Anno 8 numero 22
Settembre 2017
Fascismo e antifascismo Guelfi e ghibellini
le iniziative
Necessario uN ripasso di storia
La quarta Festa della divisione Fiume adda si svolge a cernusco dal 31 agosto al 3 settembre. contro chi vorrebbe riportare indietro la storia, con il lavoro concesso solo ai nuovi schiavi. contro chi non accetta di mischiarsi con i nuovi arrivati, torneremo a cantare: «Nostra patria è il mondo intero»
LA FESTA DI CHI RESTA
UMANO a pagina 2 il programma della festa e le informazioni ➔
D di
Franco Salamini*
a qualche mese, alcuni organi di informazione hanno proposto una serie di indagini sul neofascismo, a volte in maniera superficiale altre volte in modo più approfondito, segnalando il pericolo che si possa ricostruire su basi di massa (soprattutto tra i giovani) una cultura che si riconosca in associazioni di stampo nazifascista. Tutto questo è frutto della crisi economica, delle paure diffuse per gli sbarchi dei migranti, delle solitudini e delle povertà economiche e culturali. Non voglio dilungarmi sulle cause e sulla diffusione del fenomeno che non riguarda solo gruppi che si dichiarano apertamente fascisti, ma anche continua a pagina 3 ➔
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Riscoprire la Costituzi cominciando dall’artico
le iniziative
Settembre 2017
il fiore del partigiano
A CERNUSCO SUL NAVIGLIO LA QUARTA FESTA DELLA ZONA ADDA-MARTESANA,
C
Il lavoro deve tornare al centro dei valori della soci
ernusco, anche quest’anno, sarà per quattro giorni la sede della Festa di zona AddaMartesana dell’ANPI, che giunge alla sua quarta edizione. Saremo ospitati presso l’area feste Villa Fiorita in via Guido Miglioli. Il sito è facilmente raggiungibile in metropolitana (MM2, stazione di Villa Fiorita). La Festa si apre giovedì 31 agosto alle 19,30 con il Caverna posse rap contest (iscrizioni su evento Facebook). alle 22,00 microfono e consolle passeranno a Musteeno e Dj Agly. Venerdì 1 settembre la serata musicale inizierà alle 21,00 con I 1000 e una Nota. sabato 2 settembre, sempre a partire dalle 21,00 avremo sul palco la Black Cat Bone Blues Band. domenica 3 settembre il Presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia concluderà la Festa parlando di Costituzione e lavoro col Segretario della Camera del Lavoro di Milano, Massimo Bonini. Y Buona Festa a tutti!
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il fiore del partigiano
DAL 31 AGOSTO. IL 3 SETTEMBRE CHIUDE CARLO SMURAGLIA
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Fascismo e antifascismo Guelfi e ghibellini ➔ segue da pagina 1
la destra istituzionale che soffia sul fuoco delle paure e i vari movimenti populisti che pensano di trarne vantaggio elettorale. Quello che vorrei sottolineare è l’assenza di una risposta politica adeguata a sinistra, ma soprattutto da chi si candida a governare in futuro il Paese. Interrogato sul valore del fascismo e dell’antifascismo, uno dei massimi esponenti del M5S ha risposto che secondo lui equivale ad una discussione tra guelfi e ghibellini. Questo cittadino, figlio di un padre che rivendica orgogliosamente il suo essere fascista (che le colpe dei padri non ricadano sui figli!), forse dimentica che proprio nel mese di agosto, come tutti gli anni, si ricorda la strage fascista di Bologna, avvenuta dopo Piazza Fontana, la strage dell’Italicus e Piazza della Loggia. Visto che in alcuni casi gli esecutori materiali ed in altri i mandanti non sono stati individuati, si potrebbe forse indagare tra guelfi e ghibellini? Emerge una posizione preoccupante che pone l’antifascismo come materia da affidare alla storia e nel contempo mette sullo stesso piano, fascismo e antifascismo. La nostra Costituzione, su cui ogni appartenente alle istituzioni ha giurato, dice esattamente il contrario. Forse la soluzione sta tutta qui: studiare sin dalle prime classe elementari la Costituzione italiana e la storia recente del nostro Paese, che va dalla Prima Guerra Mondiale ad oggi e un esame severo su Storia e Costituzione per chiunque si candidi alla Camera e al Senato della noY stra Repubblica.
età civile
l’anno scorso. Ogni sera, musica. Non poteva mancare la serata blues (sopra). Apprezzata, come sempre, la cucina. Con tanto di produzione di crostate partigiane (qui a destra). Anche chef e camerieri si concedono il meritato relax conviviale (sotto)
*ANPI di Cernusco sul Naviglio
Striscioni, bandiere e manifesti celebravano conquiste democratiche di ieri, come il voto alle donne, e l’impegno per il domani, con il NO al referendum (in basso qui e a pag. 2)
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8 settembre ’43: la scelta il fiore del partigiano
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le storie - la Storia
ANNIVERSARI - LA DATA CHE OBBLIGÒ TUTTI A PRENDERE POSIZIONE. SEGNANDO
Rassegnazione e silenzio o avvio della riscossa?
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da Patria indipendente – numero speciale per il 70° della Liberazione pubblicato il 23 settembre 2016
GIOVANNI DE LUNA
er conoscere storicamente l’8 settembre “la scelta” resta una efficace chiave di lettura. È senz’altro quella che più di ogni altra ci obbliga a prendere in esame i comportamenti concreti di uomini e donne, tragicamente coinvolti in una successione incalzante di fenomeni di portata epocale: lo sfaldamento di un intero esercito nazionale, la rottura dell’unità statuale, la moltiplicazione dei centri di potere istituzionale, il marasma organizzativo seguito alla disgregazione dell’apparato dirigente Scelte individuali hanno formato un protagonismo collettivo con una varietà di comportamenti che rinviava a tanti frammenti di appartenenze, segmenti di identità sociali, generazionali, professionali, territoriali. All’interno di quella nebulosa sociale che va sotto il termine riassuntivo di ceto medio, ad esempio, a prevalere fu una complessiva dimensione di precarietà esistenziale, di intollerabile e angosciosa convivenza con la morte. L’8 settembre aveva innescato un trauma psicologico oltre che un vuoto istituzionale. Le certezze alimentate dalla presenza dello Stato si dileguarono parallelamente alla proliferazione dei centri di potere, all’emergere di un ordine precario, quello della mussoliniana Repubblica sociale, sempre ai confini dell’arbitrio e dell’illegalità. Abituati a guardare allo Stato come al riferimento strutturale della loro sicurezza economica e della propria tranquillità psicologica, i ceti medi andarono a infoltire una sorta di terra di nessuno che durante i venti mesi della Resistenza e della guerra civile avrebbe avuto come unico obbiettivo quello di aspettare la fine della guerra. Il crollo dell’impalcatura burocratico-militare dello Stato italiano appare così come un palco-
scenico sul quale gli attori si muovono con ruoli e tempi diversi. Non tutti camminarono con lo stesso passo: qualcuno, come i ceti medi, appunto, dopo l’8 settembre, rallentò i propri ritmi sprofondando in una sorta di paralisi stupefatta mentre altri li accelerarono come scossi dai brividi di una febbre di attivismo e di dinamismo. Gli operai, ad esempio; nel loro caso, infatti, dall’armistizio scaturì una condizione inedita al cui interno il disagio per le ristrettezze economiche causate dalla guerra si intrecciò con una intensa stagione di vittorie politiche e sindacali. Le loro lotte si imposero, già dal marzo del 1943, come riferimento obbligato per la stessa credibilità sociale dello schieramento politico di opposizione al regime, assumendo quella “centralità” nell’impegno antifascista protrattasi senza soluzione di continuità per tutto il dopoguerra. La riappropriazione su vasta scala dello sciopero, un’arma di lotta per venti anni bandita dal fascismo, e la riconquista dell’agibilità politica della fabbrica, ritornata a essere un centro di organizzazione e di autonomia, furono la testimonianza di comportamenti segnati da una marcata reattività e
Due fotogrammi dal film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. Nella pagina a destra, la locandina del film “Tutti a casa” di Luigi Comencini
dalla capacità di strappare significative conquiste economiche.
L’appuntamento con la Storia Ma fu soprattutto nell’universo delle tensioni, delle convinzioni, degli atteggiamenti, delle scelte individuali che l’8 settembre agì con la sua carica più dirompente. Fu quello il momento della “scelta”. Certamente ci fu anche chi ostinatamente “non scelse” e probabilmente si trattò della maggioranza degli italiani. Ma se si vuole davvero conoscere storicamente l’8 settembre, se se ne vuole apprezzare fino in fondo la dimensione epocale, è il mondo della “scelta” che occorre esplorare. In mezzo alla fuga del re, all’ignavia dei generali, alla protervia dei nazisti, ognuno fu costretto a riappropriarsi di quella pienezza della sovranità individuale alla quale si rinuncia ogni volta che si sottoscrive un patto di cittadinanza che preveda uno scambio tra diritti e doveri, libertà e regole, autonomia personale e legami sociali. Per quanti scelsero di andare in montagna e farsi partigiani fu come se nella loro vicenda biografica quell’appuntamento con la Storia segnasse una sorta di apogeo, l’attimo in cui si
il fiore del partigiano IL PASSO, O ACCELERANDO
Una data fondante ma presto nascosta
L’8 SETTEMBRE, LE SORTI DELLA GUERRA E DEL PAESE
le idee
attivarono anche le proprie energie più riposte, con una felice e immediata coincidenza tra emozioni, sentimenti, volontà, decisioni e azioni. A questo slancio vitale si accompagnò il senso di vivere una fase assolutamente irripetibile della storia italiana, in cui tutto era possibile, anche “una scommessa sul mondo”, una resa dei conti con tutto quanto di sbagliato, corrotto, ingiusto il fascismo aveva fatto affiorare nel costume nazionale, l’azzeramento dell’eredità di un’Italia liberale ancora intrisa di trasformismo, con uno Stato unitario sempre forte con i deboli e debole con i forti. È quella “completa felicità della condizione partigiana, un accordo intimo di ciascuno di noi con se stesso…io mi sento a mio agio, partigiano nato”, restituitaci con straordinaria efficacia da Roberto Battaglia. Riprendendo da una delle più belle pagine di un romanzo di Italo Calvino (il sentiero dei nidi di ragno), le parole del suo partigiano Kim («basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte») molte di quelle scelte sono state interpretate quasi come se i percorsi di approdo alla Resistenza o alla Repubblica di Salò fossero più da vittime del “capriccio” del Destino o di Dio che da uomini consapevoli. In realtà per Calvino, quel «nulla» «era in grado di generare un abisso». Il «furore» della guerra civile coinvolgeva entrambi gli schieramenti, ma «da noi, dai partigiani, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pure uguale a loro, va perduto. Tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire una umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi». La Resistenza, avrebbe scritto nel 1964, rappresentò «la fusione tra paesaggio e persone, una rifondazione di sé che si attua a partire da uno stato primitivo, fuori dalla società». Scegliere di andare in montagna a combattere fu un gesto che risalta con nettezza soprattutto se confrontato con quelli di chi, come ha scritto Claudio Pavone, «fece il possibile per sottrarsi alla responsabilità di una scelta o almeno cercò di circoscriverne confini e significati, avallando di fatto la continuità delle istituzioni esistenti e accettando insieme che il vuoto venisse riempito dal più forte» e che sottolinea un dato di fatto: né durante le guerre di indipendenza, né al momento dell’intervento nella guerra 1915-1918, né in nessuna altra fase della nostra vita nazionale unitaria l’Italia ha potuto mobilitare tanta passione civica, impegno diretto di partecipazione e un tal numero di combattenti volontari come nella Y lotta partigiana.
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ra pochi giorni sarà l’8 settembre. Una data spesso trascurata tra quelle che si ricordano come fondanti della nostra Repubblica. Eppure fu uno dei passaggi importanti nella lotta al nazifascismo per il ripristino delle libertà democratiche nel nostro Paese. A quella data, 8 settembre 1943, si fanno tradizionalmente risalire le prime azioni organizzate della Resistenza armata che successivamente ebbe uno sviluppo numerico importante, mentre prima era appannaggio di un numero esiguo di antifascisti. Dopo la destituzione di Benito Mussolini nel luglio del ’43 da parte del Gran Consiglio del fascismo, che non aveva portato a sollevazioni popolari come invece si era temuto, l’armistizio con gli angloamericani sul finire di quell’estate, aveva fatto credere che la guerra sarebbe finita a breve, alimentando speranze e illusioni che si sarebbero ben presto infrante contro la cruda realtà.
Dopo la destituzione del duce i tedeschi cominciano a temere una defezione da parte del governo italiano, rispetto all’alleanza militare che univa i due Paesi. Spostano contingenti militari verso Roma, anche se non possono sguarnire eccessivamente gli altri fronti. Nella capitale l’esercito italiano ha una supremazia numerica di uomini, truppe ben addestrate e ben armate. La trattativa per l’armistizio con lo Stato Maggiore dell’esercito italiano e gli allora nemici (angloamericani) avviene in gran segreto, all’insaputa dell’alleato tedesco. C’è la consapevolezza che la guerra ormai è persa, e si cerca di salvare il salvabile. I tempi però si allungano, ci sono comportamenti contraddittori, non c’è una visione politica da parte del governo italiano: più che all’interesse generale il re, i pezzi grossi dell’esercito, quello che rimane del vecchio fascismo, pensano alla propria sorte. A quel punto gli americani forzano la mano, la risposta della monarchia e delle gerarchie dell’esercito è la fuga ingloriosa verso Brindisi, nel regno del sud. Le truppe italiane che avrebbero dovuto coprire con un nutrito lancio di paracadutisti (che poi non avvenne) l’avanzata degli alleati, vengono abbandonate a sé stesse, senza ordini né indicazioni.
I tedeschi hanno il sopravvento senza quasi colpo ferire. Si registrano episodi eroici, ma totalmente isolati di militari che non si vogliono consegnare ai tedeschi, ma ufficiali e truppe sono nel caos più totale. Chi doveva decidere è fuggito, i militari sono allo sbando in Italia e all’estero, anche se ad esempio si ricorda l’eroico comportamento della divisione Acqui, che verrà sterminata a Cefalonia, in Grecia. Chi può fugge, diserta, una parte si unisce ai partigiani in montagna, molti verranno presi prigionieri dai tedeschi e passati per le armi o deportati nei campi di lavoro.
Il Paese già segnato dalla guerra, è nella confusione più totale. Le istituzioni che per anni si erano vantate di essere solide e capaci, che avevano immaginato un impero, si dimostrano per quello che erano: pavide, incapaci e rette da felloni. Nel frattempo il duce, liberato dai tedeschi, costituirà la Repubblica Sociale italiana, la cosiddetta repubblica di Salò, a cui tanti militari saranno chiamati ad aderire, pena la morte o la deportazione, ma i rifiuti saranno la maggioranza. È un Mussolini sconfitto, stanco e malato che si sente prigioniero dei tedeschi. Ne è prova un carteggio con la Petacci che tenta invece di spronarlo e incoraggiarlo. Quell’apparato statale che si era imposto con la forza, la retorica, l’abuso e la violenza, si sfalda e va in frantumi, dimostrando tutta la debolezza e la vigliaccheria. L’8 settembre è la rappresentazione plastica di quello che era stato il fascismo: una terribile e drammatica farsa, a cui la maggioranza degli italiani fu costretta ad assistere ad un prezzo altissimo per cotanta misera rappresentazione.
Purtroppo dopo la liberazione dal nazifascismo, terminata la guerra, una buona parte di quell’apparato statale, che aveva dato così misera prova di sé, venne reintegrato e rimesso in posti di comando e di potere. Si spiega così la debolezza negli anni delle nostre istituzioni e il perché dopo la metà degli anni ’60 quelli che vennero chiamati “apparati deviati dello Stato” tentarono l’avventura di un colpo di stato per ripristinare un regime dittatoriale ed abbattere la democrazia. Saranno gli anni degli attentati e delle stragi fasciste. Sarebbe veramente cosa buona e giusta che questa storia venisse studiata nelle scuole sin dalle prime classi. Forse si capirebbe meglio l’oggi. Sarebbe altrettanto utile che la studiassero soprattutto i nostri politici. Eviterebbero forse di castigarci ad ascoltare le loro argute lezioni basate sul nulla. Y Franco Salamini ANPI di Cernusco sul Naviglio
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le storie - la Storia
Stazzema, così mio padre si salvò
il fiore del partigiano
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STRAGE DI SANT’ANNA DI STAZZEMA - L’ARRIVO DEI TEDESCHI, LA FUGA NEI BOS
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da il manifesto del 10 agosto 2017
LORENZO GUADAGNUCCI *
lberto quel giorno fece la scelta più importante della sua vita, la scelta che lo salvò da morte quasi certa. Non ne fu subito cosciente, perché non poteva prevedere quanto sarebbe avvenuto dopo avere udito l’allarme concitato dato da qualcuno la mattina presto: «I tedeschi, i tedeschi!» Era il 12 agosto del ’44 e Alberto, dieci anni ancora da compiere, era arrivato da poche settimane a Sant’Anna di Stazzema con la madre Elena, dopo l’ordine di sfollamento dalla costa. Quella mattina, nella frazione dell’Argentiera, si trattò di decidere che fare in pochi istanti. I maschi adulti si avviarono verso il bosco, per timore del rastrellamento; donne e bambini restarono sulla soglia di casa, perché i tedeschi – questo si sapeva – cercavano i partigiani. La mamma chiamò Alberto, che a quell’ora era già alzato e fuori casa: «Vieni qui, dove vai? Vieni a casa». Ma Alberto disobbedì. Seguì il suo amichetto Arnaldo che s’avviava nel bosco col nonno Pasquale. Alberto rivide sua madre il giorno dopo: era ancora viva, scampata alla strage nelle stalle della Vaccareccia. Si era salvata coperta dai corpi di altre persone; ferita a una gamba, era cosciente, ma non poteva muoversi. Non c’erano barelle, né uomini in grado di trasportare l’inferma all’ospedale da campo di Valdicastello. Alberto e l’Angiò, un’amica di Elena che era con lui, riuscirono a trovare qualcuno in grado di eseguire il trasporto solo il giorno dopo: quando arrivarono alla Vaccareccia, Elena era ancora lì, ma non respirava più.
ALBERTO È MIO PADRE, oggi ha quasi 84 anni e ha raccontato in famiglia questa storia che ha segnato la sua vita solo una decina di anni fa. Noi figli sapevamo che lui era uno scampato alla strage di Sant’Anna di Stazzema, che sua madre era morta lassù e questo era tutto. Da bambini d’estate si saliva in paese, ma nulla ci veniva detto e nulla noi si chiedeva, coscienti che il silenzio, per qualche misteriosa ragione, era una necessità. Quando mio padre ha cominciato a raccontare, o meglio a scrivere i suoi ricordi del tempo, era in corso il processo al tribunale militare della Spezia contro dieci ex appartenenti alle SS, poi condannati all’ergastolo nel 2005. Il processo aveva spezzato la consegna del silenzio, osservata da mio padre come dagli altri sopravvissuti. Per la prima volta lo
Stato accoglieva in un luogo pubblico, un’aula di giustizia, il racconto dell’eccidio fatto dai testimoni, dopo sessant’anni di risentimenti, trascorsi fra l’astio verso i partigiani e la rabbia verso uno Stato che non cercava i responsabili dell’eccidio e chiudeva illegalmente i documenti in un archivio.
ALBERTO HA PASSATO AI FIGLI il testimone e io ho scoperto sulla mia pelle che certi traumi sono davvero ereditari, che Sant’Anna riguarda anche me. Perciò ho preso i suoi scritti e ho provato a mettermi nelle sue scarpe, raccontando la strage come se io fossi lui: ne è venuto fuori era un giorno qualsiasi, uscito per Terre di mezzo l’anno scorso. Il libro non è solo il racconto in presa diretta dell’eccidio, perché mi sono chiesto qual è il senso della memoria delle stragi; mi assillava
STRAGE DI PIETRARSA - NEL 1863, ALLE
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Quando i bersa
da vesuvolive.it pubblicato il 1 maggio 2014
a Festa del Lavoro, che cade il primo giorno di maggio, prende le mosse da alcuni avvenimenti accaduti nel 1886 a Chicago, negli Stati Uniti. Il primo maggio di quell’anno, i sindacati organizzarono uno sciopero per la riduzione a 8 ore dei turni di lavoro e per il miglioramento della sicurezza, cui seguirono due manifestazioni: la prima il giorno 3, in cui gli scioperanti furono attaccati dalla polizia senza un precedente ammonimento, causando la morte di 2 lavoratori; la seconda il giorno successivo, quando una bomba fatta esplodere da un ignoto su un gruppo di agenti, causando il decesso di uno di essi, scatenò la reazione della polizia che uccise 7 dei
Illustrazione d’epoca dei fatti di Chicago
suoi e parecchi civili, oltre a ferirne un numero altrettanto elevato. In seguito ai fatti del 4 maggio, nel 1887, otto tra sindacalisti e anarchici furono processati e impiccati, ma di costoro si provò successivamente l’innocenza. Nel 1888 la notizia ebbe conseguenze in Italia,
perché una volta appresa i Livornesi insorsero e giunsero a minacciare il console americano presente in città. Ben 25 anni prima, però, l’Italia visse una sua Chicago. A Pietrarsa, il 6 Agosto 1863, si verificò la prima strage di lavoratori dell’Italia unita, con i bersaglieri che ammazzarono 4 operai, Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri, e ne ferirono gravemente 20, i quali manifestavano per la riduzione dell’orario di lavoro e perché non stavano più ricevendo lo stipendio. Nel 1840 Ferdinando II di Borbone aveva istituito il Reale Opificio Borbonico di Pietrarsa, sito sul litorale tra San Giorgio a Cremano e Portici, costruito con ampi ambienti affinché gli operai si trovassero a proprio agio. Alla fabbrica era annessa una Scuola d’Arte dove si insegnavano matematica, geometria, scienze meccani-
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il fiore del partigiano
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CHI, L’UCCISIONE DELLA MADRE. SOLO DOPO DECENNI IL RACCONTO DIVENTA UN LIBRO mune, che ha subito l’esercizio del potere nella sua forma più pura e più estrema, l’annientamento sistematico dei corpi. I cosiddetti martiri di Sant’Anna furono spazzati via da un corpo militare ideologizzato e unico al mondo – le SS – ma altre Sant’Anna sono venute dopo il ’44 e altre ve ne erano state nei decenni precedenti, perché l’eccidio di persone comuni col Sant’Anna. Il monumento alle vittime dell’eccidio del 12 agosto ’44 fine di seminare il terrore non è stato nella storia un’esclusiva deluna domanda: perché è importante, ancora le SS, ma un elemento tipico delle guerre mooggi, ricordare questi episodi? A che ci serve? derne. Si uccidono i civili perché in guerra c’è Ho provato a rispondere tenendo in primo un’umanità declassata – gli altri da noi, non piano la figura di Elena, una donna comune, né importa se combattenti – i cui corpi non conantifascista né partigiana, una persona qua- tano. lunque fra gli innumerevoli sommersi della sto- Se questo è vero, ecco che salire a Sant’Anna diria. L’esperienza di quelli come lei non si trova venta un’occasione per pensare alle altre Sannei libri di storia, se non al capitolo commo- t’Anna che si ripetono nel mondo. Davanti al zione per i caduti. E se invece mettessimo al sacrario in cima al colle, sotto il quale sono secentro dell’attenzione la vita di queste persone polti centinaia di corpi comuni, i corpi non ece il modo in cui sono morte? Che messaggio ci cellenti di non eroi, dovremmo domandarci arriverebbe? quanto spesso si ripete la distinzione fra L’esplorazione è cominciata così ed è ancora in un’umanità da salvare a una sub umanità che corso, e io credo di avere raggiunto alcune – sia può essere eliminata, cancellata, tenuta fuori pure provvisorie – persuasioni. Mi pare, in dalla porta. primo luogo, che la memoria delle stragi non possa più essere racchiusa nel perimetro con- CHE COS’ERA IN FONDO Alberto nel ’44? sueto occupazione – Resistenza – Liberazione. Con parole di oggi lo potremmo definire un C’è di più. C’è la vita e la morte della gente co- profugo di guerra e un minore non accompa-
gnato, visto che a dieci anni perse la madre e che lei, in assenza di un padre, era tutta la sua famiglia. E così sali a Sant’Anna (e a Marzabotto, Vinca e così via) e pensi non solo ai nazisti e ai partigiani ma anche alla Siria e alla Libia, a Lampedusa e a Lesbo, alle Ong che vogliono salvare vite e vengono tacciate di estremismo umanitario. I luoghi della memoria sono zone di frontiera, perché il loro carico di storia e di dolore è fonte di ispirazione e sorgente di senso: le politiche della memoria oggi tendono a disinnescare questo potenziale di consapevolezza e di invito all’azione, ma nuove prospettive possono essere sviluppate e aggiunte, come la critica alla guerra in quanto tale, il disarmo nucleare e convenzionale, l’apertura di un varco per la nonviolenza… era un giorno qualsiasi, alla fine, è solo l’inizio di questo percorso. Sabato 12 agosto con Claudia Buratti abbiamo organizzato una camminata a Sant’Anna attraverso la mulattiera che Elena e Alberto (e anche una colonna di SS) percorsero al tempo: un’occasione di riflessione sul senso della memoria. Sempre sabato, debutterà a Seravezza (Sagrato del Duomo, ore 21), poco distante da Sant’Anna, lo spettacolo che la cooperativa Giolli, con Massimiliano Filoni e Vanja Buzzini, ha tratto dal libro: non è teatro classico bensì una performance che dialoga col pubblico, una metafora – se vogliamo – del futuro che può avere la memoria delle stragi: restare com’è, ossia celebrazione e sollievo per la liberazione di allora, oppure diventare qualcos’altro, da costruire insieme, per dare un retroterra etico e culturale a chi oggi lotta dalla parte dei sommersi della Storia. Y
* autore di era un giorno qualsiasi, Terre di mezzo 2016
glieri uccisero brutalmente gli operai napoletani PORTE DI NAPOLI, IL REGIO ESERCITO DEL NUOVO STATO UNITARIO USÒ IL PIOMBO E LE BAIONETTE che, lingue, architettura civile e disegno meccanico per la formazione di operai specializzati e ufficiali macchinisti. In un primo momento lo scopo dell’impianto era quello di produrre materiale civile e bellico, ma successivamente il Re volle che il materiale prodotto in questa struttura fosse destinato alla costruzione e alla riparazione di locomotive, in modo che per la realizzazione dei suoi mezzi di trasporto su terra, la Nazione non dovesse dipendere da nessuna altra grande potenza Europea. All’apice del suo splendore, nel 1853, Pietrarsa contava quasi 1000 operai, tra cui 40 detenuti da reinserire in società, e costava quanto le principali aziende estere, utilizzando però degli strumenti in molti casi più all’avanguardia, suscitando l’ammirazione, tra gli altri, dello Zar Nicola I che venne visitare l’opificio per costruirne uno uguale in Russia.
Con l’Unità d’Italia Pietrarsa perse la sua importanza perché si preferì investire sull’Ansaldo di Genova. Nella relazione dell’ingegner Sebastiano Grandis la prima fu descritta più ampia e ricca di macchinari, ma tuttavia eccedente nei costi e nel numero di operai, in definitiva inutile e dunque ne propose la demolizione. Lo Stato Italiano prese atto, non demolì la fabbrica di Pietrarsa ma la affittò per la cifra ridicola di 46.000 lire all’anno a Jacopo Bozza, che operò licenziamenti (nel 1863 il numero di operai era più che dimezzato rispetto al 1861) ma aumentò le ore di lavoro e diminuì gli stipendi che poi non erogava. Queste furono le premesse per le proteste del 6 agosto 1863, quando i bersaglieri risposero con una carica alla baionetta e spari alla schiena degli operai in fuga, colpevoli di insulti e minacce. Le istituzioni, imbarazzate, diedero la
colpa alle circostanze e ai provocatori borbonici, per far poi cadere il silenzio sulla vicenda, mentre le condizioni a Pietrarsa man mano degenerarono, fino alla chiusura. Adesso è sede del Museo Nazionale Ferroviario di Napoli Pietrarsa. Ancora oggi, a oltre 150 anni di distanza dall’eccidio di Pietrarsa, il sangue versato è ricordato da pochi, rimosso completamente dalla memoria dello Stato Italiano, colpevole di tanto altro sangue del Sud versato oltre a quello, per ragioni che vanno dalle scelte sbagliate all’opportunismo e alla volontà di ostacolare e bloccare il progresso del Meridione. Perché l’Italia dimentica? Dimentica perché ha vergogna, oppure, molto più crudelmente, diY mentica perché non sa avere vergogna.
Francesco Pipitone
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il fiore del partigiano
Strage di Bologna, i familiari lasciano da solo il ministro
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le storie - la Storia
L’ANNIVERSARIO - aLLa commemorazioNe iN comuNe protesta L’associazioNe
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da il manifesto del 3 agosto 2017
Giovanni Stinco
i ha provato il ministro dell’ambiente Gianluca Galletti a giocare la carta della bolognesità e a dire che lui i familiari delle vittime del 2 agosto li conosce quasi uno a uno. Non è bastato. Ieri a Bologna la protesta contro il governo è stata plateale, e ha visto Galletti parlare a una sala del consiglio comunale mezza vuota. «Questa è la giornata del ricordo, non delle polemiche, questo deve essere il momento di unirci», ha detto il ministro a una platea fatta quasi solo di rappresentanti delle istituzioni. Perché i familiari e i parenti delle vittime della bomba del 2 agosto 1980 se ne erano già andati, annunciandolo poco prima e sfilandogli lentamente davanti. «Siamo stati traditi da chi doveva stare al nostro fianco – ha poi tuonato in piazza il presidente dell’associazione, il deputato Pd Paolo Bolognesi – Gli impegni presi non sono stati mantenuti. Coloro che ricoprono incarichi di governo non sono stati all’altezza del loro ruolo». Dopo di lui il sindaco Merola: «Al nostro governo dico che non è onorevole prendere un impegno e non mantenerlo, è peggio che non prenderlo. Oggi non possiamo permetterci che le autorità abbiano torto troppo a lungo, è pericoloso per la nostra libertà e indebolisce la credibilità delle nostre istituzioni». Dichiarazioni che raccontano della ferita che si è aperta ieri a Bologna dopo anni di promesse non mantenute da parte del governo. Non più solo la strage di 37 anni fa, quando una bomba neofascista fece 85 morti e più di 200 feriti. Per quel massacro sono stati condannati in tre (i terroristi neri Fioravanti, Mambro e Ciavardini.), mentre per un quarto (Gilberto Cavallini) è stato chiesto il rinvio a giudizio. A pesare è però la decisione della procura di chiedere l’archiviazione per l’inchiesta sui mandanti. Poi c’è la questione delle legge del 2004 che garantirebbe indennizzi e pensioni ai colpiti dalla strage, e che non è stata mai pienamente applicata nonostante le tante rassicurazioni. Infine c’è la
Bologna, 2 agosto. Il corteo sfila per le vie del centro, verso la stazione
direttiva Renzi sulla desecretazione, firmata nel 2014 per garantire «trasparenza e apertura» e mettere così a disposizione del pubblico gli atti relativi alle stragi, da Ustica, all’Italicus, alla Stazione di Bologna. Le cose sono andate diversamente. L’associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica (morirono in 81) ha scritto a Renzi ricordando che, dalla firma della direttiva, sono spariti interi archivi e nessuno sta muovendo un dito. Bolognesi ha invece raccontato uno dei tanti incontri a Roma tra le associazioni e i funzionari che dovrebbero garantire l’applicazione della desecretazione. «Abbiamo chiesto l’elenco
In piazza il presidente Bolognesi attacca: «Ci prendono per i fondelli»
degli appartenenti ai Nuclei di difesa dello Stato, la cosiddetta “Gladio Nera”. Ci hanno risposto che c’erano problemi con la privacy». Un racconto grottesco, e infatti lo stesso Bolognesi ha parlato di «presa per i fondelli». Ieri però in piazza le sue parole sono state pesanti. Ha criticato la procura che vuole archiviare l’inchiesta sui mandanti senza, a suo dire, avere indagato a sufficienza, ha picchiato duro sul governo che non fa quel che promette, ha detto che l’Italia non sarà un paese libero finché sarà «occultata la storia eversiva del paese, archiviata, censurata o chiusa nei cassetti degli apparati». «I familiari delle vittime – ha ricordato – non si accontentano delle sentenze sugli esecutori». In piazza si è parlato della P2, dei depistaggi e dei funzionari dello Stato «che non hanno mai parlato». «Diremo ai pm dove indagare, c’è molto da capire prima di arY chiviare», ha concluso Bolognesi.
Con la sezione di Inzago a Bologna
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l 30 settembre la sezione Quintino di Vona di inzago sarà a bologna. Visiteremo il memoriale della strage allestito nella sala d’aspetto della stazione, lì dove il 2 Agosto 1980, la bomba uccise ottantacinque persone e causò il ferimento o la mutilazione di oltre duecento. Visiteremo anche il museo per la memoria di Ustica, dove una installazione permanente circonda i resti del dC9 abbattuto il 27 giugno 1980 mentre si dirigeva verso
l’aeroporto di Palermo, provenendo proprio da bologna. Le 81 vittime della strage sono ricordate attraverso luci, suoni, esposizione di oggetti, coinvolgendo lo spettatore direttamente nella memoria dell’evento. Visiteremo inoltre il Sacrario dei partigiani, che nacque per iniziativa spontanea della cittadinanza fin dalla mattina del 21 Aprile 1945, in un pellegrinaggio che nei giorni successivi assunse dimensioni imponenti. Y
il fiore del partigiano
I 1032 euro della vergogna
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er la prima volta dalla Liberazione, il 25 Aprile di quest’anno l’ANPI di Inzago si è vista costretta a celebrare la ricorrenza della Liberazione da sola, senza la partecipazione dell’Amministrazione Comunale. Dal giugno 2016, infatti, Inzago è retta da una giunta a trazione leghista, che non si riconosce nei valori della Resistenza e dell’antifascismo. Uno dei suoi primi atti fu – guarda caso – quello di sfrattare l’ANPI dalla propria sede. La reazione ferma della nostra associazione e la mobilitazione creatasi in paese costrinsero a più miti consigli il neo-sindaco. Stavolta questa Amministrazione, adducendo pretesti banali e provocatori, oltre che negare l’uso dell’elettricità in piazza Maggiore per permettere il regolare svolgimento delle celebrazioni, ha pensato bene di comminare all’ANPI una multa di 1032 euro per aver anticipato la partenza della manifestazione di dieci minuti rispetto all’orario imposto. Nonostante il pesante boicottaggio da parte degli amministratori locali, il 25 Aprile 2017 è stato, senza ombra di dubbio, il più partecipato degli ultimi anni. Alcune centinaia di persone hanno sfilato nel nostro corteo in modo colorato e festoso, facendo così sentire la loro vicinanza e solidarietà all’ANPI. Nel ringraziare tutti, diamo appuntamento per domenica 10 settembre, sempre in piazza Maggiore, per ricordare insieme
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giuSePPe
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La giunta di destra che ha problemi a definirsi antifascista evita il confronto con l’ANPI e usa mezzucci per contrastarne l’attività
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le iniziative
INZAGO - iL 25 apriLe disertato daLL’ammiNistrazioNe comuNaLe
Il prof. Quintino Di Vona, ucciso per mano fascista a Inzago il 7 settembre ’44
Quintino Di Vona, Inzago non dimentica
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ella ricorrenza del 73° anniversario del martirio del professor Quintino di Vona, la locale Sezione dell’AnPi, a lui intestata, organizza:
bruno giuLiAni
l’assassinio del professor Quintino Di Vona e riaffermare con forza i valori della Resistenza, dell’antifascismo e dell’antirazzismo. Sarà un’altra occasione per verificare i comportamenti e le scelte di campo Y dell’Amministrazione comunale. Cesarina Brusamolino Direttivo ANPI di Inzago sezione Quintino Di Vona
In alto, l’omaggio floreale alla tomba del prof. Di Vona. Al centro, l’ingresso in piazza Maggiore del corteo antifascista guidato dal presidente ANPI di Inzago, Carlo Simone. Qui in basso, musica “resistente”
Domenica 10 settembre 2017 ricordando il ProFeSSor QUintino di vona cerimonia di commemorazione Ore 10,15: dalla sede dell’AnPi in piazza Quintino di Vona, partenza del corteo verso il cimitero, deposizione di fiori sulla tomba. poi in Piazza Maggiore Ore 11: deposizione di una corona d’alloro sulla lapide del professor di Vona e di seguito discorso commemorativo di un rappresentante dell’AnPi Provinciale. Ore 11,30: concerto musicale. La partecipazione numerosa di cittadini, sezioni dell’AnPi e rappresentanze comunali sarà il migliore modo, non solo per commemorare il professor di Vona e i tanti altri che diedero la vita per liberare l’italia dal nazifascismo, ma anche per testimoniare quanto i valori della resistenza, dell’antifascismo, dell’antirazzismo siano ancora e più che mai sentiti a inzago e in Y tutta la nostra Zona.
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il fiore del partigiano
Primo Levi: «Io so cosa vuol dire non tornare»
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le iniziative - le idee
CERNUSCO - iL 24 settembre a FossoLi, NeL treNteNNaLe deLLa scomparsa deLLo scritto
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da ANPI di Cernusco - Newsletter del luglio 2017
ualche coordinata di lettura... in vista della gita di quest’anno. Il 24 settembre andremo infatti a Fossoli, frazione di Carpi, dove, dal 1943 la Repubblica Sociale Italiana istituì un campo di concentramento per ebrei, trasformato, dal marzo 1944, in campo poliziesco e di transito verso i lager nazisti. Tra i circa 5.000 internati politici e razziali passati da Fossoli ci fu anche Primo Levi, a cui quest’anno, nel trentennale della scomparsa, dedichiamo la rassegna “Primo Levi (1919-1987) - L’uomo, l’intellettuale, il testimone”.
PRIMO LEVI A FOSSOLI Il 13 dicembre 1943 Primo Levi fu catturato in Valle d’Aosta, dove si era unito alla Resistenza, e trasferito a Fossoli il 20 gennaio del 1944. Dal campo di transito, situato nel cuore dell’Emilia, il 22 febbraio venne deportato ad Auschwitz. Raccontò questa esperienza nel primo capitolo di se questo è un uomo e a Fossoli dedicò una poesia.
Il tramonto di Fossoli Io so cosa vuol dire non tornare. A traverso il filo spinato Ho visto il sole scendere e morire; Ho sentito lacerarmi la carne Le parole del vecchio poeta: «Possono i soli cadere e tornare: A noi, quando la breve luce è spenta, Una notte infinita è da dormire». 7 febbraio 1946 (ad ora incerta, Garzanti 1984) PERCORSI DI LETTURA Suggerimenti bibliografici su Primo Levi
I libri di Primo Levi se questo ̀e un uomo, Einaudi 1958 La tregua, Einaudi 1963 il sistema periodico, Einaudi 1975 La ricerca delle radici, Einaudi 1981 L’altrui mestiere, Einaudi 1985 i sommersi e i salvati, Einaudi 1986 Racconti fantascientifici storie naturali, Einaudi 1966 Vizio di forma, 1971 Lilit, Einaudi 1981
Un ritratto di Primo Levi, dalle pagine del fumetto di Pietro Scarnera
Romanzi La chiave a stella, Einaudi 1978 se non ora, quando?, Einaudi 1982 Poesie ad ora incerta, Garzanti 1984
Libri su Primo Levi Fiora Vincenti, invito alla lettura di primo Levi, Mursia 1973 Italo Calvino, «Le quattro strade di Primo Levi», La repubblica, 11 giugno 1981, In Primo Levi, La ricerca delle radici Stefano Levi della Torre (a cura di),
La lucida indagine sulla zona grigia roSaUra GalBiati
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di
Primo Levi - i sommersi e i salvati - einaudi 1986 (ed. 2014 Super et, pp. 208, € 12,00)
rimo Levi scrive i sommersi e i salvati nel 1986, un anno prima della sua tragica morte. A detta di molti questo libro rappresenta il compimento dell’intera sua produzione. Avevo letto molti dei lavori di Levi e credevo di sapere abbastanza di lui, della sua esperienza di vita e della sua scrittura. Invece di fronte a questo ultimo lavoro è come se avessi capito per la prima volta l’unicità dello scrittore e sentito fino in fondo la grandezza dell’uomo. Precisione, essenzialità, profondità, misura e modestia non sono attributi che si accompagnano abitualmente all’idea di grandezza, ma chi legge le riflessioni contenute nel testo la può sperimentare, la può percepire fin dalle pagine iniziali. i sommersi e i salvati riprende il titolo che Levi avrebbe voluto dare a se questo è un uomo, la sua opera più conosciuta, ed è evidente che intorno a queste due categorie si definisce il nucleo della sua ispirazione. Non è un libro consolato-
rio, anzi è un libro duro e dal sapore amaro, poco adatto a lettori in cerca di rassicurazioni e giudizi certi. Nel testo vengono rappresentate e sintetizzate le questioni fondamentali inerenti all’“universo concentrazionario”, al sistema del lager e a ciò che esso mette a nudo nelle relazioni e nei comportamenti degli internati. Il testo possiede il valore della testimonianza, i cui limiti e possibili derive sono messi in luce dall’autore stesso nel capitolo “La memoria dell’offesa”, ma soprattutto ha il merito di aprire spazi di indagine, di difficile riflessione su temi universali della storia e dell’essere umano. Non a caso, fin dalla sua prima uscita, il libro diventa e resta un luogo di discussione pubblica; numerosi sono i critici e i recensori, tante e controverse le interpretazioni.
Risulta chiaro che nei 40 anni che separano l’esperienza di Auschwitz dalla pubblicazione del libro, Levi ha continuato ad osservarsi e ad osservare, a confrontare ed interrogare la realtà nei suoi aspetti più inquietanti. Sembra “ardere” in lui il bisogno di conoscere, insieme al dolore delle ferite e al desiderio di evitare il ripetersi di nuove tragedie. L’immagine di un simile ardore
parrebbe non conciliarsi con la pazienza analitica e l’equilibrio che l’autore mostra nel raccontare, nell’affrontare le infamie viste e subite, lo strazio e la repulsione per la disumanità dei carnefici, la regressione che comportava la vita nel lager. La sua lucida indagine insiste sempre sulla complessità e l’ambiguità degli atteggiamenti, mentre rifiuta lo sguardo eccessivamente schematico e semplificatore, pur riconoscendo che si è spesso costretti a ridurre il conoscibile a schema. Nel capitolo intitolato “La zona grigia” precisa che in realtà comprendere è l’esito di un processo di complicazione e «mentre il desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è [...] la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi». Levi, che era un chimico e ha continuato ad esserlo anche dopo Auschwitz, in un suo scritto aveva dichiarato che la chimica «è l’arte di separare, pesare e distinguere». Quasi distillando gli ingredienti dell’esperienza, l’autore tiene sempre a distinguere: tra violenza utile e inutile, tra potere e privilegio, tra senso di colpa dei sopravvissuti e vergogna di essersi piegati, tra tentativi di autoassoluzione e costruzione di comode verità, tra sommersi e salvati. Fra queste due ultime categorie individua però
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il fiore del partigiano re
Fumetto Pietro Scarnera, una stella tranquilla. ritratto sentimentale di primo Levi, Comma 22 2013. Y Buona lettura! Giovanna Perego ANPI di Cernusco s/N sezione Riboldi-Mattavelli
la “zona grigia” dove il bene e il male non si possono separare nettamente, perché nonostante essi esistano, la condizione di necessità estrema all’interno del lager ne sfuma i confini. Al contrario, in ognuno di noi agisce l’istinto a respingere le contaminazioni di bene e male, le insospettabili parentele tra questi, le ambivalenze e le ombre. Ci muove il bisogno di identificare con sicurezza i buoni e i cattivi, di separare le pecore dai capri come nel giorno del Giudizio Universale, e si vogliono «i vincitori e i perdenti da identificare rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito».
Levi sa però distinguere le vittime dai persecutori ed esplicita i pericoli della confusione tra i ruoli: «Confondere i due ruoli significa voler mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia [...] confonderli è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità». Non si mostra certo indulgente: chi compie il male è un
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
le idee
«Scritti in memoria di Primo Levi», Unione delle comunità israelitiche italiane, Roma 1990. In La rassegna mensile di israel, vol. LVI, 1989, n. 2/3, pp. 191-375 Marco Belpoliti (a cura di), primo Levi. conversazioni e interviste 1963-1987, Einaudi 1997 Ferdinando Camon, conversazione con primo Levi, Guanda 1997 Myriam Anissimov, primo Levi o la tragedia di un ottimista, Baldini e Castoldi 2000 Ernesto Ferrero, primo Levi: la vita, le opere, Einaudi 2007 Philippe Mesnard, primo Levi: una vita per immagini, Marsilio 2008 Daniele Orlandi, Le chimiche di primo Levi, Odradek 2013 Frediano Sessi, primo Levi: l’uomo, il testimone, lo scrittore, Einaudi Ragazzi 2013 Marco Belpoliti, primo Levi. di fronte e di profilo, Guanda 2015 Caterina Frustagli, primo Levi davanti all’assurdo: dire l’indicibile, Tra le Righe Libri 2016
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“Viandante” nel buio del ’900
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gabriele nissim - la lettera a Hitler mondadori (2015), 312 pagine, € 20,00
n giorno nel 1965 Johanna, una studentessa universitaria tedesca in cerca di un’occupazione a Roma, legge sul Messaggero un’inserzione: «Poeta tedesco ricerca segretaria tedesca». Poco dopo essere stata assunta, il sedicente poeta le detta una lunga lettera in difesa degli ebrei che sostiene di aver scritto e spedito a Hitler nel 1933, e le chiede di inviarla a centinaia di indirizzi tedeschi, fra cui quelli di alcuni giornali. Johanna è convinta di avere di fronte un millantatore, ma dovrà ricredersi quando, tornata in Germania, si metterà a indagare sul suo datore di lavoro, ripercorrendo così passo passo la vita di Armin T. Wegner, scrittore e strenuo difensore dei diritti umani, riconosciuto dagli armeni come “giusto” per essere stato uno dei primi a denunciare il dramma del loro popolo: il genocidio del 1915-16. Quello stesso riconoscimento
oppressore e tale rimane, tuttavia Levi non vuole, non riesce ad esecrare senza tentare di capire, e poiché i confini sono spesso indecifrabili, davanti al disastro dei fatti avvenuti sia le vittime che i carnefici gli sembrano degni di una forma di comprensione. Scrive: «pietà e brutalità possono coesistere nello stesso individuo e anche nello stesso momento, contro ogni logica». Levi era una persona razionale, ma dice più volte che per capire i nazisti occorre spogliarsi della propria logica e tentare di entrare in quella altrui, per quanto aliena o aberrante possa apparire, sempre stando attenti a non cadere nei luoghi comuni. Credo però che non bastino la sua razionalità e l’indubbia capacità analitica a indurre nel lettore una riflessione profonda su cause, conseguenze, senso e portata dell’esperienza del campo di concentramento. Occorrono anche doti di umanità e a lui dobbiamo riconoscerne molte: onestà intellettuale, imparzialità, equilibrio, mitezza, cautela nel giudicare e nel giudicarsi. Non era “un perdonatore” come fu invece definito da Jean Amery, intellettuale sopravvissuto
Armin lo aveva ricevuto nel 1967 anche in Israele, con un albero nel giardino dei giusti di Yad Vashem, proprio per la lettera al Führer e la denuncia delle leggi antisemite. Poco dopo la pubblicazione della lettera, Wegner fu arrestato dalla Gestapo, imprigionato e torturato. Fu successivamente internato nei campi di concentramento a Orianenburg, Börgemoor e Lichtenburg; rilasciato qualche tempo dopo, si rifugiò a Roma con lo pseudonimo di Percy Eckstein. Gabriele Nissim ne ha ricostruito la straordinaria vita, anche sulla base delle tante lettere custodite negli archivi di famiglia (Elberfeld, 16 ottobre 1886-Roma, 17 maggio 1978). Dopo aver servito nell’esercito tedesco, alleato dei Giovani Turchi, come ufficiale medico durante la Prima guerra mondiale – e aver assistito come testimone diretto al genocidio degli armeni (sono sue le uniche fotografie esistenti dello sterminio) –, a metà degli anni Venti Wegner diventa comunista, causa che poi abbandonerà, deluso. Y
Gabriele nissim, giornalista e saggista, ha pubblicato: Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l’uomo che creò il Giardino dei giusti (2003), La bontà insensata. Il segreto degli uomini giusti (2010).
ad Auschwitz; intanto non smetteva mai di arrovellarsi, era insofferente verso chi parlava di incomunicabilità e inadeguatezza della parola, si irritava contro le forme letterarie e cinematografiche che estetizzavano il male e in genere contro le interpretazioni totalizzanti. Soprattutto non voleva che si dimenticasse. Anche per questo ha continuamente ripercorso la sua esperienza ad occhi ben aperti, mantenendo la propria pena personale sullo sfondo, perché c’erano un dovere da compiere e una giustizia da ristabilire, urgeva un messaggio per le future generazioni. Il libro ha tanti meriti: per i contenuti coraggiosi, per la lucida costruzione, per la rara capacità di andare al cuore dei problemi, di portare lo sguardo sull’assurdo e sull’indicibile. Ci sono aspetti che sfidano talmente la coscienza che sembra di non poterne dire niente, esperienze di fronte alle quali la parola spesso si spegne e il silenzio può durare una vita intera. Come tutti i testi che possiedono una forza di verità e insieme un contenuto di profonda sofferenza, i sommersi e i salvati è in grado di risvegliare in noi un’inquietudine che non vorremmo tollerare, una paura sorda che scuote la coscienza, ma che tuttavia è utile alla nostra umanità che crediamo comune, che è comune o dovrebbe esserlo. Y
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Ritornare oggi a Piazza il fiore del partigiano
le storie - la Storia
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ANNIVERSARI - IL 10 AGOSTO 1944 LA STRAGE DI QUINDICI PATRIOTI. DIECI ANNI FA
L’antifascismo di oggi si nutre dell’esempio dei 15 martiri e d
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DI
pubblichiamo alcune riflessioni del presidente dell’aNpi di milano e provincia in occasione della giornata del 10 agosto 2017
ROBERTO CENATI
l 10 Agosto 1944 in piazzale Loreto, dove sorge la stele, avveniva uno dei più tragici avvenimenti della storia milanese durante la Resistenza. Un plotone fascista della legione Muti fucilava, per ordine della sicurezza nazista, 15 partigiani: Arturo Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo Del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Giovanni Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo, Vitale Vertemati. E in questo, come in tanti tragici episodi, un ruolo determinante nella denuncia, nella cattura e nella deportazione di oppositori politici, lavoratori, ebrei, lo ebbero i repubblichini di Salò, senza l’apporto dei quali i nazisti non avrebbero potuto agire. Con queste fucilazioni si pensava che la strategia del terrore nazifascista potesse isolare i combattenti della Resistenza dalla popolazione. L’eccidio di piazzale Loreto ottenne invece l’effetto opposto e Milano non ha mai dimenticato questa barbarie. I Quindici Martiri di piazzale Loreto sono stati l’anima di una Milano che opponendosi al fascismo lottava per la libertà, la democrazia fino al sacrificio della propria vita.
L’esempio dei Quindici Martiri costituisce un forte monito anche per noi, perché continuiamo a difendere la pace, il bene più prezioso conquistato dalla Resistenza italiana ed Europea e la convivenza civile, oggi minacciate dallo stragismo jihadista. Libertà e democrazia seriamente messe in discussione dal preoccupante risorgere di movimenti neonazisti e neofascisti, manifestatisi recentemente anche a Milano. L’irruzione a Palazzo Marino di Casa Pound e il blitz neofascista del 29 aprile scorso al campo X del Cimitero maggiore dove sono sepolti repubblichini, gerarchi della RSI e i fucilatori dei 15 Martiri di piazzale Loreto, rappresentano un salto di qualità nella sfida alle istituzioni nella città Medaglia d’oro della Resistenza. Ora, nonostante le denunce della Digos per aperta apologia di fascismo per il blitz del 29 aprile, la Procura di Milano, ne ha chiesto l’archiviazione, con una decisione grave che crea in tutti noi profondo sconcerto e preoccupa-
10 agosto. Rappresentanti delle istituzioni e dell’associazionismo antifascista a Piazzale Loreto commemorano i 15 martiri
Come tutti gli anni, all’appuntamento con i 15 martiri di Piazzale Loreto non può mancare una delegazione ANPI della Divisione Fiume Adda, in rappresentanza delle sezioni della Zona Adda-Martesana. Nella pagina a destra, un ritratto di Giovanni Pesce
le Loreto
il fiore del partigiano
CI LASCIAVA GIOVANNI PESCE
zione. Abbiamo bisogno di una estesa coscienza collettiva antifascista, a partire dallo Stato che deve adoperarsi per contenere e respingere ogni tentativo di esaltazione del fascismo, per far conoscere cosa è stato il fascismo durante il ventennio e negli anni della strategia della tensione, colpendo le formazioni neofasciste e infliggendo a chi fa apologia di fascismo e diffonde intolleranza e razzismo quelle esemplari condanne che ancora stiamo attendendo.
A Giovanni Pesce, il mitico comandante “Visone” di cui ricorreva il 27 luglio scorso il decimo anniversario della scomparsa, l’Amministrazione Comunale ha dedicato, con grande soddisfazione da parte di tutti noi, una piazza alla Cascina Merlata, accogliendo la proposta avanzata dall’ANPI Provinciale di Milano (un ringraziamento particolare al Sindaco di Milano). Venerdì 8 settembre alle ore 11,00 si svolgerà la solenne cerimonia dell’intitolazione della piazza a Giovanni Pesce.
In un suo intervento in Consiglio Comunale, il 25 luglio 1963, Pesce sosteneva che «Anche la targa di una via o di una piazza che ricordi un nome glorioso della lotta popolare antifascista rappresenta un contributo da non sottovalutare». Per questo da anni proponiamo la riqualificazione della Loggia dei Mercanti, che sotto le sue volte accoglie 1739 nomi non solo di Combattenti per la Libertà, ma di oppositori politici, di militari, di lavoratori deportati nei lager nazisti per gli scioperi del marzo del 1944, di ebrei milanesi che qui non fecero più ritorno. Nel monumento, luogo della memoria di Milano, è racchiusa dunque la Resistenza italiana in tutta la sua complessità, quella armata e quella non armata.
Ricordare il sacrificio dei 15 Martiri di Piazzale Loreto, significa anche rilanciare, con concreti segnali, oltre che con l’impegno democratico e antifascista, la memoria di quel Y tragico episodio del 10 agosto 1944.
Papà, quante volte hai lasciato il cuore?
LA MIA “LETTERA” PER MIO PADRE, GIOVANNI PESCE
le idee - le persone
el comandante “Visone”
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Settembre 2017
«P di
da rifondazione.it pubblicato il 1 agosto 2017
tiziana PeSce *
apà, ma quante volte hai lasciato il cuore?» Me lo chiedo ogni volta che penso a te, ogni volta che parlo di te. Difficile, dirlo. Quando a 11 anni diventasti un pastorello e un frammento del tuo cuore rimase con Medoc, il cagnolino tuo unico compagno: il tempo dei giochi e della spensieratezza era già finito, per lasciare il posto a un piccolo uomo, maturato troppo in fretta, in mezzo ad altri uomini, i “musi Neri” minatori della Grand Combe, che lavoravano in condizioni tragiche, destinati a morire di silicosi. Il tuo cuore, tra fatiche, privazioni e lavoro duro fino allo sfinimento, riconobbe il percorso che avresti condotto per tutta la tua vita in mezzo ai compagni. Quando la mattina del 17 novembre 1936 lasciasti la tua casa e i tuoi affetti alla Grand Combe per andare a combattere in Spagna, perché non era più tempo di indugi. Seguisti il tuo cuore, palpitante per le parole di Dolores Ibarruri, già pienamente consapevole che «La lotta in Spagna è la lotta tra la democrazia e il fascismo», come disse Josè Diaz alle Cortes. Quando dopo la sconfitta delle Brigate Internazionali fosti costretto a tornare in Italia. E il tuo cuore rimase accanto ai tuoi compagni tra gli ulivi vicino all’Ebro. Alcuni di quei volti restarono adagiati su quella terra, altri li ritrovasti tra le future strade resistenti. La Spagna ti colpì così forte da insegnarti a resistere. E il tuo cuore rimase anche a Ventotene, in quella piccola prigione che fu allo stesso tempo la più grande scuola politica che un giovane potesse avere, accolto dalle grandi figure dell’antifascismo che ti insegnarono il senso più vero della lotta di classe che ti accompagnò per tutta la vita.
Penso a quando avresti voluto far riposare il tuo cuore ad Acqui Terme, dai tuoi unici parenti che ti avevano accolto a rischio della loro vita, ma non trovasti quasi il tempo di riempirti di quell’affetto per tornare subito a correre con la Storia. Quando a Torino, il tuo cuore divenne quello di Dante Di Nanni e dei tuoi gappisti che furono arrestati, e poi fucilati. Tu, unico sopravvissuto, ti sentisti morire insieme a loro, ma rafforzasti la tua vo-
lontà di libertà per non deludere i loro sogni. Quando nel settembre del 1944 Nori fu arrestata. Ti vedo passeggiare avanti e indietro in quella notte infinita, senza sogni. Quando finalmente sentisti cantare “Fischia il vento” e ritrovasti i tuoi compagni. Il tuo cuore rimbalzò nel petto e tu facesti fatica a trattenere la commozione e la gioia per l’imminente vittoria, per la libertà riconquistata e per il futuro da costruire. Quando Umberto Terracini, in una piazza del Duomo gremita, ti appuntò sul cuore la Medaglia d’oro al Valor Militare che tu, non retoricamente, dedicasti a tutti i partigiani, quelli vivi, ma soprattutto quelli che morirono in nome della libertà. E qui credo sia indispensabile citare quel bellissimo brano della tua prefazione di senza tregua: «I morti e i vivi si affollano nelle pagine del libro. Sono volti sempre nuovi, pochi diventano familiari perché pochi scampano. Sembra di averli lasciati all’angolo di una strada e di ritrovarli dopo. Li ritroviamo oggi. Riemergono dall’abisso della memoria i molti che la morte ha ingoiato. Gli altri sono diventati diversi: la vita “normale” ha disperso quelli che un periodo di vita eccezionale aveva riunito una volta. Il tempo di Senza tregua è diventato leggenda. Alcuni dei suoi eroi militano in differenti uniformi o addirittura non militano affatto. Che è rimasto dell’eroismo degli uomini? Soltanto la cara memoria dei martiri e il ricordo dei migliori? Gli uomini creano e scompaiono. E le loro opere? E l’opera più solida è l’Italia antifascista, la pace, la fratellanza dei popoli. È l’opera dei protagonisti di senza tregua. Tocca ai giovani continuare sulla strada maestra, ai giovani continuare la Resistenza.»
Sono trascorsi dieci anni da quando non ci sei più. Manchi. Tanto. Ma se avessi potuto vedere quella piazza Scala strapiena di persone e di bandiere rosse… ebbene lì è stato il mio e il nostro cuore che abbiamo lasciato quel giorno, ricordandoti con l’affetto e con la commozione per un uomo «inaccessibile allo scoraggiamento», come recita la motivazione della Medaglia d’oro. E il tuo cuore batterà sempre nei cuori del futuro. I nostri. Il mio. Y
* figlia di Giovanni “Visone” Pesce e Onorina “Sandra” Brambilla
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Combattere i nuovi fa è un dovere, lo impone il fiore del partigiano
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le idee
PROPOSTA DI LEGGE FIANO - PERCHÉ E COME PUÒ ESSERE UTILE
su il Fatto Quotidiano si è sviluppato un certo dibattito attorno alla proposta di legge Fiano sul contrasto alle manifestazioni di neofascismo. alle considerazioni in proposito dell’ex direttore padellaro rispondeva maurizio Viroli, con il commento che riprendiamo dal suo blog. da Maurizio Viroli Blog pubblicato il 19 luglio 2017
D di
maUrizio viroli
i certo non era sua intenzione, ma l’articolo di Antonio Padellaro, (il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2017) pare un invito alla rassegnazione di fronte all’avanzata del fascismo del terzo millennio. «Il fascismo del presente, osserva Padellaro, vive e lotta a pieno titolo nelle istituzioni democratiche», e dunque, «vorremmo chiedere pacatamente a Fiano come sia possibile oggi impedire ai corpi militarizzati di Casa Pound di esibire labari e braccia tese nelle sfilate per le strade di Roma o di Milano». «Ha un senso – si chiede Padellaro –, chiudere la stalla quando i buoi sono scappati da quel dì,
e ci riferiamo ai tanti giovanotti e giovanotte che in quei lugubri raduni inneggiano al duce senza averne la minima cognizione storica?». Non solo ha un senso, ma è dovere preciso di chi governa e di chi ci rappresenta rispettare il dettato esplicitamente antifascista della nostra Costituzione, e dotare la Repubblica delle leggi necessarie per cacciare in carcere chiunque esibisca un simbolo fascista o saluti romanamente. Non farlo vorrebbe dire ripetere un errore simile a quello di quell’inetto di re Vittorio Emanuele III che rifiutò di firmare la dichiarazione dello stato di guerra per fermare la marcia su Roma. Il nuovo fascismo, qui Padellaro ha ragione, «cresce e prospera sullo sputtanamento progressivo della politica, sulla distruzione del lavoro, sulle guerre infinite tra i poveri italiani e gli immigrati ancora più disperati, sulla solitudine esistenziale». Ma se tu impieghi tutta la forza della legge per impedire ai nuovi fascisti di fare propaganda, di organizzarsi, di esibire e diffondere i loro simboli è molto difficile che possano vincere. La storia, ancora una volta, dovrebbe illuminarci: il fascismo in Italia ha vinto non perché era politicamente e militarmente più forte dello Stato liberale (due compagnie di carabinieri sa-
rebbero state sufficienti a fare scappare tutti gli squadristi), ma perché lo Stato liberale, sciaguratamente, decise di non usare la forza per combatterlo. Per usare in modo legittimo ed efficace la forza, lo Stato repubblicano ha bisogno di leggi. Le leggi Scelba e Mancino, in attuazione della disposizione finale XII della Costituzione che vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista, sono buone. Ma, e qui sono in disaccordo con Marco Travaglio (il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2017) non bastano per reprimere la propaganda fascista e nazista. La proposta di legge Fiano a integrazione dell’articolo 293 del codice Penale rafforza saggiamente le leggi esistenti e dunque va approvata il più rapidamente possibile, e poi attuata con inflessibile rigore, se vogliamo almeno tentare di sradicare il nuovo fascismo. Sconfiggere il nuovo fascismo, non è problema che tocca Beppe Grillo. «L’antifascismo – ha dichiarato ad un intervistatore – non mi compete». Questa frase dimostra che Grillo non ha capito che l’anti-fascismo è il principio che ispira la nostra Costituzione e il fondamento morale della nostra Repubblica. Un uomo con queste idee non può governare e
DDL FIANO: UNA NUOVA PROPOSTA DI LEGGE PER PUNIRE I COMPORTAMENTI INDIVIDUALI APOLOGETICI
Apologia del fascismo sui social: fino a due anni di reclusi
E
da lastampa.it pubblicato il 10 luglio 2017
ra febbraio, quando La Stampa si occupò del reato di apologia del fascismo su Facebook, a cui fece seguito una interrogazione parlamentare presentata dal Partito Democratico. Facebook Italia (insieme all’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) si impegnò nel contrastare questo fenomeno, che non è previsto dalla policy internazionale del social network, oggi utilizzato da 2 miliardi di persone nel mondo, ma è vietato dalla legge italiana. Infatti la legge Scelba, la 645 del 1952, vieta la «riorganizzazione del disciolto partito fascista» prevedendo multa e reclusione per i reati di apologia fascista. Oggi a Montecitorio è arrivata la proposta di legge 3243, presentata da Emanuele Fiano del Partito Democratico, che chiede l’introduzione dell’articolo 293-bis del codice penale, puntando a punire «chiunque propaganda le immagini o i contenuti
propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco». Una norma che estende e completa la legge Scelba del 1952 e poi la Mancino del 1993 (che allargava la Scelba all’odio e discriminazione razziale), portando la legislazione a contemplare anche gesti individuali da punire, come il saluto romano, e la diffusione di gadget («produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli» del fascismo e del nazismo). La proposta di legge prevede «la reclusione da sei mesi a due anni», con «la pena aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici», come ad esempio Facebook. La ricerca condotta da patria indipendente, testata editoriale dell’ANPI, che avevamo analizzato in febbraio a proposito dell’apologia del fascismo su Facebook, è stata aggiornata e implementata. A fronte delle 2700 pagine connesse all’apologia fascista raccolte a inizio anno, il numero è salito a 3750.
Inoltre, è stata realizzata una selezione di 485 pagine prettamente apologetiche, in pieno contrasto con la legge Scelba, e che varrebbero la reclusione per chi le ha create se la proposta di Fiano diventasse legge. A nulla pare essere servito l’appello della presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini, che si rivolse direttamente a Mark Zuckerberg, per farle eliminare. «Il trend vede la creazione di un numero compreso tra le 30 e le 40 nuove pagine Facebook al mese connesse al fascismo e ai suoi ideali e simboli – afferma a La stampa Giovanni Baldini, ricercatore di patria indipendente – l’interesse per la nostra ricerca è costante. Stiamo ragionando con il direttivo nazionale per produrre un libretto. Il dialogo con Facebook Italia, a oggi, purtroppo stenta». La legge italiana pare chiara in proposito, ma secondo Emanuele Fiano è necessario aggiungere dei paletti per punire in modo puntuale comportamenti individuali devianti, così come accaduto a Chioggia nelle scorse ore.
non possono governare quelli che lo seguono, se condividono la sua indifferenza verso l’anti-fascismo, che poi è indifferenza verso il fascismo. E pare proprio che sia così, visto che gli M5S hanno definito «sostanzialmente liberticida» la proposta Fiano. Non capiscono che se i nuovi fascisti vinceranno, distruggeranno tutte le nostre libertà e dunque è perfettamente legittimo togliere loro alcune delle libertà garantite a tutti gli altri cittadini. Prima viene la salvezza della Repubblica, poi la libertà illimitata di espressione dei gruppi che vogliono distruggerla. Ha ragione Daniela Ranieri a scrivere che in tutta la vicenda «l’ipocrisia regna sovrana» (il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2017) e a sostenere che Renzi è diventato paladino della proposta di legge Fiano per guadagnare consensi e per approfittare dell’errore dei Cinque Stelle. Ma queste non sono buone ragioni per non difendere una proposta di legge che renderebbe più forte l’antifascismo vero. «Si rassegni all’idea che ci siano tanti seguaci del Fascismo» ha scritto un lettore a Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 14 luglio, 2017). Avesse scritto a me avrei risposto che diventerebbero in breve tempo assai pochi, se lo Stato repubblicano impiegasse contro di loro tutta la sua forza con la Y massima intransigenza.
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Su Facebook ogni mese tra le 30 e le 40 nuove pagine apologetiche del fascismo
Punire l’apologia fascista e la propaganda attiva non è «liberticidio», così come affermato la scorsa settimana dal Movimento 5 Stelle alla commissione Affari costituzionali a proposito del ddl Fiano. Il fascismo è un’ideologia non tollerabile in un Paese moderno, democratico e civile. Il fascismo non è un’opinione, il fascismo è reato. Ed è Y tale dal 1952.
Luca Scarcella
Settembre 2017
ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA IL FUNERALE
le idee - le persone
scismi la Carta
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il fiore del partigiano Stefano Rodotà, il «presidente» dei diritti
«P
da il manifesto del 27 giugno 2017
residente, presidente!». Quando il carro funebre lascia la Città universitaria, l’ultimo saluto commosso a Stefano Rodotà è quasi un urlo, e scioglie il lunghissimo applauso (più di 25 minuti) che aveva ritmato l’uscita del feretro dalla facoltà di Giurisprudenza, dopo l’immancabile «Bella ciao», tributo che si offre ai difensori della democrazia. È nell’ex «Aula 3» dello storico edificio – dove Rodotà si era formato da studente negli anni Cinquanta, collaborando anche con Rosario Nicolò, e dove aveva poi insegnato a lungo (dal ’56 al ’66 come assistente, e ordinario dal 1972) il Diritto a generazioni di studenti – che l’Università La Sapienza ha ospitato il funerale laico dell’amato e rispettato giurista. Un’aula che non è riuscita a contenere la grande moltitudine di persone arrivata per rendere omaggio al «professore» che, come candidato alla presidenza della Repubblica nel 2013, aveva raccolto consensi ben oltre il parterre di votanti alle «Quirinarie» on line lanciate dal Movimento 5 Stelle. In tanti sono rimasti tagliati fuori (a loro è stata riservata una saletta attigua collegata in streaming) anche a causa delle misure di sicurezza adottate per tutelare i big delle istituzioni che hanno voluto presenziare alla cerimonia accademica. E COSÌ ATTORNO AL FERETRO, ai parenti e agli amici più stretti, ad ascoltare i ricordi commossi del preside della facoltà di Giurisprudenza Paolo Ridola, del rettore Eugenio Gaudio e degli ex allievi di Stefano Rodotà, oggi docenti di Diritto, Guido Alpa e Gaetano Azzariti, c’erano in prima fila i presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso, il vicepresidente di Montecitorio Luigi Di Maio, il ministro Maurizio Martina, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il capogruppo dem al Senato Luigi Zanda, il presidente della commissione Esteri di palazzo Madama Pierferdinando Casini e il giudice costituzionale Giuliano Amato. In sala, tra gli altri, anche Carlo Smuraglia, Susanna Camusso e Maurizio Landini, il segretario di SI Nicola Fratoianni, e gli amici di una vita, da Gianni Ferrara a Luciana Castellina, da Vincenzo Vita a Luigi Ferrajoli e il radicale Gianfranco Spadaccia. LA FACOLTÀ di Giurisprudenza, il corpo docente, gli ex allievi e i tanti che si sono formati sui testi di Rodotà, tradotti peraltro in molte lingue, si sono «inchinati al maestro del diritto», allo «studioso di amplissimi orizzonti culturali, estremamente aperto alle trasformazioni della società», al grande «giurista mai avulso dall’impegno di pedagogia civile», all’«uomo libero» di «lucida e acuta intelligenza», di «grande onestà intellettuale», dalla «forte personalità e rigogliosa capacità crea
tiva», che si «colloca nella galleria dei maestri dell’Italia civile evocata da Norberto Bobbio». Troppo lunga è la ricostruzione dell’attività accademica e scientifica (non solo in Italia, ma in tutto il mondo) di Stefano Rodotà. Forse altrettanto lunga la lista di battaglie che ha condotto in nome del diritto, che riguardasse il contratto e la proprietà, o la persona e il corpo. Ha fondato periodici come politica del diritto e rivista critica, è stato parlamentare e il primo garante della privacy italiano, ha contribuito a scrivere la Carta fondamentale dei diritti dell’Europa e, soprattutto, dopo l’approvazione del 2000 ha lottato per conferire a quella Carta «diritto giuridico oltre che politico», come ha ricordato il professor Gaetano Azzariti. Insomma, ha fatto politica, dal basso e dall’alto. «IL DIRITTO AD AVERE DIRITTI» non è solo il bel titolo del suo saggio, che conta più di venti riedizioni, ma è il sunto perfetto del pensiero di Stefano Rodotà. Un giurista ma anche un costituzionalista, perché «occuparsi della vita delle persone vuol dire preoccuparsi del loro “pieno sviluppo”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione». Lo ha spiegato bene Azzariti, docente di Diritto costituzionale, in una profonda e interessante ricostruzione della complessa personalità di Rodotà, interrotta dagli applausi quando ha sottolineato che «per comprendere lo stile costituzionale di Rodotà, la sua reale forza innovativa, bisognerebbe essere disposti al dialogo, alla comprensione reciproca. In diverse occasioni, invece, lo affermo con tristezza in questo momento – ha aggiunto – nei confronti del maestro del diritto s’è preferito utilizzare l’insulto, che ha finito per offendere solo chi l’ha pronunciato». Di Maio, in prima fila, si irrigidisce, si fa scuro in volto, ma si unisce all’applauso. Qualcuno insinua che non ha capito. Rodotà era anche uno studioso abituato a «varcare i confini», sempre. «È da una linea di frontiera che è riuscito ad indagare il “diritto d’amore” (Laterza, 2014). Credo – ha affermato Azzariti – che nessuno con altrettanta delicatezza abbia saputo affrontare un tema così scivoloso per un giurista, ricordando a noi tutti che prima della legge, delle sentenze, della dottrina c’è qualcosa di ben più importante, un vero diritto inviolabile: quello ad amare. Prima delle regole c’è la vita». Un messaggio che è rimasto sicuramente nel cuore di chi ha conosciuto Stefano Rodotà. Quando la bara scompare oltre i cancelli dell’Università, quasi a testimonianza di questa eredità, risaltano alcuni foglietti di saluto attaccati sui muri esterni di Giurisprudenza: «Al prof che avremmo voluto presidente», si legge. O «Grazie per aver difeso sempre i diritti di tutti», «Il tuo esempio rimarrà in noi artefici Y della libertà». Eleonora Martini
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Le bufale sul fascismo
Settembre 2017
il fiore del partigiano
proNtuario coNtro Le LeggeNde che circoLaNo suLLa rete deL web (2a puNtata)
la Storia - le idee
I Miti e la realtà. Dalla presunta onestà ai treni puntuali, per censura da ceifan.org Centro di Indagine sui Fenomeni Anomali diretto dal Servizio Antibufala
P
È da molto tempo che circolano su internet bufale sul fascismo e su mussolini, spesso strumentalizzate a fini politici o di riabilitazione del fascismo, che vengono condivise da molte persone ignare della loro attendibilità. Qui di seguito verranno riportati alcuni miti su mussolini.
er ben inquadrare il periodo storico, ricordiamo che Benito Mussolini governò l’Italia dal 28 ottobre 1922 alla fine del fascismo con la seconda guerra mondiale, finendo per essere giustiziato dagli italiani il 28 aprile 1945 (data che coincide con la fine di quello che restava del fascismo). Invece, per inquadrare bene Mussolini ed il fascismo, ecco spiegato in breve i suoi doni all’Italia. Mito: I fascisti non hanno mai rubato Realtà: Si è sempre detto che il Fascismo è stata una dittatura che ha strappato la libertà agli italiani, ma che almeno i fascisti non hanno mai rubato, non sono stati corrotti. Invece non è così. Mussolini non fa in tempo a prendere il potere che la corruzione già dilaga. Un sistema corrotto scoperto già da Giacomo Matteotti: denuncia traffici di tangenti per l’apertura di nuovi casinò, speculazioni edilizie, di ferrovie, di armi. Affari in cui è coinvolto il futuro Duce attraverso suo fratello Arnaldo. E poi c’è l’affare Sinclair Oil: l’azienda americana pur di ottenere il contratto di ricerche petrolifere in esclusiva sul suolo italiano paga tangenti a membri del governo, e ancora ad Arnaldo, per oltre 30 milioni di lire. Matteotti lo scopre ma il 10 giugno 1924 viene rapito da una squadraccia fascista e ucciso. Messo a tacere il deputato socialista, di questa corruzione dilagante gli italiani non devono, non possono assolutamente più sapere. Speculazioni, truffe, arricchimenti improvvisi, carriere strepitose e inspiegabili: gerarchi, generali, la figlia Edda e il genero Galeazzo Ciano e Mussolini stesso! Nessuno rimane immune. I documenti scoperti e mostrati da storici di as-
soluto valore come Mauro Canali, Mimmo Franzinelli, Lorenzo Benadusi, Francesco Perfetti, Lorenzo Santoro presso l’Archivio Centrale dello Stato sono prove che inchiodano il fascismo alla verità. È stato anche realizzato un documentario RAI che lo testimonia bene.
Mito: Devi ringraziare il Duce se esiste la pensione Realtà: In Italia la previdenza sociale nasce nel 1898 con la fondazione della “Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori. Mussolini aveva in quella data l’età di 15 anni. L’iscrizione a tale istituto diventa obbligatoria solo nel 1919, durante il Governo Orlando, anno in cui l’istituto cambia nome in “Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali”. Mussolini fondava in quella data i Fasci Italiani e non era al governo. Tutta la storia della nostra previdenza sociale è peraltro verificabile sul sito dell’Inps. La pensione sociale viene introdotta solo nel 1969. Mussolini in quella data è morto da 24 anni.
Mito: La cassa integrazione guadagni è stata pensata e creata dal Duce per aiutare i lavoratori di aziende senza lavoro Realtà: La cassa integrazione guadagni (CIG) è un ammortizzatore sociale per sostenere i lavoratori delle aziende in difficoltà economica. Nasce nell’immediato dopoguerra per sostenere i lavoratori dipendenti da aziende che durante la guerra furono colpite dalla crisi e non erano in grado di riprendere normalmente l’attività. Quindi la cassa integrazione nasce per rimediare ai danni causati dal fascismo e della guerra che ha causato milioni di disoccupati. Nel 1939, tramite circolari interne, ne veniva prevista la possibilità, prevista senza un reale quadro normativo per poterla applicare, visto che allora era totalmente inutile. L’Italia, già coinvolta nelle guerre nelle colonie (Libia, Abissinia) si stava preparando all’entrata in guerra al fianco della Germania e per questo l’industria (soprattutto quella bellica) era in gran fermento, motivo per cui non solo si lavorava a turni pesantissimi ma si assistette addirittura al primo esodo indotto di lavoratori dall’agricoltura all’industria.
La Cassa Integrazione Guadagni, nella sua struttura è stata costituita solo il 12 agosto 1947 con il DLPSC numero 869, misura finalizzata al sostegno dei lavoratori dipendenti da aziende che erano state colpite durante la guerra e che erano in grande difficoltà a riprendere normalmente l’attività.
Mito: Ai tempi del Duce eravamo tutti più ricchi Realtà: Mussolini permise agli industriali e agli agrari di aumentare in modo consistente i loro profitti, a scapito degli operai. Infatti fece approvare il loro contenimento dei salari. Nel 1938, dopo 15 anni di suo operato, la situazione economica dell’italiano medio era pessima, il suo reddito era circa un terzo di quello di un omologo francese.
Mito: grazie al Duce la disoccupazione non esisteva Realtà: non vi era un reale stato di benessere dell’economia ma in realtà l’Italia stava preparando l’entrata in guerra e tutte le industrie (e l’artigianato) che direttamente o indirettamente fornivano l’esercito lavoravano a pieno regime. Senza contare le masse arruolate nell’esercito per poi essere usate come carne da macello per i sogni di gloria del duce. Per contro, l’accesso al lavoro era precluso a tutti coloro che non sottoscrivevano la tessera del Partito Nazionale Fascista, sanzione che era estesa anche ai datori di lavoro che eventualmente li impiegassero. Motivo per cui durante il fascismo assistemmo ai flussi migratori di tutti coloro che per motivi politici non intesero allinearsi al regime, ma avevano una famiglia da mantenere. Il 27 maggio 1933 l’iscrizione al partito fascista è dichiarata requisito fondamentale per il concorso a pubblici uffici; il 9 marzo 1937 diventa obbligatoria se si vuole accedere a un qualunque incarico pubblico e dal 3 giugno 1938 non si può lavorare se non si ha la tanto conclamata tessera. Mito: “quando c’era lui i treni arrivavano in orario” Realtà: non è vero. Come spiega bene un articolo dell’indipendent, si tratterebbe infatti di un mito derivante dalla propaganda durante il Ventennio. La puntualità dei treni era infatti per la propaganda fascista il simbolo del ritorno all’ordine nel Paese ma, in realtà, è solo grazie alla censura sistematica delle notizie riguardanti incidenti e disservizi ferroviari che questa imY magine si è potuta formare. continua nel prossimo numero ➔
Con le pinne, il fucile e le camere a gas il fiore del partigiano
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Settembre 2017
le idee
La graVe sottoVaLutazioNe deL caso deLLa “spiaggia Fascista”
il raduno di Forza Nuova a Limena. Fascismo e antifascismo: non solo un capitolo del libro di storia, ma abiti mentali, modi di concepire l’uomo e la società, senza scadenza
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da patriaindipendente.it pubblicato il 20 luglio 2017
irene BaricHello
ualcuno in buona fede esclamerà: «Ancora con questa storia della spiaggia fascista?! E basta! Quanto rumore per nulla!». E invece no, per due ragioni.
La prima: non è il clamore attorno a questa vicenda a spaventarmi, bensì il suo contrario: non gli strilli dei giornali, ma l’assenza e il silenzio delle istituzioni che permettono – sbadataggine? – il fiorire e vegetare indisturbato di simili fenomeni. Il giorno in cui La repubblica ha pubblicato il suo articolo, sono fioccate alle varie sezioni ANPI decine e decine di e-mail e telefonate affinché si attivassero per denunciare la gestione fascista del signor Gianni Scarpa nella “sua” spiaggia a Chioggia (“sua” un corno, poiché ce l’ha in concessione dal demanio, dunque è territorio di quella Repubblica democratica che egli infanga e non sua proprietà privata). E le ANPI hanno denunciato a chi di dovere, anzi molto spesso tali denunce erano già state da tempo presentate, ma nel silenzio mediatico e nell’indifferenza delle istituzioni. Del resto questa non è che la versione vacanziera di sempre più numerosi casi affini, in cui ci si aspetterebbe dalle istituzioni quella doverosa reazione prevista dalla Costituzione e dalle leggi Scelba e Mancino che invece manca o tarda. Riporto a questo proposito un fatterello locale, ma buono per
prendere il polso della situazione: a Limena (comune di circa 7.000 anime in provincia di Padova) a metà maggio Forza Nuova ha fatto un raduno regionale; il sito era di proprietà del Comune e lì – tra libri su Hitler, simboli e gadget nazifascisti in vendita sulle bancarelle – è stato presentato un libro dell’editrice AR, fondata dal terrorista nero Franco Freda. L’ANPI limenese e il comitato provinciale padovano dell’associazione hanno scritto al sindaco, Giuseppe Costa, affinché impedisse o almeno biasimasse tale iniziativa: la risposta è stata che gli organizzatori avevano presentato tutte le carte bollate e pagato le varie gabelle, cosa non andava dunque? Quando poi, l’ANPI ha tentato di evidenziare la superficialità o – peggio – l’acquiescenza degli amministratori, con un piccolo articolo sul giornalino comunale, il Sindaco lo ha censurato, dicendo che ne usciva un’immagine dell’amministrazione [di centro-destra, ndr] non veritiera e che lui il 25 aprile aveva addirittura tenuto un discorso in cui celebrava l’antifascismo. Dirò di più, non solo lo celebrava ma invitava a farlo vivere tutti i giorni, non solo alla Liberazione; peccato però che abbia clamorosamente perso una buona occasione per mettere in pratica le sue stesse parole.
E qui arriva la seconda ragione per cui la faccenda nera e sporca della spiaggia fascista non può essere derubricata a un nonnulla o – come vorrebbero molti – a “folklore” goliardico: noi non siamo la Germania, ossia quel Paese che più e meglio di tutti ha voluto fare i conti con il nazismo e la sua storia recente; quel Paese in cui non solo legalmente (ci sono sanzioni imme-
Fascioleghismo. Non poteva mancare la visita di Salvini alla “spiaggia fascista”. Portando la sua solidarietà al gestore nostalgico Gianni Scarpa, il capo leghista ha rinsaldato il legame con il mondo neofascista e la sua sottocultura
diate e severissime) ma anche nei fatti è inimmaginabile esporre simboli legati o riconducibili a Hitler e al suo lugubre regime, a meno di dichiararsi apertamente neonazisti. No, noi siamo l’Italia, ossia quel Paese che i conti col regime di Mussolini non li ha mai fatti fino in fondo, quel Paese in cui dal 1946 si è potuto votare Msi, un movimento fondato dai reduci della Rsi, e farlo entrare nel parlamento della Repubblica nata dalla Resistenza; quel Paese in cui a Predappio sciamano ogni anno gruppuscoli di “nostalgici” in pellegrinaggio alla tomba del duce; quel Paese in cui il Comune di Affile fa erigere un mausoleo a Graziani (poi per fortuna è toccato all’ANPI intervenire). Noi siamo quel Paese in cui in cui Facebook pullula di pagine neofasciste, frequentate non da ormai centenari saloini ma da giovani e giovanissimi che incanalano in slogan mortiferi, omofobi e xenofobi incertezze e frustrazioni tipiche dell’età e amplificate dalla crisi in cui siamo in ammollo da anni. Noi siamo quel Paese in cui moltissimi, non avendo il coraggio di dichiararsi apertacontinua a pagina 18 ➔
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il fiore del partigiano
le idee
➔ segue da pagina 17 mente di destra, la sfangano con una frase che pare essere l’ultima moda della politica 2.0, quella post-ideologica: “Non siamo né di destra né di sinistra”. Invece è spesso solo fumo negli occhi, perché a grattare un po’ si ritrova l’odio per il diverso, un eversivo accanimento contro lo Stato, le sue istituzioni e i partiti tutti indistintamente nominati come “sistema” da abbattere; si ritrova la pericolosissima deformazione del concetto di “sovranità” che è solo il soprannome di “nazionalismo”; si ritrova un odio inspiegabile – o meglio spiegabile con l’ignoranza della storia più elementare – per i “comunisti”, proprio quelli che – lo sapranno? – erano seduti assieme a molti altri nell’Assemblea Costituente che ci ha dato una Carta ricca di diritti e intrinsecamente antifascista. No signori, catalogare i tanti Gianni Scarpa che nell’Italia del terzo millennio funghiscono sempre più numerosi come semplici nostalgici, ché tanto il fascismo è roba vecchia di 70 anni, è la maniera migliore per buttare il bambino assieme all’acqua sporca, e cioè di liberarsi dell’antifascismo dicendo che il Ventennio è remoto, trapassato, caduto nel lontano 25 aprile 1945. Chi sostiene questo è, nella maggioranza dei casi, in malafede: da un lato, per esempio, taccia l’ANPI di essere anacronistico cimelio museale e cimitero di elefanti, ma dall’altro affigge striscioni che incitano alla violenza contro i migranti, ringrazia Hitler di aver fatto vincere la propria squadra di calcio, occupa sedi municipali durante i consigli comunali, usa la violenza per i più futili motivi. Fascismo e antifascismo non sono solo un capitolo del libro di storia, sono abiti mentali, modi di concepire l’uomo e la società, non hanno scadenza. E se qualcuno insinua che proprio in nome della libertà, vessillo dell’antifascismo, si dovrebbero lasciar dire e fare anche i neofascisti, i violenti xenofobi e omofobi, gli si deve rispondere che libertà e tolleranza hanno un limite per chi di esse farebbe strame in nome di regimi davvero liberticidi e dittatoriali.
Sono tempi, questi, in cui l’antifascismo viene messo in discussione e tuttavia esiste e va alimentato e rafforzato proprio a fronte degli oltraggi di cui è bersaglio; guai a credere a chi racconta che non ha più senso di esistere perché retaggio di un passato ormai inattivo. Rileggiamo invece Sergio Luzzato che nel suo libro La crisi dell’antifascismo ammonisce: «Fascismo e antifascismo si allontanano nel tempo. Le nuove generazioni sono sempre meno coinvolte da quello scontro di valori. Ma il futuro nasce dalla storia e non dalla cancellazione del passato. Un Paese maturo può, forse deve, fare i conti Y con una memoria divisa». Irene Barichello
E Hitler ordinò la guerra ai civili
L’ATLANTE DELLA FEROCIA E DEL DOLORE
«Zone di guerra, geografie di sangue» è una mappa completa delle atrocità compiute in Italia tra il 1943 e il 1945, a cura di Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino (il Mulino)
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da il Corriere della sera del 9 agosto 2017
corrado Stajano
opo anni di impegno e di lavoro è andata finalmente in porto un’opera, l’atlante delle stragi naziste e fasciste in italia durante gli ultimi due anni della seconda guerra mondiale, voluta dal governo della Repubblica federale di Germania, dall’ANPI, l’Associazione partigiani presieduta da Carlo Smuraglia, e dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, diretto da Claudio Silingardi. L’Atlante, pubblicato ora in questo libro edito dal Mulino con il titolo zone di guerra, geografie di sangue, a cura di Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino, è di grande rilievo scientifico, storico e politico. Anche semplicemente umano perché i due Paesi, dove operarono i carnefici di quegli orrori, hanno lavorato insieme nel nome di una memoria che non può essere condivisa, ma non deve essere dimenticata. Numerosi storici di nome e d’esperienza, alla guida di centotrenta ricercatori, hanno dato corpo e sostanza a quel che allora accadde, documentando con rigore i fatti di più di settant’anni fa. Fatti il più delle volte sconosciuti perché, se sono note le grandi stragi, Marzabotto/Monte Sole, le Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, poco o nulla si sa dei 5.607 episodi di sangue che causarono 23.669 vittime. Questi aridi numeri sono confluiti ora, non solo nel libro ma in una banca dati (www.straginazifasciste.it): l’Atlante rappresenta «un esempio unico in Europa (...) una sorta di dizionario storico delle stragi on line, che si rivolge al pubblico specialistico e al cittadino comune. Tutti gli episodi individuati sono stati geo-referenziati; tutte le schede dei ricercatori sono consultabili e scaricabili liberamente in formato pdf; sono possibili interrogazioni di carattere sia generale sia particolare anche complesse». L’Atlante è un censimento delle stragi dei civili e dei partigiani disarmati commesse in Italia dal 1943 al 1945 dall’esercito tedesco e dai reparti della Repubblica sociale, la Gnr, la X Mas e, dopo il giugno 1944, le Brigate nere. Gli italiani non furono da meno dei nazisti nella loro guerra feroce, nei rastrellamenti in montagna, nei paesi, nelle città. Scrive in queste pagine Carlo Gentile (autore nel 2015 di un fondamentale libro, i crimini
di guerra tedeschi in italia, pubblicato da Einaudi): «Bisogna riconoscere che in nessun altro Paese occidentale si verificarono violenze paragonabili a quelle commesse in Italia dalle truppe di occupazione». La «guerra ai civili» della Wehrmacht, delle SS e della polizia fu una guerra criminale. Circa un milione di uomini combatterono in quegli anni in Italia in uniforme tedesca. Nell’Atlante si trovano le notizie dello sterminio di intere comunità, le fucilazioni disonorevoli di uomini che si erano arresi, i massacri, gli incendi dei villaggi, le uccisioni di ostaggi, le sevizie, le torture, il martirio di bambini e di adolescenti, i saccheggi, le razzie, gli stupri. Le stragi di innocenti furono considerate la norma. Il tradimento — per i tedeschi è considerato da sempre (ancor più se di ex alleati) il comportamento più grave e inaccettabile di un popolo — fu la giustificazione. Ma la crudeltà, la sua teatralità supera ogni immaginazione: le impiccagioni davanti ai familiari, le casse da morto fatte sfilare per le vie, i corpi inchiodati a delle assi di legno e lasciati scorrere nei torrenti sono alcuni dei tanti esempi. L’Atlante delle stragi è ricco di informazioni di prima mano. Si comprende, ad esempio, smentendo quel che propagandano i residui fascistoidi nostrani, come sia stato importante e temuto il movimento partigiano dai vertici militari nazisti che misero in piedi speciali stati maggiori operativi e comandi regionali per la lotta alle bande: «la psicosi del partigiano», si disse. All’interno del mondo nazista ci furono differenze e conflitti di comportamento, tra i diplomatici, più morbidi come Rudolf Rahn, e i militari, oltranzisti, fanatici, come il feldmaresciallo Albert Kesselring. Interessante, poi, la discussione sulla violenza dell’esercito tedesco non solo del Novecento, ma che apparterrebbe da sempre a una cultura militare tradizionale già presente nei manuali guglielmini. Il nazismo aggravò questa tendenza alla ferocia in guerra. Non è un caso che le divisioni che più delle altre si macchiarono di orrendi delitti fossero formate da giovani ideologizzati, usciti dalle organizzazioni hitleriane, come la 16ª Panzergrenadier-Division «Reichsführer SS» e la Fallschirm Panzer-Division «Hermann Göring». «Il cammino che ha riportato insieme Germania e Italia alla fine della guerra è stato lungo e difficile. All’inizio furono De Gasperi e Adenauer ad adoperarsi in prima linea a favore di un’Europa pacifica e unita», scrive nella premessa all’Atlante Susanne WasumRainer, ambasciatrice della Repubblica federale di Germania. Anche questo atlante è una tappa imporY tante di quel lungo cammino.
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La stella rossa e la “Garibaldi Natisone”
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le storie - la Storia
La memoria riuNisce Le associazioNi dei combatteNti aNtiFascisti sLoVeNi e itaLiaNi
La divisione partigiana d’assalto italiana che operava in slovenia. il monumento ai caduti a bukovo. La commemorazione del 4 giugno
D di
da patriaindipendente.it 6 luglio 2017
lUciano marcolini Provenza
a qualche anno è scomparso il compagno Gino Lizzero “Ettore”, Capo di Stato Maggiore della Divisione d’Assalto “Garibaldi Natisone”. Tra le mani ho un suo appunto: «Gennaio 1945. La Brigata Picelli, una delle tre Brigate della Divisione Natisone, è formata dai tre Battaglioni Manin, Verrucchi e Pisacane; dopo il tentativo di passare il fiume
Bacia che le costò una quarantina di perdite umane e di molte armi e materiali vari, era valorosamente riuscita, per- correndo un percorso molto più lungo e insidioso, a raggiungere stremata la zona operativa del IX Korpus (grande unità dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, ndr), nei dintorni di Circhina, sistemando i suoi tre battaglioni sull’altipiano di S. Vito, in cui esistono i piccoli abitati di Bukovo, Pecine e Panique. Il nome di Bukovo, in particolare, risuona tragicamente per i garibaldini che vi conobbero gra-
In alto, il monumento a Bukovo che ricorda i garibaldini uccisi dai nazifascisti Qui sopra, la cerimonia del che ha riunito, il 4 giugno scorso, antifascisti sloveni e italiani rappresentati dalla ZZB-NOB e dall’ANPI
vissime vicissitudini ed esperienze. 16 gennaio 1945. Una pattuglia del Manin in perlustrazione cade in un’imboscata tesa dal nemico che ha goduto dell’appoggio della popolazione civile e subisce la perdita di 6 garibaldini, 5 uccisi in combattimento e uno catturato e fucilato. 21 gennaio 1945. Sempre a Bukovo, nel centro dell’abitato, una pattuglia del Battaglione Mameli della Gramsci cade in un’imboscata tesa dai bersaglieri fascisti, con l’appoggio della popolazione si spara dalle finestre delle case. 17 garibaldini cadono subito, altri 7 dati per dispersi sono certamente morti. In totale 24 caduti. In tutta la zona dell’altipiano di S. Vito (Jessenice, Bukovo, Paniqua, Zakoica e Pecine*) i combattimenti sono continui e numerose le perdite dei garibaldini e del nemico». La “Garibaldi-Natisone” presente in zona, proveniente dalle zone del Friuli orientale da una ventina di giorni, aveva già perso diversi compagni nell’imboscata sulla passerella del fiume Bača nella notte del 1° gennaio del 1945, pochi giorni dopo le imboscate di Bukovo: nell’arco di soli 20 giorni sono circa 70 i Caduti! Bukovo è una frazione del Comune di Cerkno distante una quarantina di chilometri da Kobarid/Caporetto, italianizzato nel 1923 con regio decreto a firma Mussolini, in Pieve Buccova. In realtà il toponimo deriva dalla parola slovena Bukov = faggio e sta evidentemente a indicare una caratteristica del territorio boscoso. La strada per raggiungere Bukovo s’inerpica infatti lungo pendici ricche di faggi, querce e pini: l’intera scoscesa valle prende il nome di Bukovska Grapa. Porta testimonianza, questo insensato nome italiano, della violenta repressione, oltre che economica e sociale, anche linguistica subita in epoca fascista (e non solo!) dal popolo sloveno.(1)
Il monumento che ricorda il sacrificio di questi partigiani, è stato eretto nel 1982 dalla Z.B. NOV di Bukovo e dall’ANPI Rizzi di Udine. Si trova in una posizione panoramica, consiste in sei stele di pietra, opera dell’architetto Nande Rupnik di Idria e dello scultore udinese Reno Coiz (partigiano della “Garibaldi-Natisone” ora novantunenne); su cinque di queste in rilievo e continua a pagina 20 ➔
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le storie - la Storia
Cos’è la ZZB NOB Slovenije
L’Associazione dei combattenti per i valori della Lotta nazionale di Liberazione della Slovenia (con l’abbreviazione zzB noB Slovenije) si sforza di collegare in modo permanente i cittadini sloveni con i valori vincenti nelle prove storiche, soprattutto nella seconda guerra mondiale. È una delle più numerose organizzazioni della società civile in Slovenia; dal 1993 è membro pieno dell’organizzazione internazionale della Federazione mondiale dei Veterani. Ha lo status di un’organizzazione che lavora nell’interesse pubblico nell’area dei veterani di guerra, vittime della violenza di guerra (esuli, internati, bambini rubati, prigionieri politici, prigionieri) e tombe di guerra. È organizzata in tutto il paese e la sua struttura organizzativa è adattata a “coprire” tutte le unità di organizzazione territoriale delle persone. Y
➔ segue da pagina 19
e di Cividale del Friuli e anche lo scultore-partigiano Reno Coiz. A onorare i caduti un picchetto dell’Esercito sloveno. Nel suo discorso il compagno Milan Gorjanc, membro della Presidenza nazionale della ZBBNOB, ha ricordato il grande contributo dato dagli italiani alla Lotta di Liberazione del popolo
sovrapposte l’una all’altra, si riconoscono tre grandi stelle e sulla sesta la scritta in italiano e sloveno: «24 garibaldini caduti nel gennaio 1945». Grazie all’interessamento dei compagni Jože Jeram (Presidente della ZZB-NOB di Cerkno/Circhina) e di Vojko Hobič (Presidente della ZZB-NOB di Kobarid/ Caporetto) vi è stato il ritrovo, il 4 giugno 2017, della commemorazione dei Caduti della “Garibaldi-Natisone”. La domanda spontanea che sorge a un lettore che non conosce la storia delle nostre zone è: cosa ci facevano dei partigiani italiani in queste valli della Slovenia? A complicare le domande e a disorientare ulteriormente un visitatore poco informato, a poche centinaia di metri un monumento, sormontato da una stella rossa, ricorda i primi quattro caduti partigiani sloveni della zona trucidati dall’Italia monarchica e fascista alla vigilia di Natale del 1942!(2) Per risolvere l’arcano è necessario armarsi di buona volontà e leggere e informarsi sulle complesse vicende che hanno caIl partigiano della Garibaldi-Natisone, ratterizzato il confine orientale italiaReno Coiz, scultore e autore del monumento. no, non lasciandosi fuorviare dalla vulSopra, il monumento ai partigiani sloveni gata attuale che vede terrore comunista dove invece fu solo terrore fascista!
Alla cerimonia, di respiro internazionale, sono intervenute le rappresentanze partigiane della Carinzia (Marija Koletnik), i Presidenti delle Associazioni partigiane slovene della zona, il sindaco di Cerkno, l’ex console della Jugoslavia a Trieste Stefan Cigoj, il rappresentante dell’Ambasciata della Federazione russa in Slovenia Anatoly Kopilov (nel 1945 in zona operava una missione sovietica in contatto con il Comando del IX Korpus sloveno e con il Comando della “Garibaldi-Natisone”), le rappresentanze dell’ANPI regionale del FVG, di Udine
La signora Stefanija Raspet, testimone dei fatti
jugoslavo, in Montenegro come in Serbia, in Croazia come in Slovenia. Segno che i nostri partigiani seppero riscattare le vergognose guerre di aggressione fasciste e la durissima repressione contro le popolazioni locali. Anche il Presidente del Comitato regionale del Friuli Venezia Giulia, Dino Spanghero, ha incentrato il suo intervento sulla collaborazione tra i nostri popoli, rimarcando che il più nobile degli insegnamenti è senz’altro quello di aver dimostrato che vivere insieme si può, che a lottare insieme si vince, che a ragionare insieme si progredisce. Ora è più che mai necessaria – sostiene Spanghero – una rete di scambio di esperienze, l’unione in un comune fronte antifascista, atto a combattere i rinascenti rigurgiti di xenofobia, razzismo e populismo che attraversano l’Europa. L’attrice slovena Milena Zupančič ha recitato poi la testimonianza della signora Stefanija Raspet, all’epoca dei fatti ragazzina quindicenne, che lucidamente ricorda ancora quegli avvenimenti. Da tale testimonianza risulta chiaramente che la popolazione di Bukovo non appoggiò l’azione nazi-fascista ma fu invece segregata nelle proprie abitazioni e costretta al silenzio mentre i nazisti e i fascisti italiani ordivano l’imboscata contro i partigiani. Il coro di Bukovo e il Coro della Resistenza di Udine hanno intonato assieme l’inno partigiano “Na Juriš” e singolarmente altre canzoni della Resistenza italiana e slovena. I ragazzi della scuola hanno recitato delle poesie accompagnate dal suono della fisarmonica. La commemorazione, alla quale hanno partecipato oltre 200 persone, è finita in un incontro conviviale nei pressi della locale stazione dei Vigili del Fuoco con la promessa e la speranza di ritrovarci il prossimo anno. Nel corso della mattinata circa 40 soci dell’ANPI, grazie alla grande disponibilità della Direzione del Museo di Idria, sono state ospiti dell’Ospedale Partigiano “Franja” dove è stato ricordato il partigiano cividalese Rino Blasig “Franco” Medaglia d’Argento al Valor Militare e gli altri caduti a “Franja” e il medico Partigiano Antonio Ciccarelli “Dr. Anton” che prestò la propria assistenza medica fino alla fine della seconda guerra mondiale in Slovenia prima con i partigiani sloveni e poi con la Divisione d’AsY salto “Garibaldi-Natisone”. Luciano Marcolini Provenza ANPI Cividale del Friuli 1) l’esatta denominazione dei luoghi tutti rientranti nel comune di Cerkno è: Jesenica, bukovo, Ponikve, Zakojca e Pečine; 2) i loro nomi sono: Jeram bogdan, Čelik Peter, erzen Valentin e Pajntar gabrijel.
Dov’è la giustizia? il fiore del partigiano
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le idee
MIGRANTI - saLVare Vite iN pericoLo È uN doVere superiore a QuaLsiasi Legge
I di
da il manifesto del 5 agosto 2017
aleSSandro dal laGo
l nome della Ong nel mirino della procura di Trapani, Jugend Rettet, cioè «la gioventù salva», chiarisce perfettamente il significato dell’azione dei giovani tedeschi nel Mediterraneo. Solo gente che non ha alcuna responsabilità negli orrori commessi dalla Germania nazista, ma ne porta sulle spalle la terribile memoria, può salvare gli innocenti dalla morte. Ed ecco perché questi ragazzi non vogliono firmare alcun codice che ne limiterebbe l’azione: perché sanno quanto gli stati siano letali e colpevoli di fronte ai trentamila morti del Mediterraneo. Questo è il punto, come notava Luigi Manconi sul manifesto di ieri: la pretesa di criminalizzare chi ritiene che ci sia una giustizia superiore alle esigenze, vere o presunte, degli Stati. E anche alla giustizia terrena.
Quando la Svizzera chiuse le frontiere agli ebrei in fuga dal nazismo, ci fu un capitano di polizia, Paul Grüninger, che violò le rigide norme della Confederazione falsificando i visti dei rifugiati ebrei e perciò meritò il titolo e l’onore di «giusto». Fu cacciato dal servizio, senza pensione, e morì in povertà. I giovani tedeschi, da pare loro, ci ricordano che esiste una giustizia più alta di quella delle procure e delle norme emanate da legislatori ciechi ed esecutori ot-
tusi. Un credente ne troverà le radici in Dio, un laico nella ragione o nel semplice, intuitivo ma cogente senso dell’umanità.
E poi, che infrazioni della legge avrebbero commesso? «Comunicare» con gli «scafisti», quando tutti sanno che in mare aperto si incrociano innumerevoli messaggi? E come non sapere o non capire che spesso i cosiddetti «scafisti» spesso sono poveracci che magari si procurano un passaggio? Quelli che ci guadagnano davvero stanno a terra, magari nella stessa guardia costiera libica, per quanto ne sappiamo, o in qualsiasi banda che scorrazza in Libia. Questi non li ferma mai nessuno, tantomeno il Minniti l’Africano. L’ossessivo e ripetitivo slogan «guerra ai trafficanti» serve solo a coprire il vero scopo di tutto questo: impedire che le navi delle Ong salvino i migranti. Qualche genio strategico di Frontex – che non ha mai salvato nessuno e tiene le sue navicelle al sicuro nei porti – pensava che se ne annegano un po’ di più, ne arrivano di meno e quindi il conto va in pari. E magari si sente la coscienza a posto. E quindi non stupisce che, come ha scritto la tageszeitung, «Chi salva i migranti viene fatto fuori».
Il Mediterraneo tra Sicilia e Libia non è un far west, come ha scritto Travaglio, che ora esige legalità, cioè ordine e disciplina, anche in questo nuovo campo.
È un tratto di mare strapieno di navi militari e sorvegliato perennemente dai droni, senza che nessuno si preoccupi di trarre in salvo i potenziali naufraghi, tranne le Ong. D’altronde, anche il poliziotto infiltrato sulla nave di Save the Children, ha salvato il suo bambino, il brav’uomo. Ma come l’avrebbe salvato, se non fosse stato sulla nave dei volontari? Detto questo, altrove infiltrano gli agenti segreti o i poliziotti tra i narcotrafficanti, noi tra i volontari che salvano i migranti. Questa è una brutta storia per la Giustizia e per gli organi di informazione che pubblicano video insignificanti, cercando di farci credere che rivelino chissà quali segreti. Naturalmente non poteva mancare la soddisfazione di Di Maio né il punto di vista di Renzi che esige un «pugno di ferro». Spezzeremo le reni alle Ong? Tra l’altro, c’è da giurare che tra qualche tempo, finita la cagnara, andrà come nel caso della Cap Anamour accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel 2004 e assolta completamente nel 2009. Per fortuna, ci sono ancora giudici in Italia. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini! grida Gesù alla folla, nel Vangelo di Matteo. Certo, l’Europa non è il regno dei cieli, ma, chissà perché, da giorni queste parole mi rimbombano ossessivamente nella testa. Y
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Cattive parole che aprono la strada al cattivo diritto il fiore del partigiano
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le storie - le idee
suL tema dei migraNti comiNciaroNo bossi e FiNi. e iL «cLaNdestiNo» Fu
«I
di
da il manifesto del 4 agosto 2017
andrea maeStri *
mmigrati clandestini» e «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina»: in quattro minuti di conferenza stampa, il Procuratore della Repubblica di Trapani parla dei migranti trasbordati dai barconi sulle navi delle Ong in mare aperto senza mai usare la parola «persone», «esseri umani», «donne e bambini in fuga», «profughi», «richiedenti asilo». Nel linguaggio burocratico sono tutti «soggetti» o «immigrati clandestini» e questo linguaggio disumanizzante e dissacrante (perché ogni essere umano è sakros, cioè unico e inviolabile) apre la strada alla deformazione della pubblica opinione, che di fronte agli «uomini di legge» che additano i «soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina» correrà a chiudere porte, coscienze, cuori e senso critico. Il cattivo uso del linguaggio, troppo sottovalutato, è una parte importante del problema. E per «cattivo» intendo esattamente ed etimologicamente «prigioniero» del proprio pregiudizio, che replicato dai media e rimbalzato di bocca in bocca diventa stereotipato «linguaggio comune». Ma in questo caso il cattivo uso del linguaggio disegna anche la scenografia del cattivo uso del diritto.
migranti. Filo spinato alle frontiere e respingimenti. Questa l’accoglienza europea
Se è vero (ed è vero) che il salvataggio di vite umane in mare è un preciso dovere giuridico, se è vero che la stessa fattispecie di reato (articolo 12 Testo Unico Immigrazione) esclude la rilevanza penale di chi abbia agito per salvare qualcuno dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (è lo stato di necessità di cui all’articolo 54 del Codice penale), allora dove sta il reato e, soprattutto, chi è il criminale? Colui che trasbordando un gommone carico all’inverosimile di esseri umani evita che si ribalti facendo affogare in mare le persone trasportate? O colui che aspetta che il gommone si spinga oltre, in mare aperto, si ribalti, con-
Il principio di non-refoulement
La convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, all’art.33, sancisce il principio di non-refoulement prevedendo che: «nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». il divieto di respingimento è applicabile a
ogni forma di trasferimento forzato, compresi deportazione, espulsione, estradizione, trasferimento informale e non ammissione alla frontiera. È possibile derogare a tale principio solo nel caso in cui, sulla base di seri motivi, un rifugiato venga considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede o una minaccia per la collettività. tale principio costituisce parte integrante del diritto internazionale dei diritti umani ed è un principio di diritto internazionale consuetudinario. Y
segni al mare le vite dei trasportati e solo allora, codice Minniti alla mano, intervenga? E non è forse doveroso dubitare della legittimità di una missione militare dell’Italia che supporta i libici nel respingimento dei migranti, restituendoli ai campi di concentramento dove si perpetrano violenze, torture e stupri e rimettendoli nelle mani dei trafficanti di esseri umani? Contro il principio di non refoulement (non respingimento, vedi riquadro in basso, ndr) della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati (che del resto la Libia non ha ratificato, ma l’Italia invece sì) e contro l’articolo 10 della nostra Costituzione che garantisce il diritto di asilo? Lo dico con pacatezza e rispetto ma lo dico, perché è un mio preciso dovere etico, giuridico e politico dirlo: l’uso della forza del diritto contro i diritti fondamentali delle persone e l’esercizio dell’azione penale senza conoscenza approfondita e meditata del complesso sistema dei diritti umani e dei processi migratori contro gli operatori, singoli o organizzati, di solidarietà fa il paio con la cattiva politica dei decreti Minniti-Orlando che introducono il diritto diseguale, il diritto su base etnica, l’apartheid giudiziaria. E iniziano a disegnare i contorni di uno stato Y autoritario. * Avvocato immigrazionista e deputato di Sinistra italiana-Possibile
il fiore del partigiano
Firmiamo l’appello «Io preferirei di no»
È
da rifondazione.it pubblicato il 13 ago 2017
in corso un nuovo sterminio di massa. Donne, bambini, uomini, intere famiglie costrette a fuggire dalla guerra e dalla fame. Costretti a farlo indebitandosi, subendo violenze e torture nelle carceri libiche, rischiando di annegare, di morire di sete e di ustioni da carburante su barconi fatiscenti. Costretti a questo calvario dai governi dell’Europa che ha prima saccheggiato le risorse dell’Africa e armato i conflitti che la dilaniano e poi ha chiuso le porte ai profughi di quelle guerre, obbligandoli alla fuga per l’unica via accessibile, la più pericolosa: il Mediterraneo, dove muoiono il 75 per cento dei migranti che in tutto il mondo, a migliaia, perdono la vita durante la loro fuga. Il nostro Governo non è indifferente a questa carneficina ma complice: invia navi mi-
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a
molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da Y tutti come un sinistro segnale di pericolo. Primo Levi da se questo è un uomo
litari per impedire ai migranti di lasciare le coste dell’Africa; si accorda con i dittatori dei paesi che perseguitano i profughi per bloccare ai confini chi tenta la fuga; perseguita le Ong che – senza alcun fine di lucro
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– salvano i migranti in mare; impone loro condizioni che rendono impossibile o vano l’intervento, come il divieto di trasbordare continua a pagina 25 ➔
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le storie - le idee
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Perché MSF non ha fi il fiore del partigiano
IL CODICE DI CONDOTTA DI MINNITI NON TIENE CONTO DELLA REALTÀ DRAMMATICA IN
P
da medicisenzafrontiere.it del 31 luglio 2017
erché MSF non ha firmato il Codice di Condotta ONG per le operazioni di ricerca e soccorso? Nel corso di queste ultime settimane MSF ha avuto una serie di scambi e discussioni aperte e costruttive con il Ministero dell’Interno sul Codice di Condotta. Durante questi incontri abbiamo espresso una serie di preoccupazioni sul documento, richiedendo chiarimenti su temi specifici e sollecitando sostanziali cambiamenti che ci avrebbero messo nelle condizioni di poterlo firmare. Riconosciamo che sono stati fatti sforzi significativi per rispondere ad alcune delle osservazioni presentate da Medici Senza Frontiere e dalle altre organizzazioni, tuttavia dopo un’attenta valutazione della versione conclusiva del codice, permangono una serie di preoccupazioni e richieste lasciate inevase. Al contrario, riteniamo che per la formulazione ancora poco chiara di alcune parti, il Codice rischi nella sua attuazione pratica di contribuire a ridurre l’efficienza e la capacità di quel sistema. Le linee di riferimento e l’impianto generale del Codice sono rimasti sostanzialmente immutati e, per questa ragione, con enorme dispiacere riteniamo che allo stato attuale non sussistano le condizioni perché MSF possa sottoscrivere il Codice di Condotta proposto dalle autorità italiane.
Quali sono le principali preoccupazioni di MSF riguardo al codice? Prima di entrare nel merito delle motivazioni che sono alla base di questa decisione è importante sottolineare che le operazioni di ricerca e soccorso di MSF sono sempre state condotte nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali e sotto il coordinamento della guardia costiera italiana (MRCC di Roma). 1) Non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio di vite in mare La responsabilità di organizzare e condurre le operazioni di ricerca e soccorso in mare risiede – come è sempre stato – negli Stati. L’impegno di MSF nelle attività di ricerca e soccorso mira a colmare un vuoto di responsabilità lasciato dai governi che auspichiamo sia solo temporaneo. Non a caso da tempo chiediamo agli stati dell’Unione Europea di creare un meccanismo dedicato e preventivo di ricerca e soccorso che integri gli sforzi compiuti dalle autorità italiane. Dal nostro punto di vista il codice di condotta non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio in mare, non riconosce il ruolo di supplenza svolto dalle organizzazioni umanitarie e soprattutto non si propone di introdurre misure specifiche orientate in primo luogo a rafforzare il sistema di ricerca e soccorso. 2) Le limitazioni al trasbordo su altre navi riducono l’efficienza e la capacità di salvare vite in mare La richiesta delle autorità italiane che le navi di soccorso concludano le loro operazioni provvedendo allo sbarco dei naufraghi nel
porto sicuro di destinazione, invece che attraverso il loro trasbordo su altre navi, riduce l’efficienza e la capacità di salvare vite in mare. In questo modo si crea un sistema di andata e ritorno di tutte le navi di soccorso verso i luoghi di sbarco, che avrà come conseguenza una minore presenza di quelle navi nella zona di ricerca e soccorso. Le stesse Linee guida per il Trattamento delle persone soccorse in mare raccomandano che le navi impegnate in operazioni SAR portino a termine il soccorso il più presto possibile, anche attraverso i trasferimenti ad altre navi se necessario. 3) principi umanitari a rischio Il codice inoltre non fa alcun riferimento ai principi umanitari e alla necessità di mantenere la più assoluta distinzione tra le attività di polizia e repressione delle organizzazioni criminali e l’azione umanitaria, che non può essere che autonoma e indipendente. Il rigoroso rispetto dei principi umanitari riconosciuti a livello internazionale è per noi un presupposto irrinunciabile. Essi rappresentano la sola garanzia di poter accedere alle popolazioni in stato di maggiore necessità ovunque nel mondo, assicurando allo stesso tempo ai nostri operatori un sufficiente livello di sicurezza. Ogni compromesso su questi principi è potenzialmente in grado di ridurre la percezione di MSF come organizzazione medico umanitaria effettivamente indipendente e imparziale. 4) L’inserimento del codice nel contesto attuale del mediterraneo
C’è il rischio di riaprire la stagione buia
LA MISSIONE GENTILONI - PREVEDIBILI GRAVISSIME VIOLAZIONI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE PER LE
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documento dell’ASGI 11 agosto 2017
ulle nuove iniziative del Governo italiano per contrastare l’arrivo dei rifugiati dalla Libia l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione lancia l’allarme: «C’è il rischio di gravissime violazioni del diritto internazionale che riportino la stagione buia dei respingimenti, per i quali l’Italia era stata già condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo». L’ASGI fa il punto sulle criticità derivanti dall’attuale linea politica nell’area del Mediterraneo intrapresa dal Governo italiano con il governo libico guidato da Al-Serraj, un’autorità di dubbia legittimità e priva di effettività sul territorio, nonostante abbia ottenuto legittimazione internazionale.
Appare, perciò, paradossale destinare ingenti risorse dello Stato italiano (e quindi dei cittadini) per il sostegno di formazioni libiche in un territorio che non controllano completamente e dove non è possibile operare alcuna reale distinzione tra i diversi agenti delle violenze, che vengono perpetrate tanto dalle diverse milizie armate che dalle sedicenti autorità governative. In Libia non sussiste alcun sistema giuridico in grado di garantire un’azione penale indipendente verso i presunti trafficanti di esseri umani e tutelare i fondamentali diritti umani. Anzi, secondo una lettera di esperti dell’ONU, il Dipartimento di Contrasto all’Immigrazione Illegale e la Guardia Costiera sono direttamente coinvolti in gravissime violazioni dei diritti umani. Il rinvio in Libia dei migranti, pertanto, viola le
convenzioni internazionali sul soccorso in mare, in quanto nessun porto libico può attualmente essere considerato “luogo sicuro” ai sensi della Convenzione per la ricerca e il soccorso in mare del 1979 (SAR), perché la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita risulta minacciata, mancando le condizioni minime di accesso ai diritti fondamentali necessari . Tale insicurezza e il livello di violenze riscontrato ha portato, inoltre, il Ministro della Giustizia italiano, considerata la gravità dei fatti, a scegliere di far celebrare in Italia i procedimenti a carico degli autori delle gravissime violenze perpetrate nei campi libici, testimoniate da innumerevoli rapporti autorevoli e indipendenti, che non possono essere sconosciuti al nostro esecutivo né al Ministro dell’Interno.
rmato
il fiore del partigiano
MARE E NON RICONOSCE IL RUOLO DEL SOCCORSO UMANITARIO
Le strategie messe in atto dalle autorità italiane ed europee per contenere migranti e rifugiati in Libia attraverso il supporto alla Guardia Costiera Libica sono, nelle circostanze attuali, estremamente preoccupanti. La situazione in Libia è drammatica. Le persone di cui ci prendiamo cura nei centri di detenzione intorno a Tripoli e quelle che soccorriamo in mare condividono le stesse vicende di violenza e trattamenti disumani. La Libia non è un posto sicuro dove riportare le persone in fuga. Una volta intercettate, saranno condotte in centri di detenzione dove, come le nostre équipe che lavorano in quei centri testimoniano ogni giorno, sono a rischio permanente di essere detenute in modo arbitrario e indefinito, trattenute in condizioni disumane e/o sottoposte a estorsioni o torture, comprese violenze sessuali. Ovviamente le attività di ricerca e soccorso non costituiscono la soluzione per affrontare i problemi causati dai viaggi sui barconi e le morti in mare, ma sono necessarie in assenza di qualunque altra alternativa sicura perché le persone possano trovare sicurezza. Contenere l’ultima e unica via di fuga dallo sfruttamento e dalla violenza non è dal nostro punto di vista accettabile. Il recente annuncio dell’operazione militare italiana nelle acque libiche proposta nel momento in cui il Codice di Condotta è stato introdotto costituisce un elemento di ulteriore preoccupazione che ci ha confermato la neces-
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sità di marcare l’assoluta indipendenza delle nostre attività di soccorso in mare dagli obiettivi militari e di sicurezza.
MSF continuerà le sue attività di ricerca e soccorso in mare? Sì, MSF continuerà a salvare vite in mare. Anche se MSF non è nelle condizioni di poter firmare il Codice di Condotta, l’organizzazione rispetta le leggi nazionali e internazionali, coopera sempre con le autorità italiane e conduce tutte le operazioni in pieno coordinamento con l’MRCC e in piena conformità alle norme vigenti. Allo stesso tempo comunichiamo la nostra intenzione di continuare a rispettare quelle disposizioni del Codice che non sono contrarie ai punti problematici per MSF, tra cui quelle relative alle capacità tecniche, alla trasparenza finanziaria, all’uso dei trasponder e dei segnali luminosi. Confermiamo inoltre l’impegno a coordinare ogni nostra iniziativa con l’MRCC e anche a garantire l’accesso a bordo di funzionari di polizia giudiziaria, secondo quanto sopra espresso, così come la collaborazione costruttiva con le autorità italiane, nel pieno rispetto degli obblighi di legge. Y
dei respingimenti
QUALI L’ITALIA ERA STATA GIÀ CONDANNATA DALLA CEDU In particolare, in un processo che si sta celebrando presso la Corte d’assise di Milano, e nel quale l’ASGI si è costituita parte civile, la stessa Pubblica accusa ha fatto emergere un quadro di inaudita violenza (violenze sessuali ripetute, omicidi di coloro che non ricevono dai familiari il denaro richiesto dai trafficanti, torture, addirittura esposizione dei corpi dei soggetti morti dopo le torture per ottenere effetto deterrente). L’ASGI ribadisce con forza che : – Agire a sostegno dell’attuale provvisorio Governo libico, sostenendo azioni che hanno come obiettivo, o comunque come effetto, quello di riportare in detto Paese i migranti che da esso stanno fuggendo costituirebbe una scelta inaudita da parte di un Paese avente un solido ordinamento democratico, nonché membro della UE.
Firmiamo l’appello «Io preferirei di no»
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– Partecipare attivamente, con propri mezzi e uomini, ad operazioni condotte dentro o fuori dalle acque libiche, finalizzate a respingere i migranti e a ricondurli in Libia, configurerebbe la responsabilità internazionale dell’Italia per violazione del divieto di refoulement (art. 33 Convenzione di Ginevra) e degli analoghi obblighi derivanti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. – Nessuna operazione di contrasto al traffico può quindi essere condotta dalle autorità libiche da sole o in collaborazione con quelle italiane o di qualunque altro Paese, senza che venga parallelamente garantita la sicurezza e i diritti delle persone coinvolte nel traffico, ovvero il loro trasporto in un luogo sicuro dove siano protetti dal rischio di tortura e dove, se lo richiedono, possano acceY dere alla protezione internazionale.
i profughi su imbarcazioni più grandi o l’obbligo della presenza sulle navi di ufficiali militari armati, inaccettabile per le associazioni umanitarie che operano in terre di conflitto solo grazie alla loro neutralità.
Il governo italiano si accanisce poi contro chi approda. Lo respinge in Libia e lo riconsegna agli aguzzini che lo hanno torturato, perché i segni di stupri e torture sono vecchi e non vengono refertati, rendendo spesso vana la richiesta di asilo e protezione. Ai richiedenti asilo viene comunque richiesto di svolgere lavori socialmente utili: di lavorare gratis, per noi. Alcuni sindaci minacciano di ritorsioni le famiglie che accolgono i migranti, vogliono che paghino più tasse. Altri si rifiutano di destinare all’accoglienza dei profughi strutture abbandonate. Altri intimano lo sgombero dei presìdi dove volontari distribuiscono gratuitamente pasti e vestiti e dispensano cure mediche. Il servizio pubblico diffonde la falsa informazione che l’Italia sia sotto assedio, che sia in corso un’invasione di profughi, che l’accoglienza non sia sostenibile, quando il nostro paese non figura nella lista di quelli che ospitano più rifugiati e non è nemmeno tra le destinazioni più ambite in Europa: ogni cento richiedenti asilo, solo 7 fanno domanda in Italia. Noi preferiremmo che non fosse così. Ci adoperiamo ogni giorno perché non sia così. Siamo qui a sfidare il Governo che criminalizza chi salva vite umane, a disobbedire ai sindaci che intimano di non accogliere i profughi, a denunciare la loro complicità con questo deliberato sterminio.
«Preferirei di no», risposero i professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Furono solo 12 su 1200. Stavolta sappiamo di essere di più, e desideriamo creare un luogo dove chi pensa che la fuga dalla guerra e dalla fame sia un diritto e l’accoglienza un dovere possa ritrovarsi, mobilitarsi, esprimere la propria solidarietà nei confronti di chi rischia la vita e di chi la salva. Non staremo in silenzio, non staremo a guardare. Y
Hanno già firmato molte personalità della sinistra, dell’informazione e del mondo del volontariato con le loro associazioni. Per firmare l’appello: http://www.progressi.org/iopreferireidino
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Una luce fioca balla n il fiore del partigiano
le storie - le idee
SULLA IUVENTA, L’IMBARCAZIONE DELLA ONG TEDESCA «JUGEND RETTET». IL DIARIO DI BORDO
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di
da il manifesto del 25 luglio 2017
GianlUca Solla
apete a cosa assomiglia un gommone rovesciato in mezzo al mare? Ricorda un capodoglio spiaggiato o una balena bianca, come lo era Moby Dick, l’ossessione del capitano Achab nel romanzo di Melville. Che si sia capovolto disperdendo il suo carico di umani o che sia stato abbandonato, mezzo affondato, dopo che i suoi passeggeri sono stati tratti in salvo su un’altra imbarcazione, la prima impressione che fa resta indimenticabile. Un tuffo al cuore vi avvisa che avete appena incontrato una traccia di vita alla deriva in mezzo al mare. Là dove l’acqua sembra non avere più confini. È la traccia di una vita che in un modo o nell’altro già non è più qui. Balla il relitto. Il mare lo fa sobbalzare. Scompare e ricompare davanti ai nostri occhi. Si confonde con il bianco delle onde. Così non siete mai certi di averlo visto davvero. Soprattutto non siete mai certi di cosa avete visto.
Quando sapete che su quel gommone anonimo, avvistato ore prima come un punto bianco sulla linea dell’orizzonte solo grazie alle lenti del binocolo, viaggiano uomini e donne in gruppi di cento, centocinquanta, qualcosa vi dice che non potete permettervi di perderlo di vista, con tutto il suo singolare carico di viaggiatori.
BENVENUTI nella zona SAR (Search & Rescue) attraversata ogni giorno, appena il tempo lo permetta, da migliaia di migranti in fuga da guerre, carestie, povertà, assenza di prospettive. Sono enormi gommoni bianchi o neri. Sono navi di un legnaccio vecchio e incerto, messe in acqua in qualche modo. Riempiono quotidianamente l’orizzonte. Sono imbarcazioni che stanno per collassare quando ne portiamo gli occupanti a bordo della Iuventa. Hanno i volti smarriti. Non portano scarpe, né sanno cosa li aspetta, le loro vite già segnate da catastrofi che a malapena si riescono a raccontare con le poche parole di una lingua in comune. Dopo qualche ora alcuni volti si sciolgono in un MI SONO IMBARCATO per due settimane sorriso, in un ringraziamento farfugliato, in sulla nave Iuventa della ONG tedesca Jugend una benedizione per averli tirati fuori dall’acrettet. Li ho conosciuti pochi mesi prima a Ve- qua e da più giù ancora. Sono stati in paziente nezia, nel cantiere dove la nave riceveva le cure attesa sulle sponde di un gommone, incastrati necessarie per il secondo l’uno sull’altro. Sono corpi anno di missioni. È un peche camminano a passi inschereccio degli anni ’60, certi, una volta saliti in nave. Una barca scura riadattato a questa situaSono piedi nudi, volti sfiniti. zione singolare: pescano uoSono corpi piegati, al tempo in fondo al mare mini e donne nel Medistesso attraversati dall’especanta una sirena terraneo, in quel tratto di rienza inaudita che vivono e tutta la notte canta mare che si estende tra la Siche li trasporta in un’altra e canta piano cilia e la Libia. Li ripescano dimensione. Li travolge, li per chi la vuol sentir dal mare, da barconi che trasfigura. Non è solo stansi sente appena fanno acqua da tutte le parti, chezza o la spossatezza del in fondo al mare se solo riescono a uscire viaggio. Il mare, la notte, canta una sirena dalla frontiera invisibile delle l’incertezza assoluta… per e in mezzo al mare va 12 miglia dalla costa. E natuchi ha visto la morte avviciuna barca scura ralmente se riescono a farsi narsi sull’acqua tutto diche ha perso il vento avvistare. venta parte di un’esperienza perso alla sua vela Diventa la mia ossessione: a dello Sconfinato: li lascia e chi la sta a aspettar dispetto di un persistente «senza parola e senza dila aspetta ancora astigmatismo ereditario e mora», come dice una belin mezzo al mare va del fatto che sono qui in lissima pagina di moby una barca scura primo luogo per scrivere di dick. e in fondo al mare questa esperienza, accade Che vite sono queste dei miin fondo al mar profondo che la posizione di osservagranti? Occorrerà dirlo: a ci lascio il canto mio tore mi si addica. Così siedo questo stadio del disimpeche non consola sin dalle primissime ore di gno europeo sono vite tecniper chi è partito luce in prua con i binocoli e camente morte. Non hanno e si è perduto al mondo ci resto spesso tutto il giorno, nessuna chance di sopravviin fondo al mare segnalando al ponte di covere, a meno che non abin fondo al mar mando eventuali imbarcabiano la buona stella di profondo Y zioni avvistate e tenendo la incontrare una delle navi posizione di quelli che anche come la Iuventa interGianmaria Testa cora aspettano soccorsi. vengono in questo tratto di dal disco, poi anche libro da questa parte del mare
“
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mare. Sono i soli interventi che, al momento, provino a toglierli da questo triangolo delle Bermuda nostrano nel quale sono precipitati.
RISPETTO A COLORO che sino a qualche anno fa sbarcavano a Lampedusa, le loro chance di sopravvivenza sono drasticamente ridotte. Le navi militari delle varie iniziative europee, da ultimo l’operazione Sophia, restano lontane dal luogo della catastrofe. Incontriamo spesso la Guardia costiera italiana che fa un ottimo lavoro, benché esposto alle fluttuazioni della miseria politica del paese. Le altre navi presenti sono di quelle ONG, da mesi sotto attacco con accuse infamanti, anche a opera di inchieste giudiziarie di dubbia qualità, non foss’altro per il fatto di essere annunciate alla nazione a reti unificate. Il risultato di questa incredibile escalation è quello di produrre un enorme vuoto: un vuoto di legittimità politica che riguarda innanzitutto il diritto dei migranti di dare una possibilità alle loro esistenze. Più oltre, l’immenso vuoto materiale tende a fare del Mediterraneo un luogo inospitale. Non una regione di passaggio e di comunicazione tra le sue diverse sponde, ma un muro invalicabile e una tomba di massa. Al di là dei suoi tecnicismi il dibattito sulle «regole d’ingaggio» delle ONG finisce per produrre questo effetto. Tutto questo può essere accettabile unicamente per un’Europa che dimentichi come la Shoah abbia avuto luogo particolarmente nel suo cuore. E come la Shoah sia una questione europea e non solo tedesca o ancor meno ebraica. Come è già successo durante la guerra nella exJugoslavia, l’Europa continua a disimpegnarsi in tutto quanto considera posto al di là dei suoi confini. Questa Europa sembra cancellare il fatto che gli apolidi sono la figura della politica che si è inaugurata proprio qui nel Novecento. È la politica dei senza: dei senza patria, dei senza diritti, dei senza nome. In barba alle leggi che la stessa cultura europea ha reso possibile ideare, pensano di poterli rispedire a casa, anche quando non c’è più una casa a cui fare ritorno.
INDUBBIAMENTE ogni immagine chiede il suo testimone. Eppure di tutte quelle che questo viaggio ci consegna, e sono tantissime, ce n’è una che resta per me indimenticabile. È quasi mezzanotte. La Iuventa naviga verso nord, incontro a una nave mercantile che il coordinamento di Roma ha dirottato verso di noi per prelevare i 151 profughi che nel pomeriggio abbiamo tratto a bordo da un gommone pieno d’acqua. A un certo punto della navigazione – sto distribuendo vestiti asciutti insieme alle due dottoresse e all’infermiera di bordo – avvistiamo un barcone. Spunta dal nulla. Lo vediamo unica-
el mare
il fiore del partigiano
DAL CUORE DEL MEDITERRANEO, NEL TRATTO DIFFICILE TRA LA SICILIA E LA LIBIA
mente perché i suoi occupanti fanno segni con la luce dei loro telefonini e di qualche piccola pila che hanno appresso. Sono luci fioche, grigiastre, nel buio profondissimo della notte del mare. Ma loro che ci hanno visti non smettono di farci segno. Devo pensare alla poesia di Hölderlin in cui gli dei passando rapidamente fanno cenno agli uomini. Quanti cenni restano certamente non visti in ognuna di queste notti. Molto più tardi colpirà l’equipaggio della Iuventa la constatazione improvvisa e fulminante di cosa sarebbe stato se la barca, giunta al colmo della notte, avesse incrociato, invece della Iuventa, una
di quelle immense petroliere che solcano questa parte di mondo e che dalla loro altezza difficilmente avvistano un’imbarcazione così insignificante. Questa barca con i suoi occupanti è stata qualcosa come una visione: un’apparizione dal nulla e preparata da nulla, al limite della notte, a un equipaggio stremato dalla più difficile delle giornate che ci siamo trovati a vivere. E ora apparivano queste donne e questi uomini, dal mezzo al nulla. Con i loro telefonini. Come una lingua segreta, un’estrema risorsa rimasta agli umani per parlare tra di loro in tempi bui. E per portare come saluto quella luce che oscilla nella notte. Senza parlarci e con i corpi estenuati, loro salutavano. Portavano un saluto a noi che li avremmo più tardi tratti dal mare. Y
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«Il Giornale» della cattiva coscienza
Io sulla Iuventa. Il quotidiano diretto da Sallusti mi fa il dono avvelenato di attribuirmi un «ruolo ambiguo» nella vicenda
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da il manifesto del 13 agosto 2017
ara redazione del manifesto, ieri Il Giornale diretto da alessandro sallusti ha pubblicato un articolo dal titolo «prove (e foto) dei legami tra i trafficanti e le ong. ‘state pronti, arriva gente’». L’articolo in questione mi qualifica come «giornalista de il manifesto» imbarcato sulla iuventa, la nave della ong tedesca Jugend rettet che è stata posta sotto sequestro dalle autorità italiane in seguito all’indagine avviata sulle ong che operano nel mediterraneo al fine di salvare vite umane. Non sono mai stato giornalista e tanto meno mi sono mai presentato come tale. mi sono imbarcato sulla iuventa per studiare in qualità di docente universitario la situazione nel mediterraneo, per conoscere e ascoltare le storie di coloro che attraversano il mare. sulla iuventa e sul progetto che ne ispira le attività ho scritto due articoli: uno sul progetto che ne ispira le attività, l’altro sulla mia esperienza a bordo. entrambi sono stati accolti da il manifesto, che ringrazio per la disponibilità. Non sono reportage giornalistici, sono piuttosto riflessioni sul tema. si trovano anche su Facebook. il giornale mi fa il dono avvelenato di attribuirmi un «ruolo ambiguo» nella vicenda. È un ruolo che naturalmente non ho mai avuto. L’unica ambiguità è nell’operazione scandalistica e nell’uso infamante che viene fatto di questa vicenda. La mia presenza a bordo della nave è legata esclusivamente a un’attività di ricerca sulle migrazioni e su coloro che operano in questo campo, che svolgo ormai da diversi anni. un campo che più d’uno in italia ha evidentemente deciso di eleggere a strumento di una battaglia pre-elettorale, anche in vista di una ridefinizione identitaria e angusta della politica stessa. sembra che funzioni, visto che a fronte di altri gravi problemi politici ed economici di cui pure non mancano prove, l’attenzione mediatica si concentra ora in maniera ossessiva sulle temibili ong. Nell’articolo del giornale viene citata anche una «chiacchierata» nella quale avrei detto (nel testo c’è un virgolettato) che gli sconfinamenti in acque territoriali libiche erano un prassi abituale per la iuventa. È un’affermazione che non riconosco affatto come mia, anche solo per il fatto di non avere né le competenze né l’autorità necessarie per affermazioni di questo tipo. addirittura avrei detto che «la loro ong si trovava in quelle zone da anni», mentre chiunque era a conoscenza che le missioni della iuventa sono iniziate solo lo scorso anno. sono stato tre settimane sulla iuventa per studiare, e mi trovo confrontato qui con un giorna-
lismo che senza uscire mai di casa, fa delle intercettazioni telefoniche messe a disposizione chissà perché da una procura della repubblica un uso a dir poco strumentale e fuorviante. meno male che astratti erano gli intellettuali. Questa esasperazione porta ai toni roboanti dell’articolo («incredibili dettagli della complicità» oppure «episodi inquietanti»). ciò che nelle carte di sequestro della iuventa è un rilievo che il dovere d’ufficio impone, diventa nella fantasia giornalistica indizio di chissà quale colpevolezza umanitaria. manca qui lo spazio per una decostruzione puntuale della ricostruzione che viene fatta del lavoro ong nel mediterraneo. posso però dire che l’articolo de Il Giornale mischia missioni e periodi differenti, e quindi inevitabilmente persone diverse di una ong fatta – lo ricordo – di soli volontari. Nella missione a cui ho partecipato le barche sono state sempre distrutte. un «dialogo tra trafficanti e la ong» rasenta la cattiva fantascienza: uno dei pericoli costanti in mare per i migranti è costituito dall’arrivo degli «avvoltoi dei motori» che recuperano al largo i motori quando i gommoni sono ancora pieni di migranti, una situazione estremamente pericolosa che ho avuto modo di documentare. ricordo ancora il giubilo degli uomini e delle donne della iuventa quando un giorno un elicottero militare della missione sophia ha finalmente messo i fuga questi soggetti. si chieda piuttosto Il Giornale perché quei ceffi sono lì, se non perché l’ue ha praticamente dismesso la sua presenza in alto mare. in ultimo due rilievi: per Il Giornale «si scopre che» avrei mediato da bordo con mrcc, la centrale di coordinamento di roma. tutto qui? ma se me l’avessero chiesto, glielo avrei detto io stesso: mi sono offerto io di parlare in italiano con un ufficiale italiano per comunicare il timore del capitano a trasportare sino a Lampedusa un gruppo di migranti, con diversi bambini piccoli, in condizioni di maltempo. inoltre dalle intercettazioni al sottoscritto che Il Giornale pubblica si evince che «per la Jugend rettet l’emergenza migranti è l’occasione di profilarsi dal punto di vista politico e per far emergere una presunta violenza come verità delle istituzioni». decontestualizzare le affermazioni è sempre una forma di violenza, in questo caso lo si fa fottendosene allegramente dell’argomentazione, scusate il francesismo. L’idea che intendevo esprimere è che la vera politica passa oggi – come ci insegnano grandi pensatori della contemporaneità – per la vita umana e per una politica dei corpi. senza di questa non sarà possibile né ora né mai una «buona vita» Y per ciascuno. Gianluca Solla
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La squadra più coraggiosa del mondo il fiore del partigiano
le storie - la Storia
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COSÌ PEP GUARDIOLA HA DEFINITO PRO ACTIVA OPEN ARMS, LA ONG SPAGNOLA DEI BA
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da il manifesto del 9 agosto 2017
LUCA TANCREDI BARONE
BARCELLONA avanti all’immagine del corpo di Aylan Kurdi, il piccolo siriano treenne trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, con la sua maglietta rossa e i suoi pantaloncini corti blu, il catalano Òscar Camps, un bagnino di Badalona proprietario di un’impresa di guardaspiaggia, non poté rimanere con le mani in mano. C’è una sola cosa che so fare, si disse. Salvare vite umane in mare, salvare quel bambino. Con i suoi 15mila euro di risparmi e qualche amico, prese e partì alla volta di Lesbo, l’isola dove in quel momento era maggiore l’emergenza umanitaria. Proactiva Open Arms nacque così, con il dolore negli occhi di un gruppo di bagnini che fino a quel momento avevano al massimo salvato un paio di bagnanti distratti di qualche tranquilla spiaggia spagnola.
Dopo un mese, nel mezzo dell’emergenza a Lesbos, i soldi erano finiti. E i bisogni erano cresciuti. Camps aveva bisogno di 30mila euro per portare imbarcazioni proprie per il salvataggio e altri 4 bagnini. Si rivolse alla stampa, gli aiuti cominciarono a fioccare da migliaia di spagnoli che avevano conosciuto l’associazione dagli articoli sui giornali e in televisione. A ottobre ci fu un incidente, 300 persone caddero nel mare in burrasca. Grazie a Proactiva Open Arms, si riuscirono a salvare quasi tutti. In quel momento, Pro Activa Open Arms era l’unica associazione nell’Egeo che aiutava i profughi nell’acqua e non a terra. Né Frontex né alcuna nave europea lo faceva. A marzo del 2016, quando ormai avevano 14 persone a Lesbo, 3 imbarcazioni, 4 moto acquatiche e equipaggiamento professionale, riuscirono a farsi ascoltare anche dal Parlamento Europeo. In quello stesso anno, l’imprenditore italiano Livio Lomonaco (che possiede un’azienda di materassi a Granada) regalò la sua barca privata di lusso, l’Astral, a Camps perché la
lesbo. Volontari di Pro Activa Open Arms al lavoro
usasse nelle operazioni di riscatto. L’ex del Barça, Xavi Hernández, ha venduto il suo yacht. L’ex allenatore del Barça, Pep Guardiola, è apparso in un video di raccolta fondi parlando della «squadra più coraggiosa del mondo». Dopo l’infame accordo con la Turchia, Proactiva è passata dalle coste greche a quelle tra Libia, Egitto e Italia. Secondo i dati, non aggiornati, sulla loro pagina web, nei primi 9 mesi del 2016 hanno raccolto più di 2 milioni di finanziamento da più di 16.500 persone. Una signora gli ha lasciato un’eredità di 118mila euro. Decine e decine di iniziative in tutta la Spagna raccolgono fondi per quest’associazione che si è trasformata in un simbolo per molti spagnoli. Secondo le dichiarazioni dei suoi portavoce,
ARRESTIAMO UMANI. LA VICE SINDACA DELLA CITTÀ LIGURE: «NOI LASCIATI SOLI, MA L’UNICA SOLUZIONE VERA
A Ventimiglia: «Se ci fermano in Libia troveremo un’a
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ventimiglia. Il viadotto sul fiume Roya, sul cui greto si accampano i migranti
da il manifesto del 30 luglio 2017
on sui green di un campo a diciotto buche, e men che meno con legni, ferri e pat. Bensì sotto il viadotto di Ventimiglia, costruito nel greto del fiume Roya. È la sacca da golf che contiene la vita di Abu, un ragazzo sudanese di venti anni giunto nell’ultimo lembo di Liguria dopo un’odissea durata nove mesi. Differentemente dagli altri che si ammassano sotto questo tetto di cemento armato, lui, Abu, non si vuole liberare del suo tesoro fatto di stracci e scarpe. I suoi amici, quasi tutti sudanesi, come unico bagaglio hanno un foglietto di un’avenue parigina, numero venti: poi un numero di telefono e il nome di un’associazione. Altro non serve, perché per fare un viaggio così, che parte dalle bombe del Darfur e termina dopo seimila chilometri, è necessario muoversi “leggeri”. Visto da sotto le alte campate di cemento, il posto di blocco che la gendarmeria ha fatto pochi chilometri a nord appare bizzarro: tre furgoncini blindati e due camionette. A mezzogiorno fa così caldo che nemmeno le vipere che vivono tra queste montagne osano stare al
sole: ci sono però i gendarmi, appena riparati da un tendone. Tu arrivi con l’auto, entri dentro una sorta di box da formula uno ricavato da un parcheggio, loro ti guardano sospettosi, e se hai la faccia di uno che a cui stanno simpatici i profughi del mondo ti fanno aprire il bagagliaio. Poi, appurato per l’ennesima volta che non sono quelli che hanno la faccia da amici dei migranti a portare i migranti in Francia, almeno non qui, dicono «aurevoir». L’aspetto curioso di questa ciclopica lotta contro i mulini a vento, senza offesa per Don Chisciotte e le sue nobili battaglie, è che l’immenso apparato di controllo transnazionale che tenta di bloccare questo esodo, semplicemente, non serve a nulla. A Ventimiglia è evidente come in nessun altro luogo. Secondo il parroco don Rito, che anima la parrocchia di Sant’Antonio che si trova di fronte al viadotto – accoglie le donne e i minorenni direttamente in chiesa – ogni settimana passano la frontiera almeno trecento ragazzi. Inutile fare i conti, meglio dare il totale: passano tutti. Molti vengono acciuffati al di là del confine e riportati in Italia: tutti ci riprovano fino a quando non riescono, con
il fiore del partigiano GNINI CHE SALVA I MIGRANTI
La politica del caos nel Mediterraneo
le idee
LA LIBIA, PAESE SENZA REGOLE, USATA CONTRO I MIGRANTI
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da il manifesto del 9 agosto 2017
BarBara SPinelli *
l Parlamento italiano ha autorizzato l’invio di navi da guerra nelle acque territoriali libiche con il compito di sostenere la guardia costiera di Tripoli nel contrasto ai trafficanti di uomini e nel rimpatrio di migranti e richiedenti asilo in fuga dalla Libia. La risoluzione, affiancata al tentativo di ridurre le attività di ricerca e soccorso di una serie di Ong, è discutibile e solleva almeno sei interrogativi:
nei primi 5 mesi del 2017 hanno raccolto 800mila euro e hanno salvato più di 2.000 persone nelle acque del Mediterraneo. Oggi Proactiva conta anche su altre imbarcazioni, come la Golfo Azzurro, lunga 38 metri, e l’Open Arms, donata da un’impresa e che l’associazione ha ristrutturato e adattato grazie a 100mila euro di una campagna di crowdfunding lanciata all’inizio di quest’anno. Questo rimorchiatore, che venne anche usato durante la tragedia della petroliera Prestige, potrà trasportare più di 400 persone. È proprio la Golfo Azzurro la nave che è stata bloccata tra Lampedusa e Malta in questi giorni per non aver ricevuto l’autorizzazione ad attraccare da nessuno dei due Y governi.
SAREBBERO CORRIDOI UMANITARI»
ltra via»
qualunque mezzo, a giungere in un punto della Francia dove non possono più essere rispediti indietro. Il record di tentativi lo detiene Moussa: otto. Anche lui, alla fine ce l’ha fatta. L’intero apparato di controllo e respingimento, per questi giovani uomini è ininfluente. Un ostacolo come tanti che fa parte del viaggio: «Noi – dice Ismael, studente universitario del Sudan, un ragazzo dai modi raffinati che vive su un cartone, ma non si priva della dignità di piegare i vestiti e riporli in un sacchetto – dobbiamo raggiungere la Francia: abbiamo attraversato il deserto, siamo stati frustati dai poliziotti libici, sui barconi ci hanno spianato le armi a una spanna dal volto se chiedevamo acqua: secondo te, ci può spaventare la polizia francese o italiana?». E se mettono le navi da guerra nelle acque libiche? Intorno a Ismael, si sono radunati sette ragazzi. La risposta è un coro: «non cambia nulla, partiremo da un’altra parte». E se vi sparano in mare? «Amico mio, noi scappiamo dalla guerra. Tu conosci la guerra?»
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1) Come può la Libia, la cui sovranità sarà, secondo il governo italiano, integralmente garantita, «controllare i punti di imbarco nel pieno rispetto dei diritti umani», quando non è firmataria della Convenzione di Ginevra, dunque non è imputabile se la viola? 2) Come può dirsi rispettata la sovranità in questione, quando di fatto quest’ultima non esiste? È infatti evidente che il governo di Fayez al-Sarraj non esercita alcun monopolio della violenza legittima – presupposto di ogni autentica sovranità – come si evince dalla condanna dell’operazione militare italiana ed europea da parte delle forze politiche e militari che fanno capo al generale Khalifa Haftar.
3) Come può esser garantito il pieno “controllo” dell’Unhcr e dell’Oim sugli hotspot da costruire in Libia, e rendere tale controllo compatibile con la sovranità territoriale libica affermata nella risoluzione parlamentare? E come possono Unhcr e Oim gestire “centri di protezione e assistenza” in un Paese in cui, stando a quanto dichiarato il 16 maggio dallo stesso direttore operativo di Frontex, Fabrice Leggeri, «è impossibile effettuare rimpatri», visto che «la situazione è tale da non permettere di considerare la Libia un Paese sicuro»?
4) Come proteggere i migranti e rifugiati dai naufragi, se lo scopo è quello di screditare e ridurre le attività di ricerca e soccorso in mare delle Ong in assenza di robuste operazioni europee di ricerca e soccorso, e senza che sia ancora stata definita una “zona Sar” (Search and Rescue) di competenza libica che abbia come fondamento la Convenzione di cui sopra, e in particolare gli articoli che vietano i respingimenti collettivi (principio di “non-refoulement”)?
5) Come garantire che migranti e profughi soccorsi in mare non verranno riportati a terra e chiusi in centri di detenzione dove, come affermato dalla vicedirettrice di Amnesty International per l’Europa Gauri Van
Gulik, «quasi certamente saranno esposti al rischio di subire torture, stupri e anche di essere uccisi»? Qualunque cooperazione con le autorità libiche che porti alla detenzione di migranti da parte della Libia, ha affermato il 2 agosto Judith Sunderland, direttrice di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia centrale: «Dovrebbe verificarsi soltanto in presenza di prove chiare che questo tipo di iniziative sia conforme agli standard sui diritti umani, a partire da un miglioramento dimostrabile nel trattamento dei migranti. Ciò richiede un monitoraggio indipendente e trasparente, ma non è stato stabilito alcun sistema di monitoraggio indipendente né per il programma di addestramento, né per i centri di detenzione libici». 6) Come intende il governo italiano rispettare la sentenza con cui, nel febbraio 2012, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che il trasferimento di rifugiati verso la Libia viola l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra secondo il quale «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»?
Su una cosa il governo italiano ha ragione: come nel caso dei rifugiati approdati in Grecia, l’Unione europea si è dimostrata incapace di solidarietà. L’impegno a ricollocare in altri Paesi membri un numero minimo di migranti e rifugiati che giungono in Italia o in Grecia è rispettato in minima parte, mentre aumentano i rimpatri in Italia dei rifugiati che a dispetto del sistema Dublino hanno raggiunto altri Paesi dell’Unione. Questo non giustifica tuttavia la violazione del principio di non respingimento, e tantomeno spiega l’offensiva contro le Ong: in particolare quelle che non hanno firmato il codice di condotta predisposto per loro dal governo italiano con l’appoggio dell’Unione europea. A tutt’oggi, sono del tutto ingiustificate le accuse di collusione con i trafficanti rivolte a organizzazioni come Jugend Rettet e Medici senza frontiere. In assenza di vie legali offerte a chi vuol chiedere asilo in Europa, è abusivo confondere l’attività dei “facilitatori” delle fughe con quella dei trafficanti di esseri umani. Ed è comunque pretestuoso attaccare le Ong in assenza di operazioni europee aggiuntive o alternative di ricerca e soccorso. Ancor più riprovevole è continuare a reclamare il rispetto dell’antiquata legge BossiFini, confondendo clandestini, migranti privi di documenti e richiedenti asilo. Y *Deputata europea gruppo Gue-Ngl
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il fiore del partigiano
Ventiquattro scarpe in cerca di asilo
le storie - la Storia
Settembre 2017
MIGRANTI - IN UN MONDO DOVE È PIÙ FACILE MUOVERE LE MERCI CHE LE PERSONE,
D DI
da il manifesto del 13 agosto 2017
CHIARA CRUCIATI
odici pacchi in cartone stanno facendo il giro del mondo: sono stati spediti da Vienna il 23 luglio, molti di loro hanno raggiunto già la propria destinazione, due sono tornati indietro. Dentro, dodici paia di scarpe usate, da donna, da uomo, da bambino. Scarpe che hanno percorso lunghi tragitti, affrontato il mare, il cemento, la sabbia, i fili spinati e le cariche di poliziotti europei. Sono le scarpe di dodici rifugiati siriani, raccolte dall’artista siriano Thaer Maarouf e spedite a nove leader del mondo e a tre indirizzi a caso tra Europa e Medio Oriente. Il pacco, oltre alle scarpe, ospita una lettera di Maarouf e un link al video che spiega il suo ultimo progetto, «Dirty Messages». A riceverlo sono stati, o saranno, il presidente degli Stati uniti Trump, il primo ministro britannico May, il presidente polacco Duda, il francese Macron, l’italiano Mattarella, il premier australiano Turnbull, il presidente spagnolo Rajoy, il russo Putin e l’egiziano al-Sisi. Le restanti tre paia di scarpe sono state inviate a destinatari random in Ungheria, Grecia e Libano con una richiesta specifica: rispedite il pacco a qualcun altro, fate girare quelle scarpe per il mondo, simbolo semplice ma potentissimo: il viaggio, ma anche la fuga, la distanza, l’ignoto. «Non mi attendevo alcuna reazione dai governi – spiega Thaer al manifesto – Ma la risposta di quello spagnolo è stata incorag-
giante: mi hanno inviato una lettera in cui danno i dettagli della loro assistenza ai rifugiati e dei piani futuri. Il governo britannico invece ha rispedito il pacco indietro, senza dare alcuna spiegazione. A carico del destinatario: ho pagato io per il loro rifiuto». Non solo Londra, pochi giorni dopo anche il governo egiziano ha fatto lo stesso: il presidente al-Sisi (noto per sfruttare al meglio la questione migratoria a fini di impunità interna) le scarpe dei rifugiati siriani non le vuole tra i piedi.
«LE SCARPE HANNO una relazione plastica con l’essere umano. È il contrario dell’idea di stabilità: le togli quando torni a casa, le indossi quando esci. È simbolo di movimento, cammino, viaggio. Per i musulmani, poi, ha un significato speciale: le tolgono all’ingresso delle moschee perché non sono pulite, portano con sé la sporcizia della strada. Ho scelto un simbolo concreto della sofferenza di cui fanno esperienza i rifugiati, arrivati da chissà dove a piedi, un simbolo reale della violazione delle leggi e dell’indifferenza per la geografia. Le scarpe si portano dietro l’impatto di tutto quello che hanno calpestato». Sono stati i rifugiati a donare le scarpe usate per il viaggio, iniziato in Siria, transitato in Turchia per poi portare alcuni di loro lungo la rotta balcanica, blindata. Restano chiusi, in attesa, come in attesa restano quelli nei campi profughi in Libano, Turchia e Giordania.
Scarpe inarrestabili. Migranti in marcia (reuterS)
cose da sapere «CI STANNO INVADENDO» Non è vero. Secondo i dati del ministero degli Interni, dall’inizio del 2015 sono sbarcate in Italia 121 mila persone. Gran parte delle persone non si ferma in Italia, ma continua il proprio viaggio verso il Nord Europa, dove trovano le loro comunità e un sistema di protezione e integrazione molto efficiente. Nel 2014, su 170mila arrivi, solo 66mila persone hanno presentato la richiesta di asilo in Italia. Il nostro Paese accoglie un rifugiato ogni mille persone, la Svezia più di 11. A livello mondiale, l’86% dei rifugiati trova protezione nei Paesi vicini a quello da cui fuggono: il Libano, ad esempio, ha accolto circa
A CurA di
emerGency
1,2 milioni di rifugiati siriani, quasi un quarto della popolazione del Paese, la Turchia più di un milione e mezzo. In Europa, invece, arriva meno del 10% dei richiedenti asilo (dati UNHCR).
«NON TUTTI SCAPPANO DALLA GUERRA» È vero. Molte delle persone che migrano scappano da fame, miseria, persecuzioni e violenze. Non sono motivi sufficienti per cercare di vivere con dignità e sicurezza in un altro Paese? Al 31 agosto del 2015 i principali Paesi di origine dei migranti arrivati via mare in Europa sono: Siria 51%, Afghanistan 14%, Eritrea 8%, Y Nigeria 4%, Iraq 3% (dati UNHCR).
La Siria non è mai stata paese d’origine di emigrazione, se non economica e in piccole quantità: vista l’alta educazione e la formazione d’eccellenza di molti siriani, chi è andato a lavorare all’estero lo ha fatto da professionista, ingegneri, medici, architetti ricercati in tutto il mondo arabo. Oggi i cinque milioni di rifugiati siriani (e i sette milioni di sfollati interni) provengono dalle classi media e alta come da quella operaia, provenienze che descrivono – attraverso le vite stesse dei profughi – la devastazione del tessuto sociale e economico di un paese da sei anni in guerra. Sono medici, ingegneri, proprietari di hotel e ristoranti, professionisti, operai, contadini, insegnanti: lo spaccato di una nazione tra le più stabili del Medio Oriente, oggi risucchiata nel periodo più buio della sua storia contemporanea. Maarouf ha fotografato le loro scarpe in pila, una sull’altra, immagine dolorosa che ricorda altre tragedie attraverso cui l’Europa è transitata.
TUTTE QUELLE CALZATURE hanno compiuto un percorso lungo e polveroso, hanno attraversato confini nazionali lasciandosi dietro la guerra per trovarsi di fronte altri conflitti. «Ho incontrato tante persone, mi hanno raccontato nei dettagli il loro viaggio: hanno raccontato delle persone che hanno perso la vita, di quelle arrestate dalla polizia. Hanno raccontato l’ingordigia dei trafficanti e il senso di abbandono. Perché si sentono abbandonati dal mondo intero. A tutti loro ho promesso la stessa cosa: di inviare le loro scarpe nei luoghi in cui sognavano di arrivare, come fossero le loro ambasciatrici. Alla
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il fiore del partigiano
S
Il problema non è aiutarli a casa loro. È liberare casa loro da zapping2017.myblog.it del 2 giugno 2017
econdo il nuovo rapporto Oxfam(1) rilasciato in data odierna, intitolato: africa: l’ascesa per pochi(2), 11 miliardi di dollari sono stati sottratti all’Africa nell’arco dell’anno 2010, grazie all’utilizzo di uno tra i tanti trucchi usati dalle multinazionali per ridurre le imposte. Tale cifra, è sei volte l’equivalente dell’importo che sarebbe necessario a colmare il vuoto di fondi nel sistema sanitario di Sierra Leone, Liberia, Guinea, Guinea Bissau, tutti Stati in cui è presente l’ebola. Le scoperte dell’Oxfam arrivano in corrispondenza dell’imminente partecipazione dei leader politici ed economici al 25° World Economic Forum Africa, che si terrà in Sudafrica. Il tema principale dell’incontro sarà come assicurare l’ascesa economica dell’Africa e conseguire uno sviluppo sostenibile. È necessaria una riforma del sistema di tassazione globale, affinché l’Africa possa pretendere i fondi che le spettano – tra l’altro, è necessaria per affrontare l’estrema povertà e disuguaglianza – e diviene realmente determinante se il continente deve continuare la sua crescita economica. L’Oxfam ha richiesto a tutti i governi la presenza dei capi di Stato e dei ministri delle finanze in vista della Financing for Development Conference che si terrà a luglio in Etiopia. La conferenza di Addis Abeba stabilirà le modalità con cui il mondo finanzierà lo sviluppo per i prossimi vent’anni; questa è un’opportunità per i governi, affinché inizino a elaborare un sistema globale di tassazione più democratico ed equo. Winnie Byanyima, direttore esecutivo internazionale dell’Oxfam, ha detto: «L’Africa sta subendo un’emorragia di miliardi di dollari, a causa dei trucchi usati dalle multinazionali per imbrogliare i governi africani, lasciandoli senza le entrate dovute, dal momento che non pagano la loro giusta quota di tasse. Se le entrate delle tasse fossero investite in educazione ed assistenza sanitaria, le società e le economie prospererebbero ulteriormente in tutto il continente». Nel 2010, l’ultimo anno di cui sono disponibili i dati, le compagnie multinazionali hanno evitato di pagare tasse per un ammontare di 40 miliardi di dollari statunitensi, grazie ad una pratica chiamata trade mispricing – con la quale una compagnia stabilisce prezzi artificiali per i beni e servizi venduti tra le proprie sussidiarie, al fine di evitare la tassazione. Con le corporate tax rates che hanno
una media pari al 28% in Africa, ciò equivale a 11 miliardi di dollari statunitensi come entrate sotto forma di tasse. Il trade mispricing è solo uno dei trucchi che le multinazionali usano per non pagare la loro quota giusta di tassazioni. Secondo l’UNCTAD, i Paesi in via di sviluppo nella loro totalità, perdono, secondo una stima, 100 miliardi di dollari l’anno attraverso un altro set di schemi che permettono di evitare i pagamenti, coinvolgendo i paradisi fiscali. Le compagnie fanno una dura attività di lobbying per avere agevolazioni fiscali come ricompensa per basare e mantenere le loro attività nelle nazioni africane. Le agevolazioni fiscali fornite alle sei più grandi compagnie di estrazione mineraria in Sierra Leone, raggiungono il 59% del budget totale della nazione o equivalgono a 8 volte il budget sanitario statale. Byanyima ha aggiunto: «I leader africani non devono assistere inerti all’approvazione del nuovo sistema di tassazione globale, cosa che dà alle multinazionali la libertà di scansare i loro obblighi di pagamento delle tasse in Africa. I leader politici e d’affari devono mettere da parte la loro importanza, innanzi alle richieste, sempre più insistenti, di una riforma del sistema di tassazione internazionale. Le nazioni africane, devono introdurre un approccio più progressivo e democratico alla tassazione – incluso un appello alla parola ‘fine’ per le esenzioni dalle tasse per le compagnie straniere». Gli attuali meccanismi internazionali volti a superare l’evasione fiscale, come il processo BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), controllato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)(3) per il G20, lasciano aperte enormi “vie di fuga” per le tasse, che le multinazionali possono continuare a sfruttare in tutto il mondo in via di sviluppo. Molte nazioni africane sono state escluse dalle discussioni sulla riforma del BEPS e, come risultato, non ne Y trarranno alcun beneficio. (Traduzione di Marco Nocera)
originale: http://fahamu.org/node/1911 1 oxfam, oxford committee for Famine relief, è un movimento globale di persone che vogliono eliminare l’ingiustizia della povertà. 2 https://www.oxfam.org/sites/www.oxfa m.org/files/world_economic_forum_wef.af rica_rising_for_the_few.pdf 3 organisation for economic Co-operation and development (oeCd) [così nominata a livello internazionale, ndt]
le storie - la Storia
LA SOLUZIONE RECLAMA LA GIUSTIZIA
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Se ci fermano in Libia
➔ segue da pagina 29
Non c’è condizione minacciosa che riesca a scalfire questi ragazzi del Sudan finiti in un punto del mondo che ignorano. Ventimiglia è una cittadina graziosa: ha un centro storico color pastello strapiombante sul mare, una lunga spiaggia libera, un imponente via vai di turisti che provengono dalla Francia e non solo. I prezzi per soggiornarvi sono decisamente più convenienti delle località turistiche del savonese. Una parte minoritaria della cittadinanza – la maggioranza è semplicemente indifferente – mal tollera soprattutto i fenomeni di accattonaggio: ma quest’anno si è scoperto che dietro tale fenomeno non ci sono i profughi, i quali non hanno alcun interesse a mendicare. Bensì un’organizzazione che portava, da Torino, migranti trasformati in schiavi ad allungare la mano ai semafori. Ingolosita dalla generosità del battaglione di volontari provenienti da tutto il mondo. Ventimiglia è amministrata da un giunta di centrosinistra, subentrata ad un commissario prefettizio nel 2014, dopo due anni di scioglimento per infiltrazioni mafiose. Silvia Sciandra è la vicesindaca: «Viviamo questa condizione a mani nude, senza fondi, in preda alle passerelle che si susseguono: tutti coloro che cercano un titolo sui giornali vengono a Ventimiglia, urlano la loro indignazione, aizzano, e se ne vanno». Il suo racconto mette in luce aspetti paradigmatici: «L’immigrazione è anche una risorsa preziosa per chi vuole speculare politicamente. A Ventimiglia abbiamo chiesto all’opposizione di sedersi a un tavolo per trovare una soluzione comune, per unire le forze: chiusura totale. L’importante è trarre beneficio immediato dalle difficoltà altrui». La giunta di Ventimiglia è finita, alcuni mesi fa, nell’occhio del ciclone per una ordinanza che vietava la somministrazione dei pasti nel luoghi pubblici, poi ritirata per le proteste: «La cittadinanza viene aizzata contro i migranti, sempre via social, su piccole cose, ad esempio i rifiuti che abbandonano per strada. Evitare questi scontri a bassa intensità era il nostro obbiettivo: siamo stati travolti. Ma, in realtà, l’unica cosa che risolverebbe la situazione sarebbe la creazione di corridoi umanitari. Lo sanno tutti, ad ogni livello. Non si fa nulla, e si abbandonano questi esseri umani nelle mani dei trafficanti di uomini o allo sbaraglio». Intorno alla stazione ferroviaria, dove due anni fa erano stipate oltre settecento persone, non c’è quasi più nessuno. Sugli scogli che videro sorgere una vergognosa tendopoli a due passi dal confine, oggi sfrecciano le cabriolet che corrono lungo l’Aurelia. L’«invasione» è concentrata sotto il viadotto, in appena trecento metri. Poco più a nord c’è il campo della Croce Rossa, che i giovani sudanesi, e non solo, rifiutano, perché una volta registrati non potrebbero più raggiungere, e lì soggiornare, l’indirizzo scritto sul prezioso foglietto. Ma perché, ad ogni costo, la Francia? Ismael e amici, dopo aver parlato di amici e parenti sparpagliati al di là del confine ammettono, a disagio, la ragione della scelta: «Amico mio: meno carta, meno fogli da compilare, meno burocrazia, meno attesa infinita – e soprattutto, ecco la stoccata – loro hanno il lavoro e lo Stato sociale. In Italia è bello, ma non c’è il lavoro, ed è tutto un casino». Giunge la sera, Ismael e gli altri, raggiungono i loro appartamenti di cartone sotto il viadotto: poco distante inizia un via vai di furgoni con targa francese. Dopo la preghiera, che si fa sul greto del torrente, in molti prenY dono la via del destino. Ultima fermata: Parìs.
Maurizio Pagliassotti
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le storie - la Storia
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A 15 anni, quando presi a calci l’apart il fiore del partigiano
NEL SUDAFRICA DELLA SEGREGAZIONE RAZZIALE UN RAGAZZINO ITALIANO SCOPRE
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DI
da il manifesto del 12 agosto 2017
RICCARDO SANNA
ohannesburg, Sudafrica. 1981. Ero giovane, quindici anni appena. Catapultato “laggiù”, dal 1978, nel bel mezzo di un Paese in cui vigeva l’apartheid. Io, italiano, “romano de Roma”, figlio di diplomatici ho visto tanto, troppo; veramente troppo. Autobus per soli bianchi, parchi per soli bianchi, bagni pubblici per soli bianchi, panchine per soli bianchi, supermercati per soli bianchi, scuole per soli bianchi, ristoranti per soli bianchi, ospedali per soli bianchi, piscine per soli bianchi: tutto per soli bianchi. Migliaia le scritte, «Europeans only», ovunque. Vengono i brividi a ripensarci, cartelli con «Soltanto per Europei», in Africa! Impressionante pensarlo oggi a 51 anni. E il resto? «Non-white only», soltanto per non bianchi. Questa era la distinzione netta e chiara. Una legge a supportarla: l’apartheid. Sì, faceva molto strano vedere una fermata dell’autobus unicamente per bianchi e, poi – appena venti metri più in là –, un’altra per i neri. Due vite distinte, all’interno dello stesso Paese. Due vite a respirare la stessa aria, ma non gli stessi diritti. Vivevo al numero 36 di Graham Road, quartiere bianco di Wychwood, a pochi chilometri di distanza dal centro di Johannesburg. Soweto, invece, città fantasma costruita con latta e fango, era più lontana. I “negri” bisognava lasciarli in disparte, so-
prattutto al calar della notte. Lì, – nella bidonville ideata e creata ad hoc dagli afrikaners –, loro non potevano nuocere. L’apartheid era una realtà strampalata, perché – paradosso che soltanto chi ha vissuto quegli anni sudafricani conosce – vigeva un altro “apartheid”, quello fra bianchi: gli italiani odiavano i portoghesi, i portoghesi gli spagnoli, gli spagnoli i tedeschi e così via. L’odio porta odio, non c’è nulla da fare; così è sempre stato e così sempre sarà. E con l’odio non si vince mai…
MA ERO GIOVANE, andavo a scuola e amavo il calcio. E quest’amore mi permise di andare oltre la stupidità e l’ignoranza, di conoscere un mondo sconosciuto ai più. A scuola si giocava un campionato interscolastico e la nostra squadra – quell’anno – arrivò in finale. Le partite venivano disputate il mercoledì pomeriggio, su campi in erba perfetti: io giocavo in attacco. Quanto mi piaceva fare gol! Ma anche quei campionati avevano lo stesso grande limite: bianchi a sfidare bianchi e basta. Stessa divisione anche nello sport,
due mondi diametralmente opposti. D’altronde, le scuole questo permettevano: che fossero frequentate da bambini e ragazzi di etnia caucasica. Punto. Successe, però, che con il mio amico Gary Carris – sudafricano d’origini olandesi, bianco, biondo e con gli occhi azzurri – compagno di classe e di squadra, s’era deciso – in maniera “legalmente” imprudente, ma guidata dal coraggio dell’adolescenza – d’andare a giocare a pallone in “un altro campionato”, la domenica mattina.
Ventiquattro scarpe in cerca di asilo
➔ segue da pagina 30
Scarpe migranti. Dodici pacchi pronti per la spedizione (JAkob HAueiSen)
il Sudafrica dell’apartheid. Separati per “colore” erano tutti gli spazi della vita sociale, anche i bagni pubblici
fine è tutto qua: nel ventunesimo secolo per un essere umano ottenere un visto è quasi impossibile, per un paio di scarpe incontrare un leader mondiale è molto più facile». Maarouf, che di mestiere è pittore, lo fa con l’arte: le foto delle calzature e le storie dei proprietari saranno esibite, insieme alle risposte dei governi («Ringrazio quello britannico, il pacco con su impresso il loro rifiuto sarà un pezzo da novanta della mostra») a Vienna a settembre, per poi spostarsi nel 2018 a Dubai. L’obiettivo di “Dirty Messages” è utilizzare l’arte non più come «mero strumento di intratteni-
mento o come rappresentazione della bellezza: l’arte è strettamente legata alle questioni dei popoli, è il megafono per verità e giustizia. L’artista combatte con gli strumenti che usa». Combatte anche con i rifiuti a recepire il messaggio che l’arte incarna, amaro simbolo del rifiuto all’accoglienza dell’essere umano. Combatte con le autorità costituite per infilarsi anche tra le pieghe delle opinioni pubbliche e le società civili. Per questo tre pacchi sono stati inviati a indirizzi causali, o tali in apparenza: un paio di scarpe è stato mandato ad una galleria d’arte di Atene, uno a un’università polacca e uno ad un teatro di Beirut, con la precisa richiesta di fare da tramite verso un nuovo viaggio. Perché «le scarpe do-
il fiore del partigiano
heid
Aspettavamo insieme, lui ed io, alla fermata dell’autobus il primo mezzo che ci portasse verso Alexandra, altra bidonville costruita dai bianchi per i “negri”. Arrivati al capolinea, camminavamo ancora per qualche chilometro, io già con gli scarpini e lui scalzo. Quel campetto con poca erba e tanta polvere, lui in porta ed io sempre in attacco, dei ventidue a rincorrere un pallone, due soli bianchi in campo, e tutt’intorno un “oceano nero” ad assistere al match. Mai una sola volta – durante quel Non-White campionato – fummo denigrati, umiliati, offesi, maltrattati o minacciati. L’accoglienza da parte di chi – in quel tristissimo e dolorosissimo periodo d’apartheid – subiva continui soprusi ed ingiustizie, fu sempre straordinaria. Anche quando Gary faceva una papera o io mi mangiavo gol clamorosi, loro continuavano ad incitarci. Sempre. Vivevamo quelle domeniche mattina con meravigliosa serenità. Io ero the italian scorer, mentre tutto il resto non aveva importanza. Poi, salutati i nostri fratelli africani, Gary e io tornavamo a casa verso ora di pranzo, raccontando sempre la solita bugia ai nostri genitori: «Al parco ci siamo divertiti un mondo!». Ovviamente, noi al parco per europeans only non c’eravamo stati: avevamo invece avuto la fortuna d’essere accolti a braccia aperte all’interno di un altro mondo. Oggi, a distanza di tantissimi anni, quelle partite rappresentano il ricordo più bello del Y mio tempo in Sudafrica.
vrebbero essere costantemente in movimento, mai immobili, mai a riposo: sono la rappresentazione Y simbolica dei destini».
le idee
L’ACCOGLIENZA DEI NERI
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Il codice del capro espiatorio
IL CODICE MINNITI CELA LE VERGOGNE DELL’EUROPA
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da il manifesto del 2 agosto 2017
FiliPPo miraGlia*
l codice di condotta delle Ong proposto – ma sarebbe meglio dire imposto – dal nostro governo, è un tentativo maldestro di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, dall’incapacità dell’Unione Europea, e dell’Italia, di trovare soluzioni giuste e praticabili alla crisi umanitaria che investe il vecchio Continente, alle attività delle organizzazioni umanitarie che hanno in questi mesi tratto in salvo il 40% delle persone sbarcate in Italia ricoprendo, in parte, la responsabilità pubblica di salvare vite umane nel Mediterraneo. Le regole per le navi che svolgono attività di ricerca e salvataggio in mare già esistono, e volerne imporre altre inserendole in un «Codice di condotta», suggerisce che le organizzazioni umanitarie non abbiano agito correttamente. L’obiettivo concreto continua a rimanere quello di bloccare i flussi, impedendo alle persone di mettersi in salvo, anche consegnandole alle bande che controllano il territorio e i porti libici, di cui è noto il comportamento criminale. Il precedente accordo con il regime di Erdogan dimostra che i nostri governanti non si fanno molti scrupoli quanto a conseguenze delle loro scelte sui diritti delle persone. L’importante è poter raccontare all’opinione pubblica, agli elettori, che si è fatto il possibile, magari riuscendoci, per impedire ai migranti di raggiungere le nostre frontiere. Anche mettendo in campo una vera e propria guerra contro i migranti, come ha deciso di fare il nostro governo. In questo quadro, il Codice di condotta per le Ong ripete disposizioni di legge già previste, indicando procedure normalmente ap-
plicate dalle navi delle organizzazioni umanitarie e introducendo alcuni elementi preoccupanti che puntano a limitarne l’operatività, criminalizzando le associazioni. La previsione di impegnare la polizia giudiziaria per operare indagini sulla presenza a bordo di eventuali scafisti, rappresenta un ulteriore elemento di criminalizzazione dei migranti nel momento in cui sono più vulnerabili, oltre che una inaccettabile volontà di controllo fuori dalle regole. Infine la richiesta di dichiarare le fonti di finanziamento a Ong che già pubblicano i bilanci on line serve solo a creare diffidenza nei loro confronti. In definitiva, questa del Codice si configura come un’operazione intimidatoria (verso le Ong) e di propaganda, che non risolverà certamente i problemi di scarsa autorevolezza del governo italiano nell’Ue e il cui unico effetto potrebbe essere l’aumento dei morti in mare. Di ben altro coraggio e intelligenza politica ci sarebbe bisogno, sia nella relazione con gli altri governi dell’Ue che nella gestione dei flussi straordinari. Chiedere all’Ue di attivare la Direttiva 55/2001, indicando finalmente la strada della condivisione e della solidarietà e non della chiusura e dell’egoismo nazionalista, aprire canali d’accesso legali e sicuri sottraendo le persone in cerca di protezione al ricatto dei trafficanti e mettere in campo un programma europeo di ricerca e salvataggio. Misure che darebbero finalmente centralità alla vita e alla dignità delle persone e credibilità al nostro Paese, isolando i predicatori d’odio e i razzisti di professione. Purtroppo una strada tutta diversa da quella imboccata dal nostro governo con questo ‘codice del capro espiatorio’, con la criminalizzazione della solidarietà e la contestuale dichiarazione di guerra ai migranti. Y * vice-presidente dell’Arci
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il fiore del partigiano
La Ue contro i profughi. È tempo di gridare «No»
le idee
LA FORTE DENUNCIA DEL PRETE CATTOLICO ERITREO, PUNTO D’APPIGLIO DI TANTI DISPERATI
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DI
da il manifesto del 15 agosto 2017
DON MUSSIE ZERAI *
l blocco per le navi delle Ong a 97 miglia dalle coste africane, ordinato dal Governo di Tripoli con il plauso dell’Italia e dell’Unione Europea, chiude il cerchio di quella che appare quasi una guerra contro i migranti nel Mediterraneo. La situazione dei soccorsi ai battelli carichi di profughi che chiedono asilo e rifugio in Europa viene riportata a quella creatasi all’indomani dell’abolizione del progetto Mare Nostrum quando, dovendo partire le navi da centinaia di chilometri di distanza per rispondere alle richieste di aiuto, ci fu immediatamente una moltiplicazione delle vittime e delle sofferenze. Non a caso, prima Medici Senza Frontiere e poi anche Save the Children e Sea Eye hanno deciso di sospendere le operazioni di salvataggio in mare: troppo lunga la distanza da percorrere per fronteggiare con efficacia emergenze nelle quali anche un solo minuto di ritardo può risultare decisivo e, soprattutto, troppo rischioso – per sé ma ancora di più per i migranti – sfidare le minacce della Guardia Costiera libica, la quale non esita a sparare contro le unità dei soccorritori, come dimostra tutta una serie di episodi, incluso quello denunciato in questi giorni dalla Ong spagnola Proactiva Open Arms.
CHIUNQUE SIA ARTEFICE di questa politica di respingimento e chiusura totale e chiunque la sostenga – sorvolando, tra l’altro, sul fatto che la Libia si è sempre rifiutata di firmare la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati – si rende complice di tutti questi orrori e prima o poi sarà chiamato a risponderne. Domani sicuramente di fronte alla Storia ma oggi, c’è da credere, anche di fronte a una Corte
di giustizia. Non mancano, infatti, diversi ricorsi a varie Corti europee promossi da giuristi, associazioni, Ong, mentre anche il Tribunale Permanente dei Popoli, nella sessione convocata a Barcellona il 7 luglio, ha posto al centro della sua istruttoria il rapporto di causa-effetto tra le politiche europee sull’immigrazione e la strage in atto.
ALLA LUCE di tutto questo, l’Agenzia Habeshia fa appello alla comunità internazionale e alla società civile dell’intera Europa perché contestino le scelte effettuate dalle istituzioni politiche dell’Unione e dei singoli Stati e le inducano a un radicale ripensamento, revocando tutti i provvedimenti di blocco, istituendo canali legali di immigrazione e riformando il sistema di accoglienza, oggi diverso da Paese a Paese, per arrivare a un programma unico con quote obbligatorie, condiviso, accettato e applicato da tutti gli Stati Ue. A tutti i media e ai singoli giornalisti, in particolare, l’Agenzia Habeshia fa appello perché raccontino giorno per giorno le morti e gli orrori che avvengono nell’inferno ai quali i migranti sono condannati, in Libia e negli altri paesi di transito o di prima sosta, dalla politica della Fortezza Europa, preoccupata solo di blindare sempre di più i propri confini, senza offrire alcuna alternativa di salvezza ai disperati che bussano alle sue porte. Serve come non mai, oggi, una informazione precisa, dettagliata, puntuale, continua perché nessuno possa dire: «Non saY pevo…». * presidente dell’Agenzia Habeshia
mAriLenA nArdi
LA DECISIONE di dare “mano libera” alla Libia purché, attuando veri e propri respingimenti di massa, si addossi il lavoro sporco di fermare profughi e migranti prima ancora che possano imbarcarsi o a poche miglia dalla riva, è il capitolo conclusivo della politica che, iniziata con il Processo di Rabat (2006) e proseguita con il Processo di Khartoum (novembre 2014), con gli accordi di Malta (novembre 2015) e il patto con la Turchia (marzo 2016), mira a esternalizzare fino al Sahara le frontiere della Fortezza Europa, confinando al di là di quella barriera migliaia di disperati in cerca solo di salvezza da guerre, persecuzioni, fame, carestia, e intrappolando nel caos della Libia quelli che riescono ad entrare o sono intercettati in mare e riportati di forza in Africa. Tutto ciò a prescindere dalla libertà, dalla volontà e dalle storie individuali dei migranti, calpestandone i diritti
sanciti dalle norme internazionali e dalla Convenzione di Ginevra e senza tener conto della sorte che li aspetta, in Libia, nei centri di detenzione governativi, nelle prigioni-lager dei trafficanti, lungo la faticosa marcia dal deserto alla costa del Mediterraneo. Una sorte orrenda, come denunciano da anni, in decine di rapporti, la missione Onu in Libia, l’Unhcr, l’Oim, l’Oxfam, Ong come Amnesty, Human Rigts Watch, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani, numerose associazioni umanitarie, diplomatici, giornalisti, volontari. Rapporti che parlano di uccisioni, riduzione in schiavitù, stupri sistematici, lavoro forzato, maltrattamenti e violenze di ogni genere come diffusa pratica quotidiana. Non a caso il procuratore Fatu Bensouda ha annunciato sin dal maggio scorso, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’inchiesta su quanto sta accadendo ai migranti in Libia nei cosiddetti «centri di accoglienza» e su certi episodi che riguardano la stessa Guardia Costiera, avanzando l’ipotesi anche di «crimini contro l’umanità».
il fiore del partigiano
Giovani afghani a gambe incrociate
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Settembre 2017
le storie
SVEZIA - daL 6 agosto iL moVimeNto uNg i sVerige occupa Le piazze di stoccoLma
da il manifesto del 27 agosto 2017 di
jUliaS lindBlom, davide Salvadori
Era il 6 agosto, quando poco più di una cinquantina di ragazzini afghani hanno occupato piazza Mynttorget, a Stoccolma, per protestare contro i rimpatri forzati verso l’Afghanistan. Da allora in Svezia è scoppiata la più grande mobilitazione europea contro le deportazioni degli ultimi anni. Sono gli studenti afghani di «Ung I Sverige» – «giovani in Svezia» – ad aver acceso la miccia delle proteste, occupando giorno e notte prima la città vecchia e poi Medborgarplatsen, una delle piazze principali della capitale. A partire da Stoccolma i presidi e le mobilitazioni si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il Paese. Anche a Goteborg e Malmö hanno iniziato a svolgersi presidi permanenti nelle piazze principali. La Svezia non è esente dal giro di vite sulle migrazioni messo in atto dai vari governi europei. Oltre a complicare il rilascio di permessi di soggiorno permanenti e ricongiungimenti familiari, da ormai un anno sono iniziati i rimpatri forzati verso l’Afghanistan. È la ragione principale della nascita di questa mobilitazione permanente: il primo attacco frontale alle politiche di privazione dei diritti dei migranti presenti nell’agenda politica di ogni paese europeo. Se in passato sono state fatte molte manifestazioni per l’accoglienza, anche oceaniche come a Milano e a Barcellona, in questo contesto è stato messo in campo un livello di organizzazione e conflittualità inedito. A Stoccolma i diretti interessati dalle conseguenze delle leggi piglia-voti sull’immigrazione sono andati a bussare alla porta del governo,
vimento è costituito da minorenni e studenti medi. Il permesso di soggiorno per loro è strettamente collegato alla frequentazione scolastica. Un ostacolo che però è stato trasformato in una occasione. Fatemeh Khavari, una dei portavoce di Ung I Sverige, ha annunciato nella conferenza stampa del 15 agosto lo sciopero nazionale delle scuole svedesi per continuare le proteste anche durante l’inizio dei corsi: «Sono passati 10 giorni. Siamo emozionati da tutto il supporto che abbiamo ricevuto. Si sente che il popolo svedese è con noi, seduto qui su questi gradini. A diffondere i nostri messaggi, a sosteLo sciopero nerci quando qualcuno vuole ferirci. Non siamo seduto più soli». a piazza «Grazie a voi il nostro sciopero può continuare. MedborgarNoi non andiamo a scuola per qualcun altro o platsen, per rimanere in Svezia. Noi andiamo a scuola Stoccolma perché vogliamo avere un futuro. Studiando e (JuLiAS lottando prendiamo il controllo delle nostre LindbLom, vite, smettendo di essere soggetti passivi e privi dAVide di potere. Impariamo come funziona il mondo SALVAdori) sia dallo sciopero che attraverso gli studi. Il nostro sciopero dev’essere storico e non ci arrenderemo mai fino a che non cesseranno le deportazioni. La durata di questo sciopero dipende solamente da quanto tempo impiegheranno i politici e l’ufficio immigrazione ad chiedendo un cambiamento, qui e ora. Non si accettare le nostre rivendicazioni. Ora vogliamo tratta insomma di mobilitazioni un po’ vaghe, annunciare in pubblico il prossimo passo di come quella milanese, rispetto agli scopi pre- questo movimento e di quello che vogliamo fare fissi, che spesso si esauriscono dopo una bella per lottare per i nostri diritti. Lo sciopero non giornata di sole, ma di un movimento che lotta finirà con l’inizio della scuola! Lo scioperò si alper il cambiamento subito, senza dover aspet- largherà, sarà nazionale e sciopereremo in ogni tare o cedere a promesse e ricatti. scuola». Dopo i primi giorni a Mynttorget, un gruppo «Quelli che da questa piazza andranno nelle neo nazista ha assaltato la piazza causando dei scuole – ha continuato Khavari – non ci lasceferiti. Né questo né i fallimentari ranno, porteranno lo sciopero contro-cortei xenofobi, flop con con loro, dentro le scuole, seduti meno di 100 persone, hanno insul pavimento. Si tratta di uno La forma di lotta timorito i manifestanti. sciopero seduto nazionale contro La piazza di Ung I Sverige resi- è nata contro le deportazioni! Medborgarste, continua a ingrandirsi e a ri- i rimpatri forzati. plattsen sarà il cuore della protecevere sempre più solidarietà e Con l’inizio della sta, le scuole le nostre gambe e le simpatizzanti. Sabato scorso un scuola lo “sciopero nostre braccia. Alla nostra ulcordone umano di solidali svetima conferenza stampa abdesi ha circondato la manifesta- seduto” continua. biamo chiesto a tutti i partiti zione in vista dell’arrivo del rally E si allarga: perché non si sono impegnati contro gli attacchi razzista. per garantire l’amnistia. Cosa Il sittstrejk – sciopero seduto, neonazi gli svedesi state aspettando? Perché non come lo chiamano i manifestanti fanno cordone. siete qui?». – sta a significare il rifiuto della «Siete voi che dovete assumervi precarietà delle loro vite, messe Nel silenzio la responsabilità delle decisioni continuamente sotto scacco dal della politica politiche che prendete. Fredrik ricatto del permesso di sogBeijer dell’ufficio immigrazione giorno e dalla possibilità di esnon ci ha ancora dato alcuna risere espulsi. In queste prime tre settimane di sposta. Siete voi che potete fermare le deportasciopero sono diverse le iniziative partite dalla zioni. Perché non lo fate? Tutti i giovani in piazza. Diverse manifestazioni, tra cui la più Svezia sono invitati a sedersi con noi. Così lo grande svoltasi domenica scorsa per le vie della sciopero può continuare a crescere. Ora in tutto città, o il blocco della deportazione di un giovane il paese, domani nel mondo intero». ragazzo afghano di questo martedì. Ciò è stato Il dibattito pubblico interno alla Svezia non è possibile grazie allo spostamento in massa del troppo differente da quello italiano. I movipresidio fuori da uno dei centri di espulsione menti xenofobi, le posizioni anti immigrazione della capitale. e una cattiva informazione hanno spostato a deL’inizio della scuola poteva essere un problema per i manifestanti, perché il cuore di questo mocontinua a pagina 37 ➔
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le store - la Storia
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il fiore del partigiano
L’Eritrea e la rimozione del passatocoloniale italia
CORNO D’AFRICA - LA FUGA DISPERATA DAL «PAESE CASERMA» DOVE I NOMI DELLE TOR
I DI
da il manifesto del 25 agosto 2017
ALESSANDRO LEOGRANDE
l violento sgombero degli eritrei in Piazza Indipendenza non mette in luce solo l’incapacità della giunta Raggi di affrontare una seria e organica politica di accoglienza dei rifugiati, anche quando questi sono donne e bambini residenti in città da molti anni. Pone in risalto l’evidente rimozione del passato prossimo e meno prossimo che si riproduce ogni qualvolta ci si trova di fronte alle migrazioni dal Corno d’Africa. Ancora una volta, si finisce per definire genericamente africani, quando non «invasori», profughi che provengono specificamente dalle ex colonie italiane. Una tale rimozione si produsse, ad esempio, anche in occasione del terribile naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando a morire furono 360 eritrei su 368 vittime complessive. Da cosa scappavano gli eritrei morti a Lampedusa? Da cosa scappano gli eritrei di piazza Indipendenza? E perché, soprattutto in questi anni, gli eritrei scappano in
massa? Sono queste le domande che dovrebbero precedere ogni seria riflessione sulle politiche di accoglienza nei confronti di rifugiati che si sono lasciati alle spalle una delle dittature più feroci al mondo. Ma tali domande raramente trovano una risposta. Gli eritrei (che continuano a essere da anni uno dei principali gruppi nazionali che raggiungono l’Italia dalla Libia) fuggono da un regime che ha privato il suo popolo di ogni libertà civile e politica, che ha imposto il servizio militare obbligatorio, e a tempo indeterminato, per ogni eritreo – uomo o donna che sia – che abbia compiuto 18 anni. In pratica, il paese si è trasformato in una immensa caserma-prigione da cui (non solo) ragazzi e ragazze provano a fuggire. Sfidano la morte probabile durante il Grande Viaggio pur di lasciarsi alle spalle la certezza di una intera vita governata dal regime Chi viene riacciuffato e rispedito indietro, in quanto disertore, finisce direttamente nei gulag nel deserto. Sono almeno diecimila i prigionieri politici vecchi e nuovi. Che tutto questo poi sia stato edificato da Isaias Afewerki, il leader di quello che fu il Fronte popolare per la libera-
zione dell’Eritrea, un’organizzazione laica e socialista, è doppiamente grave. Come raccontato da molti esuli, ex militanti del Fronte popolare, l’attuale caserma-prigione è stata generata dal fallimento di una lunga lotta di liberazione. La frattura si è prodotta nella seconda metà degli anni novanta, allorquando gli oppressi di ieri, dopo aver ottenuto l’indipendenza, hanno adottato gli stessi metodi dei precedenti oppressori (quelli dell’occupazione etiopica e, per certi versi, ancor prima, quelli dell’occupazione italiana terminata nel 1943). Torture battezzate in italiano Oggi nei gulag eritrei, come accertato da una Commissione d’inchiesta dell’Onu, si pratica sistematicamente la tortura. Qualche anno fa, mi è capitato di incontrare un rifugiato eritreo che era stato detenuto in un campo alle porte di Asmara e di ascoltare dalla sua viva voce il racconto delle violenze subite. Le torture subite avevano nomi italiani: Ferro, Otto, Gesù Cristo. Improvvisamente ho capito che quei nomignoli si erano tramandati di dominazione in dominazione, dai carcerieri di ieri
Kirmizi fularli: la morte di Ayse Deniz Karacagil, il Cappuccio rosso dell’internazionale per le libertà
È
da il Corriere della Sera del 2 giugno 2017
come se l’avessimo conosciuta questa ragazza piena di vita e di coraggio. Ci brucia il cuore saperla morta: una donna risoluta che non si è mai piegata, non ha mai rinunciato alle sue idee. Non so come sia morta, ma la immagino in prima linea, generosa e inarrestabile. Non perché volesse morire: non era una innamorata della morte come quei lugubri figuri che si buttano sulla folla con l’idea di esplodere ucci-
da Gezi Park alla lotta contro l’isis. Chiamata “Kirmisi fularli”, “Cappuccio rosso”, la giovane turca era stata condannata a 100 anni per le proteste del 2013. Fuggita, si era unita ai combattenti curdi. La sua storia raccontata da Zerocalcare.
dendo più innocenti possibile, feroci di una ferocia senza senso, per puro delirio suicida. Ayse Deniz Karacagil amava la vita e voleva salvarla ai tanti che venivano quotidianamente perseguitati e minacciati. È morta sul fronte di Raqqa per difendere suo popolo curdo, ma anche la nostra idea di libertà e di vita. Lo so che in tanti perdono la vita, che in guerra parlano solo le armi e il resto è silenzio. Ma Ayse ci commuove perché aveva una generosità e un ardimento che ci viene raccontato dalle sue scelte: in prima fila quando si è trattato di protestare contro il taglio di alberi centenari a Gezi Park, Istanbul, in prima fila quando la gente è scesa in strada per chiedere libertà per il popolo curdo angariato dal regime di Erdoğan, e per questo è stata in prigione, in prima fila quando ha deciso di combattere contro i terroristi dell’Isis. Non voleva fare l’eroina, ma pure lo è diventata, finendo per rappresentare tutti noi, la nostra immaginazione, la nostra indignazione di fronte alla follia suicida dei fanatici religiosi, il nostro Y profondo desiderio di pace. Dacia Maraini
il fiore del partigiano TURE SONO ITALIANI
a quelli di oggi. Per giunta, ho appreso poco dopo, alcuni degli attuali campi di internamento sorgono esattamente laddove sorgevano i vecchi campi coloniali. Così, quando si parla dell’esodo dal Corno d’Africa si produce una doppia rimozione, del presente e del passato. Tale doppia rimozione produce quel misto di indifferenza e fastidio che è alla base di uno sgombero privo di reali soluzioni alternative come quello di piazza Indipendenza. Ieri pomeriggio, intorno alle 15,00, la piazza era presidiata dai blindati della polizia mentre dal palazzo ormai vuoto, che aveva ospitato negli ultimi anni gli eritrei, sventolava un tricolore lacero e stinto. Chissà da quanto stava lì, al primo piano del palazzo. Che tutto questo sia avvenuto a meno di cento metri da Piazza dei Cinquecento, il piazzale che fronteggia la stazione Termini, intitolato ai soldati italiani caduti nella battaglia di Dogali (in Eritrea, nel 1887), una delle pagine nere del nostro colonialismo, reinterpretata negli anni successivi come una sorta di italica Little Big Horn, è una coincidenza che ha il sapore del cortocirY cuito.
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stra l’asticella delle discussioni, nei talk show come in parlamento. Anche il Sap svedese, partito di centro sinistra al governo insieme ai verdi, in questo contesto sta prendendo posizioni analoghe al Pd italiano. IL primo dato positivo di tutto ciò è quindi culturale, grazie all’entrata in scena di un diverso discorso politico che rifiuta radicalmente il razzismo istituzionale e allarga lo sciopero dei migranti alla società intera. In un’arena mediatica in cui la presa di parola dei migranti viene regolarmente oscurata, in cui viene data sempre più visibilità agli ideologi della sostituzione etnica e dell’invasione, il fatto che una mobilitazione del genere prenda con prepotenza spazio nelle televisioni cambia in senso positivo il modo in cui sono distribuite le carte in tavola. Il secondo aspetto importante è che questa partita va ben oltre i confini nazionali svedesi. Il braccio di ferro tra giovani, studenti e governo, in caso di vittoria, creerebbe un precedente storico che potrebbe avere ripercussioni anche in altri paesi europei. Nonostante l’età, nessuno meglio di loro poteva condurre questa battaglia: si tratta di persone che vedono in questa protesta l’ultima spiaggia per la loro incolumità, giovani e studenti che qui si stanno giocando il tutto per tutto. Sono passate le prime tre settimane e le piazze continuano a riempirsi. Inevitabile pensare che il destino di Ung I Sverige sia legato a Y quello del resto d’Europa.
L’antifascismo spiegato a Sallusti
LA PROPAGANDA FASCISTA È VIETATA. ANCHE L’IGNORARE LA STORIA
le idee
no
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N
di
da il manifesto del 25 agosto 2017
antonio GiBelli
ella nostra Costituzione sta scritto a chiare lettere che la partita col fascismo va considerata chiusa una volta per tutte. Nella sua genesi e nei suoi principi ispiratori essa è inscritta nel processo doloroso e sanguinoso di uscita dal regime totalitario e ne incorpora il ripudio. Per ogni ideologia, organizzazione o forma di propaganda che si richiami a quella esperienza non c’è spazio di legittimità possibile, né possibile tolleranza. È vero che nella pratica politica repubblicana ci fu a lungo una forma di accomodamento che permise agli eredi del fascismo, pur circondati da una sorta di cordone sanitario che raramente si ruppe (uno dei casi fu il luglio Sessanta, quando fu poi ripristinato a furor di popolo), di competere sotto spoglie mutate alla vita della democrazia. Ma in linea di principio l’assunto non è mai stato smentito. Tant’è vero che quando il leader del neofascismo, Gian Franco Fini, volle nel 1994 partecipare alla competizione per il governo del paese nella coalizione berlusconiana, dovette fare omaggio formale alla Costituzione e riconoscerne la matrice antifascista, compiendo tra l’altro una serie di gesti simbolici inequivoci, come l’omaggio alle Fosse Ardeatine, tra i massimi simboli del martirio italiano per mano nazifascista, e la condanna delle leggi razziste del 1938.
Se non si parte da questo punto fermo, il dibattito che periodicamente si ripropone su fascismo e antifascismo, e che anche quest’estate è riaffiorato più volte nei talk show sulla scia dell’odioso episodio antisemita ai danni del deputato del Pd Fiano e della proposta di legge di cui egli è primo firmatario, deraglia in banali battibecchi o peggio in indecenti simmetrie senza fondamento storico. A distinguersi in questo senso è stato il direttore del giornale, il quale – forse suo malgrado – è stato chiamato più volte a fare la parte di quello che minimizza la gravità delle esibizioni plateali di un fascismo riaffiorante, aggrappandosi al luogo comune secondo cui se si proibisce la propaganda fascista si deve anche proibire la propaganda comunista. Per farsi capire, egli ha più volte fatto l’esempio delle vie o piazze intitolate a Stalingrado, senza che gli agguerriti conduttori (e purtroppo neppure autorevoli eredi del fu partito comunista italiano) fossero in grado di chiarirgli le idee. Nell’argomentare, egli ha farfugliato che inti-
tolare una via a Stalingrado significa fare l’apologia di una città che a sua volta celebra la gloria di un feroce dittatore. Quindi, per proprietà transitiva, significa fare l’apologia di Stalin. Ma se è lecito fare l’apologia di Stalin perché si dovrebbe proibire quella di Mussolini?
Appoggiandosi a tale traballante sillogismo egli ha mostrato di ignorare quello che uno studente alla maturità non dovrebbe ignorare e probabilmente non ignora, ossia che il nome di Stalingrado evoca un drammatico episodio della seconda guerra mondiale, la prima grande sconfitta delle armate hitleriane in una gigantesca battaglia terrestre. Dopo la sequenza di vittorie che dal 1939 lo avevano fatto dilagare nel continente da Ovest a Est, fu quella, grazie alla resistenza eroica e al contrattacco disperato dei sovietici, l’inizio della fine del nazismo, il sospirato segnale della possibile vittoria della coalizione antifascista comprendente inglesi, americani e sovietici. Era l’inverno del 1942-1943. Di lì a pochi mesi il regime fascista sarebbe crollato e su questo fronte avrebbero cominciato a combattere e a morire i partigiani italiani, sotto la guida dei partiti antifascisti. Evidentemente, il direttore del giornale ha dimenticato questa grande e terribile pagina delle storia europea e mondiale.
A tutti quelli come lui, a tutti coloro che, incoraggiati dal clima dilagante di stravolgimento della Storia, si permettono di considerare fascismo e comunismo come due aberrazioni uguali e contrarie, bisogna ricordare una semplice cosa: la nostra Carta costituzionale, quella che permette loro di esternare liberamente le loro opinioni e i loro strafalcioni, porta – accanto a quella del presidente provvisorio della Repubblica – la firma del presidente dell’Assemblea costituente, il comunista Umberto Terracini. I comunisti furono – nel bene e nel male – tra gli autori principali della Costituzione, essendo stati uno degli attori principali del movimento di Liberazione. Durante i lavori dell’Assemblea, il comunista Antonio Gramsci, il maggiore interprete del pensiero marrxista italiano, oggi studiato in tutto il mondo, vittima della persecuzione fascista, nel decimo anniversario della sua morte fu celebrato da tutti i partiti antifascisti (per la Democrazia cristiana da Giovanni Gronchi) come un eroe e un martire della causa comune e più semplicemente della civiltà.
È sufficiente questo per capire la differenza o Y occorre altro?
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Quando i bambini fanno: «NO!»
antifa
diciamo No aL coNcerto di poVia a trezzaNo suL NaVigLio. FestosameNte
I
da anpimilano.com pubblicato il 25 agosto 2017
n concomitanza con la rassegna “Autunno Trezzanese”, si svolgerà in data
23 settembre 2017 a Trezzano sul Naviglio, un concerto che verrà ospitato nella parrocchia di San Lorenzo Martire, al quale è stato invitato il cantautore Giuseppe Povia.
Come Associazione che si richiama ai valori della Resistenza siamo molto contrariati per la presenza di questo personaggio, legato alla formazione neofascista e antisemita Lealtà e Azione. Per questa associazione di estrema destra il 10 giugno scorso Povia si è esibito nel comune di Cologno Monzese. Lealtà e Azione che si ispira al pensiero di Leon Degrelle, ufficiale delle Waffen SS e di Corneliu Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro rumena, movimento antisemita e nazionalista degli anni trenta, si pone in aperto contrasto con i principi sanciti dalla nostra Carta Costituzionale. Giuseppe Povia non è, perciò, ospite gradito a Trezzano sul Naviglio. Oltre ad essere legato ad una formazione dichiaratamente neofascista, il cantautore rappresenta una figura profondamente divisiva su molteplici temi, tra i quali quelli dell’accoglienza, della solidarietà, dell’unità del nostro Paese e delle stesse problematiche relative alle vaccinazioni. Invitiamo l’Amministrazione Comunale di Trezzano a dissociarsi in qualsiasi modo dall’evento richiamato e auspichiamo un ripensamento da parte del parroco di San Lorenzo Martire. In caso contrario, preannunciamo fin d’ora che organizzeremo, in contemporanea al concerto annunciato, per sabato 23 settembre un’iniziativa pacifica e festosa, di cui comunicheremo i dettagli, a Trezzano sul Naviglio, per rilanciare i valori dell’antifascismo, della solidarietà, dell’uguaglianza, contenuti nella nostra Carta Costituzionale di cui quest’anno ricorre il settantesimo anniversario Y dell’approvazione. Roberto Cenati Presidente ANPI Provinciale di Milano
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le idee
alt! chi va là? Hanno occupato una vecchia caserma in disuso da decenni. L’hanno ripulita e rimessa in sesto. Hanno organizzato attività culturali e di servizio per il quartiere. Era il centro sociale Làbas, ora sgombrato
Il deserto sociale e culturale dove trionfa l’inumano
B di
GUido viale
da il manifesto del 15 agosto 2017
isognerebbe chiedersi perché il Governo della Libia – o quello che viene spacciato per tale – è così pronto a riprendersi, anche con azioni di forza, quei profughi che tutti i Governi degli altri Stati, sia in Europa che in Africa, cercano di allontanare in ogni modo dai propri confini. La verità è che a volerli riprendere non è quel Governo, ma sono le due o tre Guardie costiere libiche che fanno finta di obbedirgli, ma che in realtà lo controllano; e a cui l’Italia sta dando appoggio con dovizia di mezzi militari. Ormai si sa che quelle Guardie costiere sono in mano a clan e tribù coinvolte nella tratta dei profughi e nel business degli scafisti. E che una volta a terra profughe e profughi riportati in Libia saranno imprigionati e violate di nuovo e torturati per estorcere un riscatto alle loro famiglie; oppure venduti ad altri scafisti che faranno loro le stesse cose; fino a che non li imbarcheranno di nuovo, non prima di aver fatto pagar loro, per la seconda volta, il passaggio. Per farlo meglio hanno riattivato una zona Sar fantasma, proibendo alle Ong di entrarvi. Quello che Minniti cercava e non era riuscito a fare con il suo codice di condotta. Un business così, legittimato da un Governo straniero, dall’Unione europea e dall’Onu, nessun criminale al mondo se l’era finora sognato…
DUNQUE È IL MINISTRO Minniti, e non le Ong, ad aver fatto accordi con i veri scafisti, invece di cercare di impegnare il Governo italiano, con tutte le sue carte residue, in un vero confronto con il resto dell’Unione europea per mettere al centro un programma condiviso di accoglienza (di cui, a questo punto, solo un movimento di massa di respiro europeo potrà farsi carico). È una grande presa in giro degli ita- È Minniti, non le Ong, liani ed è un crudele abbandono di ad aver fatto accordi migliaia e migliaia di persone in balìa con i veri scafisti. di veri e propri carnefici – di cui la Ma che cosa rende magistratura non sembra volersi accorgere – in vista, perché di questo si possibile una politica tratta, delle prossime elezioni. Ma il simile? Non si è prezzo è molto alto per tutti: della presenza di Minniti in questo goriflettuto abbastanza verno, ma anche del suo passaggio su sul rapporto questa Terra, resterà per decenni tra umanità e socialità non la sua effimera e cinica popolarità attuale, ma il suo sostanzioso e la loro perdita. contributo alla disumanizzazione della società. Ma che cosa rende possibile una politica simile? Non si è riflettuto abbastanza sul rapporto tra umanità e socialità e tra perdita dell’una e perdita dell’altra. Ma quel rapporto è sotto i nostri occhi. Mentre imperversano denigrazione e criminalizzazione delle Ong impegnate a continua a pagina 40➔
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salvare decine di migliaia di profughi altrimenti condannati a una morte orrenda, martedì 8 a Bologna sono stati sgomberati con violenza due centri sociali con alle spalle straordinarie pratiche di supporto alla vita sociale dei rispettivi quartieri: attività culturali autogestite, nido per i bambini, scuole di italiano, feste di quartiere, orto urbano, mercatino, accoglienza dei profughi in forme civili e solidali che li hanno fatti accettare e apprezzare da tutto il vicinato, mensa popolare, impegno politico, responsabilità amministrative, ecc.
QUEGLI SGOMBERI SONO i più recenti episodi, ma non saranno gli ultimi, di una campagna di desertificazione culturale e sociale perseguita con pervicacia da partiti, magistratura, polizia, amministrazioni locali e speculazione edilizia, con cui in tante città si stanno chiudendo decine e decine di punti di ritrovo – cinema, teatri, palestre, ricoveri, mense, centri artistici, laboratori e altro – animati da giovani e meno giovani impegnati a dare corpo alle basi della convivenza: che è incontro, confronto, solidarietà, impegno, sicurezza, autonomia personale conquistata attraverso attività condivise. Una scintilla di vita nell’oceano dell’omologazione imposta da consumismo, carrierismo, competizione, pubblicità e media di regime; ma anche, e soprattutto, da precarietà, sfruttamento, insicurezza, disperazione e solitudine. Quegli sgomberi vengono tutti effettuati in nome della «legalità»: cioè della proprietà privata; anche quando, come nel caso del Làbas di Bologna, ma non è il solo, la proprietà è sì privata, ma il proprietario è pubblico; e vuole far cassa con la speculazione su edifici occupati da chi ne ha fatto uno strumento di lotta contro il degrado di città e quartieri.
QUELLA DESERTIFICAZIONE sociale e culturale è portata avanti da quasi tutte le forze politiche; i 5 Stelle, a Roma, non hanno esitato nemmeno a cacciare dalla sua sede storica il Forum dell’acqua che tanto aveva concorso al loro immeritato successo. Allo stesso modo vengono avvolti nel silenzio, e poi denigrati, tanti movimenti che si formano spontaneamente. Il messaggio è chiaro: riunirsi ed esprimersi in autonomia è un crimine, si fa di tutto per impedirlo. Ma una città senza socialità trasforma gli uomini in cose e i suoi abitanti perdono capacità e voglia di mettersi nei panni degli altri, che è la base della solidarietà. È in questo brodo di coltura che matura quel trionfo dell’inumano di cui solo ora, di fronte alla persecuzione delle Ong che salvano i naufraghi, qualcuno – persino repubblica e una parte dei 5stelle – comincia ad accorgersi. È tre anni e più che tutti i teleschermi e le prime pagine dei giornali sono occupate giorno e notte in modo spudorato dalle infamie razziste di un Salvini e dei suoi sodali a 5 stelle. Per una ragione precisa: far passare Matteo Renzi come l’unico baluardo contro il dilagare delle destre. E ora se ne vedono i risultati, con Renzi completamente risucchiato da Salvini e da quel «aiutiamoli a casa loro» che vuol solo dire «facciamoli morire lontano da qui». Una strada peraltro percorsa da quasi tutte le maggioranze di governo europee (e anche da molte delle loro opposizioni) che sta facendoci precipitare in una notte nera che l’Europa ha già conosciuto e che l’Europa unita avrebbe dovuto evitare che si ripetesse. Per questo va rifondata alle radici: con un nuovo «manifesto di Ventotene» che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità. Y Guido Viale
Le carceri turche piene di giornalisti
D
da I Amnesty trimestrale del luglio 2017
a almeno un anno, la Turchia è un immenso carcere e i giornalisti sono una delle categorie più rappresentate tra i detenuti. L’ondata di arresti all’indomani del tentato golpe, il 15 luglio scorso, non si arresta. L’ultimo caso di cui si ha notizia è quello del fotoreporter francese Mathias Depardon, trattenuto dallo scorso 8 maggio nel centro di detenzione per stranieri di Gaziantep, mentre lavorava per il National geographic. Il tedesco Deniz Yücel, corrispondente per die welt, è in carcere da febbraio, con l’accusa di propaganda terrorista, solo per aver intervistato esponenti curdi. E di recente lo stesso ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel ha reso noto l’arresto in Turchia di un’altra cittadina tedesca, Meşale Tolu, traduttrice per un’agenzia stampa di sinistra. Le prospettive non sono rassicuranti. Il ministro degli Esteri turco ha parlato di una «tendenza attuale dei servizi d’intelligence europei di utilizzare i giornalisti come agenti in Turchia»: una chiara accusa di spionaggio. Un’accusa da cui si è salvato Gabriele Del Grande, blogger, documentarista e scrittore impegnato a denunciare il dramma dei migranti. Fermato vicino al confine siriano dove raccoglieva testimonianze, è stato espulso dopo 15 giorni, grazie alla campagna in suo favore accolta dal governo Gentiloni. La liberazione di Gabriele non ci deve far dimenticare cosa accade in Turchia. I numeri parlano da soli: oltre 200 tra operatori dei media, vignettisti, scrittori e documentaristi detenuti (ma alcuni osservatori, come lo Stockholm Center for Freedom, ne contano 260), un altro centinaio ricercati, anche con accuse gravi come complicità con il terrorismo, 150 i media sequestrati, una trentina i gruppi editoriali costretti a chiudere, più di 2000 i cronisti che hanno perso il lavoro. Una condizione purtroppo comune a migliaia di altre persone, colpevoli di aver solo espresso dissenso rispetto alla politica di Erdoğan.
E gli arresti non si fermano: lo stato di emergenza, prolungato sino a luglio, consente alla polizia di fermare per 14 giorni chiunque, senza evidenze di reato. Il risultato del referendum di aprile sull’aumento dei poteri presidenziali, deludente per Erdoğan, non è bastato a rallentare la censura. Una deriva accelerata dal tentato golpe ma che era già in atto da tempo: tra i giornalisti in carcere, molti ancora senza processo, alcuni sono dentro da anni, soprattutto tra i cronisti curdi, come Hatice Duman, direttrice di atilim, arrestata nel 2003 e condannata all’ergastolo per attentato alla costituzione. E le accuse portano come prove articoli e tweet, come per una delle più giovani in carcere, Ayşenur Parildak, appena 26 anni. L’ultimo caso clamoroso è il processo in corso a Istanbul contro 200 presunti membri di “Feto”, come il governo definisce il movimento di Fethullah Gülen, l’oppositore di Erdoğan. Alla sbarra ci sono anche 22 giornalisti: il procuratore ha chiesto una doppia condanna all’ergastolo per 13 di loro, sempre basandosi su articoli o post su blog e social, come per il cantante e scrittore satirico Atilla Taş. Persino i rappresentanti di organizzazioni internazionali sono finiti nel mirino: Erol Önderoğlu, collaboratore di Reporters sans frontieres, è in carcere da un anno e Taner Kılıç, presidente di Amnesty International Turchia, è stato arrestato il 6 giugno con l’accusa di far parte del movimento di Fethullah Gülen. La Turchia è un paese strategico: membro del Consiglio d’Europa e candidato a entrare nell’Unione europea, è ora di fatto la frontiera del continente; finanziato dalla stessa Europa per fermare i migranti, tutto nell’impossibilità per i media, turchi e stranieri, di verificare cosa accade lungo quel confine e nei centri di detenzione pagati da tutti noi. Una realtà di soppressione dello stato di diritto su cui Bruxelles ha chiuso entrambi gli occhi e si è tappata le orecchie, ignorando persino la diffusione del contagio in territorio europeo. Y Elisa Marincola giornalista e portavoce di Articolo 21
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Renzi è nella Storia. Una brutta storia, d’armi
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le storie
L’ex boy scout ha sestupLicato Le autorizzazioNi per esportazioNi di armameNti
Fieri d’armi. Nuovi caccia in mostra a una delle fiere-mercato delle armi. Accanto ai velivoli fanno “bella” mostra di sé gli ordigni che possono essere installati sui superbombardieri. L’industria militare italiana negli ultimi anni ha visto decollare i propri affari. Col fiero aiuto governativo
L’italia vende a dittature rette dal petrolio, a paesi in guerra, perfino sotto embargo europeo. Ne vanno fieri la ex “papa girl” boschi, la ex pacifista pinotti, l’ex catechista gentiloni
L di
da comune-info.net pubblicato il 6 giugno 2017
GiorGio Beretta
riCerCAtore oPAL di breSCiA
o sa, ma non lo dice in pubblico. E la notizia non compare né sul suo sito personale, né sul portale passo dopo passo e nemmeno tra “I risultati che contano” messi in bella mostra con tanto di infografiche da italia in cammino. Eppure è stata la miglior performance del suo governo. Nei 1024 giorni di permanenza a Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha raggiunto un primato storico di cui però, stranamente, non parla:
ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti. Dal giorno del giuramento (22 febbraio 2014) alla consegna del campanellino al successore (12 dicembre 2016), l’esecutivo Renzi ha infatti portato le licenze per esportazioni di sistemi militari da poco più di 2,1 miliardi ad oltre 14,6 miliardi di euro: l’incremento è del 581 per cento che significa, in parole semplici, che l’ammontare è più che sestuplicato. Una vera manna per l’industria militare nazionale, capeggiata dai colossi a controllo statale FinmeccanicaLeonardo e Fincantieri. È tutto da verificare, invece, se le autorizzazioni rilasciate siano conformi ai dettami della legge n. 185 del 1990 e, soprattutto, se davvero servano alla sicurezza internazionale e del nostro paese.
Il capo scout Renzi e il motto di BP Un fatto è certo: è un record storico dai tempi della nascita della Repubblica. Ma, visto il totale silenzio, il primato sembra imbarazzare non poco il capo scout di Rignano sull’Arno che ama presentarsi ricordando il motto di Baden Powell (BP è il fondatore degli scout): «Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato». L’imbarazzo è comprensibile: la stragrande maggioranza degli armamenti non è stata destinata ai paesi amici e alleati dell’Ue e della Nato (nel 2016 a questi paesi ne sono stati inviati solo per 5,4 miliardi di euro pari al 36,9 per cento), bensì ai paesi nelle aree di maggior tensione del mondo, il Nord Africa e il Medio Oriente. È in questa zona – che pullula di dittatori, regimi autoritari, monarchi assoluti sostenitori
diretti o indiretti dello jihadismo oltre che di tiranni di ogni specie e risma – che nel 2016 il governo Renzi ha autorizzato forniture militari per oltre 8,6 miliardi di euro, pari al 58,8% del totale. Anche questo è un altro record, ma pochi se ne sono accorti.
Il basso profilo della sottosegretaria Boschi Eppure non sono cifre segrete. Sono tutte scritte, nero su bianco e con tanto di grafici a colori, nella relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2016 inviata alle Camere il 18 aprile. L’ha trasmessa l’ex ministra delle Riforme e attuale Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Maria Elena Boschi. Nella relazione di sua competenza l’ex catechista e Papa girl si è premurata di segnalare che «sul valore delle esportazioni e sulla posizione del Kuwait come primo partner, incide una licenza di 7,3 miliardi di euro per la fornitura di 28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione Eurofighter Typhoon realizzati in Italia». Al resto – cioè ai sistemi militari invitati in 82 paesi del mondo tra cui soprattutto quelli spediti in Medio Oriente – la Sottosegretaria ha riservato solo un laconico commento: «Si è pertanto ulteriormente consolidata la ripresa del settore della Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del triennio 20112013». La legge n. 185 del 1990, che regolacontinua a pagina 42 ➔
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menta la materia, stabilisce che l’esportazione e i trasferimenti di materiale di armamento «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia»: autorizzare l’esportazione di sistemi militari a paesi al di fuori delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia meriterebbe pertanto qualche spiegazione in più da parte di chi, durante il governo Renzi e oggi col governo Gentiloni, ha avuto la delega al programma di governo.
I meriti per il boom della ministra Pinotti Non c’è dubbio, però, che gran parte del merito per il boom di esportazioni sia della ministra della Difesa, Roberta Pinotti. È alla “sorella scout”, titolare di Palazzo Baracchini, che va attribuito il pregio di aver consolidato i rapporti con i ministeri della Difesa, soprattutto dei paesi mediorientali. La relazione del governo non glielo riconosce apertamente, ma la principale azienda del settore, Finmeccanica-Leonardo, non ha mancato di sottolinearne il ruolo decisivo. Soprattutto nella commessa dei già citati 28 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon: «Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica» – commentava l’allora Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica, Mauro Moretti. «Il contratto con il Kuwait si inserisce in un’ampia e consolidata partnership tra i Ministeri della Difesa italiano e del Paese del Golfo» – aggiungeva il comunicato ufficiale di Finmeccanica-Leonardo. Alla firma non poteva quindi mancare la ministra, nonostante gli slittamenti della data dovuti – secondo fonti ben informate – alle richieste di chiarimenti circa i costi relativi «a sup-
porto tecnico, addestramento, pezzi di ricambio e la realizzazione di infrastrutture». Anche il Ministero della Difesa ha posto grande enfasi sui «rapporti consolidati» tra Italia e Kuwait: «rapporti – spiegava il comunicato della Difesa – che potranno essere ulteriormente rafforzati, anche alla luce dell’impegno comune a tutela della stabilità e della sicurezza nell’area mediorientale, dove il Kuwait occupa un ruolo centrale». Nessuna parola, invece, sul ruolo del Kuwait nel conflitto in Yemen, in cui è attivamente impegnato con 15 caccia, insieme alla coalizione a guida saudita che nel marzo del 2015 è intervenuta militarmente in Yemen senza alcun mandato internazionale. I meriti della ministra Pinotti nel sostegno all’export di sistemi militari non si limitano ai caccia al Kuwait: va ricordato anche l’accordo di cooperazione militare con il Qatar per la fornitura da parte di Fincantieri di sette unità navali dotate di missili MBDA per un valore totale di 5 miliardi di euro, che però non compare nella Relazione governativa. Ma, soprattutto, non va dimenticata la visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita per promuovere “affari navali”(1) (ne ho parlato qualche mese fa e rimando in proposito ai miei precedenti articoli)(2). Le dichiarazioni dell’ex ministro Gentiloni Una menzione particolare spetta all’ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. È lui, ex catechista ed ex sostenitore della sinistra extraparlamentare, che più di tutti si è speso in difesa delle esportazioni di sistemi militari. Lo ha fatto nella sede istituzionale preposta: alla Camera
in riposta a due Question time. Il primo risale al 26 novembre 2015, in riposta a un’interrogazione del M5S, durante la quale il titolare della Farnesina, dopo aver ricordato che «… abbiamo delle Forze armate, abbiamo un’industria della Difesa moderna che ha rapporti di scambio e esportazioni con molti paesi del mondo…» ha voluto evidenziare che «è importante ribadire che l’Italia comunque rispetta, ovviamente, le leggi del nostro paese, le regole dell’Unione europea e quelle internazionali (pausa) sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi d’arma vietati». Già, ma la legge 185/1990 e le “regole Ue e internazionali” non si limitano agli embarghi, anzi pongono una serie di specifici divieti sui quali Gentiloni ha bellamente sorvolato. Nel secondo, del 26 ottobre 2016, in risposta ad un’interrogazione del M5S che riguardava nello specifico le esportazioni di bombe e materiali bellici all’Arabia Saudita e il loro impiego nel conflitto in Yemen, Gentiloni ha sostenuto che «l’Arabia Saudita non è oggetto di alcuna forma di embargo, sanzione o restrizione internazionale nel settore delle vendite di armamenti». Tacendo però sulla Risoluzione del Parlamento europeo, votata ad ampia maggioranza già nel febbraio del 2016, che ha invitato l’Alta rappresentante
Da Cagliari all’Arabia Saudita bombe italiane usate contro i civili in Yemen
M
da Speciale per Africa ExPress del 1 novembre 2015
issione compiuta. Il 29 ottobre scorso, centinaia di bombe d’aereo prodotte in Italia, hanno raggiunto l’Arabia Saudita dove saranno quasi certamente utilizzate per le operazioni di guerra in Yemen da parte della coalizione internazionale a guida saudita e di cui fanno parte pure Marocco, Egitto, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Kuwait, Giordania e Pakistan. Secondo la giornalista Malachy Browne, che ha documentato grazie a Flightradar24.com le rotte del velivolo che ha trasportato le bombe (un Boeing 747 della compagnia aerea azera Silk Way Airlines), il cargo 4K-SW888 è decollato dallo scalo di Cagliari Elmas, ha sorvolato l’Egitto e il Mar Rosso e ha poi iniziato la sua discesa verso la città di Gedda, anche se dopo un improvviso cambio di rotta è atterrato nell’aeroporto “King Fahd” di Taif, base strategica dell’Aeronautica militare dell’Arabia Saudita e della
stessa US Air Force. A Taif, in particolare, sono rischierati i cacciabombardieri Eurofighter “Typhoon” che i sauditi hanno acquistato dal consorzio europeo composto dai colossi BAE, EADS e dall’italiana Alenia Aermacchi (Finmeccanica), utilizzati dal 25 marzo per gli attacchi aerei in Yemen. Nei giorni scorsi, alcuni giornalisti e attivisti sardi avevano documentato le operazioni di carico a Cagliari Elmas di alcuni container “sospetti” a bordo del Boeing 747. L’Enac, in una nota, ha confermato le operazioni del velivolo con a bordo materiale bellico, spiegando che «si trattava di un volo di natura commerciale regolarmente autorizzato nel contesto delle previsioni normative internazionali tecniche che disciplinano il trasporto di tali materiali». «Con ogni probabilità si è trattato di una nuova fornitura di bombe fabbricate nell’azienda tedesca RWM Italia di Domusnovas che prosegue le spedizioni degli ultimi anni», ha dichiarato Giorgio Beretta, ricercatore dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Difesa e Sicurezza
l’imbarco. Cagliari Elmas: a pochi metri dagli aerei di linea, un carico di bombe è pronto (roberto Cotti)
(OPAL) di Brescia. «Sappiamo che ordigni inesplosi del tipo di quelli inviati dall’Italia, come le bombe MK84 e Blu109, sono stati ritrovati in diverse città dello Yemen bombardate dalla coalizione saudita e il nostro Ministero degli Esteri non ha mai smentito che le forze militari saudite stiano impiegando anche ordigni prodotti in Italia in questo conflitto». Con un comunicato congiunto, la Rete Italiana per il Disarmo, Amnesty International Italia e l’OPAL di Brescia hanno duramente stigmatizzato il trasferimento di materiale bellico al regime saudita. «È inaccettabile – scrivono le Ong – che nello stesso giorno in cui l’Unione Europea ha assegnato il Premio Sakharov al blogger saudita incarcerato Raif Badawi, dall’Italia siano partite nuove bombe destinate all’Arabia Saudita, il paese che guida la coalizione la quale – senza alcun mandato internazionale – da sette mesi sta bombardando lo Yemen con migliaia di morti tra i civili». Y Antonio Mazzeo
dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, ad «avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita», in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Questa risoluzione, finora, è rimasta inattuata anche per la mancanza di sostegno da parte del Governo italiano.
Ventimila bombe da sganciare in Yemen Rispondendo alla suddetta interrogazione, Gentiloni ha però dovuto riconoscere che «la ditta RWM Italia, facente parte di un gruppo tedesco, ha esportato in Arabia Saudita in forza di licenze rilasciate in base alla normativa vigente». Un’assunzione, seppur indiretta, di responsabilità da parte del ministro. Il quale, nonostante i vari organismi delle Nazioni Unite e lo stesso Ban Ki-moon abbiano a più riprese condannato i bombardamenti della coalizione saudita sulle aree abitate da civili in Yemen (sono più di 10mila i morti tra i civili), ha continuato ad autorizzare le forniture belliche a Riad. E non vi è notizia che le abbia sospese, nemmeno dopo che uno specifico rapporto trasmesso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non solo ha dimostrato l’utilizzo anche delle bombe della RWM Italia sulle aree civili in Yemen, ma ha affermato che questi bombardamenti «may amount to war crimes» («possono costituire crimini di guerra»). Nella Relazione inviata al Parlamento spiccano le autorizzazioni all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 427 milioni di euro. Tra queste figurano «bombe, razzi, esplosivi e apparecchi per la direzione del tiro» e altro materiale bellico. La relazione non indica, invece, il paese destinatario delle autorizzazioni rilasciate alle aziende, ma l’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette di affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita: si tratta, nello specifico, dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Una conferma in questo senso è contenuta nella Relazione Finanziaria della Rheinmetall (l’azienda tedesca di cui fa parte RWM Italia) che per l’anno 2016 segnala un ordine «molto significativo» di «munizioni» per 411 milioni di euro da un «cliente della regione MENA» (Medio-Oriente e Nord Y Africa). Giorgio Beretta ricercatore dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Difesa e Sicurezza (OPAL) di Brescia 1) http://www.unimondo.org/notizie/La-ministra-Pinotti-in-Arabia-Saudita-per-nuovicontratti-militari-160466 2) http://www.unimondo.org/notizie/dopola-visita-della-Pinotti-Fincantieri-proponeai-sauditi-navi-da-guerra-162123
le storie
il fiore del partigiano
Il grande affare delle armi
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da notizie.tiscali.it del 3 dicembre 2015
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denza quali sono le aziende beneficiarie delle autorizzazioni per l’esportazione di materiali di armamento, quali i Paesi destinatari e le atdi Paolo Salvatore orrù tività degli istituti di credito relative a queste uando c’è di mezzo il business nes- operazioni. suno si ricorda più della strage di Pa- I settori più rappresentativi dell’attività rigi, delle Torri Gemelle, di Al Qaeda d’esportazione sono stati: l’aeronautica, l’elie neppure dell’Isis. Gli affari prima di tutto: di cotteristica, l’elettronica per la difesa (aviofronte a questo imperativo, a pochi importa nica, radar, comunicazioni, apparati di guerra quali e quante armi sparano contro i soldati elettronica) i sistemi d’arma (missili, artiglieimpegnati a “esportare la democrazia” o ad rie). Tra i primi 10 posti per valore contratarginare l’avanzata jihadista. Eppure, le armi tuale delle operazioni autorizzate – ha spiepuntate contro “i nostri” sono quasi tutte pro- gato ancora l’archivio disarmo – troviamo: dotte, compresi Russia e Israele, in Occidente. Agusta Westland, Alenia Aermacchi, Selex ES, GE AVIO, Elettronica, I dati Oto Melara, Piaggio Aero In questo segmento di L’Istituto di Ricerche Industries, Fabbrica d’armercato opera con “suc- Internazionali Archivio mi P. Beretta, Whitehead cesso” anche l’Italia: nel Sistemi Subacquei e Disarmo ha analizzato 2014 il valore globale delle IVECO. Bisogna notare, licenze di esportazione la relazione al tra l’altro, che la maggior definitiva concesse dal Parlamento sulle parte di queste aziende ministero degli Esteri è operazioni autorizzate appartiene, in varia mistato di 2.650.898.056, e svolte per il controllo sura, al Gruppo “Finmeccon un incremento del canica” (che raggiunge il dell’esportazione, 23,3% rispetto all’anno 64,69% del valore contratprecedente, ha spiegato importazione e transito tuale totale delle autorizElisangela Annunziato – dei materiali zazioni). ricercatrice dell’Istituto di di armamento Ricerche Internazionali Banche armate archivio disarmo - maNon si sa quasi nulla delle ster FOCSIV in Nuovi orizzonti di coopera- “banche armate” che si preoccupano delle zione e diritto internazionale presso transazioni sul territorio italiano in ambito di L’Università Pontificia Lateranense -. Il dato esportazione, importazione, transito, trasfesi ricava dalla relazione al Parlamento sulle rimento intracomunitario e intermediazione operazioni autorizzate e svolte per il controllo di materiali di armamento. Si sa solo che a dell’esportazione, importazione e transito dei oggi risultano accreditati 44 istituti nel 2014; materiali di armamento. inoltre, sono state effettuate dagli operatori bancari 8.473 segnalazioni inerenti transaCostituzione e impegni internazionali zioni bancarie su autorizzazioni rilasciate dal In buona sostanza, l’Italia – spiega l’archivio Ministero degli Affari Esteri. disarmo – agisce in contrasto con la Costitu- Nell’anno 2014, il 55% dell’ammontare comzione e con gli impegni internazionali, non sta plessivo movimentato per le sole esportazioni tenendo conto delle norme che vietano definitive è stato negoziato da soli tre istituti l’esportazione, il transito, il trasferimento bancari, ma, anche qui, non è indicato quali. intra-comunitario e l’intermediazione di ma- Sono state inoltre segnalate transazioni banteriali di armamento, nonché la cessione delle carie effettivamente portate a compimento relative licenze di produzione e la delocalizza- per pagamento di importi accessori per circa zione produttiva. Mettendo così a rischio la 290 milioni. sicurezza dello Stato e di tutti Paesi impegnati nella lotta contro il terrorismo. Come sempre, La trasparenza molto attenta a queste dinamiche Amnesty Elisangela Annunziato ha puntato il suo inInternational, che ha puntato il dito contro il dice anche contro la poca trasparenza delle nostro Paese, accusato di aver venduto armi “operazioni bancarie”: la relazione «non solo anche dove possono essere utilizzate contro i non ha ripristinato l’elenco di dettaglio delle civili, dribblando «il principio di divisione tra operazioni bancarie (scomparso dal 2008 civili e combattenti che è una salvaguardia senza alcuna giustificazione al Parlamento), fondamentale per le persone travolte dagli or- ma invece dell’elenco delle “Operazioni Autorori della guerra». rizzate” riporta solo quello delle “Operazioni segnalate”, quelle cioè che ogni anno svolge Le aziende ogni banca, ma che non permettono di risalire L’archivio disarmo ha anche posto in evi- all’intera operazione autorizzata». Y
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Bombe sui bimbi. Le “nostre”
le storie - la Storia
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YEMEN - LA VOLONTEROSA COLLABORAZIONE ITALIANA ALLE STRAGI DI CIVILI NEL
da il manifesto del 19 agosto 2017
N DI
DAMIANO TAVOLIERE
ell’ultimo quinquennio, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono fra i maggiori importatori di armi nel mondo, rispettivamente col 13 e l’8 percento dell’intero export, entrambi allocati nell’area più attraente per i mercanti di morte, l’area MENA (Middle East and North Africa). L’Italia ha una posizione leader: in poco tempo passa da due miliardi di euro a 8,4 mld nel 2015 (+197% sul 2014), per compiere un altro balzo formidabile nel 2016 con l’86% in più sull’anno precedente e 15 mld di fatturato. L’area Mena assorbe il 59% di forniture offensive nostrane. E l’intensificazione dei conflitti nella zona riempie di giubilo l’industria militare: abbiamo ora un volume di affari per 7,7 miliardi col Kuwait (grazie a 28 aerei italiani modello Eurofighter Typhoon), seguito da Arabia Saudita, Qatar, Emirati, Bahrein. Tutti Paesi ampiamente liberticidi, che eludono il Diritto umanitario, e sono coinvolti nella guerra civile yemenita (accanto a Egitto, Marocco, Oman) tra coalizione sunnita a guida saudita e sciiti huthi. Questi dati li offre Maurizio Simoncelli dell’archivio disarmo: «si parla anche di triangolazioni, ossia di parziali destinazioni finali alle parti in conflitto in Libia». La prova del nostro diretto coinvolgimento
viene in questi mesi «dal ritrovamento di resti di ordigni italiani nelle zone yemenite bombardate» aggiunge Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. In tale quadro la situazione sanitaria -rileva Federica Nogarotto di Medici Senza Frontiere– vede esplodere epidemie di colera: «nei primi mesi 2017 i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità calcolano 150mila casi». Del conflitto «sporchissimo e oscuratissimo in atto nello Yemen da oltre due anni» ci racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia in cui opera dal 1980. «Conflitto di cui non si parla, quindi si ignorano i crimini di guerra e gli attacchi indiscriminati contro obiettivi civili – centri abitati, scuole, mercati, moschee, ospedali – anche con bombe e armi italiane». Amnesty ha iniziato una campagna informativa diffondendo un’immagine e due righe: «A togliere la vita a questi bambini potrebbero essere state bombe italiane vendute dal nostro governo alla coalizione saudita impegnata nel conflitto yemenita. Eppure i media sono indifferenti a questa crisi che ha provocato oltre 12.000 morti e feriti tra i civili. Non voltare lo sguardo anche tu». Conosco Noury da trent’anni: asciuttezza filiforme in uno sguardo vigile, severo e cordiale, nella permanente missione di denunciare delitti e abusi umani sugli umani: «si tratta di circa 20 milioni di persone – fra i quali tre
pillole di resistenza culturale È terribile in mezzo al mar morir di sete. È proprio necessario, dunque, che voi mettiate nella vostra verità tanto di quel sale che essa non riesce neanche più ad estinguere la sete? Y Friedrich Wilhelm Nietzsche (Al di là del bene e del male)
coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna. Y Niccolò Machiavelli (Istorie fiorentine)
Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi co-
A CurA di
maUrizio GHezzi
muni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. siate voci fuori dal coro. siate il peso che inclina il piano. un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai. Y Bertrand Russell
se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri. Y Don Lorenzo Milani
milioni di sfollati – che hanno disperato bisogno di servizi elementari, acqua cibo medicine…, mentre gli aiuti umanitari vengono ostacolati e sono nettamente insufficienti. Il conto delle vittime civili – quasi 5.000 morti e più di 8.000 feriti – documenta che questa guerra viene combattuta soprattutto a loro discapito. Riguardo ai bambini il crimine è accresciuto dal fatto che vengono irretiti forzatamente a centinaia, sia dalla coalizione a guida saudita che dal regime huthi al potere nella capitale Sana’a. Anche l’educazione è compromessa: due milioni di bambini non vanno più a scuola, il che li rende ulteriormente vulnerabili all’arruolamento». Le bombe italiane che massacrano bimbi e famiglie nei luoghi amati da Pier Paolo Pasolini sono prodotte nella fabbrica sarda di Domusnovas RWM Italia, con sede legale a Ghedi nel Bresciano e di proprietà dell’azienda tedesca Rheinmetall Defence. Sostiene Arnaldo Scarpa del Comitato riconversione per la pace: «nel 2001 fu convertita da esplosivi a uso civile in esplosivi a uso militare, con ingenti somme pubbliche e l’appoggio di alte cariche istituzionali. È inaccettabile che la vendita di armi sia sbandierata dal governo che ricatta l’opinione pubblica sul tema occupazionale, trasforma in argomento top secret la produzione reale, cela il numero di lavoratori effettivi che sono 86 gonfiandoli a 500: informazioni strumentali per imporre silenzio sulla fabbrica di morte». Rincara la dose Nicoletta Dentico di Fondazione Finanza Etica: «La politica nazionale e internazionale straparla di ‘sviluppo sostenibile’, però la storia di Domusnovas ha potente valenza simbolica: per evitare seccature interne, i tedeschi hanno preferito delocalizzare in Italia, in un’area relativamente isolata. Un tempo su analoghi temi delicatissimi come le mine, era possibile incontrare il presidente del Consiglio Prodi, il quale si interessava alle mobilitazioni in atto: oggi è complicato incontrare il Capo del Governo, e la ministra Pinotti è sorda alle istanze che portiamo (non è la sola: in Europa c’è un pericoloso giro di donne ministre della Difesa). Stiamo violando la Costituzione, le leggi italiane, le norme internazionali». E Alfredo Scognamiglio, del Movimento Focolari, lamenta: «Perché le istituzioni non rispondono ? Perché gli appelli di papa Francesco sono inascoltati? Noi, sulla scia di don Mazzolari e don Milani,
il fiore del partigiano MONDO
Caro ministro, non è di sinistra copiare la destra
le idee
LETTERA APERTA A MINNITI
S di
da il manifesto del 17 agosto 2017
aleSSandro dal laGo
ignor ministro Minniti, nei giorni scorsi lei ha dichiarato che si comincia a «vedere la luce» sulla questione migrazioni, che «governare i flussi è di sinistra» e che il suo «assillo è il rispetto dei diritti umani in Libia». Mi permetta di dissentire dal senso di queste parole. Ma prima, lasci che mi presenti. Sono uno di quei «sociologi da strapazzo», così definiti da un illustre uomo politico di centrosinistra, che si interrogano sul significato delle migrazioni, senza accettare a scatola chiusa il punto di vista del governo del loro paese. Che insomma rifiutano che lo Stato di cui sono cittadini condizioni il loro modo di pensare.
Immagini sotto embargo, quelle della guerra in Yemen (Foto moHAmmed HuwAiS/AFP/getty imAgeS)
Ebbene, credo che lei farebbe un favore alla sua intelligenza e alla nostra, se la smettesse di dichiarare «di sinistra» provvedimenti che con la tradizione ammaccata, ma nobile, della sinistra classica non hanno nulla a che fare: campi di detenzione per stranieri, decreti sull’ordine pubblico dal sapore scelbiano, rastrellamenti di migranti nelle grandi città, il codice imposto alle Ong e gli accordi sottobanco con la Libia. E ora il “governo dei flussi”. Signor ministro, i “flussi” sono un’invenzione degli studiosi di statistica, una banale metafora idraulica, meri numeri del dare e avere demografico.
mAuro biAni
chiediamo con forza: perché non si rispettano le leggi esistenti?, perché non si finanziano le riconversioni produttive?, perché abbiamo trasformato la conversione da civile a militare della Finmeccanica?… lo chiediamo a tutti, parlamentari e non». Ancora Riccardo: «Il conflitto armato nello Yemen è l’ennesima puntata dello scontro per la supremazia fra Iran e Arabia Saudita, nel quale Italia e Occidente fanno una scelta di campo precisa: nonostante il miglioramento dei rapporti diplomatici e commerciali con l’Iran sciita, noi abbiamo vincoli militari, politici e strategici coi sunniti guidati dai sauditi ritenuti moderati, il che significa ignorare tutti i loro crimini di guerra e vendergli armi a valanga. Così Trump ha concluso recenti affari bellici colossali coi sauditi, ma anche Obama ha contrattato quantità enormi. Occorre una pressione politica sulle due parti combattenti: è vero che i sauditi bombardano dal cielo, ma a terra gli huthi bloccano strade, sequestrano giornalisti, uccidono civili: non è un conflitto tra buoni e cattivi, ma tra cattivi e pessimi, in cui la prima condizione da imporre è la garanzia sulla destinazione degli aiuti umanitari. Parte da qui il risveglio della coscienza in ognuno. Invece l’Occidente cavalca i conflitti, l’Europa sorvola sui propri Trattati che regolano il commercio di armi, e l’Italia elude la legge 185 del 1990 che vieta l’esportazione di armi in aree di conflitto e gravi violazioni dei diritti umani». Eppure l’articolo 11 della nostra Carta Costituzionale recita l’Italia ripudia la guerra. «Il Belpaese invia massicciamente armi ai peggiori, tipo l’Egitto (tre sparizioni al giorno, oltre mille l’anno), sia prima che dopo l’assassinio di Giulio Regeni». Infine: per l’edizione 2017 di paris plage, la sindaca Anne Hidalgo ha annullato la commessa di sabbia dal gruppo Lafarge, cementificio accusato di finanziare l’Isis tramite la sua affiliata siriana e di essere disponibile a costruire il muro fra Messico e USA. I nostri sindaci che vogliano indossare un fiore etico Y all’occhiello battano un colpo.
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Quelli che emigrano sono esseri umani, di carne sangue e ossa, i veri oggetti del suo “governo”. Ma che significa governare? A quanto si comincia a capire, impedire che i migranti arrivino, delegando alla Libia e agli stati sub-sahariani il loro controllo e la loro espulsione verso i paesi d’origine. Ecco allora il silenzio-assenso, o se vuole il silenzio colpevole, sulla Libia che di fatto ha esteso il limite delle sue acque territoriali e impedisce con le minacce alle navi delle Ong di operare. Dopo di che tutti i pezzi del puzzle vanno a posto. Dopo una campagna forsennata contro le Ong, culminata nel suo famoso codice, le loro navi si sono di fatto ritirate dal Mediterraneo. E ora i libici, a cui l’Italia fornisce denaro, armi e mezzi navali faranno il lavoro sporco per noi e per un’Europa indifferente. Il lavoro sporco – altro che governo dei flussi – consiste nel respingerli verso l’Africa profonda, internarli nei campi, di cui recentemente Domenico Quirico su La stampa ha descritto l’orrore, e andare ad acchiappare in mare se riescono a imbarcarsi.
Ma altri partiranno, signor ministro, e senza le navi delle Ong a salvarli, per non parlare di Frontex, l’agenzia infingarda dei doganieri europei, moriranno di fame e di sete. Come anche i loro compagni che non ce la faranno ad arrivare sulla costa e moriranno nel deserto o nelle galere del nostro nuovo alleato, la Libia. Questo sarebbe “di sinistra”? Di fatto, Europa e Italia hanno creato un limbo di invisibilità, un cimitero reale e potenziale che non fa problema perché nessuno sarà in grado di dire che cosa vi succede e succederà. Così, la destra sarà contenta – basta leggere i suoi giornali – e tutti i fessi che vedono in un migrante per strada un potenziale aggressore tireranno un sospiro di sollievo. E magari, ma non ne sarei troppo sicuro, il Pd sfilerà qualche migliaio di voti alla Lega a Forza Italia e al M5 Stelle. E intanto quelli annegheranno ma, poiché nessuno lo saprà, sarà come se nulla fosse successo. Immagino che lei, signor ministro, abbia una coscienza come tutti i suoi simili. È forse da questa coscienza che nasce l’assillo, come dice lei, per i «diritti umani in Libia»? Beh, lasci perdere. Ci risparmi almeno i suoi tormenti interiori. Anche perché non credo proprio che riuscirebbe più a dormire se davvero indagasse nella sua coscienza. Y
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Il velo femminile: una stoffa dalle radici cristiane
le idee
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
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bruno-nassim Aboudrar - come il velo è diventato musulmano raffaello Cortina editore, pp. 207, € 19,00
da il manifesto del 29 dicembre 2015
elo sì, velo no. Il dibattito sui rapporti tra Occidente e mondo arabo si limitano spesso al pezzo di stoffa sul capo delle donne di fede musulmana, tirato sia da chi lo rivendica come simbolo di identità che da chi lo bolla come strumento di sottomissione. Ma tra chi lo vuole togliere e chi lo vuole santificare spesso regna ignoranza: del velo l’Occidente sa poco, alimentandosi di stereotipi da tolleranza zero o da esaltazione orientalista. Cerca di fare chiarezza Bruno Nassim Aboudrar, professore di estetica alla Sorbonne. Nel libro come il velo è diventato musulmano narra una storia, la Storia: partendo dal mondo arabo preislamico, passando per i padri della Chiesa cristiana per arrivare ai principi del profeta Maometto, mostra il ruolo che il velo ha avuto nel Medio Oriente e nel Nord Africa, vittime della colonizzazione europea del secolo scorso. Un ruolo giocato sia dalle popolazione autoctone che dagli intellettuali del movimento colonizzatore, fino all’avvento dei movimenti di indipendenza arabi. Uno dei principali meriti della ricerca di Aboudrar è proprio questo: la centralità della ricerca storiografica, spogliata dagli inutili fronzoli figli delle contrastanti ideologie che ruotano intorno all’Islam. Velo sì o velo no non è la domanda che l’autore si pone, né l’obiettivo dell’analisi. Il fine è spiegare le origini di un fazzoletto di stoffa che fa da discriminante – nella compressa mentalità europea – tra la libertà occidentale e l’oppressione
A
araba. Eppure quel velo, che tanti dibattiti ha aperto nell’Europa illuminista e che ha prodotto estremismi folli, dove la laicità dello Stato è stata confusa con l’invasione della sfera privata della libertà di religione (come nella Francia che vietò il velo in pubblico), ha radici cristiane. Se in Grecia e a Roma non veniva usato se non per ragioni estetiche, come accessorio delle matrone e simbolo di eleganza, il primo a prevederne l’imposizione a fini di sottomissione della donna è San Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Un’imposizione poi ripresa successivamente da religiosi assurti a padri della Chiesa. Il velo è dipinto come strumento sociale e religioso, mezzo che evita l’adescamento femminile dell’uomo, ma in realtà è altro: è simbolo dell’inferiorità della donna, chiamata a sottomettersi a Dio attraverso la sottomissione alla sua principale creatura, ossia l’uomo. Secoli più tardi compare nel Corano. In una sola sura, la numero 24: una norma non vincolante, nella volontà di Maometto, dal sapore culturale prima che religioso. Studiosi del testo sacro musulmano convergono su un punto: quella sura fu strappata da adepti conservatori al profeta, poco propenso a prevedere uno strumento di copertura della donna. La sura 24 non impone di coprire il volto, ma fa riferimento ai seni. Nonostante ciò, il velo è diventato nel tempo, scrive Aboudrar, «simbolo dell’Islam, pur rivestendo in esso scarsissima importanza». Accompagnerà così il mondo arabo fino alle porte del ’900 quando diviene oggetto di interesse dei co-
loni europei. Tra gli intellettuali occidentali arrivati in Nord Africa e Medio Oriente da occupanti, la funzione del velo viene occultata: dall’orientalismo spicciolo all’ideologia anti-islamica, l’Europa studia il velo secondo i propri canoni e per servire interessi particolari. È mezzo di derisione della donna, è l’oggetto di fotografie e cartoline umilianti da far circolare in Europa, o all’opposto il simbolo di una sottomissione che le prime femministe europee vogliono cancellare per aiutare le sorelle arabe, inferiori e incapaci di privarsene. La violenza imposta trasforma così il velo in strumento di resistenza e di affermazione identitaria: per la donna e per l’uomo musulmani quella stoffa diviene il modo per impedire un’assimilazione forzosa all’Europa coloniale, per sfidare l’occupante. E lo è ancora oggi, con lo svelamento imposto nel Medio Oriente e nel Nord Africa dai movimenti nazionalisti, dalla Turchia di Ataturk all’Iran di Reza Scià. Veli tolti in pubblico e marce di donne organizzate dallo Stato in cui le giovani – prive del velo – sono il mezzo arabo per pubblicizzare il nuovo volto dell’Islam, quello moderato e occidentalizzato. E qui sta l’altro grande merito del libro: mostrare l’importanza della scelta di un intero popolo contro l’imposizione esterna, raccontando con dovizia di particolari il sentimento di accettazione o repulsione vissuto dalle popolazioni sottoposte agli svelamenti di Stato. Umiliazione e violenza in alcuni casi; liberazione, in altri. Y
Sono orgogliosamente rom. E sono come voi
Chiara Cruciati
Anina Ciuciu, Frédéric Veille - Sono rom e ne sono fiera. dalle baracche romane alla Sorbona edizioni Alegre - pp 205, € 10,00
da ilmegafonoquotidiano.it
nina ha 26 anni, ed è rom. Oggi studia alla Sorbona per diventare magistrato. Prima di riuscirci però ha conosciuto i terribili viaggi per migrare dalla Romania, gli squallidi campi nomadi italiani, la miseria, la necessità di chiedere l’elemosina per strada, gli insulti dei passanti e poi dei compagni di classe. In questo libro intenso e coinvolgente – che in Francia ha venduto oltre diecimila copie – trova il coraggio di raccontare la sua storia in prima persona. Ha sette anni quando la sua famiglia scappa dalla Romania per raggiungere l’Occidente attraverso un viaggio tanto costoso quanto drammatico. In Italia si ritrova nella baraccopoli Casilino 900 in cui trascorre mesi di soprusi e umiliazioni. Tra mille peripezie fugge poi con la famiglia verso la Francia dove, dopo alcuni mesi vissuti in un furgone, grazie all’aiuto di due donne gli assegnano un
appartamento. Dopo un periodo di clandestinità, i suoi genitori ottengono il permesso di soggiorno e di conseguenza un lavoro regolare che consente loro di far studiare i propri figli. Fino all’arrivo di Anina alla Sorbona. Anina ha mantenuto le sue radici, parla il romaní, cucina secondo la tradizione familiare. Ma si considera anche francese e rumena ed è orgogliosa di esserlo. È probabilmente la prima ragazza rom ad entrare nella prestigiosa università parigina, eppure non si considera un personaggio straordinario. È semplicemente una ragazza rom che ha saputo e voluto cogliere un’opportunità. Ciò che dovrebbe sembrare straordinario della storia che ci racconta è invece la violenza che viene perpetuata verso un intero popolo per il solo fatto di essere rom. E che costringe ogni bambino a vergognarsi fin dalla nascita. «No, non sono nata mendicante – scrive Anina – Sono le politiche che si sono succedute ad avermi resa tale, come potrebbero farlo
con ognuno di voi». Un’autobiografia che cambia il punto di vista con cui si è abituati a guardare la realtà e permette di superare qualsiasi pregiudizio razzista. Lanciando un messaggio di speranza allo stesso popolo rom. «Quando domani per strada incrocerete una signora con la schiena curva, con un cartello di cartone sulle ginocchia, quando vedrete che accanto a lei c’è seduta una bambina dai capelli lunghi e neri, non giudicatela, non insultatela, non picchiatela. Ho vissuto tutto questo e ne sono stata segnata a vita. Ma oggi, davanti a me, ci sono le porte della Sorbona che si aprono.» Y anina ciuciu, 26 anni, rom, studentessa alla Sorbona. il suo libro in francese è stato pubblicato da City editions con il titolo Je suis Tzigane et je le reste, vendendo oltre diecimila copie, ed è stato tradotto anche in lingua rumena da trei con il titolo Mandrà sa fiu Rroma.
il fiore del partigiano
L
Vecchie e nuove pagine di una corale vita operaia
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Settembre 2017
Collettivo metalmente con wu ming 2 e ivan brentari, con un racconto di Luciano bianciardi meccanoscritto - edizioni Alegre - pp. 350, € 16,00
da il manifesto del 4 maggio 2017
eggere la crisi del presente in controluce, la luce della storia delle lotte. È l’obiettivo felicemente raggiunto da meccanoscritto (Edizioni Alegre, 2017), un libro collettivo a firma del Collettivo MetalMente con Wu Ming 2 e Ivan Brentari. Un testo sperimentale figlio di un prezioso e faticoso lavoro di scrittura che tiene insieme due epoche e incrocia racconti individuali e collettivi, «infrastorie» raccontate attraverso documenti, giornali, testimonianze, dialoghi e narrativa.
TUTTO È PARTITO dalla scoperta nei locali dell’Archivio del Lavoro di Sesto San Giovanni di una risma di carta velina contenente alcuni racconti scritti per il «concorso letterario» Fiom del 1964. L’iniziativa era stata bandita dal periodico il metallurgico dopo la mobilitazione contrattuale del 196263 allo scopo di raccontare le lotte di quegli anni. Nella giuria figuravano Luciano Bianciardi, reduce dal grande successo ottenuto con La Vita agra, il giovane Umberto Eco, Giovanni Arpino e Franco Fortini. Grazie alle ricerche di Brentari, si è poi scoperto che il concorso era stato un’idea del segretario locale della Fiom Giuseppe Sacchi, entrato in contatto con lo scrittore toscano in occasione di una manifestazione in piazza del Duomo. Si trattava di un’iniziativa in continuità con quel “Natale in piazza” del 1960 pensato proprio da Sacchi per coinvolgere la società milanese nella campagna degli elettromeccanici e trovare sponde tra gli intellettuali. Siamo nel febbraio 1962, l’anno della lotta per il contratto nazionale che avrebbe infiammato Milano e tutto il Paese, tra accordi e colpi di freno. «La posta in palio – scrive Brentari – era molto più alta di qualche aumento salariale. Non si trattava solo di soldi, ma di cambiare la funzione del sindacato, la vita nelle fabbriche di milioni di persone». Il concorso letterario avrebbe dovuto permettere ai protagonisti di quella vittoria di mettere su carta l’esperienza vissuta in prima persona, di tradurre letterariamente la vita operaia con un’operazione tra la narrativa, la costruzione del consenso e il desiderio di lasciare un segno. Del resto, al dirigente della Fiom Bianciardi aveva risposto che un vero romanzo sarebbe dovuto venire dagli stessi operai.
NEL 2015 NASCE il collettivo “MetalMente”, officina di scrittura collettiva messa in piedi con il contributo di Wu Ming 2 e aperta a coloro che vogliono «raccontare a tutti il mondo del lavoro dall’interno e con qualsiasi mezzo di espressione». La Fiom è impegnata in alcune lotte decisive dalle pensioni al Jobs Act, ma si lascia coinvolgere nel progetto. Il risultato è un testo corale in cui le voci di più generazioni si alternano come in una narrazione unica. Apre il lungo e divertente racconto di Bianciardi
(pubblicato nel ’63 su l’unità) in cui si descrive l’incontro con Sacchi e gli operai in sciopero. Seguono le narrazioni dei protagonisti di allora, autentiche e letterarie nella descrizione dell’«immondo» padrone, dello scontro di piazza, dell’orgoglio ritrovato. Poi la dimensione temporale si allarga e ai racconti degli anni Sessanta si alternano le storie di oggi.
VITE DI FABBRICA, come quelle di Anna e Marco, giovani operai in sciopero contro l’ondata di licenziamenti che dal 2008 sta decimando il comparto produttivo italiano. Vite precarie di uomini e donne che hanno vissuto la durezza del conflitto di piazza a Genova 2001, ma che avvertono il senso di un progressivo isolamento culturale. Mondi diversi, come titola il racconto, separati dalla
fine della centralità operaia e dagli effetti devastanti della parcellizzazione del mondo del lavoro tanto sul piano produttivo e sindacale quanto su quello culturale. I lavoratori licenziati della Ram di Sesto, per esempio, devono rispondere alle accuse della stampa per aver «sequestrato» un vigile urbano durante un presidio di fronte alla fabbrica. Nel «nuovo mondo» – si legge nell’ultima infrastoria – «l’unica religione rimasta fa dei manager morti di cancro dei santi, e delle startup “giovani fichissime” le uniche sfaccettature del lavoro degne di essere raccontante». Le storie di oggi parlano di un lavoro sulla difensiva, ma narrano anche una continuità tra generazioni che vive nel racconto e nel racconto resiste. Y
Alessandro Santagata
L’Amaro partigiano, per ritrovare il gusto della solidarietà sociale
ra le esperienze operaie che rivivono nelle pagine di meccanoscritto è citata anche quella T della Maflow, gruppo che produceva compo-
nenti per auto, con varie fabbriche, tra cui quella di Trezzano sul Naviglio (MI). Dopo la sua chiusura, l’occupazione del sito di Trezzano e l’Amministrazione controllata, giunge l’acquisto da parte di un imprenditore polacco che comunque non porta a un vero rilancio. Ai dipendenti viene l’idea di formare una cooperativa e reinventarsi un lavoro. A marzo 2013 nasce Ri-Maflow, cooperativa sociale ONLUS, fondata dagli ex-lavoratori della Maflow e di altre aziende in chiusura, oltre che da precari, disoccupati e pensionati, che si stabilisce sull’area della vecchia azienda e si occupa di riciclo e riconversione di rifiuti hi-tech, RAEE (elettrodomestici) e altro. Uno dei progetti della Ri-Maflow incrocia il lavoro svolto dagli Archivi della Resistenza di Fosdinovo (MS). Da questo incontro nasce l’Amaro Partigiano, un progetto sociale di autoproduzione e di creazione di lavoro etico. Grazie a una campagna crowdfunding su www.produzionidalbasso.com si sono raccolti i fondi per produrre la prima tiratura ufficiale di bottiglie dell’amaro e per costruire un liquorificio sociale. Il liquorificio servirà a creare posti di lavoro all’interno della fabbrica abbandonata dal padrone e recuperata in forma autogestita dai suoi lavoratori e dalle sue lavoratrici. E questa struttura – afferma la cooperativa – sarà sempre sociale, ovvero la sua funzione sarà anche quella di promuovere la sovranità alimentare: permettere alle realtà militanti di appoggiarsi in futuro al laboratorio per produrre i propri liquori e destinare il ricavato per il sostegno e l’autofinanziamento alle lotte e alle reti conflittuali nel quadro della co-
struzione di alternative al sistema di produzione corrente. L’Amaro Partigiano nasce come progetto no profit, e anche in futuro tutto il ricavato delle vendite servirà a sostenere il progetto della fabbrica recuperata e le attività di Archivi della Resistenza, come il festival della Resistenza “Fino al cuore della rivolta” e il Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo Y (www.museodellaresistenza.it). Per maggiori informazioni o contatti: info@archividellaresistenza.it o 3470004950 www.amaropartigiano.it
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il fiore del partigiano
Regeni vittima dell’incapace politica estera italiana
Settembre 2017
le idee
ITALIA-EGITTO. I “SUPREMI” INTERESSI D’AFFARI E LA RINUNCIA AD ESIGERE LA VERITÀ
N
di
da il manifesto del 15 agosto 2017
lUiGi manconi
mAuro biAni
egli ultimi mesi e nelle ultime settimane, nulla è accaduto che possa segnalare un mutamento, anche il più esile e controverso, nella condotta delle autorità politiche e giudiziarie dell’Egitto a proposito della vicenda di Giulio Regeni. Non il più piccolo atto che manifesti una più sollecita cooperazione con la procura di Roma e non la più sommessa dichiarazione politica di riconoscimento della centralità della questione della tutela dei diritti fondamentali della persona da parte di quel regime. E nei confronti degli oppositori interni (rapiti, seviziati e uccisi a centinaia) e nei confronti delle associazioni umanitarie egiziane e di chi, come Giulio Regeni, voleva conoscere quel popolo, capirne le ragioni e diffonderne le voci. Dunque, la scelta così insopportabilmente ferragostana, assunta dal governo, di inviare proprio in queste ore l’ambasciatore italiano al Cairo, risponde chiaramente a tutt’altra logica. La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo. Un disegno che consenta all’Italia, senza complessi di inferiorità e senza automatismi di schieramento, di svolgere un ruolo davvero costruttivo in un’area così delicata e precaria. La controprova inequivocabile è rappresentata dal fatto che, nel momento in cui manda al Cairo l’ambasciatore, il nostro paese «non ottiene nulla in cambio». Gli asseriti «passi avanti» nella cooperazione giudiziaria tra la procura del Cairo e quella di Roma sono giusto una fola e la promessa più impegnativa è che a settembre i magistrati italiani potranno ricevere quelle registrazioni video che avrebbero dovuto ricevere nell’ottobre scorso. Ma non è questo il punto essenziale. Ciò che davvero va sottolineato è che in più circostanze il premier Paolo Gentiloni si era impegnato, anche con chi scrive, ad adottare misure efficaci e incisive tali da garantire la continuità di una forte pressione sull’Egitto, nel caso che altre considerazioni consigliassero il ritorno dell’ambasciatore. Così, nei giorni scorsi – sulla base di un ragionamento solo politico, che non coinvolgeva in alcun modo la famiglia Regeni – ho proposto una serie di provvedimenti, capaci di pesare nei rapporti con il regime di al Sisi in alcuni campi decisivi: quello dei flussi turistici italiani ed europei verso l’Egitto (la dichiarazione di
Confiscato anche l’Egypt Daily News
20 agosto 2017 - il sito del quotidiano Egypt Daily News sarà confiscato dallo Stato. La decisione arriva nell’ambito della campagna di confisca dei beni dei Fratelli musulmani; diverrà parte del governativo Akhbar El-Yom. Sale così a 139 il numero di siti d’informazione che da maggio sono stati bloccati dal Cairo. ieri alla lista si era aggiunto il portale Qantara, legato al Deutsche Welle. tre giorni fa era toccato al sito di Reporter senza frontiere, che ricorda il caso di Abou Zeid, fotoreporter in carcere da 4 anni, arrestato mentre raccontava il massacro di rabi’a. Y
quest’ultimo come «Paese non sicuro»); quello dei rapporti commerciali nel settore degli armamenti; quello degli speciali accordi di riammissione nel Paese d’origine dei profughi egiziani. Non una di queste proposte è stata accolta. Il risultato è che la normalità delle relazioni tra Egitto e Italia sembra oggi pienamente ripristinata. Un altro e infelicissimo contributo a che la vicenda di Giulio Regeni sia consegnata all’oblio. Resta, di conseguenza, una sola possibilità per quanti credono testardamente che la questione dei diritti umani non possa essere l’ultimo e trascurabile punto nell’agenda politica internazionale, ma priorità tra le priorità. Periodico dell’aSSociazione nazionale PartiGiani d’italia Ovvero restare dalla parte di Paola e Claudio diviSione FiUme adda Regeni, consapevoli che la loro così faticosa e Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) dolorosa battaglia riguarda tutti noi e il senso in Piazza Professor Quintino di Vona, 3 stesso di ciò che chiamiamo democrazia, di In attesa di registrazione. Supplemento a Patria Indipendente Y qua e di là del Mediterraneo. Direttore responsabile: Rocco Ornaghi
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