Il Fiore del Partigiano - gennaio 2011

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GENNAIO 2011

ANNO 2 NUMERO 1

So che non uscirò vivo da qui

C

haÏm era un un ragazzo di 14 anni; rinchiuso nel campo di sterminio di Pustkòw fu ucciso nel 1944. Dal campo dove era rinchiuso, ChaÏm lanciò una lettera, scritta in Yiddish, oltre il filo spinato di recinzione; la lettera fu fortunatamente raccolta e conservata fino alla liberazione.

MAI PIĂ™!

FOTO NORA AGAPI, COURTESY DIARIO E MEDIASET

Mai piĂš guerre, mai piĂš lager

“

piacente verso le formazioni neo-naziste, che scorazzano indisturbate (ALLE PAGINE 2-5) L’ANPI promuove iniziative per la Giornata della Memoria, raccoglie e sostiene idee e comportamenti di civile convivenza (ALLE PAGINE 6-9) La propaganda interessata del mito dei “bravi italianiâ€? porta spesso occhiali offuscati che Prima vennero a prendere gli zingari e fui contento perchĂŠ rubacchiavano.

ne celano le miserie, come i crimini subiti dalla Croazia occupata dai nazi-fascisti: ce ne parlano tre testimoni diretti (ALLE PAGINE 10-12) CosĂŹ pure tace sui disagi in casa nostra durante la guerra (A PAGINA 13) I primi oppositori del regime fascista: storia degli Arditi del popolo, che trovarono scarso sostegno politico e un pronto oblio (ALLE PAGINE 14-16)

Poi vennero a prendere i comunisti

Poi vennero a prendere gli ebrei

ed io non dissi niente perchĂŠ non ero comunista.

Poi vennero a prendere gli omosessuali

e non c’era rimasto nessuno a protestare.

e stetti zitto perchĂŠ mi stavano antipatici. e fui sollevato perchĂŠ mi erano fastidiosi.

Un giorno vennero a prendere me

“

La destra al governo si mostra com-

Martin NiemĂśller

Miei cari genitori, se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non potrei descrivervi le mie sofferenze e tutto ciò che vedo intorno a me. Il campo si trova in una radura. Sin dal mattino ci cacciano al lavoro nella foresta. I miei piedi sanguinano perchĂŠ ci hanno portato via le scarpe. Tutto il giorno lavoriamo quasi senza mangiare e la notte dormiamo sulla terra - ci hanno portato via anche i nostri mantelli. Ogni notte soldati ubriachi vengono a picchiarci con bastoni di legno, e il mio corpo è nero di lividi come un pezzo di legno bruciacchiato. Alle volte ci gettano qualche carota cruda, una barbabietola, ed è una vergogna: ci si batte per averne un pezzetto e persino qualche foglia. L’altro giorno due ragazzi sono scappati, allora ci hanno messo in fila e ogni quinto della fila veniva fucilato. Io non ero il quinto, ma so che non uscirò vivo di qui. Dico addio a tutti e piango. ChaĂŹm. CONTINUA A PAGINA 6 Â


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Il centrodestra milanese al mercato dei voti “neri”

FORZA NUOVA, CUORE NERO, CASA POUND: NEONAZISTI ORMAI “SOTTO TUTELA”

C DI

ALESSANDRO BRAGA

onnivenza. Non c’è altro modo per definire la scelta del Comune di Milano di dare in affitto un locale in corso Buenos Aires a Forza Nuova. Infatti, solo la decisa ed estesa mobilitazione degli antifascisti milanesi ha costretto il sindaco Moratti a ritornare sui propri passi. Non è la prima volta, non sarà l’ultima, che le istituzioni milanesi e lombarde, da ormai troppo tempo in mano al centrodestra, compiono simili misfatti. Il precedente più vicino, temporalmente, risale a pochi mesi fa, per opera della Provincia di Milano. Che ha finanziato e patrocinato un incontro, in una sala pubblica, dedicato a Leon Degrelle. Per chi non lo sapesse, Degrelle era un ufficiale vallone delle Waffen SS, fondatore del rexismo, un pensiero politico-filosofico razzista, xenofobo e molto vicino al nazionalsocialismo hitleriano. A maggio venne organizzato un torneo di calcetto in ricordo di Sergio Ramelli, patrocinato dal Comune e sponsorizzato dalla Provincia di Milano, cui parteciparono Forza Nuova, Azione Giovani e Hammerskin. Ancora prima, quando Cuore Nero ha cercato, fortunatamente senza riuscirci, di aprire una sede in città, nessuna voce di dissenso si è levata dal centrodestra milanese. Ma la decisione di affittare gli spazi in corso Buenos Aires rappresenta un “salto di qualità”. Nel senso che si passa dal sostenere, modello spot, una tantum, iniziative vergognosamente revisioniste, a concedere in maniera continuativa uno spazio pubblico ad un movimento palesemente fuori dai limiti della Costituzione antifascista. Forza Nuova, è bene ricordarlo, si rifà alla più becera ideologia nazista, di predominio della razza, aggiungendoci elementi per così dire “nuovi” che mischiano le più retrive teorie clericali e le peggiori frange del cattolicesimo conservatore. Mito della razza, difesa della cultura cattolica (nei suoi aspetti più reazionari), contrarietà totale all’aborto, come alle unioni non formalizzate nel classico matrimonio religioso, attacchi pesantissimi contro ogni tipo di diverso, dall’extracomunitario all’omosessuale, sono gli aspetti più evidenti della teoria forzanuovista. Legate indissolubilmente a un’iconografia decisamente violenta. Non è un caso che i suoi più fedeli proseliti Forza Nuova li faccia (e li usi poi come bassa manovalanza) nelle curve degli

Mario Borghezio, eurodeputato leghista, noto per molte provocatorie iniziative razziste, non ha mai nascosto le sue simpatie naziste

stadi. I giovani ultras sono attratti dagli slogan razzisti e xenofobi di questa formazione, i cui militanti spesso sono anche capi ultras, e vengono arruolati tramite l’illusione di un mito identitario e oppressore dell’altro. Ma ancora resta da spiegare le ragioni per cui il centrodestra milanese flirta così apertamente con queste formazioni. Una

ragione, la più banale, è che sono un bacino elettorale non indifferente. Forza Nuova è in grado di far convogliare in occasione delle scadenze elettorali qualche migliaio di voti che possono diventare determinanti per la vittoria. Ma ormai gli esponenti di spicco della destra estrema sono organici al centrodestra istituzionale. Spesso nelle liste dei vari partiti di centrodestra si ritrovano personaggi non certo “puliti” legati a doppia mandata con queste formazioni estreme. Che, dopo la sconfitta del cartello composto da Fiamma Tricolore e La Destra nelle elezioni del 2008, hanno deciso di confluire nel Popolo della Libertà. E la stessa fine hanno fatto alcune frange del cattolicesimo più retrivo, ad esempio Alleanza Cattolica, che hanno deciso di entrare nel Pdl, sotto l’ala protettrice di Comunione e Liberazione. Un Pdl che a Milano è in mano alla famiglia La Russa. Famiglia che, vale la pena ricordarlo, ora si vanta di avere tra i suoi esponenti il ministro della Difesa, lo stesso che negli anni Settanta era tra i peggiori picchiatori fascisti meneghini. A questo aggiungiamo che anche l’altra formazione politica del centrodestra, la

QUESTO PROMUOVE LA PROVINCIA DI MILANO

Il falso mito di Leon Degrelle L’esilio in Spagna: “Per metà uomo d'affari e per metà truffatore” anche per gli americani

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li storici hanno dimostrato che nei primi tempi dell'esilio viveva del bottino di sanguinose rapine rexiste nelle gioiellerie di Bruxelles, compiute appena prima della Liberazione; poi creò un impresa di lavori pubblici che, grazie ai suoi contatti amichevoli con i pezzi grossi del regime franchista, ottenne l'appalto per costruire molte basi Nato in Spagna. Ma... insoddisfatti della qualità dei lavori, gli Americani si rifiutarono di pagare Degrelle, che fu protagonista di un

clamoroso fallimento... Poco male: ci sarebbero stati altri affari, e Degrelle non è morto povero. E se ha trascorso quarantanove anni a vivacchiare psichicamente, nel mondo materiale ha vissuto come un principe detronizzato, cullando i suoi rimpianti, fra le braccia di belle ragazze e in un lusso sfacciato, sotto il sole radioso della penisola iberica”. dal libro di Jonathan Littell Il secco e l'umido. Una breve incursione nel territorio fascista (Einaudi 2009)


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L’EREDITÀ DI UN PASSATO RECENTE SEGNATO DA STRAGI IMPUNITE E DIMENTICATE

Lega, ha legami strettissimi con le frange estreme della destra neofascista. L’eurodeputato padano Mario Borghezio (quello che disinfettava i sedili dei treni dove si sedevano gli immigrati, tanto per intenderci) copre e aiuta Casa Pound ospitandola, in attesa che qualcuno trovi per lei una sede migliore, all’interno della sede della sua associazione Volontari Verdi, in via Bassano del Grappa, che di fatto si è trasformata in un’associazione fascista. Un quadro abbastanza chiaro insomma del perché il centrodestra milanese non può non sostenere le formazioni neofasciste sul territorio, e anzi, in futuro, molto probabilmente diventerà sempre più vicino ad esse.

28 maggio 1974, Piazza della Loggia a Brescia, la devastazione dopo lo scoppio della bomba fascista. In basso, il manifesto di convocazione per quella mattina della manifestazione antifascista

Piazza della Loggia: nessun colpevole Otto morti, 102 feriti. Tre processi. E 36 anni dopo: insufficienza di prove

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Da “Liberazione” del 18/11/2010

GIORGIO FERRI

utti assolti. Si conclude così il terzo processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia. A 36 anni di distanza, e al suo terzo processo, il sistema giudiziario non è riuscito ad individuare con certezza i responsabili di quel massacro. Il dispositivo della sentenza, letto ieri dopo le 17 dalla presidente della corte di assise Enrico Fischetti, dopo una settimana di camera di consiglio, assolve i cinque imputati, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti, in base all’articolo 530 secondo comma. Norma assimilabile alla vecchia insufficienza di prove abolita dal nuovo codice di procedura introdotto nel 1989. Il dispositivo letto in aula ha revocato anche la misura cautelare nei confronti dell’ex-ordinovista Delfo Zorzi che vive in Giappone. Il pubblico ministero dopo un dibattimento durato circa due anni e 180 udienze che hanno visto oltre 400 testimoni sfilare in aula, aveva chiesto l’erga-

stolo per gli ex-ordinovisti veneti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, per il collaboratore dei servizi segreti Maurizio Tramonte e per il generale dei carabinieri Francesco Delfino che fu il primo a indagare sull’eccidio quando era a capo del Nucleo operativo dei carabinieri. Fu proprio Delfino a indirizzare le prime indagini su un gruppo di neofascisti e di balordi bresciani imputati nel primo processo. Per l’ex-segretario dell’Msi Pino Rauti era stata chiesta l’assoluzione. Per Tramonte è stato disposto anche il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione in relazione al reato di calunnia. Non si tratta, dunque, di un’assoluzione piena ma del riconoscimento che a distanza di oltre tre decenni gli strumenti giudiziari, in presenza di forti inquinamenti delle prove e di uno storico ostruzionismo da parte degli apparati profondi dello Stato, non sono in grado di individuare con assoluta certezza le responsabilità personali. Un garantismo encomiabile, purtroppo assente quando a passare in giudizio nei grandi processi contro la violenza politica degli anni 70 erano imputati di opposto colore politico. La mattina del 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia era in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. Una manifestazione pacifica. Alle 10.12 la piazza, gremita di dimostranti fu squassata dall’esplosione di una bomba che provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre 100. «L’unica cosa a cui penso in questo momento sono quegli otto morti. Noi eravamo in piazza quella mattina» - ha CONTINUA A PAGINA 4


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il fi fioore del partigiano IN AUMENTO GLI ATTENTATI E LE PROVOCAZIONI Così è stato ridotto il monumento presente nel parco Brigata Majella a Bologna. Il complesso di massi proveniente dai monti abruzzesi e che ne riproduce tre cime (vedi anche foto sotto) è stato collocato lo scorso 2 giugno a ricordo della Brigata che per prima entrò a liberare la città il 21 aprile 1945

SEGUE DA PAGINA 3 commentato Manlio Milani, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di piazza della Loggia, subito dopo la lettura della sentenza. «In questo processo - ha tenuto a precisare le cose che mi hanno colpito sono state le reticenze, le falsità che hanno raccontato. Stiamo ancora combattendo con un Parlamento che ti dice che sull’applicazione della legge sul segreto di Stato, a quattro anni dalla sua approvazione non ci sono ancora i regolamenti applicativi. Non c’è volontà di affrontare quegli anni». Il sindaco di Brescia, Adriano Paroli, ha parlato invece di «sentimento di impotenza». Da questo processo - ha aggiunto - «la città voleva due cose: verità e giustizia, ma non si è riusciti a raggiungerle». Paolo Corsini, oggi deputato del Pd, ex-sindaco della città, ha definito l’esito del processo «un insulto irreparabile a quanti quella mattina sono caduti in piazza, ai loro familiari. Un’offesa che umilia la città e rischia di spegnere un’ansia di verità e giustizia che la ricerca storica e il giudizio politico hanno invece da tempo appagato». Una sentenza - ha commentato Paolo Ferrero (PRC) che «riscrive la storia del paese, mandando assolti gli ideatori e gli esecutori delle strage fasciste attuate nell’ambito della strategia della tensione. Del resto l’attuale palude berlusconiana, in cui i diritti dei lavoratori sono calpestati giornalmente, è figlia diretta dell’opera di fascisti e corpi deviati dello Stato che a Brescia come in altre parti d’Italia - hanno combattuto con le stragi e gli attentati il movimento operaio negli anni ‘70».

Troppi episodi di “normale” sfregio

BOLOGNA

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n oltraggioso sfregio è stato commesso al monumento dedicato alla Brigata Majella di via Barbacci-angolo viale Lenin nei confronti dei macigni donati alla nostra città». Lo rende noto il Comitato provinciale dell’ANPI di Bologna denunciando la comparsa di scritte inneggianti al Duce con una serie di croci celtiche e definendolo «l’ennesimo atto vandalico fascista perpetrato contro il monumento». Il sito è dedicato alla Brigata Majella, decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare, ed è composto da una serie di rocce donate dai partigiani abruzzesi della Brigata, che parteciparono alla Liberazione della città il 21 aprile 1945, al Comune di Bologna. Il monumento è costituito da tre blocchi di pietra calcarea bianca, del peso complessivo di 183 quintali e mezzo, provenienti direttamente dalle falde della Majella, il massiccio dell’Appennino abruzzese (alt. m. 2975 s.l.m.). È dedicato alla Brigata patrioti recante il nome della montagna, che partecipò il 21 aprile 1945 alla liberazione di Bologna. Il manufatto è collocato nel parco di via Barbacci (tra via Lenin e via Marx), già intitolato con apposita targa alla brigata, decorata con Medaglia d’Oro al Valor Militare ed i cui combattenti furono insigniti della cittadinanza onoraria. I tre macigni, incastrati tra di loro, simboleggiano il profilo di altrettante cime, a loro volta riprodotte nel distintivo che era cucito, assieme alla striscia tricolore, sulle divise.

MONTESILVANO

Q

uesta che vi raccontiamo è una storia triste. Spia di un’Italia egoista e razzista. Una storia che ha come teatro Montesilvano (Pescara). Tutto ha inizio con la “notizia” che apre una circolo politico “rom”. In un mondo normale tutti ne dovrebbero essere contenti perché un circolo significa aggregazione, impegno, partecipazione, insomma, più democrazia. Non è così in questa Italia che, troppo spesso, negli ultimi anni, sembra vivere in un un mondo capovolto. Già perché l’annuncio diviene strumento di un attacco politico da parte dei neofascisti di Forza Nuova. Il cui segretario ha le idee chiarissime: e naturalmente fascistissime. La pensa così: il circolo deve chiudere e nel caso un suo rappresentante avesse idea di candidarsi, prontissimo, addirittura, a far saltare le elezioni. La risposta dell’ANPI è ferma. Il comitato provinciale di Pescara mette insieme due fatti: la contestata apertura del circolo politico rom e


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LA STORIA DELLA BRIGATA MAJELLA

Dall’unione di bande alla liberazione d’Abruzzo e di Bologna

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ella metà mattinata del 21 aprile 1945, presso San Lazzaro di Savena, un grosso assembramento di giovani armati riceve l’ordine di mettersi in colonna sulla via Emilia e di avviarsi su Bologna; alla loro testa ci sono il comandante Ettore Troilo ed il vice Domenico Troilo (non parente). Sono i volontari della Brigata patrioti “Majella”, in più di mille (1500 gli effettivi) ai quali – come ad altri Gruppi di combattimento italiani – è stato imposto di interrompere l’avanzata per consentire l’ingresso in città ai reparti polacchi. La formazione abruzzese ha sostenuto nel giorno antecedente l’ultimo furioso combattimento con le retroguardie tedesche a Idice ed a Villa Marescotti. La colonna a passo libero percorre via Mazzini entra nel centro storico da Porta Maggiore: a fatica si fa strada tra la folla sotto le Due Torri e da via Rizzoli sfocia in Piazza Maggiore: l’entusiasmo dei bolognesi li ripaga ampiamente del torto subito. Il comando della Brigata è invitato a salire in Comune dove il sindaco Dozza, freschissimo di nomina, sta ricevendo le rappresentanze degli eserciti liberatori. La “Majella” era partita nel pomeriggio del 14 aprile da Faenza con l’intero supporto di autoblindo, semoventi, veicoli ausiliari, affrontando il fuoco nemico e l’insidia delle mine. Dopo Bologna un contingente aveva proseguito l’avanzata fino ad Asiago, liberata il 1° maggio, mentre il grosso era rifluito nel bolognese su Castel San Pietro dell’Emilia, acquartierandosi nella cittadina termale fino a metà luglio. Per ricomporsi poi interamente a Brisighella (mesi prima liberata dopo una settimana di sanguinosi combattimenti tra l’1 e il 6 dicembre 1944), per la adunata solenne di scioglimento della Brigata e di commiato dalla popolazione. Nel ricordo dei 55 compagni di lotta caduti lungo il percorso e salutando i 131 feriti ed i 36 mutilati. La formazione abruzzese nacque da quindici giovani col nome di “Banda partigiani della Majella” dall’unificazione di bande spontanee di “ribelli” sorte già nell’autunno-inverno 1943 per rifiuto netto del fascismo repubblichino. Ne fu au-

l’attacco al monumento della Brigata Majella a Bologna. «Due episodi - si legge in una nota - da non far passare sotto silenzio, due facce della stessa medaglia, due indizi ulteriori della malattia profonda della democrazia in Italia». Storia chiusa? No, perché Forza Nuova torna alla carica. Ancora con il razzismo. «Domenica 5 dicembre distribuiremo a Montesilvano beni e prodotti (gratuitamente), agli italiani (sono esclusi gli immigrati, comuni-

tore l’avvocato antifascista abruzzese Ettore Troilo (dopo la liberazione l’avv. Troilo verrà nominato prefetto di Milano), con un opera di convincimento tesa ad evitare la distruzione sicura dei piccoli gruppi a sé stanti ad opera dei tedeschi. I nazisti attuarono una prima versione della “pulizia” antipartigiana delle loro retrovie. Il compito fu svolto dagli alpenjager, i cacciatori delle alpi: popolazioni massacrate, paesi e borghi dati alle fiamme, fabbricati abbattuti con la dinamite, bestiame depredato o ucciso. Elenca lo scrittore Nicola Troilo nel suo libro Brigata Majella: «... a Torricella Peligna, poco più di tremila abitanti, oltre cento morti civili, in gran parte donne, ragazzi, vecchi; a Pietransieri, presso Roccaraso, tutti i centotrenta abitanti vennero trucidati in un sol giorno; a Sant’Agata uccisi più di quaranta contadini; in contrada La Riga eccidio di dodici abitanti; Lama e Torricella distrutte per l’ottanta per cento, Civitaluparella per il novantacinque. A tacere degli stupri e delle ‘gare di tiro’ su bersagli umani.» L’inaudita violenza non ebbe il risultato che il comando nazista sperava. I partigiani si dettero una forte struttura militare e quando nel febbraio 1944 quelle montagne furono liberate con l’arrivo dell’ottava Armata inglese, vollero fermamente continuare la lotta perché «nulla più temevano, più nulla avevano da perdere». Risalendo Abruzzo, Marche, Romagna, i ranghi aumentavano con l’afflusso di nuovi volontari che partigiani non erano stati, perciò il titolo d’origine venne modificato da banda in “Brigata patrioti della Majella”.

tari e non, e rom) con particolare attenzione ad anziani sopra i 65 anni di età e diversamente abili». Segue precisazione: «L’erogazione sarà effettuata attraverso dei simbolici sacchetti preconfezionati intorno ai quali saranno allegati volantini contro la Grande Distribuzione ed a favore dei piccoli e medi esercizi commerciali del proprio quartiere e contro i sempre più numerosi negozi etnici e cinesi». Commento di Luciano Guerzoni, segretario nazionale dell’ANPI: «Una iniziativa che su-

scita disgusto e indignazione. Una iniziativa cinica, razzista, discriminatoria e demagogica». E oltre a denunciarla «senza esitazione», la segnala «alle Istituzioni ed alle forze preposte all’ordine pubblico affinché non sia tollerata, in quanto contrastante con i valori e le norme costituzionali della Repubblica e con le leggi dello Stato». Dichiarazione che si chiude con un invito, «agli antifascisti e a tutti i democratici, di sinistra e di destra, a scendere in campo per dire un no deciso».


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SEGUE DA PAGINA 1 La lettera di Chaìm (in ebraico, il nome Chaìm significa “vita”), è stata messa in musica anche dal cantautore Ivan Della Mea, anno 1965, nella canzone: Se il cielo fosse bianco di carta (espressione derivante dal Talmud) Se il cielo fosse bianco di carta e tutti i mari neri d'inchiostro non saprei dire a voi, miei cari, quanta tristezza ho in fondo al cuore, qual è il pianto, qual è il dolore intorno a me. Si sveglia l'alba nel livore di noi sparsi per la foresta, a tagliar legna seminudi, coi piedi torti e sanguinanti; ci hanno preso scarpe e mantelli, dormiamo in terra. Quasi ogni notte, come un rito, ci danno la sveglia a bastonate; Franz ride e lancia una carota e noi, come larve affamate, ci si contende unghie e denti l'ultima foglia. Due ragazzi sono fuggiti: ci han raccolti in un quadrato, uno su cinque han fucilato, ma anche se io non ero un quinto non ha domani questo campo... ed io non vivo, Questo è l'addio a tutti voi, genitori cari, fratelli e amici, vi saluto e piango. Chaìm.

I Barabàn fanno risuonare “il violino di Auschwitz” iamo tutti invitati a una serata di ri- IL CONCERTO - Coerente con il proS cordo e partecipazione, con lo spetta- prio percorso musicale e di impegno cicolo “Il violino di Auschwitz” Musiche e vile, Barabàn ha allestito un nuovo NELLA RICORRENZA DEL GIORNO DELLA MEMORIA

immagini per non dimenticare del gruppo I Barabàn nella ricorrenza del Giorno della Memoria. Il concerto multimediale si terrà alle 21 di mercoledì 26 Gennaio, a Inzago, presso il Salone Icaro del Punto d’Incontro, in via G. Di Vittorio 13. È organizzato da ANPI di Cassano d’Adda e di Inzago con Punto d’Incontro Onlus, grazie alla collaborazione e il sostegno del Circolo del Popolo Cassano d’Adda, del Comitato Soci COOP Cassano d’Adda, delle ACLI Cassano d’Adda, con il patrocinio del Comune di Inzago.

spettacolo di musiche, canzoni e immagini dedicato alla shoàh. Il concerto si snoda attraverso un’emozionante sequenza di canti come Wiegala, Asma Asmaton (tratto dalla celebre Trilogia di Mauthausen scritta dal poeta e drammaturgo greco Iakovos Kambanellis e musicata da Mikis Theodorakis), brani del moderno repertorio basato sull’antica tradizione ebraica, musiche per i matrimoni e danze della tradizione yiddish, canzoni contro la guerra e contro l’indifferenza e l’apatia.

ANPI - SEZ. “B. COLOGNESI” DI CASSANO D’ADDA

Giornata della Memoria

27 Gennaio 1945 - 27 Gennaio 2011

Per non dimenticare... la memoria è un dono

SCUOLE ELEMENTARI di Cassano d’Adda, classi 3e,4e,5e Plesso di Cascine S. Pietro - 20 e 21 Gennaio 2011 Plesso di via Q. Di Vona - 24 e 25 Gennaio 2011 Plesso di Guarnazzola - 26 e 27 Gennaio 2011 Plesso di Groppello - 28 Gennaio 2011 Mostra dei disegni e opuscolo di poesie dei bambini ebrei internati nel Campo di concentramento di Teresin, fotografie dei Campi di concentramento SCUOLE MEDIE di Cassano d’Adda, classi 2e e 3e In salone Biblioteca Comunale Via Dante, 27 Gennaio mattinata Lettura con accompagnamento musicale dal libro “Le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”, con Nicholas Ceruti (lettore) e Benedetta Paini (violino) e proiezione di slides storiche email: anpi.cassano@gmail.com - gcvilla@inwind.it telefono: 335247538 GC.Villa - 3480544389 M.Morelli

Appunti sulla Costituzione

Ciclo di conferenze nel 150° Anniversario Unità d’Italia

17/1 - Introduzione: la nascita della Costituzione 24/1 - I primi decenni della storia costituzionale: dal ‘48 agli anni Settanta 31/1 - Evoluzione della forma di governo 7/2 - Partiti e sistemi elettorali

14/2 - Informazione e democrazia

21/2 - I diritti fondamentali e le garanzie

28/2 - L’evoluzione storica dell’assetto regionale 7/3 - Magistratura e potere Il ciclo sarà tenuto da:

Aldo Bardusco - Professore di Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano Bicocca

Paolo Bonetti - Prof. di Diritto costituzionale, Fac. di Sociologia dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca

Barbara Milani - Dottoranda di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Milano Bicocca

Bruno Di Giacomo Russo - Dottore di ricerca in Diritto costituzionale, Fac. di Giurisprudenza dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca

Giulio Enea Vigevani - Prof. di Diritto costituzionale, Fac. di Giurisprudenza dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca

Federico Furlan - Prof. di Diritto parlamentare, Fac. di Giurisprudenza dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca

Paolo Gallo - Avvocato e dottore di ricerca in Diritto costituzionale, Fac. di Giurisprudenza dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca Elisabetta Lamarque - Prof. di Istituzioni di diritto pubblico, Fac. di Sociologia dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca

Claudio Martinelli - Prof. di Diritto pubblico comparato, Fac.di Giurisprudenza dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca

Palmina Tanzarella - Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Fac. di Giurisprudenza dell’Un. degli Studi di Milano Bicocca

Paolo Zicchittu - Dottorando in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali nell’Università di Pisa

Tutte le conferenze si terranno di lunedì alle ore 21,00 al Centro Culturale De André, Via Piola 10 Inzago. Quota di partecipazione € 50,00 Iscrizioni presso la sede ANPI di Inzago, Via Piola 10, il sabato dalle ore 10 alle 12.


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Con l’ANPI, per ridare speranza e fiducia all’Italia

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LA RELAZIONE DELLA PRESIDENTE AL CONGRESSO DELLA SEZIONE DI INZAGO

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i troviamo di fronte ad una crisi economica e sociale grave. L’attuale governo l’ha minimizzata, evitando di assumere i provvedimenti necessari a fronteggiarla. Questa situazione - così pesante - grava principalmente sui lavoratori, sulle loro famiglie, sui giovani e sulle donne. In questi giorni si stanno susseguendo le mobilitazioni degli studenti che rivendicano una scuola/università pubblica e laica chiedendo un futuro migliore... che altro potrebbero chiedere quando il presente è così povero! Le lotte degli operai e la grande manifestazione di ieri a Roma, rompono il teatrino del belpaese di Berlusconi e sono il segno di un intero Paese che non tollera più le menzogne. Siamo al dunque: si sta giocando il futuro dell’Italia; ce lo dicono i giovani, i precari, gli studenti che hanno la consapevolezza, la possibilità di studiare, di crescere.

Il nostro XV congresso si svolge in questo clima di crisi ma anche di decadenza politica e morale. È importante ribadire chi siamo ed il valore che la nostra associazione rappresenta, cioè la memoria storica della Resistenza, della Costituzione e dei diritti sanciti nella Carta. La Costituzione entrata in vigore nel 1948 - afferma valori, principì, regole e obblighi che disegnano la nuova identità politica e sociale dell’Italia: - Il Lavoro come fondamento della Repubblica - La sovranità che appartiene al popolo - L’uguaglianza e la coesione sociale - La rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale alla vita del nostro Paese - Il ripudio della guerra - L’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Invece abbiamo visto leggi ad personam pensate solo per tutelare il Presidente del Consiglio e abbiamo assistito a pressioni per influenzare le decisioni degli organismi di garanzia. Il ricorso alle urne usato come minaccia. O l’attacco alla Magistratura e alla libertà di stampa. Sono questi i segni di mutamento di un governo democratico molto spesso sottovalutati. Oggi per noi, la priorità che ci troviamo ad affrontare è la tutela e la salvaguardia della nostra democrazia. Per questo è indispensabile che la parte più consapevole del nostro Paese e soprattutto le giovani generazioni incidano con prese di posizione, scelte politiche e battaglie sociali e culturali. L’ANPI sollecita ancora una volta l’opposizione politica e parlamentare - a partire dalle forze antifasciste - a svolgere in modo più efficace la sua funzione in Parlamento e nel Paese, facendosi anche più consapevole della grave sfida in atto contro la democrazia. L’ANPI - attraverso l’occasione del Congresso -

sottolinea la necessità e l’urgenza di una riforma della legge elettorale coerente con il dettato costituzionale affinchè gli elettori possano scegliere con libertà i propri rappresentanti da eleggere in Parlamento e non assistere più a vergognose compravendite di Parlamentari che si spostano da un partito all’altro senza mostrare alcuna vergogna. Ci battiamo per una giustizia fondata sull’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per una magistratura autonoma ed indipendente.

Ogni anno milioni di persone lasciano i loro paesi in cerca di una vita migliore. L’immigrazione non può essere considerata esclusivamente un problema di sicurezza, come sostiene e avviene per opera della Lega e delle destre, ma va affrontata con adeguate politiche di accoglienza e di integrazione. Risoluta è l’opposizione dell’ANPI al razzismo e alla xenofobia. In questa battaglia politica e culturale l’ANPI e l’antifascismo devono essere in campo quali punti di riferimento, devono far pesare la storia d’Italia - un Paese di grande emigrazione - devono far sì che non si dimentichino le leggi razziali emanate dal regime fascista. L’ANPI è per l’Unità d’Italia riconquistata dalla Resistenza che considera un bene irrinunciabile. È contro il secessionismo leghista ammantato di federalismo, chiede che venga attuato il decentramento fiscale e la riforma del Parlamento dove si prevede la riduzione del numero di parlamentari e l’istituzione di una Camera in cui siano rappresentate le Istituzioni locali. Chiediamo che l’Italia venga liberata dalla questione morale, contrastando in tutti i modi l’evasione fiscale e l’illegalità diffusa. Il conflitto di interessi va una volta per tutte risolto e normato con leggi rigorose. Dall’esito di questa battaglia siamo convinti dipenda il futuro della democrazia e la stessa possibilità di contrastare e vincere quella diffidenza che si è creata verso i partiti e le istituzioni. Come accennato in premessa, la scuola in tutti i

A fine maggio in visita a Strasburgo e Colmar

La sezione di Inzago sta organizzando per la fine di maggio una visita Strasburgo (e alla sede del Parlamento Europeo) e alla vicina Colmar. Per informazioni e adesioni, rivolgersi in sede (Via Piola, 10, presso il Centro De André) il sabato dalle ore 10,00 alle 11,30.

Il professor Quintino Di Vona, a cui è intitolata la sezione di Inzago

suoi gradi è ormai ridotta ad una sorta di fabbrica di precarietà da quella che vogliono far passare per riforma ma è solo una scelta di tagli, tagli e poi ancora tagli. In compenso le casse delle scuole private si gonfiano sempre più, in barba alla Costituzione. E che dire del lavoro, diritto di ogni cittadino, sempre più carente e privato di tutele e di dignità per il lavoratore? I più colpiti sono i giovani, condannati al precariato ed alla disoccupazione. Per non parlare degli incidenti e dei morti sul lavoro. Tutto ciò in contrasto con la Costituzione che tanta importanza ha conferito al lavoro. Pensiamo che l’Italia abbia bisogno di speranza e di fiducia. E l’unità antifascista che è stata protagonista della Resistenza può e deve essere ancora oggi un esempio da ripercorrere per tutti i democratici e per le nuove generazioni. Pensiamo sia necessaria una grande alleanza tra l’ANPI, l’associazionismo antifascista, il sindacato ed il vasto campo dell’associazionismo democratico italiano. Per concludere parliamo di noi. Il bilancio è positivo, ci sono nuovi iscritti in tutte le province italiane, si sono intensificati i rapporti con il sindacato, con le associazioni, con l’ARCI, con Libera. Un’ANPI più aperta e con nuovi traguardi. Nell’Associazione si riduce come è fisiologico la presenza di partigiani. Crescono tuttavia gli antifascisti che non hanno vissuto direttamente la Resistenza. Cambia la fisionomia dell’Associazione, si ampliano e si diversificano le iniziative e le motivazioni per le quali si aderisce all’ANPI. Ma va precisato che l’ANPI non è un partito, bensì un’associazione alla quale si aderisce per la memoria che rappresenta nella storia del nostro Paese, per i valori e i principi dell’antifascismo che essa rappresenta. E l’autonomia dell’ANPI nei confronti di ogni partito è per noi irrinunciabile. L’ANPI ripudia la violenza e rispetta le istituzioni della Repubblica.

Infine la nostra sezione: si sono iscritti 80 antifascisti. Noi collaboriamo con le associazioni locali. Siamo presenti con iniziative nelle scuole e sul territorio. Abbiamo una nostra pubblicazione (“Il fiore del Partigiano”). Organizziamo ogni anno un viaggio della Memoria. La sezione è aperta tutti i sabato mattina. Il nostro obiettivo è far sì che possa diventare luogo di incontro e di confronto. Rita Catanzariti Presidente ANPI di Inzago


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La mia esperienza sotto la gru

LETTERA DI UN’INSEGNANTE AL GIORNALE DI BRESCIA

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gregio Direttore, abito vicino alla gru e, nel leggere l’editoriale “Non lasciamo sulla gru la nostra città”, non ho ritrovato la mia esperienza, che è anche quella di molti uomini e donne che ho incontrato in questi giorni. Lei ha visto “sedici giorni di tensione, di scontri, di rabbia”. Certo c’è stato anche questo, ed è stato molto molto difficile; ma io sono stata colpita dalla solidarietà, dal desiderio di scambio, di incontrarsi, di discutere, di cercare di capire, dalla presa di parola delle donne con appelli e poesie, dai gesti di cura, dal coraggio di ritornare sotto la gru dopo le cariche. Cosa ci teneva lì? Cosa teneva lì me, donna di cinquantasei anni con i suoi impegni di famiglia e lavoro, le mie vicine e vicini di quartiere, le persone che abitano in altre parti della città? Cosa ha fatto dello stare sotto la gru la priorità di questi giorni per donne e uomini di ogni età e dalle molteplici esperienze? Cosa ha spinto molte donne a portare fiori e accendere un grande cuore di luce per riportare energia amorevole dopo le violenze? Cosa ha spinto tanti e tante a portare ogni giorno musica, voci, vita e amore? Il gesto di salire sulla gru e di rimanere lì è stato molto forte e ha scosso le coscienze. Siamo stati in molti, cittadini, partiti, sindacati e istituzioni, ad essere sopiti nei giorni del presidio in via Lupi di Toscana. Eppure già lì erano chiare le richieste. Ed io queste richieste le ho chiarissime, come insegnante, ma anche perché nei sedici anni di malattia di mia madre, ho

sperimentato tutti gli spigoli delle nostre leggi sull’immigrazione, che sono diventate via via più ingiuste e ci hanno tolto libertà. Eppure per sentirmi personalmente responsabile ho avuto bisogno del gesto forte. In tanti abbiamo avuto bisogno di quel richiamo per uscire dalla sordità. Quei ragazzi sulla gru dicevano sulla scena pubblica le cose che tante volte in famiglia, tra amici e conoscenti, tra colleghi, ci siamo detti. Erano la nostra voce, la nostra coscienza. E ci creavano uno spazio pubblico per far sgorgare il desiderio di giustizia e di cambiamento. Lei ha visto “strumentalizzazione… di rivoluzionari di professione”. Io sono invece rimasta molto colpita dall’autodeterminazione dei migranti e dalla fresca e generosa disponibilità con cui l’area politica cosiddetta “antagonista” è stata al loro fianco. Cosa sono per lei “gli interstizi della città”? sono forse i luoghi della politica prima, quella legata alla vita, ai desideri e ai sogni? Quella della politica che non è condizionata da equilibrismi, calcoli elettorali e compatibilità? E perché chi è stato capace, proprio perché libero, di colmare un vuoto e di interpretare le aspettative di molti non può essere interlocutore delle istituzioni? Non ho invece visto l’autodeterminazione delle realtà ecclesiali di quartiere che, hanno dovuto soffocare l’iniziale cristiana generosità per allinearsi alle compatibilità della gerarchia e della politica. E ho registrato molte assenze che non nomino. Ho visto l’amorevole slancio di madri e

INVERSI

DI

Filastrocca delle buone maestre

BRUNO TOGNOLINI

dalla rubrica “Inversi” de l’Unità del 2 dicembre scorso

Maestra, insegnami il fiore e il frutto Col tempo, ti insegnerò tutto Insegnami fino al profondo dei mari Ti insegno fin dove tu impari Insegnami il cielo, più su che si può

Ti insegno fin dove io so E dove non sai? Da lì andiamo insieme Maestra e scolaro, dall’albero al seme Insegno ed imparo, insieme perché Io insegno se imparo con te

padri che si sono opposti indignati alla crudele e rigida gestione del cibo, che si è tradotta più volte nell’affamare quei giovani, per stroncarli. Ho dovuto vedere la repressione violenta di chi richiedeva tutela dei diritti, i fermi e la reclusione nei CIE di alcuni migranti che erano stati attivi nel presidio; ho cercato di dissolvere il grande dolore alla notizia delle espulsioni: la rappresaglia infrange sogni, legami e amori, costruisce inciviltà e alimenta i conflitti. Ho dovuto vedere le assurde provocazioni di giovani venuti da fuori Brescia, che hanno cercato di trasformare il pacifico presidio in uno scenario di guerriglia urbana, ma ho anche potuto osservare la responsabilità di molti, che ha consentito di limitare le conseguenze. Voglio infine custodire l’emozione individuale e collettiva per i quattro ragazzi che scendono dalla gru, il sospiro di sollievo al pensiero di alcune garanzie loro concesse, frutto tardivo di sforzi di mediazione di varie istituzioni. Egregio Direttore, condivido il suo auspicio che “la città… sappia costruire fondamenta sociali solide”. Per il sapere che l’esperienza di questi giorni ha qui depositato, Brescia può rendere meno timido lo sforzo collettivo di ricerca di punti comuni, diventare un laboratorio di pensiero e proposta per rivedere gli aspetti persecutori di norme che non sono in grado di regolare il fenomeno migratorio e generano quotidianamente tensioni e illegalità. Annamaria Tonoli

Insegnante, cittadina bresciana

L’

ANPI, custode dei valori di libertà, pace ed uguaglianza che hanno mosso l’agire coraggioso e responsabile degli antifascisti, dei partigiani e da ultimo dei Padri costituenti, non può che ribadire con forza e determinazione l’inalienabilità del diritto per tutti ad un lavoro dignitoso e civile, fondamento primo della nostra Repubblica. La Costituzione, in questo senso, fornisce un dettato chiaro e non manipolabile: condizioni di lavoro rispettose della dignità personale e delle esigenze materiali dell’individuo, libera rappresentanza sindacale. Questi sono i principi che devono guidare l’agire di coloro che in questi giorni hanno la responsabilità di decidere il futuro di migliaia di lavoratori: Governo, Fiat, Forze sindacali. Ogni passo che tenda a sovvertirli rischia di sovvertire lo stesso impianto democratico del Paese, che ad oggi ha sempre garantito stabilità e civile convivenza. L’ANPI fa quindi appello affinché sia massimo lo sforzo per trovare soluzioni ampiamente concertate e affinché il necessario sviluppo economico non sia in nessun caso disgiunto dalle regole e dai diritti. La Segreteria Nazionale ANPI


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Scienza, Nobel, Chiesa Storia di normale invadenza

RIFLESSIONI DI UN LAICO DI FRONTE AGLI SCONFINAMENTI VATICANI

GUERRINO BELLINZANI

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ggi, 5 ottobre, è stato reso noto dall’Accademia di Svezia il vincitore del Premio Nobel per la medicina: lo scienziato inglese Robert Edwards, padre della “fecondazione assistita”. Il riconoscimento tardivo, ma a pieno merito, è stato salutato con soddisfazione nel mondo laico e in quello scientifico. La Chiesa cattolica si è subito rivolta con durezza contro la decisione dell’Accademia svedese, definendo il riconoscimento inaccettabile. La pontificia Accademia per la Vita ha detto che il Nobel Edwards è eretico (meno male che non c’è più il rogo!). Per la prontezza e la veemenza del giudizio, il papato si riconferma così contro il progresso della ricerca scientifica. Da questa circostanza parte la nostra riflessione, chiedendoci se la Chiesa cattolica ha avuto l’ardire di considerare condivisibile il progresso scientifico riguardante temi quali quelli inerenti alla sessualità della donna in rapporto a maternità, famiglia, matrimonio. Quello che ci risulta è il suo schierarsi contro l’aborto, contro il divorzio, contro la sessualità fuori dal matrimonio, contro le coppie di fatto, contro le unioni omosex. Uno stillicidio di veti. Una intolleranza arcaica, una ossessione liberticida verso le donne in primis e la coppia in generale. Intanto da dove deriva questa ossessione, dalle Sacre scritture? E da quando la Chiesa cattolica è pervenuta ad una simile dottrina in materia sessuale? Arrivando ai giorni nostri l’elenco delle proibizioni si arricchisce sempre più di atti - questi sì, per noi - “peccaminosi”: niente eutanasia, niente testamento biologico, sì all’accanimento terapeutico (caso Eluana) ignorando il parere scientifico unanime dei medici. Abbiamo, quindi una Chiesa sempre contrapposta al progresso scientifico. Contro Galileo Galilei, colpevole di aver scoperto e sostenuto che la Terra gira attorno il sole, in questa parte dell’universo chiamato Sistema Solare. Cosicchè la quantità di veti è pressoché infinita rispetto alle scoperte scientifiche, di cui peraltro si avvalgono anche una moltitudine di credenti, che creano forte imbarazzo e clamorosa contrarietà all’ortodossia della gerarchia vaticana. Le leggi in Italia passano al vaglio del

“Censore che custodisce le Tavole dell’Etica” (leggi curia vaticana), distante dai cattolici ben pensanti, i quali fanno sesso fuori dal matrimonio, divorziano e si risposano continuando a procreare, usano anticoncezionali. Di fronte alla pretesa di dettare comportamenti etici e morali a Stati Sovrani da parte della Chiesa cattolica sovviene una ulteriore domanda: nella sua Storia, il Vaticano può considerarsi specchio di coerenza e di virtù ecclesiali? La domanda è retorica, essendo la risposta nei fatti, lontani e recenti: fatti della più ferrea intolleranza, culminata spesso in torture spietate fino alla morte. Sempre in nome di Dio, paravento dietro il quale si sono commessi atroci crimini e si sono fatte guerre per la conquista di Stati, nella bramosia di possedere territori come un qualsiasi Stato invasore. Nel nome di Dio, per secoli la Chiesa ha operato e giustificato al contrario del messaggio di pace e di amore per il prossimo che lo stesso Cristo ha predicato per l’intera vita. Ci chiediamo, ancora: la Chiesa cattolica percepisce la gioia delle credenti, laddove e allorquando si sono trovate, grazie alla Scienza, con una creatura frutto dell’amore di coppia altrimenti negatagli da organi infecondi? Oppure quella di altre credenti e non, liberate di un fardello non voluto? E infine: di donne alla ricerca di felicità invano sperata nella loro prima unione matrimoniale? Il connubbio tra scienza libera e legislazione adeguata e confacente, dà alle coppie la possibilità di darsi dirette discendenze, e/o di crearsi nuovi legami, evitando il perdurare di unioni finite mi-

ILLUSTRAZIONE DI LUCA DE SANTIS

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seramente tra l’astio e l’indifferenza. Astio derivato da insopportabilità e indifferenza per la freddezza nel rapporto di coppia. Di questo soffrono coppie e individui credenti e non; chi rispetta i precetti che la Chiesa ha loro impartito e chi pur non professandoli ne è altrettanto rispettoso. Non è il diavolo a fuorviare il buon credente. Spesso è l’intransigenza imposta dai dogmi a procurare infelicità e dolore. A parlare di diavoli e di Dio è la Congregazione per la Fede, la quale, immutata nei secoli non sa vedere la modernità delle società e il superamento e l’incongruenza di certe posizioni dogmatiche. Lo scienziato britannico è un benefattore dell’umanità, almeno di coloro che pur professando la fede cristiana ne godono appieno il “dono della Scienza”, anch’esso “dono di Dio” (cosi la definisce la stessa Congregazione!). Le leggi a tutela, sia che riguardino la pillola anticoncezionale, che tutto ciò che allevia il dolore per la carenza di possibilità di procreare senza aiuto scientifico, o di chi desidera rifarsi una vita di coppia e non essere condannato alla solitudine o alla clandestinità senza avere colpe civili o penali, sono a garanzia per chi sceglie la vita di coppia e il piacere di avere pargoli da allevare amorevolmente in uno Stato in cui i diritti del cittadino sono sinonimo di libertà da ogni vincolo autoritario impostogli da chicchessia. Libero non significa menefreghismo del vivere socialmente; anzi, sotto il dettato costituzionale, doveri e diritti impongono un percorso la cui percorribilità è il rispetto deferente delle Leggi e il decidere secondo coscienza.


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Proseguiamo la pubblicazione di testimonianze sulle inumanità che il regime fascista fu capace di compiere ai danni delle popolazioni della ex-Jugoslavia occupata. Riproduciamo qui di seguito, il racconto di tre testimoni diretti, redatto da Erica Culiat per il Diario del 26 gennaio 2007. Lo scorso numero abbiamo ripreso, sempre da Diario, un articolo dello storico Carlo Spartaco Capogreco sul campo di Arbe. Nel 2004 Capogreco ha pubblicato con Einaudi I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista 1940-1943.

Non solo brava gente CRIMINI DIMENTICATI, ATROCITÀ NASCOSTE DEL COLONIALISMO ITALIANO

Parlano i sopravvissuti dei campi di internamento italiani: morivano a centinaia, ma mai nessuno dei responsabili è stato accusato o processato

A DI

ERICA CULIAT

lla fine è vero quello che ha detto Marija Poje, sopravvissuta ai campi di Arbe (oggi Rab, in Croazia) e Gonars, «voi potete soltanto intravedere il nostro mondo, ma non potete capirlo». Possiamo, però, farlo conoscere perché è una realtà ancora oggi taciuta e poco divulgata, anche se una recente storiografia, quella di Bozidar Jezernik, Tone Ferenc, Alessandra Kersevan e Carlo Spartaco Capogreco cerca di fare luce su un altro buco nero della nostra storia. Quella cioè della deportazione dei civili sloveni e croati nei campi di concentramento italiani tra il 1942 e il 1943, i cosiddetti «campi di internamento parallelo» come li ha definiti Capogreco. Campi dove si lasciavano morire donne vecchi e bambini di fame, freddo, sete, malattie, senza intervenire. «IL 29 LUGLIO 1942, non albeggiava ancora, militi armati in camicia nera entrarono nelle nostre case a Stari Kot» (un paesino di montagna tra Fiume – oggi Rijeka – e Lubiana), racconta Herman Janez, allora un bambino di sette anni che assieme a Marija seguirà la stessa via crucis e che in questa aggressione perse 17 fa-

miliari, «entrarono urlando, buttandoci dai letti e colpendo chi si fermava con i calci dei fucili. Siamo stati ammassati nella piazzetta dietro alla chiesa e abbiamo visto bruciare il nostro villaggio. Tutti i 138 abitanti del paese, senza cibo né bagaglio, in colonna, sotto scorta, sono stati fatti camminare fino al paese di Cabar, dove abbiamo alloggiato per una notte. Poi il giorno seguente ci hanno divisi in tre gruppi, donne, bambini e uomini e hanno fatto l’appello. Se qualche uomo mancava, voleva dire che era partigiano e quindi tutta la famiglia, o una parte, poteva essere fucilata. Da lì ci hanno trascinato nel campo di smistamento di Bakar (Buccari), vicino a Fiume e messi nelle stalle del vecchio esercito jugoslavo. Qui sono arrivate tutte le persone delle vallate sopra Fiume, mentre quelle attorno alla provincia di Lubiana venivano portate direttamente a Fiume e da lì verso Arbe, come noi. Eravamo stanchi, sporchi, stremati dopo aver fatto una cinquantina di chilometri. Avevamo ricevuto poco cibo, del caffè salato, ma niente acqua e non potevamo usare servizi igienici. Ci chiedevamo, perché? Che cosa sta succedendo? Quando poi ci caricarono sulla nave in direzione dell’isola di Arbe (oggi celebre luogo di villeggiatura) i vecchi che non avevano mai visto il mare in vita loro, si misero a piangere dicendo che questo viaggio sarebbe stato l’ultimo e che ci avrebbero gettati in acqua. Siamo arrivati il 5 agosto». IL CAMPO DI ARBE è stato realizzato alla fine di giugno del 1942 nella parte sudorientale dell’isola, dove i soldati italiani installarono un migliaio di tende per sei-

mila persone. Il progetto iniziale annunciato dal generale Mario Roatta era quello di realizzare altri due settori per un’accoglienza di 16 mila persone, in realtà ci fu un ridimensionamento del grande terminale per internati sloveni e si prospettò solo una funzione di smistamento di 10/11mila posti. Il campo fu sottoposto al colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli che promulgò la massima del «recluso malato come recluso ideale» che fa capire come Arbe, pur non essendo stato pianificato come campo di sterminio, aveva in realtà dei tassi di mortalità altissimi, soprattutto per non aver avuto nessuna stima dell’umanità dei reclusi e per la crudeltà del colonnello Cuiuli. Ma come si era arrivati a questo? Senza dimenticare quanto il fascismo di frontiera aveva fatto a partire dagli anni Venti nel Friuli-Venezia Giulia e in Jugoslavia, nel suo progetto di bonifica etnica dei non italiani usando tutti i mezzi possibili, intimidazione violenza uccisioni spedizioni punitive nei villaggi italianizzazione dei cognomi e delle località, bisogna comunque arrivare al 6 aprile del 1941 quando Italia e Germania invadono la Jugoslavia, smembrandola. La Slovenia settentrionale fu assegnata al Reich; quella meridionale, con Lubiana, venne annessa all’Italia. Quando nell’estate-autunno dello stesso anno in Montenegro inizia la Resistenza che dilaga anche in Serbia, Bosnia, Croazia e Slovenia, le autorità militari italiane adottano provvedimenti sempre più drastici per decapitare il movimento di Resistenza. Obiettivo comunque mai raggiunto. Esisteva un ordine emanato dal Comando superiore per la Slovenia e la


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Dalmazia con sede a Susak (Supersloda) dove si specificava che «se necessario all’ordine pubblico, si poteva provvedere a internare a titolo protettivo, precauzionale o repressivo, individui, famiglie e anche intere popolazioni di villaggi e zone rurali, di famiglie di cui siano o diventino mancanti senza chiaro motivo maschi validi di età compresa fra i 16 e i 60 anni. Il razionamento a dette famiglie verrà ridotto al minimo indispensabile. Saranno internati anche gli abitanti di case prossime al punto in cui vengono effettuati sabotaggi». Nella provincia di Lubiana viene anche istituito un Tribunale straordinario che spesso comminava la pena di morte. Il 10 ottobre avvengono già le prime esecuzioni. Dal sistema iniziale di arresti, in pratica, si passa a un sistema di carcerazione in massa della popolazione, a prescindere dalla loro colpevolezza, e di invio nei campi di internamento che dal febbraio 1942 sono in allestimento. LA DEPORTAZIONE veniva accompagnata dalla requisizione del bestiame, dalla confisca dei beni e dalla distruzione delle abitazioni. Alcune aree della Provincia di Lubiana furono così completamente svuotate. Nei 29 mesi di occupazione italiana soltanto in questa provincia vengono fucilati cinquemila civili e 200 bruciati o comunque massacrati in modi diversi; 900 i partigiani catturati e fucilati. In base ai dati a disposizione presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma, il governo italiano valutò che alla fine dell’ottobre 1942 nei campi di Arbe, Chiesanuova (Padova), Monigo (Treviso), Gonars (Udine) e Re-

Una veduta della tendopoli eretta nell’estate 1942 nell’isola dalmata di Arbe. Nella pagina a sinistra, Marija e Herman, Due ex internati del campo italiano

nicci di Anghiari (Arezzo) si trovavano circa 20 mila deportati civili sloveni. Fino alla capitolazione dell’Italia l’8 settembre 1943, però, gli sloveni furono internati per periodi più o meno lunghi in più di cento località italiane e il loro numero di sicuro fu più alto dei 20 mila menzionati nei documenti d’archivio. Notizie sicure, invece, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, quelle sulle condizioni di vita definite tragiche. Quando la Poje il 5 agosto arriva ad Arbe, ha vent’anni. È incinta. Ha un bambino di 16 mesi con la diarrea. Viene separata dal marito. Al momento dello sbarco sull’isola, le autorità suonano l’allarme perché i residenti si chiudano nelle loro case (il molo è nel centro di Arbe paese). Le donne i bambini vengono caricati su un camion e portati a Kampor, una valle bonificata a nord della località principale dell’isola, dove il 27 luglio era arrivato il primo gruppo di internati da Lubiana. Gli uomini invece devono raggiungere questo luogo a piedi, marciando per sette chilometri. Il campo era diviso in quattro sezioni, quella maschile, quella femminile, quella degli ebrei e la sezione di ricezione e smistamento. «Non riuscivo a pensare a niente», dice Marija, «ci hanno messo in tende militari vecchie da quattro posti, invece eravamo in otto. Mia suocera era con me. Non potevamo lavarci. Ci hanno dato una coperta e si dormiva per terra. Faceva caldo e la

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mancanza di acqua è stata la cosa più traumatica anche se in zona c’erano ben 300 falde d’acqua. Le autorità portavano una cisterna d’acqua al giorno. Io carponi, sgattaiolando tra la gente, raggiungevo la cisterna e da un bullone allentato raccoglievo l’acqua che cadeva. Il nostro vitto era un terzo del rancio di un soldato. Ci davano solo 80 grammi di pane. Alla fine eravamo solo l’ombra di noi stessi. Quando nella notte tra il 29 e 30 settembre scoppiò un fortissimo temporale, mentre mia suocera teneva i pali della tenda e io il mio bambino, non avevo neanche la forza di chiedere ai vicini di tenda che cosa stava succedendo, ma pensavo fosse arrivato il giorno del Giudizio». Quella tempesta fu un vero incubo: una valanga d’acqua alta un metro precipitò nel campo femminile trascinando a mare non solo le tende, ma anche bambini e donne. Herman dice che le urla di quella notte lo accompagnano tuttora e «ancora oggi non riesco a fare il bagno in mare perché ad Arbe, qualcuno aveva pensato che la terapia dei bagni freddi ai bambini, nei mesi autunnali, sarebbe stata un’ottima cura per rafforzare il fisico. Le guardie ogni giorno facevano l’appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha portato tanti di noi al camposanto». Una semplice pioggia comunque causava disagi inimmaginabili, perché intasava le latrine che riversavano il liquame nelle tende. Tra la sezione maschile e femminile scorreva un ruscello che era diventato il simbolo delle sofferenze patite in quel campo. La gente non poteva né lavarsi né dissetarsi perché era pieno di cimici. Il 6 agosto muore il primo bambino di due mesi e fino a dicembre ne moriranno 164. Nei 13 mesi di attività del campo probabilmente persero la vita non meno di 1.435 persone alle quali si sia riusciti a dare un nome. Una cifra che corrisponde a oltre il 19 per cento degli internati sloveni e croati di Arbe e che supera il tasso di mortalità registrato nel campo nazista di Buchenwald che fu del 15 per cento. Il numero potrebbe essere superiore perché spesso si seppellivano due salme in una stessa fossa e gli internati nascondevano le morti per spartirsi il rancio dei defunti. Marija il 18 novembre venne trasferita alCONTINUA A PAGINA 12


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SEGUE DA PAGINA 11 l’hotel Adria, sempre sull’isola, dove partorì Anton (tanti neonati nascevano già morti). Il giorno successivo, per precauzione, venne subito battezzato. DALLA FINE DI NOVEMBRE comunque donne, bambini e vecchi iniziano a essere trasferiti in Italia. Marija e i suoi bambini arriveranno a Gonars il 6 dicembre. Herman un giorno prima. «Anche questo viaggio è stato un incubo. Al momento dell’imbarco, soffiava la bora e pioveva. La barca era piena. Ci hanno fatto sedere in coperta perché la stiva era già ricolma. La suocera cantava una canzone, “tutto il Golgota preme e Cristo porta la croce”. Con la sottoveste e la camicia ho fatto i pannolini per Ivan». Marija in realtà parla di sé in terza persona. I ricordi sono troppo pesanti. «A Gonars siamo stati disinfestati. I vestiti li abbiamo ammucchiati perché venissero messi nelle stufe e ci hanno mandato a fare la docce. Ho chiesto al soldato: dove metto il bambino? Su questi stracci. Sono andata a fare la doccia, ma non stavo tranquilla. Esco allora tutta bagnata e mi accorgo che il mucchio di stracci è sparito e che il soldato li sta mettendo nelle stufe con il bambino perché non si è accorto che c’era». Anton in realtà muore l’11 gennaio, ma sarebbe stato peggio se fosse morto nella stufa e questo per Marija è di grande conforto. Il 13 aprile 1944 morirà anche Ivan, il primogenito, «magro come un coniglietto» che non riuscirà a riprendersi dalle sofferenze di Arbe e Gonars, ma che negli ultimi due giorni di vita terrà sempre gli occhi aperti nel vano tentativo di vincere la morte «e nelle mie orecchie ci sarà sempre quel miagolio di Ivan che non voleva lasciarci». Chi invece riuscirà a sopravvivere sarà Herman, che a Gonars verrà salvato da una sua parente che lo riconosce tra i corpicini dei bimbi morti esposti in una tenda. Lo veste. Gli dà da mangiare e lo scalda sul suo corpo come facevano le mamme per asciugare i pannolini bagnati dei loro bambini. Se non ci fosse stato l’armistizio dell’8 settembre, dice Herman, saremmo morti a Gonars perché eravamo troppo debilitati, invece dopo l’8 settembre gli italiani sono scappati lasciando i campi vuoti e noi siamo ritornati a casa. Siamo andati a piedi fino a Opicina (una frazione di Trieste) e poi in treno a Rakek. I nostri partigiani ci hanno dato una minestra. Eravamo come straccioni. Il nostro paese era stato bruciato, abbiamo recuperato qualche avere che eravamo riusciti a nascondere in una grotta prima dell’arrivo dei soldati italiani e siamo andati lì vicino, a Podpreska, dove nei primi tempi abbiamo vissuto di accattonaggio, ma dove comunque siamo stati aiutati dalla gente del posto per ricominciare. NEL CAMPO DI SDRAUSSINA – ribattezzato Poggio Terza Armata, ufficialmente carcere sussidiario – venne portato invece

Civili deportati. Il Regio esercito svuotò interi villaggi sloveni e croati perché sospettati di aiutare i partigiani.

Miroslav Ozbolt, prelevato, assieme ad altri quattro ragazzi, una notte del 1942 nel suo paese di Volcja Draga, vicino a Nova Gorica, quando aveva appena 14 anni e mezzo, «perché mio fratello era partigiano. Sono stato portato prima a St. Peter e a Gorizia e da lì per 13 mesi a Sdraussina». Questo campo era nato in uno stabilimento tessile dismesso e venne usato come carcere e campo di smistamento per i civili sloveni deportati dalle zone occupate, ma anche per i cittadini italiani di lingua slovena della provincia di Gorizia. «Eravamo chiusi in 150 in questo edificio e sul tetto c’erano i carabinieri italiani che ci controllavano, quando una volta al giorno uscivamo in fila a prendere il rancio, una brodaglia con un po’ di riso e una verza e un po’ di pane. Per il resto eravamo sempre chiusi lì dentro. Avevo paura. Pensavo soltanto: che cosa succederà adesso? Una volta, siccome le finestre di questo caseggiato erano alte, mi arrampicai per pulirle. I cara-

binieri si accorsero e per punizione mi chiusero in cantina due giorni. La noia era la nostra compagna. Le ore non passavano mai. Mi ricordo che degli adulti con il pane masticato avevano costruito una scacchiera per giocare e poi, non so come, avevano fatto anche delle carte da gioco. Mia mamma che era rimasta al nostro paese, riuscì a mandarmi 200 lire che io persi giocando con loro. Poi un giorno, senza darmi spiegazioni, mi presero, ero già da nove mesi a Sdraussina, e mi portarono con il camion a Fossalon (vicino a Grado) e per due mesi fui rinchiuso in una stalla. Una volta alla settimana ci permettevano di lavarci, ma eravamo pieni di pidocchi. Di nuovo senza spiegazioni, venni riportato a Sdraussina». Anche Miroslav dopo l’8 settembre uscirà dal campo e con i più anziani raggiungerà Monfalcone dove li aspettavano i partigiani. Fino al termine della guerra Miroslav combatterà con loro, in un corpo speciale addestrato per attaccare i tedeschi e ritornerà a casa appena nel 1948. «Per tanto tempo non ho pensato a quel che mi era successo a Sdraussina e Fossalon perché ero impegnato a combattere, poi sono venute fuori le conseguenze, soprattutto la fame patita. Mia moglie sa quello che mi è successo, ma nel tempo ho imparato a stare zitto. Ai giovani non interessa questo. Non è la loro storia. È la mia». Mentre Janez è il tesoriere di questo passato che ricostruisce attraverso tutte le testimonianze che riesce a trovare, ha scritto infatti numerosi articoli e anche un opuscolo, Miroslav e Marija cercano di arginarlo, «anche perché», dice Marija, «ho sempre avuto una forza che mi ha aiutata ad andare avanti. Ho avuto altri cinque figli e comunque non puoi vivere sull’odio e star lì a rimuginare». NEL GIUGNO DEL 1973 Italia e Jugoslavia hanno raggiunto un accordo per realizzare un sacrario a Gonars che raccoglie le spoglie di 453 jugoslavi morti durante la guerra nell’Italia settentrionale, mentre dal 1996 la Slovenia dà agli ex-internati una pensione mensile di 50 euro. Il tempo di internamento di 14 mesi invece è stato monetizzato 2.900 euro. L’Italia, dal canto suo, invece, non ha mai avviato nessun procedimento giudiziario contro quegli italiani che si sono macchiati di tali crimini, né tanto meno ha risarcito gli ex-internati. Mai un rappresentante dello Stato italiano ha presenziato. Si ringraziano per la traduzione delle interviste Boris Gombac e Mia Righetti.


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Le vite “fuori dai libri” nel ricordo dei testimoni

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SETTANT'ANNI FA IL PRIMO NATALE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

N DI

LUCIANO GORLA

ILLUSTRAZIONE DI MARILENA NARDI

atale 2010, Natale 1940: settant’anni fa ricorreva il primo Natale della Seconda Guerra Mondiale. I ricordi di quel tempo lontano sono stati tramandati nei decenni da una generazione all’altra, diventando così parte della memoria di una comunità. Chi non è più giovanissimo conserverà sicuramente il ricordo dei racconti dei propri genitori o dei propri nonni, riferiti per l’appunto agli anni difficili del secondo conflitto mondiale. Alle vicende ufficiali, legate alla cronologia degli eventi bellici e che sono entrate nei libri di storia, si sono aggiunti fatti minori che hanno riguardato la quotidianità di molte persone e di molte famiglie e che spesso sono rimasti sconosciuti o comunque non sufficientemente considerati. Alcuni mesi prima di quel Natale, cioè la sera del 10 giugno 1940, il capo del Governo fascista, Benito Mussolini, aveva annunciato l’entrata in guerra dell’Italia e l’inizio delle ostilità alla Gran Bretagna ed alla Francia. L’annuncio fu carico di enfasi e “Vincere” fu la parola d’ordine che Mussolini, ottimista sulle sorti del conflitto, affidò quella sera agli italiani chiamati alle armi. La convinzione che la decisione belligerante presa dal capo del Governo avrebbe portato soltanto lutti ed inutili sacrifici, si faceva però sempre più forte e condivisa. Quel lontano Natale del 1940 fu dunque vissuto nell’apprensione. Molte famiglie, infatti, erano preoccupate, perché alcuni dei loro congiunti avrebbero dovuto par-

tire soldati; mentre chi si trovava già sotto le armi per il servizio di leva sarebbe stato confermato per il conflitto. La mobilitazione richiamò in seguito altre classi, nelle quali c’erano già uomini coniugati e con figli. Ciò avrebbe causato una ricaduta negativa sulla vita e l’economia di molte famiglie. Molte donne e madri, dovettero sopperire al lavoro degli uomini, occupando, nelle officine e nelle fabbriche riconvertite per la produzione bellica, i posti delle maestranze che erano state arruolate. Si crearono delle situazioni difficili che coinvolsero anche i figli, piccoli o meno, i quali, mentre le madri erano al lavoro, dovevano essere lasciati in custodia ai parenti, ai conoscenti, ai vicini di casa; i quali, con disponibilità e generosità, si prestarono per alleviare i disagi causati dalla guerra. Si raccontava che anche in paese (Inzago, ndr) la situazione si fece sempre più difficile, man mano che le sorti del conflitto si facevano per l’Italia sempre più disastrose. La presenza di un presidio tedesco, installato presso la scuola elementare e, dopo i fatti del settembre 1943, i numerosi ed improvvisi rastrellamenti effettuati dalla milizia repubblicana in cerca dei giovani che si erano rifiutati di arruolarsi nelle formazioni militari della Repubblica Sociale Italiana, schierata al fianco dei tedeschi, aumentarono la tensione e la paura. Le vicende che nel settembre 1944 portarono allo stato d’assedio, all’arresto ed alla fucilazione in Piazza Maggiore del patriota professor Quintino di Vona, rappresentarono sicuramente per la comunità l’apice

di quei momenti drammatici. Si raccontava che prima dello scoppio della guerra si credeva e si auspicava che l’Italia non sarebbe entrata in un conflitto e che i problemi venutesi a creare in Europa, sarebbero stati risolti dalla politica e dalla diplomazia. A questa visione ottimistica si alternava però quella pessimistica che vedeva inevitabile l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania nazista, alla quale si era alleata nel 1939 con il “patto d’acciaio”. Il primo Natale di guerra, al di là del suo significato religioso, fu dunque una festa oscurata dalle cupe ombre di una tragedia che andava sorgendo all’orizzonte: una tragedia che era sempre stata temuta ed esorcizzata. La guerra, purtroppo, avrebbe interessato altri quattro Natali ed un lungo periodo che vide cruenti scontri militari, deportazioni, rappresaglie, bombardamenti con numerose vittime civili e distruzioni di abitazioni, di impianti produttivi e di infrastrutture. Periodo che vide la divisione dell’Italia: al Sud la liberazione e l’avanzata alleata, con la presenza della monarchia che aveva lasciato Roma, al Nord la fondazione della Repubblica Sociale Italiana e l’occupazione tedesca. Tante volte abbiamo ascoltato il racconto di come quelle vicende si calarono anche nella realtà locale, causando ulteriori difficoltà e privazioni che portarono pure al razionamento dei generi alimentari. Ma abbiamo pure sentito il racconto di come donne, uomini e giovani coraggiosi, organizzati nelle formazioni partigiane del CNL, seppero impegnarsi in prima persona e lottare con eroismo per restituire all’Italia la libertà, la dignità, la democrazia ed il diritto che dittatura fascista aveva vilipeso. La vittoria che nel giugno 1940 si auspicava rapida e completa, non ci fu. La Seconda Guerra Mondiale, alla sua conclusione, registrò cifre spaventose: furono coinvolte 61 Nazioni e più di cento milioni di persone. Il conflitto causò circa quaranta milioni di morti, mentre è stato stimato che le perdite materiali hanno superato quelle che si sono accumulate in tutte le precedenti esperienze belliche della Storia. Ora, tramandare i ricordi è sempre un fatto positivo. La conoscenza di ciò che è accaduto ci interpella e ci sprona oggi all’impegno, affinché il futuro sia migliore del passato e sempre più ricco di pace e di progresso.


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Col termine di “Arditi” erano denominati i componenti di quelli che oggi chiameremmo “Nuclei speciali”, ai tempi del primo conflitto mondiale. Erano gruppi di esploratori addestrati ad infiltrarsi dietro le linee nemiche per creare le condizioni di un attacco da parte della fanteria italiana. In seguito, gli Arditi divennero un corpo speciale d’assalto, composto dai soldati più temerari, addestrati duramente al combattimento corpo a corpo. Agivano in piccole unità d’assalto, utilizzate contro le trincee nemiche. Le trincee venivano tenute occupate fino all’arrivo dei rincalzi di fanteria. Il loro motto era “O la vittoria, o tutti accoppati”. Gli Arditi furono tra gli artefici dello sfondamento della linea del Piave che permise nel novembre del 1918 la vittoria finale sugli eserciti austroungarici. Poco dopo il termine della guerra, nel gennaio del 1920, tutti i reparti furono sciolti per motivi di riorganizzazione e di politica interna al Regio Esercito. Nel dopoguerra gli Arditi si riunirono nell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (ANAI), fondata dal capitano Mario Carli. Una parte considerevole degli Arditi aderì al movimento fascista, anche se l’adesione non fu unanime, come risulta dall’esperienza degli Arditi del Popolo, nati per contrastarne la deriva antioperaia. In questo articolo Luigi Gatti ripercorre la parabola degli Arditi del Popolo, visualizzandone il contesto che ne condizionò l’azione e i risultati.

La memoria negata degli Arditi del popolo

LA PRIMA (MISCONOSCIUTA) RESISTENZA AL FASCISMO ARREMBANTE

A DI

LUIGI GATTI

ttratti dal confuso programma del 1919, repubblicano socialistizzante, del primo fascismo, molti Arditi anche se non la maggioranza - aderirono al partito fondato da Mussolini. Il rapporto fra fascismo ed Arditi non fu semplice né lineare. Quando cominciarono le aggressioni fasciste alle sedi operaie, quando fu chiaro il ruolo di braccio

armato degli agrari e degli industriali delle squadre fasciste, molti se ne distaccarono. In alcune sezioni degli Arditi d’Italia i fascisti furono espulsi, fra questi il fascista Giuseppe Bottai.

GLI ARDITI E IL FASCISMO. Noto è l’articolo di Mario Carli “Arditi non Gendarmi”, col quale il fondatore dell’associazione nazionale Arditi d’Italia distrusse il connubio fra Arditi e fascisti.

«Fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando i fascisti assassineranno i fratelli operai, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi D’Italia non potranno con loro avere nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.» Questa la dichiarazione del 27 giugno 1921 dell’ardito di fanteria tenente Argo Secondari, pluridecorato al valor mi-


il fi fioore del partigiano litare, all’assemblea della sezione romana degli Arditi d’Italia; mozione approvata a stragrande maggioranza. Il 6 luglio 1921, duemila arditi divisi in tre compagnie sfilarono al comando di Argo Secondari in una manifestazione antifascista a Roma. Accanto ai tradizionali truci gagliardetti degli Arditi, essi innalzarono vessilli e bandiere con la scure che spezzava in due il fascio littorio. È la nascita degli Arditi del Popolo, organizzazione dell’antifascismo militante. ARDITI COL POPOLO Il fascismo in profonda crisi trema. Rinnegato il programma del ‘19, diviso fra gli estremisti al servizio degli agrari e la furbesca politica di riconciliazione coi socialisti e i cattolici voluta da Benito Mussolini, il fascismo vede messo in discussione il proprio ruolo, cioè quello di divenire il garante della stabilità monarchica interna al paese e braccio armato degli interessi del capitalismo italiano. «Mentre dalla base popolare e operaia saliva una forte spinta unitaria contro il fascismo, i partiti antifascisti non seppero raccogliere queste indicazioni, contribuendo ad indebolire la resistenza antifascista e a facilitare la vittoria di Mussolini. Il destino degli Arditi del Popolo ne fu la più chiara dimostrazione. Sorti nell’estate del 1921 per iniziativa di alcuni ex-ufficiali degli arditi di sentimenti democratici, incontrarono immediatamente un larghissimo seguito popolare. Essi si diffusero rapidamente in tutta la penisola. Vi aderirono combattenti di tutte le tendenze: repubblicani, anarchici, sindacalisti, socialisti, comunisti e intellettuali futuristi come Mario Carli in contrasto con le scelte di Marinetti. Temuti dai fascisti per la loro

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Le barricate dell’agosto 1922 a Parma, qui a destra e nella foto grande a fondo pagina. Sotto, la copertina del primo numero de “L’Ardito del popolo”. Nella pagina a fronte, il comandante Guido Picelli e un gruppo di Arditi del Popolo

capacità di rispondere colpo su colpo, gli Arditi del Popolo furono condannati a sparire per la diffidenza dei dirigenti socialisti e il settarismo del PCd’I bordighiano.» Questo scrive Ernesto Ragionieri a pag. 2017 della voluminosa collana “Storia

D’Italia”, Einaudi editore, di recente ristampata come inserto del Sole 24 ore. E lo storico Pierre Milza nella sua storia del Fascismo scrive: «Alfine le violenze dei fascisti provo- carono la reazione popolare, si formarono gli Arditi del Popolo, che risposero alla violenza squadrista con la resistenza attiva ed armata infliggendo dure sconfitte ai fascisti.» A Viterbo e a Sarzana, solo per citare i fatti più noti, gli Arditi resistettero e batterono gli squadristi, a Parma alla vigilia della marcia su Roma del 18 ottobre 1922 gli arditi del Popolo, con l’appoggio delle masse popolari, misero ripetutamente in fuga gli uomini di Farinacci e di Italo Balbo. Per cinque giorni i fascisti fecero confluire sulla città emiliana squadristi del nord e del centro Italia; ripetutamente gli Arditi CONTINUA A PAGINA 16


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fesa della legittima repubblica spagnola. Argo Secondari, vigliaccamente aggredito e reso peren- necomandati dai pluridecorati reduci della prima mente invalido da una squadraccia fascista, morirà guerra mondiale Antonio Cieri e Guido Picelli misero in un manicomio nel 1942; dissero di lui che con una in rotta i fascisti. Molti militari inviati a Parma per mano faceva continuamente il gesto di afferrare il dar man forte ai fascisti e suo pugnale d’ardito per direprimere la resistenza, fendersi. memori della leggenda Molti altri si ritroveranno degli Arditi, si rifiutarono sulle montagne d’Italia di sparare contro di loro. nella Resistenza. Alcune L’Oltretorrente di Parma formazioni partigiane asnon verrà mai espugnato sunsero il nome degli Arditi dai fascisti, nella zona di del Popolo. La brigata parBorgo Navigli vi furono viotigiana in cui militò Antolentissimi scontri con nello Trombadori fu azioni di vero e proprio arintitolata a Gino Lucetti, ditismo di guerra attuati dal l’Ardito del Popolo che gruppo di Antonio Cieri tentò di uccidere Benito che terrorizzarono i fascisti. Mussolini. A Parma si sperimentò Giuseppe di Vittorio, il l’unità antifascista, infatti grande dirigente della Cgil, accanto a comunisti, sociacomandò un gruppo di Arlisti, anarchici, combattediti del Popolo. Riccardo rono anche militanti del Lombardi, protagonista per Partito Popolare, sindacalidecenni della sinistra sociasti rivoluzionari già legiolista, militò anch’egli nelle nari fiumani di tendenza formazioni degli Arditi del corridoniana e seguaci di Popolo. Alceste De Ambris; alAntonio Gramsci, Vladimir cuni parroci furono solidali Ilic Ulianov (Lenin), Lev Dacoi resistenti, lo stesso vevidovic Bronstein (Trotsky), scovo mons Conforti dimoBucarin e la Terza Internastrò aperta antipatia verso i zionale, comprendendo la Guido Picelli visto da Fogliazza / 12 ottobre fascisti. pericolosità non solo per 2010 (dal sito dell’Anpi http://www.anpi.it) Il colonello Simondetti col’Italia del fascismo, ripetumandante sul campo del tamente ma inutilmente inregio eser-cito fece il provitarono la sinistra italiana prio dovere e si rifiutò di appoggiare le squadre fa- all’unità d’azione con gli Arditi del Popolo. sciste. In pieno regime quando il consenso al fascismo era al SUI TESTI E SUL VIDEO massimo e gli oppositori erano in galera, al confine o Degli Arditi del Popolo si parla in “Pane e Libertà” la esiliati e solo un pugno di coraggiosi si opponeva recente opera televisiva sulla vita di Giuseppe Di Vitclandestinamente al fascismo, il maresciallo dell’aria torio. Italo Balbo volle celebrare a Parma il successo della transvolata atlantica, sui muri dell’Oltretorrente ap- Anche il cinema e la letteratura si sono occupati degli parve nottetempo una scritta “BALBO, T’E’ PASE’ Arditi del Popolo, come nel film di Carlo Lizzani “Cronache di Poveri Amanti” (tratto dal romanzo di L’ATLANTIC MO MIGA LA PARMA”. A Roma nei quartieri popolari come a S. Lorenzo e a Vasco Pratolini) o nelle opere letterarie di Alberto Civitavecchia la resistenza continuerà per diversi Bevilacqua in “Un viaggio misterioso”, di Maurigiorni, anche dopo la formale assunzione del potere zio Maggiani ne “Il coraggio del pettirosso”, di Pino Cacucci in “Ribelli!”, dedicato alla vita di Argo statale del fascismo. SEGUE DA PAGINA 15

Senza il sostegno dei partiti Ma il destino degli Arditi del Popolo è ormai segnato: mentre il fascismo agrario persevera nelle azioni violente, la maggioranza socialista si lascia sedurre dalla proposta ingannevole di riconciliazione fatta da Mussolini e i comunisti - aperto lo scontro fra Amedeo Bordiga ed Antonio Gramsci - sono sempre più isolati nella loro lotta contro il fascismo. Un colpo di coda vi fu quando Guido Picelli, in pieno regime, per protesta contro l’abolizione della festa dei lavoratori del 1° Maggio, avvenuta il 30 aprile del 1923 innalzò il vessillo rosso del lavoro sul balcone di Montecitorio. Fra lo sgomento dei fascisti resterà esposto per 15 minuti. Mussolini, imbestialito, ordinerà senza riuscirci la cattura di Picelli. Guido Picelli e Antonio Cieri, come molti altri Arditi del Popolo, saranno in Spagna nella lotta contro il colpo di stato di Franco. Moriranno nel 1936, in di-

Secondari, e in “Oltretorrente”, dedicato alla resistenza di Parma assediata dai fascisti di Balbo.

Oltre a quanto già citato, fonti storiche si possono recuperare in “Proletari senza Rivoluzione” di Renzo Del Carria e negli scritti degli storici Eros Francescangeli e Tom Bhean.

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