Nutrihealth settembre 2017

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SETTEMBRE 2017

NUTRIHEALTH RIVISTA DI SALUTE E BENESSERE

NUTRIZIONE

NUTRIZIONE

Alcuni tipi di dolcificanti fanno ingrassare

Celiachia: analisi, dieta e patologie correlate

BENESSERE

FITNESS

Dalla natura un aiuto per migliorare il nostro benessere fisico e psicologico

Attività fisica in gravidanza: pro e contro

PREVENZIONE Educazione alimentare e spreco: due ostacoli da superare SICUREZZA ALIMENTARE La conservazione degli alimenti in ambiente domestico NUTRIZIONE NUTRIZIONE

L’alimentazione della donna nella PCOS e in menopausa COSMESI

AMBIENTE

Per una corretta abbronzatura impariamo a leggere l’etichetta dei solari

La lotta allo spreco alimentare inizia nelle nostre cucine

Una nuova app ci aiuta a proteggere il cervello dagli eccessi di zucchero


ALCUNI TIPI DI DOLCIFICANTI FANNO INGRASSARE I dolcificanti artificiali sono diventati sempre più popolari dal momento che il comune zucchero da cucina è considerato sempre più spesso il responsabile dell’obesità e del sovrappeso. Per questo molte persone che non vogliono mettere su peso senza rinunciare al piacere del dolce ritengono che i dolcificanti a basso contenuto calorico, ossia i dolcificanti artificiali, siano da preferire allo zucchero. Ma questa non è una scelta si sta rivelando sbagliata: infatti da recenti studi è emerso che il consumo in elevate quantità di dolcificanti artificiali può promuovere la formazione di Per tutti gli amanti del grasso, soprattutto nelle persone obese, che già ne hanno in dolce ma che non voleeccesso. vano rinunciare alla linea i dolcificanti arti- Alcune ricerche fatte in passato mostravano risultati conficiali avevano sempre trastanti, alcune correlavano l’utilizzo di dolcificanti ad un rappresentato il giusto aumento di peso corporeo mentre altre sembravano dimocompromesso: poche strare il contrario. Per questo i ricercatori hanno deciso di calorie e una delizia fare chiarezza e quello che è emerso non farà piacere agli per il palato. Ma oggi amanti della linea. le ricerche sembrano smentire tutto ciò.

L’assunzione per un lungo periodo di tempo di dolcificanti artificiali potrebbe essere associata ad un incremento I dolcificanti artificiali dell’indice di massa corporea (BMI), oltre che all’insorgenza di ipertensione o diabete di tipo 2. fanno ingrassare. Questo è quanto emerge da uno studio che ha analizzato i dati di 37 ricerche, cui hanno preso parte oltre 41 mila persone. In tutti gli studi analizzati non c’erano prove di un beneficio a lungo termine dell’utilizzo di questi dolcificanti, ma c’erano prove di un aumento ponderale e di altri parametri cardiometabolici.


UNA NUOVA APP CI AIUTA A PROTEGGERE IL CERVELLO DAGLI ECCESSI DI ZUCCHERO Uno studio condotto dai ricercatori della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma ha rilevato che l’assunzione prolungata e in grandi quantità di zuccheri, una dieta squilibrata e il diabete possono rallentare la prestazioni del cervello. Secondo gli esperti, un’eccessiva concentrazione di zucchero non consentirebbe una regolare riproduzione delle cellule staminali cerebrali, dalle quali dipendono i processi di apprendimento e si memoria. Un eccesso di zucchero sembra impedire alle staminali, normalmente presenti nell’ipotalamo, sede della memoria, di auto rinnovarsi. In sostanza, un eccesso di zucchero brucerebbe le riserve cellulari che servono al cervello per riprodurre nuovi neuroni. Dallo studio è emerso come nel cervello degli animali sottoposti a regimi dietetici ipocalorici sia aumentata la quantità di cellule staminali cerebrali, importantissime per il mantenimento delle funzioni cerebrali nel tempo. Al contrario, gli eccessi di glucosio tendono a inibire la capacità che queste hanno di moltiplicarsi, generando dei declini cognitivi. Sugar smart è una nuova app inglese che ci aiuta a scovare rapidamente e facilmente la quantità di zucchero totale presente in ciò che stiamo per comprare, mangiare e bere. Per farlo basta scansionare un codice a barre e in questo modo permette di rintracciare con uno smartphone anche lo zucchero “nascosto” in alimenti trasformati, molto spesso non calcolati come “dolci”. L’app è stata realizzata dalla Public Health England e vuole aumentare il controllo e la consapevolezza dei genitori per una corretta educazione alimentare dei bambini e per scelte più sane. Sono stati catalogati oltre ottantadue mila prodotti e i dati sono aggiornati spesso. Un servizio utile, dunque, che segue le linee dettate un anno fa dall’Organizzazione mondiale della sanità. L’imperativo è quello di ridurre, sia negli adulti sia nei bambini, gli zuccheri al di sotto del 10% delle calorie assunte quotidianamente. L’app vuole far rispettare la quantità giornaliere previste nelle diverse età della crescita.

Che lo zucchero faccia male ormai è risaputo ma la gente tende ancora oggi a sottovalutare le conseguenze di un accesso di zucchero sulla propria salute. Oggi esiste anche una app che ci permette di sapere quanto zucchero c’è negli alimenti che stiamo per acquistare.


CELIACHIA: ANALISI, DIETA E PATOLOGIE CORRELATE Da quanto emerge da uno studio dell’Università del Colorado, le donne malate di celiachia hanno maggiori probabilità di essere anche affette da anoressia nervosa sia prima, sia dopo la comparsa della malattia. Questo è quanto emerge da uno studio a livello nazionale condotto dal Karl Marild, ricercatore presso l’Università del Colorado. I ricercatori hanno esaminato i dati raccolti dal 1987 al 2009 relativi a quasi 18.000 donne svedesi con diagnosi di malattia celiaca, e a circa 89.000 donne della stessa età che non erano affette dalla malattia autoimmune. Dopo una diagnosi di celiachia, le donne prese in considerazione dallo studio mostravano il 46% in più di probabilità di ammalarsi di anoressia nervosa, mentre coloro che avevano ricevuto una diagnosi di anoressia presentavano il doppio delle probabilità di ammalarsi successivamente di celiachia. È possibile che le restrizioni dietetiche prescritte per la celiachia potrebbero innescare un modello alimentare ossessivo che porta all’anoressia. Infatti chi soffre di celiachia deve evitare gran parte dei cereali, ma l’avena potrebbe essere un’opzione sicura, a patto che non sia contaminata da tracce di altri cereali. A dimostralo è una revisione dei risultati di 28 studi che includevano l’avena in diete senza glutine per i celiaci.


Per una persona con diagnosi di celiachia, l’aggiunta di avena a una dieta priva di glutine potrebbe non solo aumentare le alternative alimentari ma anche aiutare a seguire meglio la dieta senza glutine con una più elevata qualità della vita. L’avena, rispetto ad altri cereali, è una fonte di proteine di buona qualità, vitamine e minerali e migliora la palatabilità e la consistenza degli alimenti privi di glutine. Ma sulla possibilità di aggiungere l’avena nelle diete senza glutine per i celiaci i pareri sono ad oggi diversi e controversi. In ogni caso scegliere alimenti senza glutine in assenza di una diagnosi di celiachia accertata da medici specializzati non è consigliabile: può fare aumentare il rischio di obesità e patologie cardiovascolari, e più in generale può sottrarre nutrienti nobili alla dieta. Infatti confrontando alimenti senza glutine con gli omologhi alimenti con il glutine, appartenenti a 14 categorie (pasta, biscotti, pane, cereali per la colazione e anche piatti pronti) è emerso che, per esempio, il pane ha mediamente una concentrazione di grassi doppia rispetto a quello tradizionale e un contenuto di proteine da due a tre volte inferiore. Per i biscotti la situazione è simile: più grassi e meno proteine rispetto a quelli normali, mentre per quanto riguarda la pasta, quella per celiaci ha meno proteine di quella convenzionale. Tutto ciò può portare a un impoverimento dietetico e a un aumento di peso, rischi accettabili se si è in presenza di una celiachia, ma ingiustificati negli altri casi. In alcune diagnosi di celiachia ci possono però anche essere degli errori analitici all’inizio delle indagini. Oggi è possibile stilare una diagnosi di celiachia senza effettuare biopsie in alcuni pazienti pediatrici attraverso la misurazione degli anticorpi diretti contro alcuni enzimi. Nel loro studio prospettico su 898 bambini, i ricercatori hanno voluto verificare due procedure diagnostiche basate su alcune analisi degli anticorpi per la diagnosi della malattia celiaca pediatrica. Usando la strategia che prende in considerazione solo i TTG, la diagnosi di malattia celiaca veniva stilata se i livelli degli anticorpi diretti contro questi enzimi superavano di 10 o più volte il range di normalità, mentre la diagnosi celiachia veniva esclusa se i livelli erano al di sotto di tale soglia. Qualora il test non soddisfacesse nessuno di questi criteri, i pazienti erano candidati alla biopsia. La seconda strategia, invece, combinava la valutazione di TTG e DGL. La diagnosi di celiachia scattava

La celiachia è una patologie sempre più diffusa ma ci sono anche molti “falsi celiaci” a causa di una errata analisi o semplicemente persone che scelgono di mangiare senza glutine perché ritengono che possa aiutare a perdere peso. A tutto ciò bisogna fare molta attenzione.


se i livelli di anticorpi contro TTG o DGL oltrepassavano di 10 volte il limite massimo, mentre veniva esclusa se tali livelli si attestavano al di sotto del limite. In caso contrario, sarebbe stata necessaria la biopsia. I ricercatori hanno riferito che quasi l’85% dei bambini sani presentava livelli IgA-TTG e IgG-DGL sotto il limite superiore del normale, mentre la maggior parte di quelli celiaci (76,4%) aveva livelli di IgA-TTG 10 volte al di sopra del normale. La procedura TTG-DGL, invece, ha soddisfatto i criteri di affidabilità stabiliti dai ricercatori, con stime del valore predittivo – positivo e negativo – di circa il 95% e limiti inferiori dell’intervallo di confidenza attorno al 90%. Tutti i pazienti con IgA-TTG almeno 10 volte superiori al tetto del normale presentavano risultati igA-EMA positivi e stato HLA compatibile con la malattia celiaca.


ATTIVITA’ FISICA IN GRAVIDANZA: PRO E CONTRO In gravidanza il corpo della donna subisce grandi trasformazioni, e muoversi con agilità può diventare faticoso. Ma spesso le donne che sono abituate a praticare attività fisica quotidianamente vogliono continuare a praticarla anche durante la gestazione; inoltre, per alcune donne che manifestano un eccessivo incremento ponderale, l’attività fisica è invece consigliata per evitare che un aumento di peso eccessivo possa portare complicanze. Ma quando si parla di attività fisica le opinioni si dividono tra quelle che ritengono di far del male al nascituro e quelle che ritengono che are attività fisica porti dei benefici alla donna e al bambino. L’obiettivo dell’attività fisica in gravidanza è quello di mantenere il più alto stato di benessere nella massima sicurezza per la gestante e per il feto e in generale, una regolare attività fisica aerobica può prevenire i disturbi di postura che affliggono le donne incinte, contrastare l’aumento di peso e mantenere in buona condizione l’apparato cardiovascolare. L’aumento del volume del sangue circolante in gravidanza comporta un aumento della frequenza e della gittata cardiaca, con conseguente aumento del lavoro del cuore e una diminuzione della riserva. Ciò spiega la tachicardia e il senso di stanchezza della gestante. Ne consegue, dunque, che l’attività fisica deve essere moderata. Quindi per qualunque esercizio praticato, bisogna avere un occhio di riguardo per il cardiofrequenzimetro, per far sì che la frequenza cardiaca materna non superi i 140 battiti al minuto e che l’attività fisica, se intensa, non ecceda i 20 minuti di durata. Anche la funzione respiratoria si modifica, sin dal primo trimestre, favorito dalla pratica sportiva: il volume d’aria scambiato a ogni atto respiratorio incrementa del 40 per cento, e la capacità di diffu-

Che l’attività fisica sia importante e faccia bene è ormai noto a tutti. Ma quello che non molti sanno è che l’attività fisica regolare può essere d’aiuto anche durante la gravidanza e migliorare la salute della donna e del bambino.


sione polmonare durante l’esercizio aumenta grazie alla dilatazione dei vasi capillari. E’ evidente come le modificazioni di cuore e polmoni siano utili per l’embrione e successivamente per il feto: alla placenta arriva sangue ben ossigenato, mentre l’anidride carbonica è facilmente allontanata. Per una donna fisicamente attiva, in buona salute, senza disturbi cardiaci e con un decorso di gravidanza normale, sicuramente si possono consigliare 30-40 minuti al giorno di attività fisica a bassa intensità e di tipo aerobico, come possono essere per esempio le passeggiate, il nuoto e la ginnastica dolce; in questo modo si evitano gli effetti negativi menzionati. Dopo il quarto mese di gravidanza sono sconsigliati esercizi a terra in posizione supina perché potrebbero ostacolare il ritorno del sangue al cuore. Con il progredire della gravidanza, il corpo della donna cambia: l’aumento di volume dell’utero e del seno provoca una mutazione degli equilibri. Ecco spiegato il tipico dolore alla schiena provato dalle donne incinte. Per contenere il fastidio, spesso vengono consigliati esercizi a basso impatto come passeggiare, nuotare o partecipare a corsi di ginnastica dolce e posturale. Anche l’apparato respiratorio subisce dei cambiamenti durante la gestazione. Con l’aumento delle dimensioni del feto, infatti, il diaframma subisce una spinta verso l’alto e si riduce la riserva d’aria nei polmoni. Un’attenzione maggiore è richiesta alla donna nell’ultima fase della gravidanza, a causa dell’aumentato lavoro del cuore e, naturalmente, dell’incremento di peso e del volume corporeo. L’aumento di massa corporea rappresenta un sovraccarico progressivo nel caso di attività fisiche come camminare, correre o salire le scale. Un’attività fisica eccessiva da parte della madre potrebbe consumare troppo ossigeno e nutrimento, causando una riduzione dell’afflusso di sangue alla placenta, un ridotto apporto di glucosio al feto oppure una situazione di ipertermia fetale.


Una regolare attività fisica di tipo aerobico è, in generale, in grado di prevenire i disturbi circolatori e di postura che affliggono la gestante, di contrastare l’aumento di peso e di mantenere in buona condizione l’apparato cardiovascolare. L’attività fisica può venire in aiuto anche nel delicato momento del parto. È una buona abitudine infatti eseguire in ogni sessione di allenamento esercizi specifici per il rinforzo del pavimento pelvico e lavorare con buona intensità sulla muscolatura che comprende addominali, glutei e diaframma. Questo garantirà forza ed elasticità al tessuto nel momento del parto e “spinte” più vigorose. L’esercizio fisico in gravidanza, se praticato con costanza, ha un effetto benefico nel ridurre la percezione dolorosa e lo stress durante il travaglio. Per quanto riguarda il parto, ci sono anche degli svantaggi: una muscolatura addominale allenata favorisce la progressione del feto nel canale da parto ma il perineo, più spesso e resistente, ne ostacola l’ultima fase di espulsione; in questi casi si pratica l’episiotomia. Qualsiasi sia il tipo di attività svolta, la regola principale è naturalmente quella di non eccedere e procedere con buon senso e se si deve scegliere uno sport da praticare in gravidanza sicuramente è consigliabile il nuoto.

DALLA NATURA UN AIUTO PER MIGLIORARE IL NOSTRO BENESSERE FISICO E PSICOLOGICO Negli ultima anni sia il mondo scientifico sia la popolazione in genere stanno volgendo la loro attenzione verso tutto ciò che è naturale perché, finalmente, sta di nuovo iniziando a diffondersi la convinzione che solo dalla natura possiamo ottenere i migliori aiuti e benefici per la nostra salute.


Che la natura sia una fonte di benessere si sapeva già da secoli. Oggi, però, finalmente, sta ritornando di moda la cura con i rimedi naturali. Per questo vogliamo darvi alcuni esempi di come dagli alimenti più comuni che arrivano sulle nostre tavole è possibile prevenire o curare alcune patologie.

Per questo si sta di nuovo iniziando a parlare di aromaterapia, la cui definizione può accettata è l'utilizzo degli olii essenziali per il mantenimento della salute o per la terapia, olii essenziali che però non vengono usati solo per uso topico ma anche orale; e di nutraceutica, ossia l’uso dei nutraceutici, principi nutrienti contenuti negli alimenti, che hanno effetti benefici sulla salute, creando così un connubio tra nutrizione e farmaceutica. Per questo oggi sappiamo, o per meglio dire, abbiamo riscoperto che alcune sostanze contenute negli alimenti che tutti mangiamo comunemente hanno effetti positivi per la nostra salute. Vediamo alcuni degli esempi più noti. Zenzero, curcuma e frutta siano d’aiuto contro dolore cronico e patologie psicologiche. La più ricorrente tra le malattie croniche il cui sintomo prevalente è il dolore è l’osteoartrosi che colpisce più di 4 milioni di italiani e costa 3,5 miliardi di euro all’anno. Il 70% dei pazienti soffre di lombalgia, la cefalea affligge 2 milioni di persone, seguono i dolori neuropatici periferici, come avviene nel diabete di lunga data. Secondo quanto suggerisce uno studio proveniente dalla Charles Sturt University in Australia estratti di menta potrebbero avere un ruolo nella lotta all’Alzheimer. La menta è un’erba tradizionalmente associata a effetti positivi sulla memoria perché ha fortissimi effetti antiossidanti, che potrebbero aiutare a combattere i radicali liberi associati all’Alzheimer. Essere esposti all’aroma dell’olio essenziale di rosmarino può migliorare la memoria negli adulti sani e nei bambini. Perché il rosmarino abbia questo effetto non è ancora chia-


ro ma potrebbe essere che gli aromi influenzino l’attività elettrica nel cervello o che composti farmacologicamente attivi possono essere assorbiti durante l’inalazione. Secondo quanto riferito in una ricerca, dalla buccia delle prugne si ottiene una sostanza che potrebbe aiutare nella lotta alla psoriasi e all’asma. Si tratta della “cianidina” una molecola presente anche nei frutti di bosco che ha dimostrato di avere un’azione antinfiammatoria specifica senza precedenti. Pare che bere del succo di mirtillo concentrato possa migliorare le funzioni cerebrali nelle persone anziane. Va ricordato che la nostra funzione cognitiva tende a diminuire con l’età. Nello studio che ha dimostrato ciò a tutti i partecipanti è stato detto di attenersi alla loro dieta normale. Rispetto al gruppo di controllo, quelli che avevano preso il supplemento di mirtillo hanno mostrato un significativo aumento di attività cerebrale nelle aree del cervello legate alle prove cognitive e miglior afflusso di sangue al cervello, oltre a un miglioramento della memoria di lavoro. Alcuni cibi possono favorire un buon sonno, smorzando anche gli effetti dello stress. Si tratta di cicoria, carciofi, aglio crudo, porri e cipolle che contengono infatti i prebiotici che fanno da ‘cibo’ per i batteri buoni dell’intestino e favoriscono un buon riposo e una migliore reazione alle situazioni stressanti. Il resveratrolo, sostanza antiossidante contenuta nella buccia dell’uva rossa, torna alla ribalta per la sua attività antivirale, una nuova proprietà benefica che aiuterebbe a contrastare il raffreddore e l’influenza. Questa sostanza infatti era già nota per gli effetti contro alcuni fattori di rischio delle malattie cardiovascolari, anche utilizzata in cosmetica come sostanza anti-aging, successivamente accreditata di effetti antinfiammatori e anticancro. Ma pare che una dieta ricca di uva possa aiuti a prevenire anche l’Alzheimer. Consumandola due volte al giorno per sei mesi, infatti, si ridurrebbe il declino metabolico di aree del cervello correlate a questa malattia, specie nelle persone con un decadimento precoce della memoria. Questi è ovvio sono solo alcuni dei numerosissimi esempi che si possono fare sulle proprietà nascoste nei cibi che mangiamo. Quello che ci auguriamo è questo spinga le persone a seguire un’alimentazione corretta e la dieta mediterranea, non a caso dichiarata Patrimonio Immateriale dell’Umanità, proprio per i suoi benefici.


EDUCAZIONE ALIMENTARE E SPRECO: DUE OSTACOLI DA SUPERARE Cause principali del sovrappeso e dell’obesità sono le scorrette abitudini alimentari e la ridotta attività fisica. Dall’analisi di dati è emerso che più del 20% dei ragazzi italiani presenta un eccesso ponderale. L’attività fisica quotidiana è scarsamente praticata; la percentuale di adolescenti che raggiungono il valore raccomandato di almeno un’ora di attività fisica al giorno è estremamente basso; inoltre, a questo si associa una frequenza elevata di colore che trascorrono due o più ore al giorno davanti alla TV o ai videogiochi. Diversi comportamenti e abitudini di vita considerati a rischio sarebbe già presenti tra gli adolescenti italiani. I comportamenti acquisiti in età giovanile sono mantenuti da adulti e possono influire in modo significativo sull’insorgenza di patologie in età matura; è per questo che l’adozione di sani stili di vita, unitamente alla prevenzione delle malattie cronicodegenerative, deve partire fin dall’infanzia e dall’adolescenza. Sono frequenti le abitudini alimentari scorrette, come saltare la prima colazione, consumare poca frutta e verdura, eccedere con le bevande zuccherate. Per questo è efficace in età evolutiva gli interventi di promozione della salute centrati su consapevolezza e comportamenti corretti sia nell’ambiente scolastico che nelle famiglie stesse. Ma questo programma di educazione alimentare non può prescindere dalla lotta allo spreco alimentare. La lotta allo spreco ha un’importanza fondamentale sia per le generazioni attuali sia per le future perché consente di assicurare una adeguata disponibilità di cibo per tutti e perché riduce l’impatto che le produzioni hanno sull’ambiente. Spesso si tende a sottostimare la quantità di cibo che gettiamo ogni giorno. Quello domestico rappresenta il 70-75% dello sperpero annuo di cibo, pari a circa 145 kg di cibo buttato ogni anno a famiglia. Il Ministero dell’Ambiente ha avviato la campagna “Reduce” nella quale ha distri-


buito i “Diari alimentari” alle famiglie, uno strumento di monitoraggio dello spreco alimentare domestico. Per una settimana, 400 famiglie italiane hanno dovuto annotare dettagliatamente il cibo gettato nella pattumiera, che è stato poi controllato da personale addetto, che ha verificato se gli sprechi registrati sul diario corrispondevano a quelli effettivamente gettati nella pattumiera. Questa campagna sulle buone pratiche alimentari è partita dalla città di Trento, dove è stato presentato “Un diario per amico”, un piccolo manuale di economia domestica utile a promuovere l’educazione alimentare in famiglia. Sono diari di poche pagine che contengono una parte riservata alle annotazioni sulla qualità e quantità di cibo buttato, con indicate le relative cause. Una sezione è poi dedicata all’elenco della spesa e un’altra alle ricette dedicate al consumo del cibo avanzato. Il tutto per sensibilizzare la popolazione a ridurre lo spreco di alimenti. Il diario servirà ad aiutare i cittadini a prevenire lo spreco di cibo, incentivando il circuito del riuso del cibo al fine di promuovere un modello di consumo e di produzione sostenibile. Tutto questo, però, può non bastare. C’è bisogno di una condivisione capillare attraverso la rete. Ricerca, educazione e comunicazione sono le parole d’ordine di questo progetto.

Gli adolescenti praticano poco sport e non hanno una buona educazione alimentazione. A tutto ciò si aggiunge il fatto che sottovalutano il problema dello spreco alimentare.


LA CONSERVAZIONE DEGLI ALIMENTI IN AMBIENTE DOMESTICO La conservazione degli alimenti serve a mantenere le proprietà nutrizionali e igienico-sanitarie degli alimenti per un periodo di tempo che va da pochi giorni a parecchi mesi. In ambiente domestico la conservazione degli alimenti può avvenire a temperatura ambiente (circa 20° C che si pratica quando si conservano alimenti non deperibili e/ o confezionati nella dispensa alimentare, negli stipetti, sui pensili, ecc.), a basse temperature (+4° C quando si conservano alimenti in frigorifero, -18° C quando vengono stoccati nel congelatore o nel freezer) oppure a temperature moderatamente calde (si ottiene quando alimenti precedentemente cotti vengono mantenuti a una temperatura di circa 60-65° C) anche se quest’ultimo metodo viene praticato a livello casalingo molto raramente. In casa la tipica conservazione degli alimenti a bassa temperatura è rappresentata dalla refrigerazione (+4° C), cioè dallo stoccaggio degli alimenti in frigorifero. Questo metodo di conservazione, oltre a rallentare i processi degenerativi degli alimenti modera o blocca la proliferazione della maggior parte dei microrganismi pericolosi per la salute umana. Per avere una corretta conservazione degli alimenti all’interno del frigorifero domestico, finalizzata al mantenimento delle caratteristiche organolettiche dei cibi (odore, colore, sapore, consistenza, ecc.), alla riduzione del rischio di contaminazione (microbi che arrivano alla vivande) e di proliferazione microbica (aumento del numero dei microbi eventualmente presenti in essi) bisogna seguire delle semplici regole:  Rispettare le regole di posizionamento e di manutenzione del frigorifero secondo le indicazioni della casa produttrice ed effettuare una regolare sanificazione (detersione e disinfezione) interna;


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Impostare e mantenere la temperatura del frigorifero a circa +3/+4° C; Evitare di aprire spesso il frigorifero e di lasciare lo sportello o anche leggermente aperto per lunghi periodi in quanto si avrebbe un innalzamento della temperatura interna; Verificare la data di scadenza degli alimenti al fine di evitare il consumo di cibi scaduti e quindi potenzialmente alterati; Qualora sugli alimenti o sulle pareti del frigorifero si dovesse formare della muffa si consiglia di gettare questi cibi; Tutti i cibi vanno conservati dentro appositi contenitori (in plastica, vetro o sacchetti per alimenti) sempre puliti e ben chiusi al fine di evitare eventuali contaminazioni microbiche; Evitare la promiscuità. All’interno dei contenitori non mettere cibi diversi per tipologia per evitare la cosiddetta “contaminazione crociata”; Gli alimenti deperibili (es. la carne e il pesce) vanno posizionati nella parte più fredda del frigorifero che generalmente corrisponde ai ripiani più bassi. Su quelli centrali si possono posizionare formaggi, il burro e la margarina, i salumi, le uova, i dolci farciti e le confezioni aperte di alimenti; Bisogna tenere conto del fatto che alcuni alimenti (ad es. le verdure) con le basse temperature si alterano, la frutta blocca la maturazione e il pane diventa raffermo; Mai mettere cibi caldi in frigorifero in quanto si potrebbe verificare un incremento della temperatura interna oltre che fenomeni di condensazione; Non riempire eccessivamente il frigo, come accade spesso in estate o nei periodi di festa, perché si potrebbe avere una non corretta circolazione dell’aria interna con formazione di zone a temperatura maggiore.

In estate, a causa del caldo, quasi tutti gli alimenti necessitano di essere conservati in frigorifero, come pure le bevande sono più gradevoli se consumate fresche. Ma per avere una buona conservazione degli alimenti nel frigo bisogna rispettare alcune semplici regole.


L’ALIMENTAZIONE DELLA DONNA NELLA PCOS E IN MENOPAUSA Fin dalla nostra nascita l’alimentazione assume un ruolo fondamentale per la salute della donna, perché un’alimentazione corretta e uno stile di vita sano ci permettono il raggiungimento di un buono stato di salute che può tornare utile in molti problemi femminili. Ne sanno qualcosa le donne che soffrono di PCOS (sindrome dell’ovaio policistico) o che sono in menopausa. La conclusione della vita fertile della donna, è un periodo delicato durante il quale si assiste ad alterazione dei sistemi di termoregolazione, disordini metabolici, disturbi psichiatrici o neurologici, osteoporosi e patologie autoimmuni. È ridotta la produzione di estrogeni, androgeni e progesterone da parte delle ovaie, mentre è aumentata la produzione degli ormoni FSH prodotti dall’ipofisi e del colesterolo prodotto dal surrene. Si hanno anche problemi a livello metabolico, con aumento della glicemia, della pressione arteriosa, dei trigliceridi, della circonferenza dell’addome e la diminuzione del colesterolo HDL. L’insieme dei fattori può portare a una serie di complicazioni come sarcopenia, insufficienza renale, edemi, malattie cardiovascolari, ictus, diabete, insulino-resistenza e indebolimento del sistema immunitario. I disturbi più comuni della menopausa si possono dividere in due gruppi:  Disturbi a breve termine tra i quali ricordiamo vampate di calore, cambiamenti dell’umore, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, ansia, irritabilità, dislipidemia e ipertensione;  Disturbi a lungo termine tra i quali ricordiamo l’assottigliamento della mucosa vaginale, problemi urologici, rischio di osteoporosi. Tra i disturbi a breve termine, quello più comune è rappresentato da alterazioni dei


sistemi di termoregolazione ovvero dalle vampate di calore, causate da una carenza di estrogeni. Stress, sedentarietà e sostanze vasocostrittrici, come tè, caffè, alcol e spezie, possono aumentare l’intensità delle vampate. Per questo è consigliabile lo svolgimento di una regolare attività fisica, il raggiungimento e il mantenimento del peso-forma ed l’ uso moderato di tisane vasocostrittrici come il tiglio, la camomilla e la calendula. Anche un buon apporto di omega-3 e di omega-6 ha effetti positivi sui disturbi a breve termine della menopausa, stimolando la produzione di estrogeni, contrastando i disturbi della sfera emotiva e apportando miglioramenti ai sistemi di termoregolazione. Le principali fonti di omega-6 sono di origine vegetale, mentre gli omega-3 sono presenti nel pesce e nei molluschi, alimenti che però presentano lo svantaggio di contenere tracce di metalli pesanti, come piombo, nichel, mercurio, cadmio e alluminio. È consigliabile assumere omega-3 anche da fonti vegetali, come noci e semi oleosi, quali lino, chia, canapa e zucca. Nel lungo periodo, il disturbo più comune è l’oesteoporosi, una malattia sistemica dello scheletro, caratterizzata da un indebolimento e da un deterioramento del tessuto osseo. Tale malattia è causata da uno scompenso del sistema ormonale che regola il contenuto del calcio e di vitamina D nelle ossa, riducendone progressivamente la densità. L’alimentazione moderna, caratterizzata da un eccessivo consumo di proteine animali, di insaccati, di formaggi e di caffeina, determina un’acidificazione dell’organismo che contribuisce ulteriormente alla decalcificazione delle ossa. Per contrastare l’osteoporosi di solito si assumono grandi quantità ci calcio e quindi, aumentare la massa ossea, è necessario infatti mantenere pienamente funzionale l’intestino attraverso un’alimentazione disinfiammatoria e uno stile di vita sano. Una dieta in grado di contrastare l’osteoporosi deve prevedere un minor consumo di sale, zucchero e di proteine, in particolare modo quelle di origine animale, contenute nella carne, nel pesce, nel latte e nelle uova, e un maggior consumo di alimenti ricchi di vitamine. Inoltre è importante sottolineare come nell’alimentazione delle donna oltre i 50 anni siano importanti l’olio extravergine d’oliva, ricco di vitamina E, i cereali integrali, i legumi e la verdura, poco infiammanti e che facilitano

Avere un sano stile di vita e seguire una corretta alimentazione è importante in tutte le fasi della vita. Ma vi sono dei momenti o delle patologie femminili in cui l’alimentazione può essere di aiuto nel trattamento della patologie o dei disturbi.


l’assorbimento di nutrienti di costrutto, cioè le biomolecole con funzione strutturale e di mediatore intercellulare. In conclusione la dieta consigliata per una donna in menopausa dovrà essere non acidificante, povera di sale, ma ricca di potassio, magnesio, vitamina C, vitamina K e vitamina D3. Un’altra patologia in cui l’alimentazione può avere un ruolo cruciale è la Sindrome dell’Ovaio Policistico (PCOS), una delle patologie endocrine più diffuse fra la popolazione femminile in età fertile. Le pazienti affette da PCOS manifestano alterazioni dei sistemi endocrino-metabolico-ginecologici, in particolare: irregolarità mestruali, infertilità, irsutismo, acne, obesità, insulino-resistenza, diabete di tipo-2, dislipidemia, carcinoma endometriale, diabete gestazionale e parto pretermine o alto rischio di aborti spontanei. Una alterazione della tolleranza glucidica è stata riscontrata in circa il 20-35% delle giovani donne con PCOS mentre il diabete di tipo 2 è presente nel 7-8% delle donne americane con PCOS ed in circa il 2-3% di quelle mediterranee. I disturbi mestruali sono frequentemente osservati nell’85-90% delle donne che accusano oligomenorrea e amenorrea. Più dell’80% delle donne con PCOS presenta sintomi legati ad iperandrogenismo: l’irsutismo è la manifestazione clinica più comune e riguarda circa il 70% delle donne. Le pazienti con PCOS tendono ad avere un BMI con valori fuori dalla norma e la tipica distribuzione del grasso corporeo in queste pazienti in sovrappeso o obese è prevalentemente centrale, come accade tipicamente nell’iperandrogenismo.


La modificazione dello stile di vita rappresenta il trattamento di prima linea per la gestione delle pazienti con PCOS. Considerato che le pazienti con PCOS presentano un maggiore rischio di sviluppo di diabete di tipo 2, il calo ponderale deve essere considerato l’approccio terapeutico iniziale, soprattutto nelle pazienti con maggiore peso. La maggior parte degli studi dimostrano l’effetto positivo di un modesto calo del 510% del peso corporeo sulla riduzione del rischio cardio-vascolare e sul diabete di tipo 2 oltre ai parametri endocrininologici della PCOS. Con la perdita di peso si ha anche ripristino della normale ciclicità mestruale in una alta percentuale delle pazienti e una riduzione dei livelli di testosterone e degli androgeni liberi. Ma la perdita di peso risulta essere legata a un miglioramento del quadro clinico generale: è stato dimostrato come questa variazione possa determinare un incremento della sensibilità all’insulina, riduzione dell’iperandrogenismo, riduzione del volume ovarico e del numero dei follicoli oltre a miglioramento della funzione ovarica con ripristino dell’ovulazione. Un moderato aumento della percentuale di proteine sembra essere più vantaggiosa per la gestione della sensazione di sazietà, dell’assunzione ad libitum del cibo, sull’incremento della termoregolazione post-prandiale e sul consumo energetico e sulla preservazione della massa magra. È stato visto che nei soggetti in sovrappeso con PCOS, ma con una elevata insuline mia postprandiale, la dieta a basso carico glicemico è risultata utile alla riduzione del peso e del mantenimento del risultato. Una scarsa stimolazione insulinica dopo pasto può indurre una maggiore ossidazione dei grassi per diverse ore dopo il pasto, oltre a ridurre la fame e l’introduzione eccessiva di cibo che portano al recupero del peso.


PER UNA CORRETTA ABBRONZATURA IMPARIAMO A LEGGERE L’ETICHETTA DEI SOLARI È arrivata l’estate e la voglia di tintarella impazza. Ma per avere un’abbronzatura uniforme e che duri nel tempo non basta esporsi al sole, ma bisogna esporsi correttamente così da evitare scottature o di squamarsi dopo poche ore. La prima alleata per un’abbronzatura perfetta è la crema solare. Quello che però non tutti sanno è che, per raggiungere il livello di protezione dichiarato sulla confezione, si dovrebbe consumarne un tubetto al giorno. La quantità che si dovrebbe applicare sulla pelle è di due milligrammi per centimetro quadrato, mentre quella che riusciamo davvero a far assorbire alla nostra epidermide varia tra il 25 e il 50% di questa dose. Questo significa che siamo meno schermati di quanto pensiamo, anche se ci spalmiamo una protezione 50. Occorre quindi riapplicare la crema dopo 2-3 ore, oppure dopo un bagno completo. Per lo stesso motivo, nemmeno i prodotti waterproof sono completamente resistenti all’acqua e al sudore. Quindi possiamo dire che il segreto per un’abbronzatura bella e sana sta tutto nella scelta della giusta crema solare. Certo oggi in commercio ci sono tantissime creme solari, di ogni marca e con applicazioni diverse. Ma seguendo delle semplici regole si può fare la scelta giusta. Prima di acquistare una crema sola si dovrebbe conoscere il proprio fototipo di pelle (per scoprirlo potete anche utilizzare il nostro test) e in base a questo scegliere il solare giusto. Non credete alle creme che riportano le diciture “100% protezione” o


“protezione per l’intera giornata” perché ormai è chiaro che nessun solare può avere una resistenza così lunga sulla pelle e quindi sono informazioni non veritiere. Ad ogni fototipo corrisponde un fattore solare indicato su ogni prodotto solare (es. 6, 10, 15, 20, 50). Vengono normalmente identificati sei fototipi: chi ha il numero 1, caratterizzato da capelli rossi o biondi con pelle molto chiara, deve usare una protezione molto alta, chi ha il 2 (capelli biondi o castani con pelle chiara) da molto alta ad alta, per il 3 (biondo scuro o persone con pelle sensibile) e il 4 (capelli castani con pelle moderatamente sensibile) va bene la media mentre per il 5 (capelli scuri e carnagione olivastra) e il 6 (capelli scurissimi e pelle non sensibile) è consigliabile la bassa. In secondo luogo bisogna leggere cosa è riportato sulla confezione del solare, ai quali sono stati dedicati anche un Regolamento e una Direttiva UE, che raccomandano di indicare in etichetta il grado di protezione dai raggi UV e l’efficacia, anche mediante una delle quattro categorie di protezione individuate; ovvero “bassa” (protezione 6 e 10), “media” (15, 20, 25), “alta”(30, 50) e “molto alta”(oltre 50). In etichetta, la categoria e il fattore di protezione solare devono essere riportate con la stessa visibilità. Ma le persone però devono imparare a esporsi correttamente al sole e conoscere i rischi che si corrono dopo un’eccessiva esposizione. Pertanto, l’etichetta deve riportare la frequenza di applicazione e la quantità minima di prodotto da applicare per garantire un adeguato grado di protezione della pelle. Infine, deve risultare chiaro che la funzione dei solari è quella di prevenire eventuali danni che non possono comunque essere esclusi e solo l’attenta osservanza delle prescrizioni d’uso ne garantisce l’efficacia.

Prima di esporci al sole e abbronzarci dobbiamo seguire delle semplici regole, come alimentarsi correttamente, evitare l’esposizione nelle ore più calde e usare la protezione solare. Ma sappiamo scegliere la crema solare giusta? Per farlo impariamo a “leggere l’etichetta”


LA LOTTA ALLO SPRECO ALIMENTARE INIZIA NELLE NOSTRE CUCINE Ogni anno in Europa si sprecano 88 milioni di tonnellate di cibo, per un totale di ben 173 chilogrammi a persona. Tali livelli di spreco sono inaccettabili, se consideriamo che secondo Eurostat ben 55 milioni di cittadini europei nel 2014 non si potevano permettere un pasto di qualità nemmeno ogni due giorni. Tutto questo ha un impatto ambientale perché, sprecando tutto questo cibo, si sperperano tutte le risorse utilizzate per produrlo, come acqua, suolo ed energia, a cui si devono aggiungere i gas serra immessi in atmosfera durante il processo produttivo. Secondo la Fao, per ogni chilogrammo di cibo vengono prodotti 4,5 kg di anidride carbonica e i rifiuti alimentari rappresentano l’8% di tutte le emissioni di gas serra prodotte dalle attività umane. Lo spreco alimentare si verifica lungo tutta la filiera produttiva, aumentando di portata mano a mano che dai campi il cibo arriva sulle nostre tavole. Infatti è proprio nelle nostre cucine che si spreca di più: le famiglie generano ben il 53% dei rifiuti alimentari. Alla radice di questo sperpero si trova la cattiva informazione sulla conservazione degli alimenti, ad esempio l’errata interpretazione delle diciture con cui si comunicano le date di scadenza. “Da consumarsi preferibilmente entro…” è diverso da “da consumarsi entro…”: migliorando le etichette, si eliminerebbe una fonte di confusione per i consumatori e di conseguenza si ridurrebbe lo spreco.


Secondo i dati dell’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), nel nostro paese vengono gettati nel cassonetto circa 5,5 milioni di tonnellate di cibo l’anno, in pratica 42 kg di cibo a persona sotto forma di avanzi non riutilizzati e alimenti scaduti o andati a male, con un valore economico che si aggira intorno ai 13 miliardi di euro l’anno. Di questi 42 kg, oltre 10 sono costituiti da verdure e prodotti ortofrutticoli, per un totale di oltre 1,3 milioni di tonnellate. Con i prodotti vegetali che gettiamo nella spazzatura, osserva l’Enea, potremmo produrre 41 milioni di m3 di biometano, l’equivalente dell’energia necessaria per riscaldare 46mila appartamenti, con un risparmio di circa 2 milioni di tonnellate di CO2. Gli scarti alimentari possono anche trasformarsi in proteine e zuccheri utili per produrre ingredienti alimentari, nutraceutici e mangimi per la zootecnia, oppure possono diventare anche bioplastiche. Non solo. Dagli scarti di uva e arance si ricavano polifenoli, pectine e fibre, utilizzabili in nutraceutica e cosmetica. Oltre che sulle nuove frontiere della ricerca con tecnologie e metodologie innovative, la lotta allo spreco alimentare si basa anche sui comportamenti personali dei consumatori in fase di acquisto dei prodotti, nella loro conservazione, nel loro riutilizzo in cucina e poi in un corretto conferimento alla raccolta dei rifiuti. Per aiutare i cittadini ad adottare questi comportamenti virtuosi, l’Enea ha preparato un decalogo, diffuso in occasione della giornata mondiale contro lo spreco alimentare.

La lotta allo spreco alimentare è diventato uno dei problemi più diffusi e trattati, non solo perché sempre più persone sprecano il cibo che potrebbe essere donato a chi ne ha bisogno, ma anche perché questo inizia ad avere un impatto anche sull’ambiente. Se le

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