato eseguito — per ovvie ragioni — quasi esclusivamente in immersione (33). Evitò i campi minati posati qualche mese prima dal Pietro Micca (o quel che ne restava dopo i ripetuti dragaggi britannici) approcciando l’obiettivo da nord-est, si tenne lontano dai canali d’ingresso che venivano periodicamente minati dai velivoli italo-tedeschi, evitò le aree di presenza dei gimnoti e adagiò il battello sul fondo a poche decine di metri dalla cintura di Indicator Loop che egli riteneva essere altro sbarramento di mine a brillamento remoto. Quel sistema di scoperta, che in seguito si sarebbe dimostrato estremamente efficace nei confronti dello stesso Scirè, in quell’occasione fu messo completamente fuori gioco, poiché incapace di rilevare il passaggio dei piccoli SLC in quanto tarato sulle dimensioni degli scafi dei sommergibili. Anche gli HDA, posizionati alle spalle degli Indicator Loop e spe-
cificatamente utilizzati per scoprire i mezzi insidiosi, fallirono completamente il loro compito nei confronti dei silenziosi motori elettrici dei «maiali».
Il resto è storia, e non ci sembra questa la sede opportuna per ripercorrere le vicende che portarono i sei «eroi di Alessandria» a forzare la più munita base della Mediterranean Fleet, anche perché tale analisi è già stata egregiamente fatta più volte da altri autorevoli autori. Ciò che è importante rimarcare è che quell’azione da manuale, che privò il nemico delle due navi da battaglia Valiant e Queen Elizabeth paralizzandone, di fatto, quasi l’attività operativa nel Mediterraneo orientale per mesi, non sarebbe stata possibile senza il coraggio, la professionalità e la determinazione del comandante Borghese, del tenente di vascello Duran de la Penne, dei capitani Marceglia e Martellotta, dei palombari Bianchi, Schergat e Marino, ma anche, last but not the least, degli «uomini ombra» del Reparto informazioni della Regia Marina.
Quanto fu importante per il successo dell’Impresa di Alessandria poter disporre delle informazioni sottratte alla quasi sconosciuta baleniera armata Thorbryn fu chiaro pochi mesi dopo, il 10 agosto del 1942, quando il sommergibile Scirè cadde vittima di quelle difese fisse anti sommergibile che ad Alessandria era riuscito a mettere fuori gioco. Le difese fisse del porto di Haifa, di cui evidentemente il SIS non era riuscito ad acquisire sufficienti informazioni, funzionarono esattamente come la Royal Navy le aveva ideate. Lo Scirè, della cui presenza in area i britannici avevano già avuto notizia grazie ad alcune decrittazioni ULTRA (34), fu, infatti, da prima avvistato da un ricognitore Walrus (11:15), quindi braccato dalle unità anti sommergibile nel frattempo fatte uscire dal porto di Haifa, poi localizzato dagli Indicator Loop (15:09) e infine danneggiato dalle bombe di profondità lanciate, del Trawler HMS Islay (T172). A quel punto lo Scirè, costretto a emergere per i danni subiti (15:45), fu fatto segno del preciso dalle artiglierie della batteria «Stella Maris» che in pochi minuti (15:45-15:50) ne causò l’affondamento con la perdita dell’intero valoroso equipaggio (35). Ma questa è un’altra (triste) storia… 8
Una foto di gruppo di ufficiali e marinai britannici insieme alla manova-
lanza egiziana realizzata durante la stesura degli Indicator Loop e gli
HDA sui fondali prospicenti la base di Alessandria nell’estate del 1940.
In alto: un esempio di disposizione degli Indicator Loop sul fondo di un
passaggio obbligato (indicatorloops.com).
Gli autori desiderano ringraziare l’ing. Romano Pinelli per l’importante documentazione d’archivio fornita e per la consulenza fornita in merito alla storia dei mezzi d’assalto.
La strumentazione necessaria alla gestione operativa degli Indicator Loop
nella sala di controllo di uno dei porti protetti con tale dispositivo. I segnali elettrici in entrata al galvanometro (n.3) venivano amplificati (n.5) e quindi registrati su strisce di carta da un apposito registratore-integratore (n.4), i cui rulli erano mossi da un motore elettrico (n.6). Su tali strisce di carta era quindi possibile identificare le variazioni di campo elettromagnetico nel tempo prodotte dal passaggio di uno scafo sommerso sopra le spire di cavi sottomarini (indicatorloops.com).
I due cilindri contenitori per gli SLC poppieri dello SCIRÈ (USMM). Uno spezzone di cavo di un Indicator Loop sezionato. Il cavo, recuperato a largo del
porto di Haifa, è stato prodotto nel 1940 dalla Siemens di Londra (indicatorloops.com).
Il percorso degli SLC e il loro punto di rilascio dallo SCIRÈ in una carta tratta dal volume The Royal Navy and the Mediterranean (op. cit.). Si notino le posizioni dell’Indicator Loop n.1 e l’HDA denominato «A», i quali non riuscirono a rilevare il
passaggio dei tre mezzi d’assalto italiani.
La nave da battaglia britannica QUEEN ELIZABETH
(collezione A. Asta via M. Brescia). Al centro: la nave da
battaglia HMS VALIANT. Su tale unità al momento del-
l’attacco italiano era imbarcato il recentemente scomparso principe Filippo Mountbatten all’epoca in servizio nella Royal Navy. In basso: i danni provocati alla ca-
rena della VALIANT dall’esplosione della testa in guerra
dell’SLC condotto dalla coppia Durand de la Penne-Bianchi (USMM).
I sei «Eroi di Alessandria» M.O.V.M. (dall’alto in basso): T.V. Luigi Durand de la Penne e Co palombaro Emilio Bianchi (SLC n.221, bersaglio HMS
VALIANT), capitano (GN) Antonio Marceglia e Sc palombaro Spartaco Schergat (SLC n.222, bersaglio HMS QUEEN ELIZABETH), capitano (AN)
Vincenzo Martellotta e C° palombaro Mario Marino (SLC n.223, bersaglio
petroliera SAGONA) - (USMM).
NOTE
(1) The National Archives (TNA), fondo Admiralty (ADM), fasc. 258/3976, «HM Trawler Thorbryn: 19th August 1941; sunk by enemy action, aircraft attack at Tobruk, Libya», modulo di censura per la corrispondenza dei prigionieri di guerra datato 3 marzo 1942 e riguardante la lettera del marinaio J. Waller, uno dei sopravvissuti dell’HMS Thorbryn. (2) La tragica vicenda dell’affondamento del Thorbryn è menzionata solo a pag. 161 del volume The Royal Navy and the Mediterranean, vol. II: November 1940 – December 1941 (London, Routlage, 2002), mentre non trova riscontri né nell’opera di S.W. Roskill The War at Sea (op. cit. in bibliografia), né nell’autobiografia dell’ammiraglio A.B. Cunningham: L’odissea di un marinaio (op. cit.), né nelle Cunningham’s papers (op. cit.), né, infine, nei volumi redatti dal generale Playfair (op. cit). (3) Da: Norwegian Victims of Pinguin - Capture of the Whaling Fleet, Jan. 141941 di Siri Holm Lawson in: http://warsailors.com/raidervictims/pinguin2.html. (4) L’unità gemella del Thorbryn, il Thorgrim, fu affondato nel corso di un attacco aereo condotto su Alessandria da una formazione mista di velivoli italiani e tedeschi l’8 aprile del 1942 (Cfr. TNA, ADM 199/650, «C. in C. Mediterranean War Diaries»). Il Thorgrim fu riportato in superficie nel luglio del 1942 ma gli estesi danni subiti ne sconsigliarono la riparazione. (5) Le informazioni sull’attività operativa del HMS Thorbryn sono state desunte dal fascicolo del TNA: ADM 199/2572. (6) Da Tobruk and Beyond – War Notes from the Mediterranean Station 19411943 del vice ammiraglio Sir Albert Poland, KBE, CB, DSO, DSC. (7) Nel corso del mese di agosto 1941, Tobruk subì 37 attacchi aerei diurni da parte di bombardieri in quota e 31 da parte di bombardamenti notturni. Tali bombardamenti causarono agli italo-tedeschi la perdita, secondo fonte britannica, di 13 velivoli tutti abbattuti dalle difese contraerei della città fortificata (cfr. The Royal Navy and the Mediterranean, vol. II: November 1940 – December 1941, London, Routlage, 2002, pag. 160). (8) Il 23 luglio precedente la Lesbos aveva compiuto il suo primo viaggio da Alessandria a Tobruk scortata dal peschereccio armato Southern Isle. (9) I Landing Craft Tank (LCT), il cui nome in codice era A-Lighter, e i più piccoli Landing Craft Mechanized (LCM), denominati D-Lighter, facevano parte, nell’estate del 1941, della Western Desert Light Flottilla (WDLF). Diciotto LCT giunsero in Egitto nel febbraio del 1941 trasportati via nave smontati in sezioni e riallestiti in loco. Essi furono assemblati nella zona del Canale di Suez per andare a costituire la «Forza Z» con la quale il gabinetto di guerra britannico intendeva invadere l’isola italiana di Rodi. Nell’estate del 1941 alcuni A-Lighter e D-Lighter furono trasferiti ad Alessandria per far fronte all’esigenza del rifornimento della guarnigione britannica a Tobruk. La Western Desert Light Flottilla subì numerose perdite a causa di attacchi aerei italo-tedeschi tanto che gli equipaggi di quei mezzi da sbarco ironizzarono sull’acronimo «WDLF» dipinto sulle fiancate delle loro imbarcazioni attribuendogli il significato di «We Die Like Flies» («Moriamo come mosche»). (10) I D-Lighter, poiché non in grado di compiere navigazioni in mare aperto, venivano rimorchiati dalle unità ausiliarie della Royal Navy che provvedevano anche alla loro scorta. (11) Il capitano di vascello della RN Frank Montem Smith, comandante del porto di Tobruk e testimone oculare dell’attacco, descrisse nel suo rapporto i velivoli attaccanti come bimotori del tipo Junkers 88. (cfr. TNA, ADM 358/3976, messaggio radiotelegrafico n. 1833 del 5 ottobre 1941 dal N.O. Tobruk al C. in C. Mediterranean Fleat al Rear Admiral Alexandria. Si veda anche A. Santoni e F. Mattesini, La Partecipazione Tedesca alla Guerra Aeronavale Nel Mediterraneo (1940-1945), op. cit.). (12) Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (AUSMM), fondo Marilibia, b. 17. (13) Ibidem. (14) Sull’argomento di veda l’ottimo volume: E. Porta, La mia guerra tra i codici ed altri scritti (USMM, Roma 2013), nonché l’altrettanto eccellente saggio del compianto Tullio Marcon, I cifrari del Mohawk (Storia Militare, 1994, n. 12, pp. 13-20). (15) TNA, ADM 1/10589, «Egypt, Coast defences at Alexandria & Marsa Matruh», lettera del capo della missione militare britannica in Egitto datata 28 ottobre 1937. (16) Ibidem, lettera del Comandante in capo della Mediterranean Fleet datata 1o febbraio 1938. (17) R. Walding, Indicator Loop and anti-submarine Harbour defences in Australia in WWII, op. cit., pp. 9-10. (18) Fonte: http://indicatorloops.com/alexandria.htm. (19) TNA, ADM 1/10589, «Egypt, Coast defences at Alexandria & Marsa Matruh», lettera del capo della missione militare britannica in Egitto datata 23 giugno 1938. (20) I messaggi QB erano speciali «avvisi ai naviganti» segreti emanati dal Comandante in capo della Mediterranean Fleet inerenti i pericoli alla navigazione (canali dragati, campi minati, relitti sommersi, ecc.) ubicati nel bacino del Medi-
terraneo. A essi si affiancavano i messaggi QBA, QBB e QBC compilati, rispettivamente, dagli uffici informazioni dei comandi delle basi di Gibilterra, Malta e Alessandria (Cfr. TNA, ADM 199/2207, «Admiralty War Diaries (1940)», rapporto giornaliero del 19 giugno 1940). (21) Com’è noto, l’archivio del Reparto informazioni della Marina ci è pervenuto se non in forma molto frammentaria poiché esso fu probabilmente per gran parte distrutto nelle ore successive all’armistizio (Cfr. M. De Monte, Uomini Ombra. Ricordi di un addetto al servizio segreto navale, op. cit.). (22) Op. cit., pp. 13-14. (23) L’ipotesi alternativa è che l’ordine di operazione del Kos XIX sia stato rinvenuto al momento della perquisizione di uno dei naufraghi del Thorbryn. Quest’ultima ipotesi appare però poco verosimile data l’estrema attenzione posta in essere dai britannici nel distruggere ogni documento che si sarebbe potuto rivelare utile per il nemico in caso di cattura. (24) AUSMM, fondo Maricosom, b. 24, fasc. cit. in bibliografia. (25) I campi minati riportati nel QBC n. 111 non si riferivano a mine britanniche, poiché, come si è visto, la Royal Navy era priva di tali armi in Mediterraneo, bensì agli sbarramenti posati dal sommergibile italiano Pietro Micca nel corso delle due missioni svolte tra il 5 e il 21 giugno 1940 e tra il 4 e il 21 agosto dello stesso anno. La scoperta delle mine posate dagli italiani a grande profondità, avvenuta alcuni giorni dopo grazie alla segnalazione del cacciatorpediniere HMS Stuart, fu una completa sorpresa per gli inglesi. Le mine britanniche Mark XVI utilizzate dai sottomarini della classe «Grampus» potevano essere posate su fondali di massimo di 80 braccia (146 metri). Le mine posate dal Pietro Micca, una delle quali fu recuperata dai britannici nell’agosto 1940, avevano invece un cavo di ormeggio di ben 207 braccia (379 metri). Non è chiaro, poiché l’informativa del SIS basata sui documenti catturati sul Thorbryn è per gran parte una mera traduzione degli stessi, se il Servizio informazioni della Regia Marina avesse o meno desunto che il campo minato indicato nel QBC n. 111 fosse quello posato dal Pietro Micca e, soprattutto, se l’intelligence navale italiana fosse al corrente del fatto che nel Mediterraneo il nemico non disponeva di mine ormeggiate con innesco a contatto. (26) A pag. 139 del volume dell’USMM I mezzi d’assalto nella Seconda guerra mondiale (op. cit.), è riportato: «Le informazioni avute a Lero dal comandante dello Scirè sugli sbarramenti e campi minati esistenti ad Alessandria erano le seguenti: Difese fisse e mobili accertate: a) Zona minata a 20 miglia a nord ovest del porto [si trattava delle mine del Pietro Micca, ndr]; b) linea di gimnoti disposta sul fondale di 30 braccia su di un cerchio avente un raggio di circa 6 miglia [si trattava invece degli Indicator Loop, come vedremo in seguito, ndr]; c) linea di cavi avvisatori in zona più ravvicinata [informazione probabilmente desunta dal QBC n. 108, ndr]; d) gruppi di gimnoti in posizioni conosciute [informazione desunta dal QBC n. 264, ndr], e) sbarramenti retali di non difficile forzamento [informazione desunta dal QBC n. 113, ndr]; f) linea di vigilanza foranea all’esterno della zona minata [informazione ricavata dall’interrogatorio dei sopravvissuti del «convoglio Thorbryn», ndr]. (27) AUSMM, fondo Supermarina – Mezzi d’Assalto, b. «H», fasc. H1, fg. prot. n. 5879/41-A2 in data 2 ottobre 1941 dell’Admiralstab der Kgl Italianischen Marine. (28) Non è stato possibile accertare la provenienza della «carta bottino» inviata dai tedeschi a Supermarina. È comunque probabile che essa sia stata in qualche modo catturata durante l’invasione di Creta del maggio-giugno 1941. (29) C. De Risio, I mezzi d’assalto nella Seconda guerra mondiale, pag. 134. (30) Secondo alcune fonti, il SIS era venuto in possesso dei segnali di riconoscimento britannici per il mese di dicembre 1941, i quali furono forniti al sommergibile Scirè per l’operazione GA3. Gli autori del presente saggio non hanno però trovato alcun riscontro documentale a questa ipotesi, né negli archivi italiani, né in quelli britannici, nonostante entrambi siano stati estesamente consultati per la stesura di queste note. (31) Nonostante le ricerche effettuate non è stato possibile rintracciare il rapporto di missione del ricognitore che avvistò lo Scirè a sud di Creta. (32) TNA, ADM 223/583, «Human torpedo attacks (1940-1944)». L’episodio è menzionato anche nel fascicolo ADM 116/4555, «Defence of Mediterranean harbours against special craft: reports of attacks, defensive measures, ecc.» e nel fascicolo ADM 199/415, «Mediterranean War Diaries», nel rapporto giornaliero relativo al 9 dicembre 1941 (pag. 267). (33) Per meglio comprendere quanto la navigazione occulta dello Scirè fu condotta con precisione attraverso i pericoli conosciuti, si consideri che nel corso della fallita operazione GA4 del 14-15 maggio 1942 il sommergibile Ambra fu rilevato sia dagli Indicator Loop sia dagli HDA del sistema di difesa del porto di Alessandria. Ciò a causa di un errore di navigazione che portò il sommergibile a rilasciare gli operatori su un punto più a ponente rispetto a quello prestabilito e basato, come nel dicembre dell’anno precedente, sulle informazioni note circa le difese fisse di Alessandria. (Cfr. TNA, ADM 223/583, «Human torpedo attacks (1940-1944)», messaggio prot. n. 1352C/20 May del C. in C. della Mediterranean Fleet). (34) Si trattava delle decrittazioni ZTPI/13518, 13687, 13956, 14018, 14032, 14033, 14068, 14410 e 16015 e di quelle CX/MSS/1258/T19, 1265/T3,1271/T23, 1275/T7. Le prime (serie ZTPI) erano decrittazioni di radio dispacci trasmessi della Regia Marina, le seconde (serie CX/MSS) di messaggi radio della Luftwaffe tedesca. (35) Cfr. E. Galili, F. Ruberti, R. Walding, The last battle of the italian submarine Scirè, in Haifa Bay, Israel, and the struggle for control of the Eastern Mediterranean in World War II, in Archeologia marittima mediterranea, n. 10/2013, pp. 95-124. Si veda anche, sempre di F. Ruberti, L’epopea dello Scirè, in Sub, 2010, n. 1/gennaio 2010, pp. 30-44.
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FOCUS DIPLOMATICO
La lotta per il clima. G20 di Roma e COP 26 di Glasgow
Gli sforzi esperiti con grande autorevolezza dal presidente Draghi e dalla efficientissima delegazione interministeriale al suo fianco guidata dallo sherpa Luigi Mattiolo, dopo una preparazione in cui è stato impegnato praticamente tutto il Governo, così come quelli della Commissione e del Regno Unito per una volta convergenti negli intenti, stanno producendo nella sequenza G20 di Roma e COP 26 di Glasgow positivi risultati parziali, anche se ancora lontani da quanto necessario, sul tema cruciale ed esistenziale per l’umanità del contrasto ai cambiamenti climatici.
Gli effetti del riscaldamento globale e i rischi ancora maggiori che questo comporta sono ormai noti a tutti grazie anche alla crescente consapevolezza nell’opinione pubblica e alla spinta proveniente dalle giovani generazioni destinate a subirne più di ogni altro le conseguenze. Il Circolo di Studi Diplomatici ne ha ampiamente dibattuto con due Dialoghi nel 2020 e nel 2021.
I termini del problema, mentre è appena iniziata la Conferenza di Glasgow, sono chiari. Le emissioni globali di CO2, secondo i dati consolidati più recenti, sono prodotti per circa il 29% dalla Cina che ha superato quelli dell’Europa nel 2002 (oggi attorno all’8%) e quelli degli Stati Uniti nel 2006 (oggi circa il 16%). La componente del carbone nella produzione di energia elettrica in Cina, nell’ambito di una politica diretta a ridurre l’inquinamento, è scesa dal 71% nel 2008 al 58% nel 2019 mentre è aumentata quella delle fonti rinnovabili, in particolare di quella idroelettrica (18%), solare ed eolica, oltre a un accresciuto uso di idrocarburi per oltre la metà importati soprattutto dal Medio Oriente ma anche dall’Asia Centrale e dalla Russia, con tutte le conseguenze sul piano geopolitico che questo comporta. Limitato è l’impiego di energia nucleare (5%). Nuove aperture di miniere di carbone, in controtendenza con quanto avvenuto negli anni precedenti, è però avvenuto nell’ultimo anno per fare fronte all’impennata della domanda di energia dovuta alla ripresa post Covid-19 e a una ridotta disponibilità di gas.
Lo stock di CO2 nell’atmosfera che determina l’effetto serra è tuttavia in grandissima parte frutto di quanto immesso da Nord America, Europa, Giappone e Russia nel corso dei più di due secoli dall’inizio della rivoluzione industriale basata sulle fonti fossili. Tali aree e paesi nel loro insieme sono stati i maggiori inquinatori con una accelerazione a ritmi crescenti fino a quando con il collasso dell’Unione Sovietica, l’avvio della globalizzazione e l’enorme crescita dei paesi asiatici emergenti, a partire dalla Cina, sono stati ampiamente superati da questi ultimi che oggi sono diventati il principale fattore di aggravamento del problema. Si tratta di paesi che hanno però ancora dei tassi di emissione pro-
Foto di gruppo dei leader presenti al G20 di Roma (giornale.it).
capite molto inferiori a quelli occidentali con l’eccezione della Cina che ha ormai raggiunto i livelli europei ma è ancora assai lontana da quelli americani.
Secondo questo parametro, ogni americano immette annualmente in media nell’atmosfera 16,4 tonnellate di CO2. Ciò è legato a consolidate modalità di uso dell’energia avuta e mantenuta a buon mercato nei processi produttivi, nei trasporti, nei luoghi di lavoro, nelle abitazioni, nelle modalità di riscaldamento e raffreddamento considerate le dimensioni e le differenziate caratteristiche metereologiche del paese per quanto ora in evoluzione. Le conseguenze dei mutamenti climatici sono state subite con frequenze e intensità crescenti di uragani, incendi e altri fenomeni estremi con danni per miliardi di dollari e centinaia di vittime. Ma settori importanti della popolazione americana hanno anche percepito che il necessario passaggio da fonti fossili a fonti rinnovabili li colpisce nei redditi, nelle prospettive di occupazione, nello status sociale. Assieme ad altre motivazioni e a malcontenti di altra natura condivisi con altre componenti della società, questi aspetti sono stati determinanti per il successo elettorale di Trump nel 2016, la cui piattaforma negazionista è stata per quattro anni pratica di governo, all’interno e nei rapporti internazionali, anche se grazie alla struttura federale del paese diversi Stati hanno continuato le politiche avviate dalla presidenza Obama, così come rilevanti settori industriali hanno continuato a investire in trasformazioni ritenute tra i maggiori fattori di sviluppo nei prossimi decenni.
Gli europei nel loro insieme immettono annualmente pro-capite 7,4 tonnellate di CO2. Questo relativamente basso livello, così come quello del valore assoluto, è dovuto, oltre che a una riduzione delle produzioni industriali negli ultimi due decenni, soprattutto alle politiche di efficientamento energetico e di sostegno alle energie alternative praticate con decisione dagli inizi di questo secolo sulla scia dell’attenzione alle questioni ambientali iniziate precedentemente.
L’UE ha posto in essere politiche e strumenti regolatori tra i quali quelli contenuti nelle direttive del 2001 e del 2003 sull’energia rinnovabile e i biofuels assieme ad altre sull’efficienza energetica tra cui, in particolare, il primo pacchetto sul clima e l’energia, entrato in vigore nel 2009, che ha posto ambiziosi obiettivi in questo campo sostanzialmente raggiunti nel 2020: una riduzione del 20% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990, una quota delle energie rinnovabili del 20% nella produzione di energia, un miglioramento del 20% dell’efficienza energetica (Programma 20-20-20). Un ampliamento quantitativo e qualitativo degli obiettivi si è avuto con una rinnovata strategia adottata nel 2014 alla vigilia della Conferenza di Parigi e con le ulteriori direttive di dettaglio introdotte in tale ambito i cui risultati sono evidenti.
Un grande impulso in questa direzione è stato poi impresso dalla Commissione guidata da Ursula Von der Leyen, con il sostegno del Parlamento europeo e dei maggiori Stati membri, che nel 2019 ha posto la transizione energetica e la lotta ai cambiamenti climatici al vertice delle priorità del suo programma per la crescita nell’UE approvato dal Consiglio europeo. Ha così lanciato il Green Deal il cui obiettivo è il raggiungimento nel 2050 del saldo zero, tra emissioni e cattura di CO2 , con la tappa intermedia della riduzione del 55% delle emissioni nel 2030.
L’esigenza di fare fronte alle conseguenze economiche della pandemia e il forte impegno in questa direzione soprattutto di Francia, Germania, Italia e Spagna ha portato come noto le istituzioni europee a costituire un fondo per la ripresa («Recovery Fund») nell’ambito del programma «New Generation EU» con lo scopo di sostenere i paesi più colpiti, con un ammontare di 390 miliardi di euro di prestiti fortemente agevolati e 350 miliardi di erogazioni a fondo perduto. Il 37% di tali fondi dovrà finanziare il Green Deal. Al fine di raggiungere gli obiettivi fissati il piano «Fit for 55» è stato adottato nel luglio 2021, contenente la previsione di specifiche misure legislative riguardanti tutti i settori per incidere sull’aumento dell’uso delle risorse rinnovabili, sull’efficientamento energetico e sulla cattura delle emissioni. Tra tali misure vi sono l’arresto della produzione di veicoli con motori a combustione interna a partire dal 2035, l’introduzione di «carbon taxes» interne e sui prodotti importati, incentivi all’uso di rinnovabili e alla piantagione di alberi. È previsto un nuovo Fondo sociale climatico del valore di 72 miliardi di euro per sostenere imprese e famiglie colpite da tali
costi sociali della transizione che potrebbero avere serie conseguenze politiche se non adeguatamente gestite.
Il programma molto ambizioso conferma la posizione di avanguardia dell’Unione europea nella lotta ai cambiamenti climatici.
Accanto a questi due gruppi di paesi, quelli di vecchia industrializzazione e gli emergenti, vi sono i paesi meno avanzati che contribuiscono in misura insignificante alle emissioni ma subiscono comparativamente i maggiori danni diretti: inondazioni devastanti, siccità, crisi alimentari, movimenti di popolazioni, conflitti. Essi sono tra coloro che spingono di più affinché sia data concretezza alla transizione energetica chiedendo al tempo stesso aiuti per adattarsi alle conseguenze del riscaldamento globale e affrontare i costi della transizione.
Tutti questi elementi sono cruciali nei posizionamenti degli attori nel negoziato che a Roma è stato rilanciato, è stato ripreso a Glasgow, tenendo conto che le decisioni del G20 sono state più precisamente esplicitate affinché poi diventassero effettivamente operative con l’auspicabile definizione delle relative modalità. Gli emergenti non mancheranno di riferirsi al principio affermato da decenni e richiamato anche nelle conclusioni di Roma delle «responsabilità comuni ma differenziate».
Il riscaldamento del pianeta colpisce evidentemente tutti. E le sue conseguenze attuali e future sono sempre più evidenti. Lo scioglimento dei ghiacci, l’elevazione del livello dei mari, e quindi in molti casi la stessa sopravvivenza degli insediamenti lungo le coste, gli effetti sui sistemi metereologici e di circolazione delle correnti marine e atmosferiche, e quindi sui crescenti rischi di siccità, alluvioni, uragani e altri fenomeni estremi di cui crescono i segni in molte parti del mondo, alterazioni della biodiversità e degli ecosistemi con le loro conseguenze sulla nascita e sulla diffusione di pandemie, sulle risorse di acqua dolce, sulle produzioni agricole e quindi sulle esigenze alimentari delle popolazioni, sulle loro condizioni di salute e sui fenomeni migratori, nonché su innumerevoli altri fattori economici e sociali con conseguenze sugli equilibri politici, sulla sicurezza globale e sui livelli di conflittualità.
La transizione energetica è quindi assolutamente indispensabile, ma vi è anche la consapevolezza degli enormi costi che questa comporta se si vogliono realmente raggiungere gli obiettivi quantitativi e temporali posti dalle Conferenze internazionali sul clima e soprattutto dall’Unione europea. Sono costi economici, sociali e politici, per le imprese, per le famiglie e per la società nel suo insieme. È tuttavia vero che lo status quo comporterebbe costi di gran lunga maggiori appena elencati, con disastri climatici sempre più frequenti da gestire e prospettive sempre più cupe per l’umanità e la sua sicurezza in tutti i sensi, incluso quello sanitario.
E ciò senza contare che rimanere indietro rispetto a un trend verso il quale la grande politica si è avviata, malgrado le inevitabili resistenze e vischiosità, determinerebbe perdite in termini di competitività complessiva dei sistemi produttivi che dovranno comunque adattarsi ai mutamenti necessari con gli opportuni sostegni e ammortizzatori da parte dei poteri pubblici. I sacrifici che saranno imposti a certi comparti, ai suoi imprenditori e lavoratori, e più in generale a tutti coloro che subiranno svantaggi dalla transizione, andranno compensati. Alle eliminazioni di sussidi ai carburanti fossili dovranno per esempio corrispondere indennizzi di eguale valore mentre andrà favorita la conversione verso le attività su cui la finanza globale e l’economia reale, dei quali il presidente Draghi ha sottolineato a Glasgow il ruolo cruciale, stanno investendo in misura crescente nell’ambito della transizione in corso. Quanto accaduto in Francia lo scorso anno con i gilets jaunes indica quel che occorre evi-
(eurispes.eu).
tare. E anche questo determinerà costi da ripartire equamente nella collettività con tutti i problemi politici, da gestire, che questo comporta.
Da tutto questo deriva la necessità di procedere decisamente sulla via della transizione ma individuando i mix che consentano di mitigare costi, oneri ed effetti negativi di ogni tipo.
È vero che l’Europa produce soltanto l’8% delle emissioni di CO2, ma è anche vero che lo stimolo verso i grandi inquinatori (nell’ordine Cina, Stati Uniti e India), che con velocità diverse si sono resi e si stanno sempre più rendendo conto dell’esigenza di agire per ridurre ciò che avrà conseguenze disastrose anche per loro, sarà tanto più efficace quanto più saremo in grado di indicare, praticare e far recepire gli standard di produzione ed efficienza che stiamo sviluppando.
Fondamentale è lo sviluppo di nuove tecnologie che riducano gli effetti della discontinuità delle rinnovabili e potenzino quindi le capacità di stoccaggio dell’energia, ne migliorino le modalità di trasmissione e aumentino le capacità di cattura affiancando quelle artificiali a quelle naturali costituite dalle risorse vegetali, da preservare e ampliare. La Cina sta procedendo in questa direzione, nella ricerca e nella produzione di impianti, e ha il vantaggio di avere nel suo territorio i minerali occorrenti, in buona parte gli stessi necessari allo sviluppo dell’economia digitale. L’Europa non dovrà rimanere in questo campo indietro rispetto a quanto si sta facendo lì e negli Stati Uniti. Lo sviluppo e la gestione di questi processi saranno una grande sfida dei prossimi decenni. Si tratterà di vedere se e in quale misura vi prevarranno gli aspetti cooperativi o conflittuali nell’azione dei principali attori.
Da perseguire è anche la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie in campo nucleare che azzerino o riducano al punto di rendere efficacemente gestibili i problemi posti dalle scorie radioattive e dai rischi di sicurezza degli impianti. E questo sia nel campo di nuove forme di fissione in piccoli impianti, dette di quarta generazione, sia della fusione di atomi di materiali non radioattivi. Per il loro uso industriale sono tuttavia previsti più decenni.
La quantità di energia da rinnovabili che dovremo produrre è enorme. In Europa e in particolare in Italia dovremmo concentrarci sulle installazioni nelle aree già costruite e in quelle industriali dismesse, non essendo ipotizzabile estendere oltre misure ragionevoli l’ulteriore utilizzo di suoli agricoli o forestali. Per l’eolico andranno sempre più sviluppati gli impianti off-shore dove vi sono le condizioni di massimo utilizzo del vento.
Ma tutto questo non potrà certamente bastare, tenuto conto dei fabbisogni di energia e di movimentazione di quella che viene prodotta. È vero che sotto quest’ultimo profilo può soccorrerci l’idrogeno, ma va considerato che i processi elettrolitici per la sua produzione richiedono a loro volta grandi quantità di energia.
Occorre quindi considerare, nell’ambito del necessario mix da realizzare, anche le aree in cui l’energia rinnovabile, soprattutto solare, può essere prodotta essendovi gli spazi e le condizioni naturali necessarie.
Grandi investimenti sono in corso per l’energia solare in Medio Oriente e in particolare nei paesi che come quelli del Golfo hanno le maggiori capacità finanziarie e potenzialità naturali per uscire gradualmente dalla monocultura degli idrocarburi. Per quanto vi siano, come nella fase attuale, aumenti di prezzi dovuti anche alla transizione a causa dei minori investimenti nel settore, essi sono nel lungo periodo destinati a vedere ridotta la loro domanda. E questo malgrado il fatto che soprattutto il gas accompagnerà necessariamente per alcuni decenni la transizione, sia per compensare le discontinuità fin quando non avremo tecnologie che, come accennato, ne riducano al massimo l’impatto, sia per fornire energia meno inquinante
di altre fonti fossili fin quando questa non sarà interamente fornita da rinnovabili.
Oltre ai governi locali, con gradazioni differenziate (l’Arabia Saudita è invitata a fare di più), sono impegnate in modo crescente in tali attività grandi imprese internazionali del settore oil and gas che si stanno progressivamente orientando verso le rinnovabili. In tal senso, con l’impulso dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, si stanno del resto muovendo le istituzioni finanziarie e di sostegno allo sviluppo che stanno fortemente riducendo i finanziamenti e le coperture assicurative agli investimenti negli idrocarburi. A Roma si è intanto concordato di porre fine nel 2022 ai finanziamenti alla produzione di carbone.
Analogamente si stanno avviando iniziative nel Nord Africa per produrre con fonti rinnovabili energia diretta sia a soddisfare i consumi locali (e nei paesi produttori di idrocarburi a rendere disponibile più gas per l’esportazione durante la transizione), sia a destinarne una parte alla produzione di idrogeno per trasportarla in Europa. Imprese italiane sono già impegnate in questa direzione.
Sappiamo quali sono le condizioni del Nord Africa in termini di sicurezza e di dinamiche geopolitiche. Diventano quindi sempre più rilevanti, anche sotto questo profilo, le azioni per la stabilizzazione di quell’area rendendo così una politica estera e di gestione delle crisi con questa finalità (e con l’avallo, per quanto può valere, dato a Roma da Biden a Macron sulla difesa europea), anche una componente importante per la transizione energetica. Questo nesso sembra d’altra parte sempre più compreso dalle istituzioni europee.
Quanto verrà dalle importazioni di energia dal nostro vicinato (non dimenticando le potenzialità nei Balcani dell’idroelettrico) sarà comunque limitato rispetto all’insieme dei fabbisogni, ma potrà contribuire in modo non trascurabile al mix che andrà costruito.
Alla Conferenza di Parigi del 2015 e nell’accordo che ne è uscito, era stato assunto l’impegno di mantenere l’aumento del riscaldamento dell’atmosfera alla fine del secolo a meno di 2 gradi rispetto all’era pre-industriale con l’esortazione di abbassarlo a 1,5. Ma su questo vi erano le riserve della Cina, dell’India, della Russia e di altri, anche se il successo relativo della Conferenza fu dovuto all’impegno congiunto dei presidenti Obama e Xi Jinping e dell’Unione europea nel cui ambito un’azione di stimolo era stata svolta dall’Italia.
Il G20, e da qui la soddisfazione del presidente Draghi, ha fatto registrare, con fatica, l’accettazione di tutti, Cina, India e Arabia Saudita comprese, dell’obiettivo di 1,5 gradi.
Un risultato raggiunto a metà è poi l’impegno comune a che la neutralità climatica (saldo zero tra emissioni di CO2 e loro cattura), sia raggiunta «entro o attorno alla metà del secolo».
L’Europa, e poi gli Stati Uniti, hanno assunto l’impegno a raggiungerla nel 2050. La Cina e la Russia (quest’ultima peraltro tra gli inquinatori storici) se lo sono dato per il 2060 ritenendo di poter raggiungere il picco delle emissioni nel 2035. Il compromesso trovato a Roma per avere un testo condiviso è stato quello sopraindicato. Nell’apertura della Conferenza di Glasgow il primo ministro indiano Modi ha però subito annunciato che il suo paese non potrà farlo prima del 2070. L’India produce il 7% delle emissioni globali di CO2, poco meno dell’Unione europea.
È stato inoltre ribadito l’impegno a fornire 100 miliardi di dollari l’anno, da parte dei paesi più ricchi per sostenere la transizione, le mitigazioni e gli adatta-
menti che si rendono necessari nei paesi meno avanzati che come abbiamo visto avranno i maggiori danni dal riscaldamento climatico. È un obiettivo molto ambizioso e molti dubitano che possa essere raggiunto. Lo potrà forse essere, o ci si potrà avvicinare, se i paesi sviluppati rientreranno in una fase di crescita stabile che consenta anche questi necessari stanziamenti. Alcuni risultati raggiunti ai margini del G20 potranno favorirlo. L’accordo sull’eliminazione dei dazi introdotti dall’amministrazione Trump su acciaio, alluminio e altri prodotti, e delle reciproche contromisure europee, dovrebbe contribuire a tale auspicata crescita sulle due rive dell’Atlantico. Anche l’impegno sui vaccini diretto a coprire l’immunizzazione del 40% della popolazione mondiale per la fine dell’anno in corso e del 70% per la metà del prossimo potrebbe contribuire alla crescita in quei paesi se effettivamente attuato, malgrado le enormi difficoltà soprattutto logistiche, con effetti positivi anche sui paesi sviluppati, così come i 650 miliardi di nuovi diritti speciali di prelievo del FMI in loro favore. Nella stessa direzione va la decisione sulla tassazione delle multinazionali di almeno il 15% dei profitti laddove sono prodotti. Non irrilevanti, anche ai fini della crescita globale, sono infine gli impegni sull’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile in un testo sul quale si è dovuto trovare l’accordo anche dell’Arabia Saudita.
La presenza effettiva dei presidenti Xi Jinping e Putin, collegati in remoto con la motivazione da loro addotta delle restrizioni per la pandemia che ha ripreso a crescere
I presidenti Putin e Xi Jinping collegati in remoto al G20 di roma (ilfoglio.it).
nei loro paesi, avrebbe probabilmente facilitato il raggiungimento di accordi come era avvenuto a Parigi. Ma i loro ministri degli Esteri hanno alla fine contribuito ai risultati parziali rivendicati dal presidente Draghi, risultati che hanno trovato approfondimento a Glasgow. Sarebbe da auspicare che una collaborazione in questo campo possa facilitare una riduzione delle tensioni anche in altri settori, benché non lasci ben sperare il contemporaneo aumento di quelle su Taiwan ove hanno avuto luogo nuovi sorvoli cinesi, peraltro subito dopo l’incontro a Roma del segretario di stato Blinken con il suo omologo Wang Yi definiti «costruttivi» dalle due parti. In conclusione dobbiamo essere sempre più consapevoli, facendoci carico di tutte le conseguenze, che la transizione energetica sarà molto costosa, difficile, ma assolutamente ineludibile e che tutti gli strumenti per renderla sostenibile andranno posti in essere con il realismo e la determinazione che le circostanze richiedono. Maurizio Melani, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Maurizio Melani è stato direttore generale per la Promozione del sistema paese del ministero degli Esteri, ambasciatore in Iraq, rappresentante italiano nel Comitato politico e di sicurezza dell’UE, direttore generale per l’Africa, ambasciatore in Etiopia, capo dell’Ufficio per i rapporti con il parlamento nel Gabinetto del ministro degli Esteri, capo della Segreteria del sottosegretario di Stato delegato alla cooperazione. Ha prestato servizio nella Rappresentanza permanente presso la CEE, nelle ambasciate ad Addis Abeba, Londra e Dar es Salaam e nelle Direzioni generali dell’Emigrazione, degli Affari politici e degli Affari economici. Docente di Relazioni internazionali e autore di libri, saggi e articoli su temi politici ed economici internazionali.
Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
Tensioni irano-azere
Al centro del contrasto troviamo l’Azerbaigian e l’Iran. Le tensioni sono aumentate di recente tra Teheran e Baku a causa di tre questioni: un’esercitazione militare congiunta che le truppe azere hanno condotto insieme alle loro controparti turche e pakistane vicino al confine iraniano; le restrizioni dell’Azerbaigian all’accesso dei camionisti iraniani in Armenia e la detenzione di due conducenti; i legami dell’Azerbaigian con il nemico dell’Iran, Israele. Il 1° ottobre, Teheran ha risposto organizzando esercitazioni militari vicino al confine con l’Azerbaigian, pochi giorni dopo che il Corpo delle guardie rivoluzionarie (IRGC) aveva dispiegato grandi quantità di personale e mezzi nell’area. La mossa è stata accolta con espressioni di preoccupazione da parte del presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, che ha commentato dicendo: «Ogni paese può svolgere qualsiasi esercitazione militare sul proprio territorio. È un loro diritto sovrano. Ma perché ora, e perché al nostro confine?» Aliyev ha detto che era la prima volta dalla caduta dell’Unione Sovietica, 30 anni fa, che l’Iran aveva pianificato una tale dimostrazione di forza così vicino al suo confine. I funzionari iraniani hanno reagito affermando che la decisione di organizzare esercitazioni è una questione di sovranità, ma altri l’hanno collegata alla presenza israeliana in Azerbaigian. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein AmirAbdollahian ha affermato che Teheran ha il diritto di tenere esercitazioni e ha sottolineato l’importanza della cooperazione tra Iran e Azerbaigian, che condividono un confine di 700 chilometri ma ha anche sottolineato, in un incontro con il nuovo ambasciatore dell’Azerbaigian, il 30 settembre scorso, che Teheran non tollera la presenza e l’attività contro la sua sicurezza nazionale da parte di Israele (definito «regime sionista») vicino ai propri confini e che prenderà tutte le misure necessarie al riguardo. Teheran ha accusato Israele di aver sabotato il suo programma nucleare e di aver assassinato diversi suoi scienziati nucleari, incluso Mohsen Fakhrizadeh (a cui è stato attribuita la paternità di un programma nucleare iraniano segreto che l’intelligence statunitense e l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica delle Nazioni Unite ritengono sia stato abbandonato nel 2003) il quale è stato ucciso in un agguato stradale telecomandato nel 2020 attribuito a Israele. Separatamente l’ambasciatore iraniano a Baku, Abbas Musavi, ha giocato alla distensione dichiarando che le manovre militari erano state pianificate da molto tempo e che non erano una minaccia per l’Azerbaigian. Ma in questo gioco di specchi, parlando durante le esercitazioni, anche il generale Kioumars Heydari, comandante delle Forze di terra dell’esercito iraniano, ha fatto pesanti allusioni ai legami israeliani con l’Azerbaigian, aggiungendo che Teheran era anche preoccupata per la presenza di forze terroristiche arrivate nella regione dalla Siria, con un non mascherato riferimento ai rapporti secondo cui la Turchia l’anno scorso ha reclutato combattenti islamici per aiutare Baku nella sua guerra contro gli armeni nel Nagorno-Karabakh. Heydari ha detto che Teheran non era sicura che i combattenti avessero lasciato la regione. L’Iran, che è accusato di condurre guerre per procura in Yemen, Siria, Iraq, lo scorso anno aveva espresso preoccupazione per i presunti tentativi di portare terroristi dalla Siria vicino ai suoi confini. L’obiettivo dichiarato dell’esercitazione «Three Brothers-2021», ha avuto il fine di rafforzare i legami esistenti tra gli eserciti di Turchia, Pakistan e Azerbaigian, nazioni che hanno relazioni difficili con Teheran. Secondo al-
«Al centro del contrasto troviamo l’Azerbaigian e l’Iran. Le tensioni sono aumentate di recente tra Teheran e Baku (...)» (twitter.com).
«L’obiettivo dichiarato dell’esercitazione “Three Brothers-2021” ha avuto il fine di rafforzare i legami esistenti tra gli eserciti di Turchia, Pakistan e Azerbaigian (...)» (nation.com.pk).
cuni analisti, Teheran si sente insicura per diverse ragioni, di cui una, può essere il timore che la presenza israeliana e l’attivismo di Baku possano essere elemento catalizzatore per la numerosa comunità azera residente nel nord dell’Iran, che conta diversi milioni di persone (i dati, di cui non vi è certezza, oscillano tra gli otto e i venti milioni) e che sebbene leali al governo centrale potrebbero essere sensibili alle sirene di un paese sciita, ma più liberale e aperto. Gli altri timori sono quelli del timore iraniano dell’accerchiamento e dell’assedio. Accanto all’Azerbaigian (con alle spalle Israele) vi sono la Turchia, che ha il secondo esercito della NATO (per Teheran, NATO è sinonimo di Washington) e il Pakistan che è una potenza nucleare nella regione; anche con questo paese vi sono forti tensioni soprattutto nei riguardi del Balucistan. Quando questi due paesi si uniscono all’Azerbaigian nelle manovre militari, si preoccupa la Russia (che cerca di tenere insieme Turchia e Iran nell’ambito dei dialoghi di Astana e soci per la Siria), che ha rapporti difficili con l’Azerbaigian in quanto Mosca sostiene l’Armenia. In un quadro così difficile non potevano mancare dichiarazioni forti: alla vigilia delle esercitazioni, il quotidiano turco Yeni Safak, considerato prossimo alle posizioni del Governo e del presidente Erdogan, ha pubblicato il seguente titolo per un’intervista con un deputato del parlamento azero: «L’Iran scomparirà dalla mappa». Inoltre l’Azerbaigian ha imposto una tassa di circolazione ai camionisti iraniani che trasportano merci e carburante nella vicina Armenia (che ha relazioni assai buone con Teheran) attraversando territori di cui Baku ha ripreso il controllo lo scorso anno durante sei settimane di intensi combattimenti contro le forze di Yerevan in una drammatica escalation del decennale «conflitto congelato» del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaigian ha anche arrestato due camionisti, il che ha portato a una richiesta di rilascio immediato da parte del ministero degli Esteri iraniano.
Five Eyes
La posizione sempre più assertiva della Cina in Asia sta impattando sulla comunità internazionale. Il QUAD, AUKUS, ANZUS, FPDA, ASEAN, ASEANARF, ShanGriLa Dialogue (manca solo l’idea di riattivare la SEATO) ne sono gli esempi più visibili. In questi ambiti si starebbe lavorando sempre più intensamente al rafforzamento delle intese relative a intelligence, cyberwarfare, sorveglianza elettronica e satellitare. Questo settore, elemento sempre assai delicato nelle relazioni tra gli Stati soffre particolarmente a causa dell’offensiva di Pechino, che vuole prendere il vantaggio tecnologico, mantenerlo e ampliarlo il più possibile rispetto alle nazioni potenzialmente ostili ai suoi progetti egemonici. In maniera inusuale in quanto si tratta di temi che dovrebbero restare confidenziali, si è acceso un vasto ma complesso dibattito sulla opportunità di allargare la cosiddetta comunità dei Five Eyes, che riunisce l’intelligence di USA, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Alcuni aderenti potenziali potrebbero essere India, Corea del Sud, Germania e Giappone. Sull’adesione di questi Stati si è molto speculato a causa
di alcuni paragrafi redatti dal sottocomitato per l’Intelligence e le operazioni speciali della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Il testo, che ha reso nota l’opzione, è all’interno del disegno di Legge di autorizzazione della Difesa nazionale per il 2022 (pp. 32-33) e in esso si chiede al Director of National Intelligence, in coordinamento con il Segretario alla Difesa, di riferire entro il 20 maggio 2022 sull’efficacia del meccansimo dei Five Eyes e di considerare i vantaggi dell’espansione dell’accordo per includere appunto la Corea del Sud, il Giappone, l’India e la Germania, fatto questo che richiede livelli straordinari di fiducia in quanto a condivisione delle informazioni classificate. Il Five Eyes è unico in quanto la maggior parte dei rapporti sono condivisi tra cinque alleati, mentre altri accordi multilaterali, come quelli all’interno della NATO, sono molto più cauti nello scambio di informazioni. Attualmente i cinque paesi valutano i potenziali pericoli dell’ascesa della Cina. Nonostante le attrattive politiche dell’allargamento dei Five Eyes di fronte alla crescente assertività della Cina, è probabile che diversi tra i cinque i paesi e (soprattutto) le loro agenzie di intelligence vi si opporranno. Gli argomenti chiave saranno incentrati sulla qualità dei servizi di intelligence da un lato e su allineamento, continuità e priorità delle politiche estera e di sicurezza dei potenziali aderenti. Nessuno dei quattro potenziali aderenti condivide in toto le opinioni degli alleati dei Five Eyes sulle minacce globali e su come affrontarle (senza contare, che al di là di una sostanziale unanimità, anche i Five Eyes hanno le loro divergenze). Tecnicamente, i quattro potenziali candidati offrono una buona qualità in quanto ai loro servizi di intelligence ma, come accennato, le priorità strategiche sono differenti. Dei quattro paesi inclusi nel disegno di legge, solo l’India ha strutture simili a quelle dei Five Eyes (grazie alla matrice britannica), ma una parte significativa della loro attività è orientato a contrastare il Pakistan e solo recentemente Pechino sta equivalendo Islamabad come livello di percezione della minaccia. Ma le vere differenze sono nelle politiche generali. La Germania ha mantenuto stretti legami commerciali con la Russia nonostante le vicende ucraine e ha resistito a tutti i tentativi di cancellare il progetto Nord Stream 2. Anche l’India ha voluto mantenere le sue strette relazioni con Mosca, soprattutto nel campo dell’approvvigionamento dei sistemi d’arma, ed è stata attenta a non permettere che il Quadrilatero si trasformasse in un’alleanza strategica contro la Cina. Il suo ministro degli Esteri ha parlato del desiderio indiano di sostituire il suo precedente «non allineamento» con un «multiallineamento». La Corea del Sud non desidera una relazione conflittuale con Pechino sia per ragioni commerciali sia per il ruolo moderatore svolto a fronte delle ricorrenti intemperanze della Corea del Nord; vi sono poi poche prospettive di un rafforzamento delle relazioni con Tokyo, che Seoul considera come un pericoloso rivale commerciale. Anche la Germania potrebbe essere tiepida verso un’intesa che potrebbe trasformarsi in uno strumento per esercitare pressioni nei confronti di Mosca e Pechino danneggiando le relazioni commerciali ed energetiche. In termini assoluti, sia di qualità che di mezzi, un credibile aderente potrebbe essere la Francia, i cui servizi, anche se fortemente sbilanciati verso l’Africa, rappresentano un elemento di tutto rispetto. Tuttavia anche per Parigi le necessità di mantenere fluide relazioni commerciali, specialmente con la Cina, potrebbero essere un elemento di fragilità nella sua adesione ai Five Eyes. Bisogna ricordare tuttavia che gli stessi
Mappa del gasdotto Nord Stream 2 (meteoweek.com).
Stati Uniti, che hanno identificato come competitor globale Pechino, hanno importanti relazioni commerciali con la Cina e vogliono comunque tenere aperta la porta del dialogo, riproponendo le stesse dinamiche che temono di vedere applicate dai loro partners (potenziali o presenti) in quel contesto.
Una nuova missione UE
Il 3 novembre scorso la EUTM MOZ (European Union Training Mission in Mozambique) è stata attivata ufficialmente a Katembe (località prossima alla capitale Maputo). Il personale della UE si unisce a migliaia di soldati stranieri schierati prevalentemente nella provincia settentrionale mozambicana di Cabo Delgado per sconfiggere i militanti legati allo Stato islamico che hanno scatenato il caos nell’area dal 2017, facendo irruzione in villaggi e città con violenze che hanno causato almeno 5.000 vittime e più di 800.000 sfollati. Il compito principale della missione è quella di migliorare la capacità operativa delle Forze armate mozambicane nel rispetto del diritto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. EUTM MOZ sosterrà le forze armate mozambicane nella costituzione di una forza di reazione rapida. In dettaglio, la missione sosterrà lo sviluppo delle capacità delle Forze armate del Mozambico nei seguenti settori: addestramento militare, compresa la preparazione operativa; formazione specialistica, anche in materia di antiterrorismo; formazione ed educazione sulla protezione dei civili e sul rispetto del diritto internazionale umanitario. La EUTM, con un nucleo di Comando a Bruxelles, formerà undici compagnie: cinque compagnie di fucilieri anfibi della Marina mozambicana a Katembe e sei compagnie di Forze speciali dell’Esercito, a Chimoio (Mozambico centro-merdionale). Tale forza si baserà sull’addestramento già impartito dall’esercito portoghese e sarà in stretto collegamento con altri partner internazionali (Spagna, Portogallo - che fornisce circa la metà del personale, Italia, Austria, Belgio, Estonia, Romania, Grecia, Lituania, Finlandia). La missione il cui mandato iniziale è di due anni, ha un bilancio annuale di poco più di 15 milioni di euro e ha il suo QG a Maputo. L’UE fornirà inoltre all’esercito mozambicano armi non letali, nello spirito «train and equip» della missione. La EUTMM MOZ arriva buona ultima, nonostante il dispiegamento fosse stata definito come urgente. La SAMIM (la missione della SADC, Southern Africa Development Community, Military Mission in Mozambique), forte di oltre 3.000 combattenti ha incontrato molte difficoltà nello schieramento e nelle attività operative al fianco delle truppe mozambicane. Oggettivamente, solo grazie al loro arrivo e al sollecito inizio delle operazioni da parte di un migliaio di soldati ruandesi, è stato possibile fronteggiare e poi disperdere i militanti islamici e stabilizzare la regione. Come accennato, in Mozambico vi sono anche istruttori militari statunitensi e portoghesi (questi ultimi poi transitati nella EUTMM MOZ) inviati sulla base di accordi bilaterali.
Addestramento con le armi, pronto soccorso, tecnica di combattimento, navigazione terrestre, informazioni e contro-intel, antiterrorismo, comunicazioni, sorveglianza del campo di battaglia ed esercizio fisico militare (twitter.com/EUTMMozambique).
Quid pro quo tra Sahel e Pacifico
«Gli Stati Uniti hanno destinato risorse aggiuntive al Sahel per sostenere l’azione antiterrorismo della Francia»; è quanto hanno annunciato in un comunicato stampa congiunto il Presidente americano e il Presidente francese, dopo il loro incontro a Roma venerdì 29 ottobre, a margine del G20. Il 22 settembre, Joe Biden aveva promesso a Emmanuel Macron di aumentare la cooperazione con la Francia nel Sahel. Il Presidente americano ha poi voluto placare il contenzioso causato dalla crisi dei sottomarini francesi, la cui vendita all’Australia è stata vanificata da Washington, firmando una partnership con Canberra. Joe Biden sembra mantenere la sua promessa anche sotto l’aspetto del ribadito sostegno finanziario. «La Francia e gli Stati Uniti cercheranno modi per aumentare il sostegno multilaterale al G5 Sahel, ai suoi Stati membri e alla MINUSMA», continua il testo. In ogni caso, questi annunci di maggiore cooperazione contrastano con il desiderio dell’ex presidente Donald Trump, di ritirare le truppe americane dal Sahel, e tranquillizzano la Francia che, obbligata a ridurre la sua operazione «Barkhane», temeva che si creasse un vuoto pericoloso. La minaccia del rafforzamento della presenza russa nel Sahel non è sfuggita all’amministrazione Biden. Gli Stati Uniti continueranno dunque a fornire supporto logistico, di intelligence e di addestramento alle Forze di difesa e sicurezza africane e a sostenere l’impegno francese; inoltre gli Stati Uniti sembrano orientati ad appoggiare le necessarie modifiche del mandato della MINUSMA, rafforzandone capacità operative e finanziarie per permettere alla forza ONU di rilevare i soldati francesi in partenza. Infine i Presidenti americano e francese hanno sottolineato, nel loro comunicato congiunto, «l’importanza della Conferenza internazionale sulla Libia del 12 novembre, nella prospettiva delle elezioni che si terranno in questo paese il 24 dicembre».
Mari caldi
Alla fine di ottobre la fregata danese Esbern Snare (F-342) ha lasciato la sua base navale a Frederikshavn con destinazione Golfo di Guinea. La fregata dovrà operare tra novembre e maggio con missioni di sorveglianza, ricognizione, protezione dell’area, scorta, nonché ricerca e soccorso. A bordo un totale di 175 persone, marinai, piloti, supporto medico rinforzato, Forze speciali e polizia militare. L’Esbern Snare ha un elicottero Seahawk SH-60 per estendere la sua area di azione. Per il ministro della Difesa danese Trine Bramsen c’è una logica di interesse per la presenza in mare: «La Danimarca è una delle principali nazioni marittime del mondo». Ha poi sottolineato l’importanza che le navi danesi possano operare in sicurezza ovunque. In media, ogni anno da 30 a 40 navi gestite da società danesi navigano nel Golfo di Guinea, trasportando merci (tra queste i containers della Maersk) per un valore di quasi 10 miliardi di corone danesi. Ma gli interessi economici non sono ovviamente limitati a quelli danesi. Il Golfo di Guinea è noto per essere l’area marittima più infestata da pirati e pericolosa al mondo, superando anche le acque somale. Secondo l’International Maritime Bureau, più del 95% dei rapimenti e degli attacchi dei pirati registrati in mare sono avvenuti nel Golfo di Guinea. La pirateria in mare costa all’economia globale quasi un miliardo di dollari. Nel Golfo di Guinea la nave danese coopera con navi italiane e francesi, nell’ambito della Presenza Marittima Coordinata, il nuovo concetto di intervento marittimo europeo. Nella zona sono presenti da tempo anche navi britanniche e americane. Anche la Danimarca fa parte della logica europea di costruzione delle capacità locali e gli incursori navali danesi dovrebbero quindi ad-
La fregata MARCEGLIA al passaggio con l’HDMS ESBERN SNARE, fregata della marina Danese; durante le operazioni di maritime security in Golfo di Guinea.
destrare i loro commilitoni del Ghana Navy Special Boat Services. Copenaghen fornisce anche supporto consultivo al Centro di coordinamento marittimo del Ghana. Ma la lotta al fenomeno della pirateria, per essere efficace, non può limitarsi al contrasto in mare ed è in questa ottica che si può leggere la recente decisione della Nigeria di inviare, nel quadro dell’ECOWAS (organizzazione regionale nella quale Abuja svolge un ruolo preponderante) 1.500 militari, 13 unità navali costiere e due elicotteri per assistere le Forze armate di quei paesi e cooperare con le operazioni condotte dalle flotte internazionali. L’impegno della Nigeria è rimarchevole, visto che il contrasto a Boko Haram nel Nord resta una sfida importante per Abuja. Ma l’impegno antipirateria della Nigeria ha una importante ricaduta interna, a causa dei legami che vi sarebbero tra attività di questo tipo e legami con la regione del Biafra.
Situazione in Mali
Mentre i negoziati tra la giunta militare che governa il Mali e la società di Sicurezza russa Wagner si intensificano, Parigi sta moltiplicando gli sforzi per impedire l’arrivo dei contractors russi a Bamako. Emmanuel Macron ha lanciato a Vladimir Putin un severo avvertimento durante una telefonata il mese scorso. L’UE, seguendo le sollecitazioni di Parigi, nel frattempo ha seguito l’esempio della Francia e ha sospeso il sostegno finanziario al Mali finchè la giunta militare non cederà le redini del potere a un governo civile eletto democraticamente. La conversazione telefonica dell’11 ottobre tra Angela Merkel, Emmanuel Macron e Vladimir Putin ha riguardato ufficialmente l’Ucraina e gli accordi di Minsk del 2019, ma è stato affrontato anche il tema del Mali. Macron ha colto l’occasione per dire alla sua controparte russa che l’arrivo del personale della Wagner nell’ex colonia francese sarebbe stato considerato da Parigi alla stregua di una aggressione. L’avvertimento è stato ripetuto pochi giorni dopo da una delegazione del ministero delle Forze armate francesi in visita a Mosca, seguita dal capo dell’importantissimo Dipartimento per gli affari africani del ministero degli Esteri di Parigi, Christophe Bigot, che si era recato personalmente nella capitale russa a settembre per discutere l’argomento con il vicepresidente del ministero della Difesa russo, Mikhail Bogdanov. In ciascuna di queste occasioni, Macron e i suoi inviati hanno ricevuto la stessa logora risposta che Mosca dà dal 2018: «la Wagner è una società di diritto privato senza legami con lo Stato russo». Risposta contestata ampiamente da Parigi, che ha messo in luce i numerosi legami tra la compagnia di sicurezza e i servizi di sicurezza russi. Ma il Mali stesso (o meglio, la giunta militare al potere) ha dei problemi con la Wagner, i cui rappresentanti erano a Bamako alla fine del mese scorso per incontrare i funzionari della giunta. Ma un accordo definitivo è ancora lontano dall’essere raggiunto, con il prezzo proposto da Wagner uno dei principali punti critici. L’estrazione mi-
neraria è un’altra questione spinosa. La Wagner inizialmente ha chiesto tre permessi di sfruttamento minerario, al fine di salvaguardare le proprie fonti di reddito senza dover fare affidamento sul bilancio statale del Mali, adottando una strategia simile nella Repubblica Centrafricana (e mettere una pesante ipoteca sul futuro di Bangui). Ma i principali siti minerari del Mali sono già gestiti da operatori internazionali e gli unici permessi disponibili riguardano le zone esplorative che
«Il dispiegamento dei contractors russi nel Nord del paese (...)» (askanews.it).
richiedono investimenti e sviluppo. Nonostante queste incertezze, la Wagner, che si sta rivelando di essere qualcosa di ben di più di una semplice società di sicurezza, ha svolto operazioni di prospezione nei siti di estrazione di oro e magnesio. Ma il quadro resta poco chiaro, infatti la giunta al Governo non ha ancora deciso il ruolo esatto che vorrebbe che la Wagner assumesse, non avendo chiesto il dispiegamento dei contractors russi nel Nord del paese, contrariamente alle dichiarazioni pubbliche dei leader del Mali negli ultimi due mesi: «Di fronte al ritiro (delle forze francesi), abbiamo l’obbligo di cercare soluzioni», secondo quanto detto dal primo ministro ad interim Choguel Kokalla Maïga all’Assemblea generale dell’ONU, il 25 settembre scorso. Gli scenari di dispiegamento attualmente allo studio da Wagner si concentrano esclusivamente sulla protezione di aree in cui la minaccia jihadista rimane contenuta. Alcune di queste zone distano meno di 50 km dalla capitale Bamako. Ma uno schieramento lontano dalle zone di crisi potrebbe infastidire la popolazione, che vede l’arrivo di un contingente russo come un ulteriore baluardo contro i gruppi jihadisti e minerebbe anche la narrativa ufficiale di Bamako, che si nasconde dietro la presenza russa per giustificare l’abbandono francese. Per non deludere le aspettative che essi stessi hanno suscitato, i leader del Mali stanno valutando l’invio di elementi della Wagner nel Nord. Sollecitata dalla Francia, ma anche applicando i suoi principi istituzionali, la UE non ha aspettato l’esito dei negoziati della giunta con Wagner per sospendere il suo sostegno di 70 milioni di euro al bilancio, seguendo le orme di Parigi, che all’indomani del secondo colpo di Stato, ha congelato le sue linee di credito dirette a Bamako, pari a 40 milioni di euro. Le capitali europee vogliono far sentire la loro insoddisfazione e mostrare la loro solidarietà a Parigi. Si tratta di un preludio a possibili sanzioni da parte di Bruxelles nei confronti di politici maliani accusati in particolare di ostruzione al corretto svolgimento delle elezioni presidenziali previste per febbraio prossimo. I ministri degli Esteri UE, che dovrebbero incontrarsi di nuovo a metà novembre per discutere la questione, dovranno anche considerare comunque un ulteriore elemento disfunzionale. Infatti, la rinnovata tensione tra Bruxelles, Parigi (senza contare Washignton e New York, parimenti irritate, soprattutto dall’inconcludente viaggio di una delegazione del Consiglio di sicurezza) arriva in un momento in cui la cooperazione militare tra la restante operazione «Barkhane», la missione multilaterale europea «Takuba», l’operazione addestrative della UE, EUTM-Mali, la missione ONU MINUSMA, la forza regionale G5S e le Forze Armate maliane (FAMa) sul terreno sta ripredendo dopo settimane di funzionamento al minimo, seguito al colpo di Stato. Ma Parigi sembra non risparmiare le iniziative per ridurre lo spazio di manovra della giunta e cercare di riportare il Mali nell’ambito della «France Afrique», anche l’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) sta valutando sanzioni individuali contro i leaders della giunta e — dopo alcune resistenze interne — sanzioni economiche contro lo Stato maliano e sono in corso discussioni a livello dell’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (WAEMU). I Capi di Stato di ECOWAS discuteranno nuovamente la questione in un vertice il 7 novembre. L’ultimo sviluppo, che fa intendere che la situazione a Bamako è «fluida», afferisce al 5 novembre quando sarebbe stato sventato un tentativo di colpo di Stato e diversi ufficiali della gendarmeria nazionale locale sarebbero stati arrestati.
Il primo ministro ad interim Choguel Kokalla Maïga all’Assemblea generale dell’ONU, il 25 settembre scorso (africa-express.info). Enrico Magnani
SCIENZA E TECNICA
I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Nello Carrara, dalle microonde ai primi radar italiani e alle comunicazioni via satellite
Negli scorsi numeri di questa rubrica abbiamo iniziato una serie di articoli dedicati ai grandi tecnici e scienziati della Marina Militare, trattando le figure di Benedetto Brin, Giancarlo Vallauri, Giuseppe Rota, Domenico Chiodo, Umberto Pugliese, Vittorio Emanuele Cuniberti, Edoardo Masdea, Ugo Tiberio, Giovan Battista Magnaghi, UmNello Carrara nel 1921, in divisa da ufficiale dell’Esercito (foto berto Cagni, Angelo Scrid’epoca, g.c. Fabio Nuti). banti, Gioacchino Russo e Francesco Rotundi.
In quest’articolo proseguiremo il percorso dedicato ai pionieri dell’ingegneria elettrica e delle telecomunicazioni, percorso iniziato con Giancarlo Vallauri e proseguito con Ugo Tiberio, trattando ora del professor Nello Carrara, che come Tiberio, di cui fu contemporaneo e con il quale collaborò, fu ufficiale delle Armi Navali, ingegnere e professore, e fornì un indispensabile contributo al gruppo che realizzò il radar italiano. Carrara ha legato il suo nome a importanti studi sulle microonde (fu lui a introdurre il loro nome), oltre che sulla tecnica radar e sulla radiolocalizzazione. Così come per il professor Tiberio, anche nel caso del professor Carrara, gran parte delle notizie e della documentazione d’epoca impiegata mi è stata gentilmente fornita dal signor Fabio Nuti, dipendente del CSSN/ITE (Centro Supporto e Sperimentazione Navale - Istituto per le Telecomunicazione e l’Elettronica) e precedentemente di Mariteleradar Livorno, cui va la mia profonda gratitudine.
Nello Carrara nacque a Firenze nel 1900; conseguì nel 1917 la Licenza liceale d’onore e quindi frequentò la Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in Fisica nel 1921 con una tesi sulla diffrazione dei raggi X, alla presenza di Enrico Fermi, suo compagno di studi
Da sinistra, Enrico Fermi, Nello Carrara, Franco Rasetti e Rita Brunetti nel 1930 ad Arcetri, dove nel 1921 era stato inaugurato il laboratorio di fisica dell’università (foto d’epoca).
che si laureò l’anno seguente con una tesi sullo stesso argomento, realizzata impiegando parte della strumentazione ideata da Carrara. Nel 1918 era stato chiamato alle armi nel corpo del Genio Militare del Regio Esercito, prestando servizio inizialmente a Fano dove, come amava raccontare, «se la scapolò con la spagnola» (1); nel 1919 venne nominato sottotenente di complemento, per essere congedato nel 1922.
Ricoprì l’incarico di assistente effettivo di fisica sperimentale presso l’Università di Pisa dal 16 ottobre 1921 al 1o novembre 1924, per essere poi nominato professore di ruolo di fisica generale dell’Accademia navale di Livorno, incarico che ricoprì dal 1° Novembre 1924 al 16 gennaio 1954; successivamente, fino al
Nello Carrara in moto a Piazzale Michelangelo a Firenze nel 1925 (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
1970, proseguì la collaborazione con l’Accademia navale come incaricato del corso di specializzazione superiore «microonde». Partecipò, come insegnante, alle campagne estive a bordo della nave scuola Francesco Ferruccio (2) nel 1927, 1928, 1929 e nel 1933 a bordo della nuovissima Cristoforo Colombo (3).
Nel 1935 ottenne la libera docenza in radiocomunicazioni. Dal 1955 al 1975 ha ricoperto l’incarico di professore di onde elettromagnetiche presso l’Università di Firenze, venendo da questa nominato nel 1975 professore emerito. Tra gli altri suoi incarichi accademici, fu incaricato del Corso di Fisica sperimentale e teorica presso l’Università di Bari nel 1945-46 (quando l’Accademia navale aveva sede a Brindisi), incaricato del Corso di Fisica e Direzione Istituto di Fisica presso l’Università di Pisa nel 1947-50 e professore di Teoria e Tecnica delle onde elettromagnetiche presso l’Istituto universitario navale di Napoli, dal 16 gennaio 1954 al 31 ottobre 1955.
Nel 1934 gli venne assegnata la Medaglia d’argento di 1a classe della Marina Militare per lavori utili alla Marina, e nel 1935 fu trasferito dai ruoli degli ufficiali di complemento dell’Esercito a quelli della Marina, venendo nominato capitano delle Armi Navali. Conseguì il grado di tenente colonnello di complemento delle Armi Navali e venne promosso, per eccezionali meriti scientifici, sino al grado di maggior generale dello stesso Corpo.
I suoi esperimenti di radiocomunicazione con le microonde interessarono anche Guglielmo Marconi che nell’ottobre 1931 gli fece visita a Livorno per potervi assistere. Tali esperimenti consistettero nei primi collegamenti radiotelefonici tra il suddetto Istituto e una villa sull’adiacente collina di Montenero, utilizzando lunghezze d’onda di 18 cm con apparati molto compatti e maneggevoli. Seguirono altri esperimenti con le Stazioni telegrafiche della Marina Militare site sulle isole Gorgona e Palmaria.
Nel marzo del 1932 nasce la rivista Alta Frequenza, fondata dal professor Vallauri, patrocinata dal Consiglio nazionale delle ricerche, dall’Associazione elettronica italiana e dalla Società italiana di Fisica. Nel primo numero della rivista venne pubblicato un articolo, dal titolo: La Rivelazione delle Microonde, a firma del professor Carrara, nel quale compare per la prima volta nella letteratura scientifica mondiale il termine «microonde» (assegnato alle oscillazioni della banda centimetrica); in particolare l’articolo riporta la seguente frase: «un triodo, ad elettrodi cilindrici, con
L’incrociatore FRANCESCO FERRUCCIO, della classe «Garibaldi» proget-
tata dal generale del Genio Navale Edoardo Masdea, venne impiegato dal 1923 al 1929 come nave scuola per gli allievi dell’Accademia navale; alle campagne estive degli anni 1927, 28 e 29 partecipò anche il professor Nello Carrara nella sua veste di professore ordinario di fisica generale in Accademia navale (immagine d’epoca).
Il professor Carrara (al centro) nel 1933 a bordo della nuovissima nave
scuola CRISTOFORO COLOMBO (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
Prima pagina dell’articolo di Nello Carrara su Alta Frequenza (n. 1, anno I - 1932) dove viene introdotto per la prima volta al mondo il termine «microonde» (documento d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
tensione di placca nulla o negativa e con tensione di griglia fortemente positiva, può emettere onde elettromagnetiche di frequenza elevatissima (microonde)». Nello stesso anno, nell’articolo The Detection of Microwaves, pubblicato sempre dal professor Carrara, sulla rivista Proceedings of the Institute of Radio Engineers, compare per la prima volta anche la versione in lingua inglese «microwaves».
Il professor Carrara collaborò fattivamente all’attività di progettazione e realizzazione di primi radar italiani effettuata dal professor Ugo Tiberio, mandato dalla Regia Marina a Livorno nel 1936 per realizzare concretamente la sua idea di radio localizzatore; in particolare Carrara progettò una valvola, realizzata dall’industria italiana FIVRE (Fabbrica Italiana Valvole Radio Elettriche) di Pavia nello stabilimento di Firenze, che permise di raggiungere una potenza di picco di 10 KW e che, inserita in un risonatore a cavità ad alto fattore di merito (Q), anch’esso di sua progettazione, permise di superare la difficoltà di ottenere potenze elevate su onde centimetriche (70 cm). Da ricordare anche gli studi sui tubi elettronici, atti a generare e ricevere microonde, che il Carrara progettò a partire dal 1932 presso l’Istituto. Questi tubi, come il magnetron monoanodico e la cosiddetta «pentola del Carrara», un oscillatore a cavità risonante, così scherzosamente chiamato per la sua forma arrotondata, si rivelarono decisivi per lo sviluppo del radar italiano. Fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti contro l’Italia, attraverso il canale diplomatico e l’addetto navale a Washington, vennero acquistate e spedite all’Istituto, per essere studiate, valvole per microonde che permisero una approfondita conoscenza di tali componenti, non militari, ma
La cosiddetta «pentola del Carrara» era un oscillatore a cavità risonante concepito da Nello Carrara presso il RIEC di Livorno negli anni Trenta, così scherzosamente chiamato per la sua forma arrotondata (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti). Schema elettrico della «pentola del Carrara» (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
Schema del dispositivo impiegato da Nello Carrara nel 1932 per la rivelazione delle microonde (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima del 1996).
Magnetron ad anodo sezionato con potenza di 10 watt (tubo progettato dal professor Carrara, 1934) - (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
Il professor Carrara nel 1935 tra gli apparati a microonde (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti). Prove radar su unità navale (1937). In primo piano il professor Carrara (immagine d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
derivati da questi e sviluppati per l’industria statunitense. La collaborazione con Tiberio per questa attività durò fino all’armistizio del settembre 1943.
Nel 1946 ha pubblicato sulla Rivista Marittima un articolo dal titolo I magnetron dei radar; nell’articolo Carrara descrive il principio di funzionamento teorico del radar e cosa sia e a cosa serva il magnetron, componente elettronico che genera impulsi di durata estremamente breve e potenza molto elevata, impulsi utilizzati appunto per la parte trasmittente del radar. In particolare, il professor Carrara, basandosi sulle più recenti pubblicazioni anglosassoni, ma anche sulle esperienze compiute in Italia prima e durante la guerra, descrive il principio di funzionamento del magnetron associato a risonatori a cavità, ancora oggi impiegato per la generazione di impulsi a microonde. Nello stesso anno ha fondato a Firenze il «Centro Microonde» del Consiglio nazionale delle ricerche, poi divenuto nel 1968 IROE (Istituto di Ricerca sulle Onde Elettromagnetiche), assumendone la presidenza; nel 1994 l’Istituto assunse il nome del suo fondatore «Nello Carrara»; dal 2002 l’Istituto è stato fuso con l’IEQ (Istituto di Elettronica Quantistica, nato nel 1970 come Laboratorio di Elettronica Quantistica) dando vita all’IFAC (Istituto di Fisica Applicata) «Nello Carrara». L’Istituto, inizialmente ubicato presso l’Università di Firenze in viale Morgagni, fu trasferito nel 1958 in un nuovo edificio in via Panciatichi,
Un’immagine (schema di principio di un magnetron) dell’articolo sui magnetron dei radar pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Rivista Marittima nel 1946. Un’immagine (magnetron tra le scarpe polari del suo elettromagnete) dell’articolo sui magnetron dei radar pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Rivista Marittima nel 1946.
Nello Carrara all’inizio degli anni Cinquanta, quando era direttore della FIVRE (Fabbrica Italiana Valvole Radio Elettriche) - (foto d’epoca, g.c. Fabio Nuti).
costruito grazie all’impegno del CNR e al sostanziale contributo della Magneti Marelli S.p.A.
Nel 1959, nell’ambito della cerimonia di inaugurazione del salone della tecnica di Torino, è stato consegnato il premio «Fondazione Vallauri» al professor Carrara, per premiarne l’attività teorica e pratica nello studio delle onde elettromagnetiche e delle loro applicazioni al campo dell’elettronica e delle telecomunicazioni. Altri premi, riconoscimenti e decorazioni attribuitigli sono i seguenti: — 1935, Medaglia d’oro dell’AEI (Associazione Elettronica Italiana) per l’attività scientifica nel biennio 1933-34 (premio Righi); — 1937, Medaglia d’oro per l’attività scientifica nel quadriennio 1933-36 (Premio Brezza); — 1966, Grande Medaglia d’oro dell’Istituto internazionale delle comunicazioni di Genova «per i suoi Studi di fama mondiale nelle Telecomunicazioni e in astronautica»; — 1967, Medaglia d’oro per le Scienze della International Columbus Association (Premio Columbus); — 1970, Medaglia d’oro per i benemeriti della cultura e dell’arte del ministero della Pubblica istruzione; — 1978, Premio internazionale «Le Muse», nel simbolo della Musa Urania; — 1981, Premio «S. Giuseppe» - Piero Bargellini, per la scienza; — 1984, Medaglia associazione internazionale Toscani nel Mondo, «per gli alti meriti nel campo della cultura»; — 1989, Premio «Meridiana d’Argento», dell’Istituto italiano di navigazione, per i grandi meriti scientifici. È stato membro del Comitato per la Fisica, dell’Unione Radio-scientifica internazionale (URSI), del COSPAR e di vari altri comitati del Consiglio nazionale delle ricerche, presidente del Consiglio scientifico dell’IROE, presidente del Consiglio scientifico del Centro di studio dispositivi e metodi radiotrasmissioni, Pisa (CNR) e presidente del «Joint Satellite Studies Group». Il professor Carrara ha coniugato alla sua attività scientifica un ruolo imprenditoriale, in società attive
Il professor Nello Carrara vicino al CFL3, primo radar di progettazione e produzione interamente italiana, realizzato dalla SMA (Segnalamento Marittimo e Aereo) in collaborazione con il Centro microonde, interamente progettato e realizzato a Firenze nel 1950, destinato a naviglio militare per scoperta e navigazione (immagine d’epoca, ifac.cnr.it).
nella produzione di componenti e sistemi attinenti ai suoi campi di studio; è stato per diversi anni il direttore della società FIVRE S.p.A. di Pavia, specializzata nella costruzione di tubi a vuoto. Il suo ruolo imprenditoriale è però legato in particolare alle vicende della SMA (Segnalamento Marittimo e Aereo) di Firenze, di cui fu direttore dal 1947 al 1970, poi presidente dal 1977 al 1984 e infine presidente onorario, portando la società ad assumere un ruolo da protagonista nel settore della produzione in Italia di radar, in particolare per le esigenze della Marina Militare (navi ed elicotteri). Ricordiamo il radar CFL3, primo radar di progettazione e produzione interamente italiana, realizzato dalla SMA e nato dalla collaborazione tra il Centro microonde di Firenze, l’istituto di ricerca che sviluppò un prototipo del radar nel 1949, e la SMA, una piccola società fiorentina che produceva ottiche per il segnalamento, boe luminose e fari, principalmente per la Marina Militare. La sigla CFL3 deriva dai cognomi dei suoi ideatori: Nello Carrara, direttore del Centro microonde; Lorenzo Fernandez, fondatore e amministratore delegato della SMA; Pietro Lombardini, progettista del radar. Il 3 indica la lunghezza d’onda impiegata (3 cm).
Ha anche collaborato con le società Officine Galileo di Firenze (che nel 1994, dopo la morte di Carrara, ha incorporato la SMA), Magneti Marelli S.p.A. di Milano, Pignone S.p.A. di Firenze ed è stato presidente della Selesmar dal 1982 e vice-presidente del gruppo Spazio e comunicazioni di Firenze fino al 1990.
Il professor Carrara vanta una produzione scientifica di oltre 100 pubblicazioni, le quali, oltre alle citate tematiche delle microonde, dei radar e delle radiocomunicazioni, hanno riguardato anche studi sui raggi X, sull’assorbimento molecolare delle microonde e, al termine della sua carriera, sulla sincronizzazione di orologi atomici e sugli esperimenti con la sonda Giotto e con il satellite Tethered (il satellite al «guinzaglio» rilasciato nello spazio dallo Space Shuttle). Carrara, infatti, si è anche occupato di ricerche spaziali, in collaborazione con centri di ricerca statunitensi ed europei.
Tra le sue pubblicazioni si citano in particolare le seguenti: — Sulla riflessione dei raggi X, Nuovo Cimento, vol.1, p.107, (1924); — The detection of microwaves, Proceedings of the Institute of Radio Engineers, vol.20, [10], p.1615-1625, (1932) (pubblicazione per la quale gli si riconobbe la paternità del termine «microonde»); — Microonde, Alta Frequenza, vol.5, p.691, (1936) e vol.6, p.104-209, (1937); — Il magnetron come resistenza negativa, Alta Frequenza, vol.4, [1], p.1-8, (1935); — Resistenze differenziali negative e oscillatori di rilasciamento, Alta Frequenza, vol.7, [3], p.3-26, (1938); — Torque and Angular momentum of centimetre Electromagnetic Wave, Nature, vol.164, p.882-885, (1949); — Spettro di assorbimento delle molecole di ossigeno della gamma delle microonde, Annali dell’Istituto Universitario di Napoli, vol.24, p.1-36, (1955); — Radiométéores, in Meteorological and Astronomical Influences on Radio Waves Propagation, Pergamon Press, New York, Chapter 13, p.281-312, (1963);
Immagine di apertura dell’articolo sulle comunicazioni via satellite pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Rivista Marittima nel 1979.
— A Synoptic Study of Scintillations of Ionospheric origin in Satellite Signals, in Space Research V, NorthHolland, Amsterdam (1965); — Present Developmentes of Digital Telemetry from Space Vehicles, XVI Convegno internazionale delle comunicazioni, Genova, ottobre 1968.
Nel 1979 Carrara ha pubblicato sulla Rivista Marittima un articolo dal titolo Le comunicazioni via satellite, nel quale descrive lo sviluppo dei satelliti per telecomunicazioni (4), individuando i satelliti da comunicazione come tecnologia abilitante per l’impiego dell’informatica a bordo delle navi e descrive le prime applicazioni allora in fase iniziale, con i satelliti MARISAT e la firma, avvenuta nel 1976, della convenzione internazionale INMARSAT. Carrara affronta anche l’attività nel settore delle comunicazioni via satellite dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e dell’Italia, e le particolarità delle comunicazioni a fini militari.
Nel 1980 ha ricevuto la Laurea Honoris Causa in Ingegneria presso l’Università di Firenze. Durante la cerimonia di laurea ha
Un’immagine (parti che compongono il satellite Marisat) dell’articolo sulle comunicazioni via satellite, pubblicato dal professor Nello Carrara sulla Rivista Marittima nel 1979. La cerimonia della Laurea Honoris Causa in ingegneria concessa al professor Nello Carrara nel 1980 (g.c. Fabio Nuti).
discusso di un progetto per la cattura dell’energia solare, frutto di una collaborazione tra un’agenzia americana e una europea, che prevedeva l’installazione di 40 satelliti in orbita intorno alla terra, i quali, da 37.000 chilometri di altezza avrebbero dovuto catturare quanta più energia solare possibile e convogliarla mediante generatori di microonde verso la terra. Ha inoltre trattato di come sincronizzare esattamente due orologi mettendoli in comunicazione mediante un satellite.
Il professor Nello Carrara ha rappresentato un chiaro esempio di geniale scienziato che ha saputo coniugare alla carriera accademica e scientifica l’impegno nell’industria a elevata tecnologia; è rimasto profondamente legato alla Marina Militare, che ha avuto la fortuna di averlo come insegnate in Accademia navale per quasi 45 anni, dal 1924 al 1970. Numerosi suoi ex allievi, alcuni dei quali arrivati poi a ricoprire l’incarico di Capo di Stato Maggiore Marina, ne ricordano le grandi capacità didattiche, che rendevano chiara e interessante la fisica a tutti suoi allievi. Da ricordare anche il suo ruolo fondamentale, accanto al professor Tiberio, nello sviluppo del radar italiano presso il RIEC di Livorno subito prima e durante la Seconda guerra mondiale, e l’attività di sviluppo e produzione di radar per impiego navale nel dopoguerra, quando era ai vertici della società SMA.
Nello Carrara è stato insignito delle onorificenze di Grande Ufficiale al merito della Repubblica e di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro.
È morto a Firenze il 5 giugno 1993.
Claudio Boccalatte
NOTE
(1) Tra il 1918 e il 1921 la pandemia influenzale conosciuta come «spagnola» fece decine di milioni di vittime in tutto il mondo, e circa 600.000 in Italia. (2) Il Francesco Ferruccio fu un incrociatore corazzato della Regia Marina della classe «Garibaldi», progettata dal generale del Genio Navale Edoardo Masdea. Impostato nel 1899 presso il Regio Arsenale di Venezia, fu varato nel 1902 e consegnato nel 1905. Dal 1923 venne impiegato come nave scuola per gli allievi dell’Accademia navale di Livorno. Dopo aver svolto l’ultima crociera addestrativa nell’estate del 1929, con l’entrata in servizio dei grandi velieri Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo, il Ferruccio venne posto in disarmo e dopo essere stato radiato il 1º aprile 1930 venne definitivamente demolito. (3) Il Cristoforo Colombo venne realizzato nel Regio Cantiere di Castellammare di Stabia dal 1926 al 1928. Come la quasi gemella Amerigo Vespucci, era basato su di un progetto dell’allora tenente colonnello del Genio Navale Francesco Rotundi, che riprendeva esternamente le linee del vascello a vela Re Galantuomo (ex Monarca della Marina borbonica). Le due navi andarono a costituire nel 1931 la Divisione navi scuola ed effettuarono diverse serie di Campagne di istruzione. All’atto dell’armistizio, le due unità che si trovavano a Venezia, raggiunsero Brindisi. Nel dopoguerra, in ottemperanza alle clausole del trattato di pace firmato a Parigi, la Cristoforo Colombo venne ceduta all’Unione Sovietica, che la utilizzò nel Mar Nero fino al tragico incendio del 1963 che la distrusse. (4) All’epoca, l’impiego dei satelliti per la trasmissione a grandi distanze di dati era notevolmente più conveniente rispetto all’impiego dei cavi sottomarini, assicurando comunque un’altissima affidabilità; oggi la situazione si è invertita, e per l’enorme quantità di dati necessaria al funzionamento di internet (fenomeno inimmaginabile nel 1979) si preferisce l’impiego dei cavi sottomarini ai satelliti.
BIBLIOGRAFIA
Fabio Nuti, Istituto per le telecomunicazioni e l’elettronica della Marina Militare «Giancarlo Vallauri» – una storia lunga un secolo 1916-2016, Pisa 2017. Rivista Marittima, maggio 1946: I magnetron dei radar, di Nello Carrara. Rivista Marittima, dicembre 1959: Assegnato al prof. Nello Carrara il premio Vallauri per il 1959. Rivista Marittima, febbraio 1979: Le comunicazioni via satellite, di Nello Carrara. Rivista marittima, marzo 1996: Le microonde di Nello Carrara, di M. De Paolo e G. Pelosile. Rivista Marittima, settembre 2008: Nello Carrara, di M. Cavicchi. AA.VV., Ancora e gladio - Il corpo delle Armi Navali, Genova 2008. Un Istituto eccellente di ricerca a Livorno. L’Istituto per le Telecomunicazioni e l’Elettronica «Giancarlo Vallauri», di Miranda Cavicchi, 2008. ifac.cnr.it. treccani.it/enciclopedia/nello-carrara. it.wikipedia.org/wiki/Nello_Carrara. USMM, Tutte le navi militari d’Italia 1861-2011, di Franco Bargoni, Roma 2012. USMM, Uomini della Marina 1861-1946. Rivista Marittima, settembre 2015 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Benedetto Brin, di Claudio Boccalatte. Rivista Marittima, dicembre 2015 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Giancarlo Vallauri, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, febbraio 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Giuseppe Rota, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, marzo 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Domenico Chiodo, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, maggio 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Umberto Pugliese, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, novembre 2016 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Vittorio Cuniberti, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, febbraio 2017 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Edoardo Masdea, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, maggio 2017 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Ugo Tiberio, ideatore del radar italiano, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, novembre 2017 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Gian Battista Magnaghi, artefice dell’Istituto idrografico di Genova, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, gennaio 2019 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Umberto Cagni, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, aprile 2019 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Angelo Scribanti, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, maggio 2021 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Gioacchino Russo, di C. Boccalatte. Rivista Marittima, ottobre 2021 - Rubrica Scienza e Tecnica: I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Francesco Rotundi, di C. Boccalatte.
CHE COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Sea Power Makes Great Powers»
FOREIGN POLICY, FALL 2021.
«Il numero di navi che un paese possiede non è mai stato l’unica misura del suo potere in mare. Altri fattori, ovviamente, giocano un ruolo importante: i tipi di navi che possiede — sottomarini, portaerei, cacciatorpediniere — il modo in cui sono schierati, la sofisticazione dei loro sensori, la portata e la letalità delle loro armi contribuiscono tutti a fare la differenza. Still, on the high seas, quantity has a quality all its own», esordisce il Navy Captain (ret.) Jerry J. Hendrix, autore del volume To Provide and Maintain a Navy (2020), lamentando subito come negli ultimi decenni, il numero delle navi statunitensi abbia visto un drammatico declino complessivo. Dalla fine della Guerra Fredda in poi, i politici hanno sistematicamente tagliato i finanziamenti alla Marina degli Stati Uniti per creare «un dividendo di pace miope» e ai nostri giorni, con i bilanci della Difesa piatti o in declino, i principali funzionari del dipartimento della Difesa stanno spingendo una strategia di «disinvestimento per investire», in base alla quale la Marina dovrebbe smantellare un gran numero di navi più antiquate per liberare fondi per acquistare meno piattaforme, più sofisticate e presumibilmente più letali. In altre parole, «ridurre drasticamente la flotta per pagare la modernizzazione». La Cina, nel frattempo, sta espandendo aggressivamente la sua impronta navale e aspira a mettere insieme la più grande flotta del mondo. Le voci più autorevoli da un lato riconoscono la crescente minaccia cinese, mentre dall’altro sostengono che gli Stati Uniti devono ridurre la loro attuale flotta per modernizzarsi. L’ammiraglio Philip Davidson, che ha guidato il Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti fino al suo pensionamento la scorsa primavera, ha osservato a marzo che la Cina potrebbe invadere Taiwan nei prossimi sei anni, presumibilmente preparando il terreno per una grande resa dei conti militare con gli Stati Uniti. L’ammiraglio Michael Gilday, capo delle operazioni navali, a sua volta ha sostenuto che la Marina ha bisogno di accelerare la disattivazione dei suoi vecchi incrociatori e navi da combattimento litorali per liberare denaro per navi e armi che saranno fondamentali in futuro. Nel loro insieme, questi punti di vista si sommano «alla confusione strategica e all’oblio della storia», non esita a denunciare l’Autore. «Secoli di rivalità globale mostrano come il potere di un paese — e il suo declino — sia direttamente correlato alle dimensioni e alle capacità delle sue forze navali e marittime». Di qui un rapido ma pregnante excursus storico: da Atene a Cartagine, da Venezia alle Province Unite d’Olanda, all’impero del mare della Gran Bretagna nel XIX secolo basato sulla politica del two-power-standard, cioè possedere un flotta che fosse sotto il profilo quantitativo pari alle due principali flotte mondiali, paradigma messo in crisi agli inizi del XX secolo dalla corsa agli armamenti navali della Germania, dal raddoppio della forza di battaglia della Marina degli Stati Uniti sotto il presidente Theodore Roosevelt nonché dalla politica di riduzione della flotta inglese voluta dal primo lord del mare, ammiraglio John «Jackie» Fisher, proprio in nome della «dismissione per investire», come vogliono fare oggi gli Stati Uniti. La successiva espansione della flotta statunitense attraverso due guerre mondiali — con più di 6.000 navi — catapultò gli Stati Uniti al potere e alla prominenza globale. Infine, la Marina di Ronald Reagan con 600 navi, tanto una campagna di pubbliche relazioni quanto un piano di costruzione navale, contribuì a convincere l’Unione
Sovietica che non avrebbe mai vinto la Guerra Fredda. Quindi l’Autore passa alla fase propositiva imperniata su tre capisaldi: per evitare gli errori del passato, il Congresso dovrebbe stanziare fondi sufficienti sia per fornire una flotta più nuova e più moderna a lungo termine, sia per mantenere la Marina che deve misurarsi oggi contro la minaccia reale e prossima della Cina. Tale allocazione richiede un aumento annuale del 3-5% del budget della Marina per il prossimo futuro, come peraltro raccomandato dalla Commissione bipartisan per la strategia di Difesa nazionale del 2018. Nemmeno una flotta di 355 navi, il numero avanzato dall’amministrazione Obama nei suoi giorni di chiusura, sarà sufficiente a ristabilire la deterrenza convenzionale in alto mare. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero puntare, secondo l’Autore, a una flotta di 456 navi, comprendente «a balance between high-end, high-tech ships such as nuclear attack submarines and low-end, cheaper small surface combatants». Dovrebbe nel contempo anche cercare di prolungare la vita delle navi che ha ora nel suo inventario per coprire la minaccia a breve termine. In conclusione, «in questo terzo decennio del XXI secolo, gli Stati Uniti non devono ignorare le rime della storia», ripetendo gli errori della potenza marittima che l’ha preceduta — la Gran Bretagna — cullandosi nella falsa convinzione di poter «disinvestire per investire» in un futuro più luminoso, mentre la Cina manovra per superarla. Deve avere budget per la Difesa più grandi che consentano una strategia di sicurezza nazionale incentrata sulla potenza marittima di fronte alle crescenti sfide e minacce in corso. «Gli Stati Uniti devono riconoscere ancora una volta — come altri hanno fatto prima di loro — che sugli oceani del mondo, la quantità ha una qualità tutta sua».
«Degrading China’s Integrated Maritime Campaign»
JOINT FORCE QUARTERLY, N. 103, 4th QUARTER 2021.
L’Irregular Warfare(IW) è un metodo disponibile per le Grandi Potenze per modellare o controllare l’architettura globale consentendo a uno stato di «influenzare le popolazioni e influenzare la legittimità» senza incorrere nelle perdite più pesanti tipicamente associate ai conflitti armati veri e propri. Gli ultimi decenni hanno visto l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese (RPC) come Grande Potenza e la sua orchestrazione di una campagna marittima integrata che utilizza l’IW — per esempio, coercizione economica, intimidazione diplomatica, lawfare (distorsione degli usi giuridici) e hacking dei sistemi informatici — per controllare il Mar Cinese Meridionale (SCS) nel contesto degli spazi rivendicati da Pechino con la nota «linea dei 10 trattini». Nel presente saggio, il maggiore dei Marines Douglas J. Verblaauw esamina le tattiche e gli strumenti di IW di questa campagna marittima surrettizia e descrive come gli Stati Uniti possono lanciare un’efficace contro-campagna per ristabilire l’ordine nel SCS creando una rete di sorveglianza e rafforzando le istituzioni di Sicurezza regionali. Tre sono Servizi marittimi della RPC che svolgono un ruolo importante nella campagna di controllo e presidio del SCS da parte di Pechino: innanzitutto la Marina Militare (PLA Navy), poi la Guardia costiera e infine la Milizia Marittima delle Forze Armate del Popolo (People’s Armed Forces Maritime Militia-PAFMM), le cui unità, mancando dei segni distintivi nazionali delle navi PLAN o CCG appaiono come normali pescherecci, i cui equipaggi, «indossando uniformi mimetiche, si qualificano come militari, mentre togliendosele, diventano innocui pescatori rispettosi della legge». E proprio l’incertezza su come trattare la flotta PAFMM (le cui unità, secondo le stime più accreditate, assommano a ventimila sotto le 50 t), ha lasciato le Forze marittime di altri paesi incapaci di rispondere in modo appropriato. «Se agiscono con la forza perché credono che le navi PAFMM siano veri e propri ausiliari navali, rischiano l’escalation verso un
conflitto armato e la condanna per aver attaccato un peschereccio “innocente” [come negli esordi del romanzo strategico 2034, di cui abbiamo parlato nella rubrica di ottobre]. Se, invece, agiscono con moderazione e trattano le navi PAFMM come normali pescherecci, mettono a rischio la sicurezza delle proprie navi». Gli Stati Uniti e i paesi del Sud-Est asiatico hanno aspettato abbastanza a lungo che la Cina agisse nel SCS come «potenza responsabile», è tempo che inizino una contro-campagna lungo due obiettivi di sforzo, sottolinea il nostro Autore: la creazione di una rete di sorveglianza (in grado di rilevare, identificare e monitorare le navi PAFMM che minacciano la sicurezza regionale e le rivendicazioni di sovranità al fine di facilitare la segnalazione e l’interdizione internazionale) e il rafforzamento delle istituzioni di Sicurezza regionali, al fine del ripristino di un processo decisionale tempestivo e la celerità dell’azione in scenari di crisi. La rete di sorveglianza dovrebbe quindi designare un «attore principale» per costruire, mantenere e proteggere la rete di sorveglianza. La scelta immediata sono gli Stati Uniti a causa delle storiche posizioni di sicurezza internazionale del Sud-Est asiatico e dell’esperienza nelle principali organizzazioni internazionali. All’interno della panoplia statunitense, il tipo di organizzazione più adatta a questo ruolo è una Combined Joint Interagency Task Force (CJIATF). In ogni caso, gli Stati Uniti potrebbero assumere il ruolo di «abilitatorechiave» del sistema di sorveglianza, se la direzione del CJIATF venisse assunta da uno degli altri due candidati plausibili, cioè Indonesia o Singapore. Come «istituzione regionale» la scelta più ovvia andrebbe subito all’ASEAN, cioè al Forum regionale dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico composta da 27 paesi, se non fosse per il fatto che l’ASEAN è un Forum decisionale di consenso, il che significa che nessuna scelta viene fatta «contro la volontà di un individuo o di una minoranza» e, poiché la Cina è membro del Forum, potrebbe ritardare o impedire qualsiasi decisione che non sia a suo favore! Si dovrebbe puntare allora su di un «forum alternativo sulla sicurezza» composto solo da Stati membri dell’ASEAN che prenderebbero decisioni basate su una maggioranza qualificata, anche se questo tipo di organo decisionale non includerebbe né gli Stati Uniti né la Cina. Queste sono le proposte che l’Autore pone sul tavolo al fine di verificarne da fattibilità, e nel frattempo? Gli Stati Uniti devono aumentare la propria presenza nel SCS in nome e in difesa della libertà di navigazione, mentre Pechino dovrebbe rispolverare le massime dei suoi classici maestri, come Zuo Qiumingper il quale «le buone relazioni non devono essere trascurate; l’inimicizia non deve essere nutrita».
L’air carrier strike group RONALD REAGAN in transito nello Stretto di Malacca alla volta del Mar Cinese Meridionale (ndupress.ndu.edu/JFQ). Ezio Ferrante
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Mirko Mussetti (a cura di) (prefazione di Lucio Caracciolo) La rosa geopolitica
Economia, strategia e cultura nelle relazioni internazionali
Paesi Edizioni Ottobre 2021 pp. 128 Euro 15,00
Mirko Mussetti, collaboratore di Limes e già vincitore di premi per la saggistica, non è nuovo a uscite editoriali di pregio, lo testimoniano Axeinos! Geopolitica del Mar Nero e Nemein. Ma ne La rosa geopolitica riesce a offrire il meglio, una teoria innovativa espressa in forma sintetica e gradevole, di immediata e completa fruizione, che ricorre a un uso corretto e pieno dell’astrazione. Specialmente in questi tempi di pandemia e di scontri economici asimmetrici e globali, il lemma «geopolitica» è stato oggetto di rivisitazioni e, spesso, anche di utilizzi poco appropriati, perché ispiratore di mode non sostenute però da alcun indispensabile supporto dottrinario. Il dottor Mussetti, analista geopolitico e di geostrategia, riordina lo studio della disciplina, complessa proprio perché trasversale, partendo da un’analisi che investe geoeconomia, geostrategia e geocultura, e che stigmatizza in queste branche la mancanza di politiche incisive tale da determinare il crepuscolo delle nazioni. Il saggio non cita nomi e riferimenti degli egemoni che esercitano i rapporti di forza su scala planetaria, ma fornisce gli strumenti per interpretare e declinare le definizioni generali, stigmatizzate con originalità e profondità concettuale in una realizzazione grafica che, simbolicamente, esplica e introduce alla triplice manifestazione di geoeconomia, geostrategia e geocultura, ritenuta tuttavia imperfetta, tanto che dalla sovrapposizione di questi macro ambiti si determinano i tre tipi di conflitto ibrido, che hanno segnato e segneranno tutte le epoche e che rendono, come sostiene l’autore, «la rosa geopolitica è perenne». Il libro aiuta a leggere i principi sottesi tra le righe, coniuga sintesi, simboli e metafore che ampliano l’orizzonte partendo dal mondo classico, da cui trarre spunto e lezione. Logica e razionalità si coniugano all’astrazione, e in un contesto dialettico ricco di spunti, lasciano la possibilità di ragionare e di controbattere aprendo ulteriori scenari. Il campo entro cui si profilano i nuovi equilibri tra le potenze, non è solo quello ristretto allo scontro convenzionale, ma anche a quello asimmetrico, al confronto ibrido che spazia dalla guerra economica a quella cognitiva. La geopolitica, così declinata, assurge al ruolo di molteplice strumento in grado di stimolare sensibilità e contatti volti alla comprensione delle dinamiche globali. Mussetti ha il merito di ricordarci come la politica sia sempre condizionata dalla conoscenza della storia, della geografia, della sociologia, della filosofia nel senso più esteso e lato possibile, senza porsi particolari confini. Ai leader del nostro tempo è richiesto il possesso di tutte queste competenze utili, nel pubblico come nel privato, per la comprensione delle dinamiche geopolitiche. Le connessioni economiche globali e i fattori capaci di influenzare gli equilibri internazionali determinano situazioni per cui ogni evento non può non avere una risonanza più che estesa. Il libro del dottor Mussetti aiuta a fornire e promuovere cultura e comprensione globali di scenari globali, e si propone quale base concettuale per dare ausilio a politici e imprenditori a comprendere le dinamiche che, con le loro conseguenze, caratterizzano la realtà quotidiana.
Gino Lanzara
Renato Caputo, Vittorfranco Pisano (a cura di) I come Intelligence
Indispensabilità & limiti
ilmiolibro self publishing (GEDI) Roma 2021 pp. 164 Euro 25,50
Il nuovo testo steso da Renato Caputo e Vittorfranco Pisano, affronta una tematica di fatto mai passata di moda, quella dell’intelligence, secondo uno schema organico e comprensibile, utile sia al neofita della materia per cominciare a esplorare una realtà quanto mai complessa, sia all’edotto, che potrà sicuramente approfondire i numerosi argomenti affrontati. Il libro si propone come un’analisi scorrevole, e tale da fornire un’adeguata strutturazione inerente sia
alla raccolta delle informazioni sia al loro utilizzo relativamente alla sicurezza dello Stato. L’intelligence afferisce ad ambiti estesi, dove cultura, preparazione e flessibilità mentale non attengono esclusivamente all’ambito pubblico, ma anche a procedure adottate da gruppi industriali, centri studi e di ricerca privati, connotando così nel modo più esteso possibile un’attività sempre più fondamentale. Caputo e Pisano nel loro testo si soffermano sulle attività di interesse degli organismi statali a cui è demandata la sicurezza collettiva, una sicurezza che non pertiene più all’ambito strettamente militare o agli aspetti interni, ma che si estende a settori strategici connessi all’informatica e alle risorse energetiche, alle comunicazioni, ai brevetti e, non da ultimo, in considerazione della pandemia in corso, anche al settore farmaceutico. Gli autori nel libro affrontano organicamente problemi, procedure e limiti dell’attività di intelligence, individuandone le funzioni basilari, ovvero la ricerca e l’analisi delle informazioni necessarie al perseguimento della propria strategia districandosi tra big data e ambienti all source; la contro-intelligence difensiva e offensiva; le operazioni coperte, anche se rappresentano solo un settore interessante i servizi d’istituto; gli aspetti tecnologici posti al servizio delle attività securitarie finalizzati al perseguimento della superiorità informativa non disgiunta dall’effettuazione di forti investimenti; le attività di controllo dei flussi finanziari volti a sostenere il terrorismo. Gli autori approfondiscono poi gli aspetti collegati alla struttura e al capitale umano investito, alla suddivisione binaria (interni ed esteri) dei servizi e alla loro più o meno variegata articolazione nazionale, con la necessità di procedere alle attività di copertura e alle dinamiche operative necessarie all’effettuazione delle operazioni. Trova spazio anche l’interessante disamina dei rapporti intercorrenti tra i servizi d’intelligence, ovvero sull’analisi basata sulla necessità di collaborazione con gli omologhi alleati pur se talvolta condizionata da differenze gerarchiche e diffidenze, capaci di condizionare e rallentare lo scambio di informazioni. Come ogni attività, anche l’intelligence conosce condizionamenti e limiti; sotto questo punto di vista ci si indirizza più sulla sicurezza che non sulla difesa, oltrepassando così una visione rigidamente militare del concetto di potenza nazionale per estenderla anche ad altri ambiti; un’evoluzione, senz’altro, che, tuttavia, data l’estensione e il numero dei fattori interessati, che spaziano dall’economia alla sicurezza interna, rischia di relativizzare il concetto stesso di intelligence. Il rischio fondato è che se la politica non è più in grado di individuare quali siano priorità e interessi nazionali, l’intelligence potrebbe non ricevere risorse adeguate per lo svolgimento dei propri compiti, resi già complessi dalle crescenti difficoltà tecniche e da valorizzazione e comprensione del limite costituito dall’elemento umano, come accaduto per gli eventi relativi all’11 settembre, dove un’analisi a posteriori ha dimostrato che l’insieme degli elementi costitutivi degli attentati ha costituito un unicum che un’attenta analisi portata sul singolo fattore avrebbe potuto evitare o, quanto meno, limitare. Proprio in merito a questo evento sorgono le domande circa cosa non abbia convenientemente funzionato, tra il coordinamento fra troppi enti diversi, e una sopravvalutata fiducia nell’ELINT a discapito dell’HUMINT. Insomma, tra le competenze da valorizzare, oltre alla digitale e alla cibernetica, trovano spazio anche le attività di intelligence in ogni ambito, e in ogni caso ovunque sia necessario reperire e analizzare informazioni e analisi rapide, esaurienti e aggiornate, affidate a professionisti colti, privi di pregiudizi, razionali, e in grado di cogliere dettagli, correlare dati e sintesi parziali per delineare gli scenari più realistici in funzione dei target affidati all’istituzione per cui opera. La presenza di rischi consolidati in quanto a valutazione delle conoscenze dei rischi a esse associati, e delle più recenti asimmetrie ibride, suggerisce che il professionista dell’intelligence più evoluto, sia dotato di una cultura superiore e di un approccio olistico ed esteso, un approccio per cui il testo contribuisce a individuare i mezzi migliori utili all’inserimento delle attività in un contesto multidisciplinare. Anche in Italia, attualmente, il sistema della sicurezza coltiva numerose collaborazioni accademiche che supportano le peculiarità professionali caratteristiche, e che richiedono una scientificità su cui indirizzare le varie competenze. Caputo e Pisano permettono di approfondire la realtà dell’intelligence che coltiva i propri successi sulla base di pianificazione e metodologia, fornendo schemi consolidati e testati. Il volume è, in sintesi, un testo tecnico-scientifico in grado di porre in simbiosi concrete esperienze maturate sul campo con i più astratti aspetti accademici.
Gino Lanzara
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