27 gennaio, Giorno della Memoria
anno 8 numero 20
Gennaio 2017
HALT! Sopra: cartello posto ai bordi del campo di Auschwitz. A lato: Belgrado, Serbia, migranti sotto la neve fanno la fila per un pasto
OCCORRE REAGIRE AL DECLINO NELLA BARBARIE
La memoria non basta
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di
fRAnco SALAmini
ono passate poche settimane dal 4 dicembre, giorno in cui si è votato il referendum costituzionale, ed è ormai memoria. Rimane la soddisfazione di aver difeso la Costituzione potendo così festeggiare i 70 anni dalla sua approvazione senza sfregi. Il 27 gennaio riporta a una memoria più specifica, più dolorosa: la deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei, di oppositori politici, di cittadini ritenuti in qualche misura colpevoli o inferiori. Il dolore, l’indignazione sono importanti, ma non bastano; non è sufficiente l’indignazione di un giorno, memoria è anche domandarsi e capire il perché: come poté accadere che nell’Europa civilizzata scoppiasse una violenza che si propagò come un morbo nell’intero continente? Quali furono le cause e i processi storici e politici che permisero il proliferare dei fascismi? Ragionare e comprendere, conservare e trasmettere la memoria aiutano a non ripetere gli stessi errori. continua a pagina 2 ➔
MAI PIÙ? foto marko djurica
Quante volte abbiamo gridato «Mai più!» all’orrore nazista, alla bestialità del male? Quante volte ci siamo interrogati su come sia potuto accadere, qui da noi, in Europa? Eppure siamo ciechi di fronte alla realtà, alle nuove vittime. Ma tutto torna, come Euridice, a ricordarci il debito che abbiamo nei confronti di coloro che vogliamo respingere perché non ci ricordino che siamo stati noi i responsabili del loro dramma
Ricacciati dove li abbiamo messi noi: all’inferno
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di
da il manifesto del 15 gennaio 2017
RAffAeLe K SALinARi
l mito di Orfeo ed Euridice torna in tutta la sua drammatica attualità nelle vite dei profughi attanagliati nel gelo dell’inverno serbo. Narra la storia che il cantore della Tracia, capace di affascinare con la sua musica non solo gli umani ma di incantare financo piante e animali, chiedesse ad Ade, l’onnipotente signore degli Inferi, di concedergli la grazia di portare sua moglie Euridice fuori dalla notte eterna. continua a pagina 3 ➔
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Gennaio 2017
I migranti sono la soluzi il fiore del partigiano
27 gennaio, Giorno della Memoria
NELLE COMUNITÀ MIGRANTI NEL NOSTRO CONTINENTE, LE POTENZIALITÀ DELLA RINASCITA
F di
da il manifesto del 11 gennaio 2017
Guido ViALe
ermare il flusso dei profughi dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. È un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma bisogna aggredirne le cause: guerre, cambiamenti climatici, rapina delle risorse, sfruttamento. Ci vogliono risorse ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità. L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita, e vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali. Le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.
C’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio Paese e la riqualificazione del suo territorio? Le popolazioni, se ne avessero la capacità e la forza, lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze, che guerre e devastazioni le stanno alimentando. Possono farlo le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto chi è fuggito da una guerra,
La memoria non basta
➔ segue da pagina 1
vorrebbero fare ritorno nei loro Paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra Paesi di origine e Paesi di arrivo. Tutti comunque conoscono territori e comunità di origine meglio di qualsiasi cooperante europeo. La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà. Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti e valorizzati è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.
L’Europa dovrà confrontarsi con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei Paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento. Trattarli come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa
inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.
Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan). Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore… Riportare i profughi nei Paesi di origine o di transito, posto che sia possibile, costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il Paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire met-
Ma non basta, oggi non basta più. I sintomi di quel male riappaiono, accompagnati da una crisi economica che sembra non avere fine, che impoverisce, che aumenta a dismisura le diseguaglianze, che emargina. E la politica, malata di corruzione e autoreferenzialità, non è in grado di dare risposte, mentre montano il disagio e il rancore sociale contro chiunque sia percepito come rappresentante di un’istituzione. Le guerre, la povertà, la speranza di una vita migliore spingono milioni di esseri umani diseredati e disperati verso un’Europa impreparata e incapace, dove aumentano le tensioni, le paure vere e indotte, dove i terrorismi
seminano lutti. E le uniche risposte che i politici europei riescono a dare sono chiusure, ritorno ai nazionalismi, mentre le destre xenofobe rialzano la testa. Nell’Europa della modernità e delle nuove tecnologie si torna all’antica ricetta, che però non serve a sconfiggere il vecchio morbo. Abbiamo forse perso la memoria? Oppure la conserviamo, ma qualcuno vorrebbe ripercorrere le stesse soluzioni? Mai come adesso servirebbero nuove classi dirigenti capaci di osare, capaci di misurarsi con problemi inediti, senza farsi condizionare dai sondaggi, capaci di saper recuperare la fiducia dei cittadini, a cui trasmettere la volontà di
one della crisi
il fiore del partigiano
DI AFRICA E MEDIO ORIENTE
Migranti al confine tra Croazia e Slovenia (foto
terli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.
I morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvi-
ricomporre un sentire comune, capaci di coniugare e favorire la partecipazione dal basso, classi dirigenti che vengano riconosciute e ritenute tali. Oppure il declino inarrestabile nella barbarie è il destino del nostro continente. Nel passato questa spinta fu possibile. L’intuizione di Spinelli, Rossi, Colorni e Ursula Hirschmann, nell’isolamento e prigionia di Ventotene, seppe disegnare un’Europa che guardava con fiducia al futuro, un progetto politico da realizzare attraverso la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini, il conflitto tra le classi, una Costituzione democratica, nonostante il presente fosse
jeff j mitchell)
vono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo. È questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo Y tutt’altro che delicato.
di lutti, di distruzione e ci fosse un regime rabbioso e tirannico. Le classi dirigenti che si costituirono in quegli anni, attraverso il sacrificio e la lotta, ebbero la capacità di trasmettere la fiducia nella ricostruzione e ricomporre una forte coesione sociale per un nuovo inizio. Le celebrazioni per il 27 gennaio sono importanti. È importante ricordare, ma non basta ripetere un sicuro ma improbabile MAI PIù: memoria è soprattutto capire per progettare il fuY turo. Franco Salamini ANPI di Cernusco sul Naviglio Sezione «Riboldi-Mattavelli»
Ricacciati all’inferno
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Il suono della sua cetra bistonica, con la quale aveva annullato anche il canto delle Sirene durante l’avventura degli Argonauti, convinse il Principe degli Inferi che, però, pose una semplice condizione: Orfeo non doveva voltarsi a guardare Euridice prima che la sua risalita fosse compiuta. Sappiamo come va a finire: Orfeo si voltò e la sua amata dovette tornare per sempre nell’Erebo. Perché Orfeo si è voltato, condannando Euridice? Forse perché, ci dicono gli antichi, aveva ad un certo punto acquisito la drammatica consapevolezza che avrebbe resuscitato una donna morta, che sempre gli avrebbe ricordato la notte eterna dalla quale era uscita e questo, ad Orfeo, cantore della vita, era insopportabile. Oppure, ma il senso non cambia, la sua era solo una ennesima sfida: anche la morte si sarebbe piegata al suo canto; vinta la contesa, di Euridice non gli importava più nulla. Oggi, in queste ore, oramai da alcune settimane, noi siamo Orfeo che però, non solo una, ma centinaia e centinaia di volte con migliaia di uomini, donne, bambini e vecchi, ripetono il gesto della ricacciata all’inferno di chi ne voleva uscire. Cos’è infatti questo lasciar morire di freddo i profughi, o ricacciandoli nelle terre di nessuno com’è successo tra Serbia e Bulgaria, se non un ricacciarli nell’inferno dal quale volevano uscire? Tra l’altro, dato del quale non si parla, l’emergenza di questi mesi ha riaperto anche le irrisolte questioni dell’area balcanica, lasciate in sospeso dai cosiddetti accordi di pace. Basti pensare ai profughi serbi di origine kosovara, rifugiati interni il cui destino è pari per crudeltà a quello di chi arriva dalla Siria. La strumentalizzazione colpevole, da tutte le parti nessuna esclusa, di questi corpi fantasmatici come le città da cui provengono, è la cifra più esatta dell’ipocrisia sulla quale costruiamo le nostre politiche di sfruttamento del lavoro nero. Cosa serviranno mai i nuovi Cie se non a far capire agli aspiranti migranti quale sarà il trattamento riservato loro in caso non si pieghino alle regola dello sfruttamento? E dunque, per rimanere nel mito, che come tutti i miti insegna ciò che mai è stato ma che sempre sarà – come diceva Pavese –, andiamo a vedere la fine di Orfeo. Egli viene ucciso dalle Menadi forse perché offende Dioniso, cioè il principio della vita indistruttibile che nasce, muore e rinasce in continuazione, non volendo celebrare questo ineludibile passaggio, volendo rimanere forever young. E non è esattamente questo che vogliamo noi? Non è l’immortalità che cerca l’Occidente? E non è forse la merce che ci sussurra di perseguire questo scopo disumano? E allora come meravigliarsi che la nostra morte fisica, come quella di Orfeo che si rifiuta di cantare la vita nel suo eterno divenire, rischia ogni giorno di più di essere la stessa del cantore tracio: fatti a pezzi da un Tir mentre andiamo a consumare qualcosa? Tutto torna, come Euridice, a ricordarci il debito che abbiamo nei confronti di chi vogliamo ricacciare all’inferno perché non ci ricordi che siamo stati noi a metterceli. Facciamocene una ragione e agiamo senza ipocrisia per salvare dunque non solo quelle Y vite lontane ma la nostra stessa vita. Raffaele K Salinari
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L’umanità nonè un il fiore del partigiano
FRANCIA - ALLA FRONTIERA CON L’ITALIA GLI ABITANTI DELLA VAL ROIA SFIDANO LA
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Nella valle degli angeli che accolgono i pro da la Repubblica del 13 gennaio 2017
MASSIMO CALANDRI
eresa è una giovane maestra di origine italiana. La sua prima volta è stata la primavera scorsa. «Ero in auto coi miei bambini. Ho incrociato la géndarmerie, poco dopo ho intravisto tre ragazzini nascosti dietro un albero. Terrorizzati». Ha accostato, aperto la portiera. «Presto, salite. Vi porto a casa». Li ha ospitati una settimana. «Mi chiamavano mamma, avevano 16 anni». Un mese più tardi i tre erano mille chilometri più lontano. Calais. «Un giorno mi hanno scritto su Facebook. da Liverpool. Avevano raggiunto i parenti, ce l’avevano fatta». da allora, Teresa ha accolto non meno di venti migranti. In questi giorni a casa ne nasconde due, fratello e sorella, eritrei, anche loro minorenni, entrati in Francia dopo essere sbarcati in Italia da qualche settimana. Poi c’è Thibaut, contadino. Lui ha cominciato un anno fa: «Anche io li ho trovati sulla strada, subito dopo il confine. Pioveva fitto. Avevano freddo, morivano di fame. Lo sapevo che era un reato, che avrei dovuto segnalarli alla polizia: ma voi non avreste fatto lo stesso?». Gibì, pensionato, è stato arrestato venerdì scorso con altri 3 compaesani: rischiano 5 anni di galera e 35.000 euro di multa secondo la “legge Sarkozy”, che punisce chi agevola l’ingresso o la circolazione di immigrati irregolari. «Ne stavamo accompagnando un gruppo verso una stazione ferroviaria più sicura, ormai non potevano più restare lì dove li avevamo messi». Josianne, allevatrice, racconta che è normale: «Qui nella valle è sempre successo: un secolo fa ospitavamo i migranti italiani che andavano a lavorare a Nizza, a Marsiglia. Una mia bisnonna ne sposò uno. Nel dopoguerra siamo stati noi, da sfollati, ad essere accolti a Torino. Partigiani dell’umanità. E la storia continua».
La storia della Val Roya, risalendo il fiume che sfocia a Ventimiglia nei pressi della frontiera. Sei piccoli Comuni francesi abbarbicati sulle montagne (Tenda, Briga, Saorge, Fontan, Sospel, Breil-sur-Roya) per
L’agricoltore francese Cédric Herrou davanti al tribunale di Nizza, il 4 gennaio 2017 (valery hache/afp Getty imaGes)
Disegno preso da un filmato solidale con Cédric Herrou. Il testo dice: «Ci sono degli abitanti della Roya che hanno avuto il torto, a scuola, d’imparare l’articolo primo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.»
meno di seimila abitanti in tutto, un’enclave aspra e solidale come questa terra. Che dal 2015, da quando sono ripresi i controlli alle frontiere, infischiandosene della legge e della possibile galera, ospita nelle proprie case migliaia di persone. Migranti. Uomini, donne, soprattutto minori che in attesa di chiarire la loro posizione non dovrebbero lasciare il Paese europeo dove sono stati identificati – l’Italia -, invece varcano comunque il confine in cerca di un’altra vita. Per evitare gli stretti controlli lungo i varchi a ridosso del mare, percorrono a piedi la Statale 20 parallela al fiume o se ne vanno per i binari del treno che viaggia verso Cuneo. E dopo cinque ore di cammino ecco la Francia, i boschi rocciosi delle Alpi Marittime, però non lontano dal Colle di Tenda e nuovamente dal territorio italiano, dove a volte nel loro disperato peregrinare finiscono per errore, sfortuna, destino. «Vado a Parigi ». «Londra». «Stoccolma». I ragazzi li incontri a tutte le ore percorrendo la Statale: si confessano con una ingenuità disarmante, un’insopprimibile luce di ottimismo nello sguardo. Per i gendarmi è un gioco prenderli, riportarli in Liguria. Ma il giorno dopo ecco che tornano a camminare verso nord, cocciuti. Fino a quando non passa qualcuno come Teresa, Thibaut, Gibì,
delitto
“LEGGE SARKOZY”
Josianne. Qualcuno che li nasconde, li cura, li sfama, dà loro vestiti e nuova speranza. Per un paio di settimane al massimo. In qualche modo, quelli della valle riescono poi a farli salire su di un treno diretto verso la capitale. «E dopo, si vedrà».
Cédric Herrou, che vive a Breil, è diventato il simbolo della valle. L’altra settimana il tribunale di Nizza lo ha condannato a 8 mesi con i benefici di legge. Per “trasporto di migranti” che aveva anche ospitato nella sua cascina. «Continuerò a farlo. Cioè, a fare il mio mestiere: l’agricoltore, quello che dà da mangiare alla gente. Senza preoccuparsi del colore della pelle o dei documenti». Nello stesso giorno è stato assolto un professore universitario di Nizza, Pierre-Alain Mannoni, che a sua volta aveva dato un passaggio dal Roya oltre la frontiera a tre giovani eritree: «Il giudice ha citato la convenzione dei diritti dell’Uomo, sostenendo che era un mio dovere aiutare delle persone in pericolo». Però la Procura ha presentato appello. Qualche ora più tardi, a Sospel, la polizia ha fermato 3 auto con a bordo 9 migranti (ma una è riuscita a passare): Gibì e dan, più due amici, sono stati fermati. Gli stranieri che erano con loro, rispediti in Italia. «Siamo stati rilasciati dopo 24 ore. E nel frattempo alcuni dei ragazzi erano già di nuovo dalle nostre parti».
In questa regione, Provenza-Costa Azzurra, si vota l’ultradestra. Ma non nella Val Roya e meno che mai a Saorge, la “rossa”. Le notizie degli arresti – e qualche delazione, dicono, perché c’è sempre una pecora “nera” – non hanno spaventato nessuno, anzi. “Roya Citoyen”, associazione che distribuisce alimenti e vestiti ai rifugiati – assicurando ogni giorno 200 pasti a chi è rimasto a Ventimiglia – ha cominciato a ricevere aiuti da tutta la Francia. E altri ancora aprono la porta di casa. «A volte accade che in famiglia non si sia tutti d’accordo. Allora, quando il marito in quel momento non c’è, ecco che la moglie ospita qualcuno, o viceversa. Tanto, il coniuge che torna non ha mai il coraggio di mandarli via», spiega Elisabetta. Che non ha paura a parlare, o a farsi fotografare. «Non mi interessa la politica, non faccio parte di movimenti. Come gli altri, non ho una soluzione per quello che accadrà domani. Ma so che devo fare qualcosa per questi ragazzi. Ora. E non credo proprio di violare la legge, anzi. Y L’umanità non è un delitto».
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Il fallimento dell’Europa sotto la neve di Belgrado
LA TESTIMONIANZA SUL CAMPO DI MEDICI SENZA FRONTIERE
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fughi
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il fiore del partigiano
da medicisenzafrontiere.it 11 gennaio 2017
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di
AndReA conTenTA*
ono arrivato qui alla fine della scorsa estate. Allora, la Serbia era ancora considerata un paese di transito, con un flusso costante di persone in entrata e in uscita, nonostante la chiusura ufficiale della rotta balcanica da parte dell’Unione Europea. Quasi tutti viaggiavano affidandosi a trafficanti. Alla fine dell’estate, la situazione è iniziata a cambiare. Sembrava che i paesi lungo la rotta balcanica facessero a gara nell’inasprire progressivamente le misure deterrenti per fermare il flusso di persone. Almeno la metà delle persone visitate nelle nostre cliniche in quel momento riportava lesioni dovute a episodi di violenza. In alcuni casi gravi, siamo stati costretti a indirizzarle in ospedale per ulteriori trattamenti. Le lesioni includevano morsi di cane, gravi contusioni e le conseguenze dell’uso di spray al pepe e dissuasori elettrici. Tutti hanno confermato che le ferite erano state provocate dalle varie polizie di frontiera (inclusa Frontex) lungo il percorso. Purtroppo nemmeno i bambini sono stati risparmiati. Ricordo una bimba di due anni alla quale era stato spruzzato il pepe in faccia! Andiamo avanti di quattro mesi. I metodi di deterrenza estremi continuano e si aggiungono a uno degli inverni più rigidi degli ultimi anni. A Belgrado ha iniziato a nevicare il 3 gennaio. In quei giorni c’erano circa 1.600 persone che dormivano all’aperto o in edifici abbandonati come capannoni industriali, bruciando tutto quello che trovavano per scaldarsi. È stato allora che abbiamo ricevuto segnalazione della morte per freddo di una donna somala nel sud della Bulgaria e di due
uomini iracheni al confine tra Turchia e Bulgaria. Lo scorso fine settimana, le temperature hanno raggiunto i meno 16 gradi e il numero di persone bloccate a Belgrado è salito a 2.000. Ora qui ci sono 30 centimetri di neve e nessuna di queste persone è vestita o attrezzata per questo clima. Le autorità locali a novembre avevano cominciato a provocare e intimidire i gruppi della società civile, arrivando addirittura a ostacolare il loro vitale lavoro, come la distribuzione di vestiti caldi. Ci sono stati sette casi di congelamento a Belgrado nelle ultime 24 ore, vi assicuro che è molto più grave di quanto sembra. Il congelamento fa sì che il sangue non raggiunga le estremità del corpo, addormenta i nervi e nei casi più gravi può essere trattato solo con l’amputazione perché i tessuti muoiono. Sono certo che il numero di casi aumenterà significativamente entro la fine della settimana. L’inverno è un fenomeno naturale che non possiamo controllare. Il vero problema è la mancanza di volontà politica per cercare di soddisfare le esigenze immediate di queste persone vulnerabili. È un fallimento dell’Unione Europea, che ha chiuso gli occhi davanti al fatto lampante che le proprie politiche mal pianificate non hanno fermato il flusso di persone, ma non hanno nemmeno predisposto alternative legali per permettere loro di viaggiare in modo sicuro. Far finta che questo percorso sia chiuso e che queste persone non esistano non è la soluzione. Qualunque cosa si pensi circa il loro diritto di raggiungere l’Europa, meritano di essere trattati come esseri umani, con dignità. E in queY sto momento, non lo sono. *Esperto affari umanitari di Medici Senza Frontiere in Serbia
Belgrado, Serbia, le condizioni dei migranti sotto la neve (foto
marko djurica)
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27 gennaio, Giorno della Memoria
SUL TRATTAMENTO RISERVATO AGLI EBREI L’ITALIA MENTÌ. PER DIFENDERE SUL
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di
Razzisti per ordine il fiore del partigiano
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di
da diario del mese del 26 gennaio 2001
micHeLe SARfATTi
ate le spoliazioni subite», riferì il prefetto nell’autunno 1945, «le condizioni economiche della maggior parte della popolazione ebraica di Ancona e circoscrizione non è [sic] ancora soddisfacente. Si notano sintomi di ripresa specialmente nell’ambiente commerciale, ma il ceto impiegatizio e i lavoratori in genere risentono grandemente dei disagi e dei danni materiali subiti a causa della persecuzione (case saccheggiate o distrutte e impossibilità a ricomprare il necessario per vivere meno che modestamente o di trovare una stanza dove poter abitare per riprendere la normale attività). È logica conseguenza di questo stato di cose un abbassamento e una depressione del morale di chi si sia venuto a trovare in questa situazione». Per il prefetto di Livorno, la situazione morale era «generalmente buona», mentre quella economica «assai disagiata, per il fatto che la massima parte delle famiglie hanno perduto la casa, con quanto è necessario alle più elementari esigenze della vita». Le descrizioni della «situazione economica e morale attuale» degli ebrei (cioè della loro situazione dopo la Liberazione) inviate a Roma dagli altri prefetti nell’autunno 1945
erano grosso modo similari e componevano un quadro sostanzialmente fedele alla realtà; in effetti uno dei principali compiti dei prefetti era/è quello di leggere la realtà locale (secondo parametri per metà governativi e per metà tecnico-fotografici). Anche relativamente al periodo della Shoah i prefetti descrivevano spicchi della realtà effettiva, pur attribuendo gli arresti ai soli tedeschi o (più raramente) anche alle autorità locali italiane, che però eseguivano – la precisazione in questo caso è ricorrente – «ordini superiori». A Genova, per esempio, «molto prima che il governo della Repubblica sociale italiana avesse emanato la nuova legge sulla razza, i tedeschi compivano già contro gli ebrei quanto formava oggetto della legge di Norimberga: arresti e deportazioni, espoliazione dei beni e occupazione delle stesse case degli ebrei. Le autorità italiane in questa provincia si astennero dal perseguire gli ebrei e dal compiere opera vessatoria contro di loro, salvo l’asportazione di mobili prelevati negli appartamenti di ebrei rimasti abbandonati per l’arresto e deportazione dei proprietari». E prima della Shoah cosa era accaduto agli ebrei? Qui la lettura delle risposte inviate dai prefetti al questionario diramato dal ministero dell’Interno il 21 settembre 1945 si fa quanto mai interessante. Scopriamo così che ad Asti «la legge sulla razza
Fuori c’è la bufera e la tua voce trema
AbduLAH SidRAn
u con la sinistra rimuovi una fitta ciocca di capelli dalla fronte e io subito trasferisco nella memoria questo movimento, e già più non vedo la tua mano che rimuove i capelli dalla fronte, ma comincio a ricordarmi di questo movimento: tu che con la sinistra rimuovi una fitta ciocca di capelli dalla fronte. Tu dici, con la voce tremolante che fa muovere la fiamma della candela sul tavolo davanti a noi: «Fuori c’è la bufera», e qualcosa che non sono io, ma in cui c’è qualcosa di me, certamente, trasferisce nella memoria questa voce, e mentre ti sento, è come se già stessi ricordando che ti sento, è come se mi ricordassi della tua
voce che trema e fa muovere la fiamma della candela sul tavolo davanti a noi, se ricordassi la sera, e la voce che dice: «Fuori c’è la bufera». E fuori c’è ancora la bufera, e dura ancora la sera, esattamente come dura anche la vita, che in verità è come se non stessi vivendo, ma piuttosto già ricordando, un po’ come la tua voce con cui dici «Fuori c’è la bufera», la voce di cui mi ricordo, un po’ come la mano con cui sposti la ciocca di capelli sulla fronte continuando a parlare, come la mano di cui mi ricordo, toccanY dola per la prima volta.
da La bara di Sarajevo (Sarajevski tabut), a cura di piero del Giudice, traduzione di silvio ferrari, edizioni e/o
Subito dopo la guerra, i prefetti dell’Italia non più fascista si dedicarono alla riscrittura di un passato nazionale vergognoso: le persecuzioni ci furono ma poco-pochino
è stata applicata in questa provincia con particolare longanimità e comprensione, tenuto anche conto che i pochi ebrei qui residenti appartengono massimamente a ricche famiglie che godono, quali benefattrici, la stima e la considerazione della popolazione. Pertanto non si è verificato, ad opera delle autorità locali, alcun eccesso di zelo nella esecuzione degli ordini superiori, anzi, ogni accorgimento è stato adoperato per lenire le sofferenze morali e materiali degli ebrei»; che a Bologna «le leggi razziali hanno avuto in questa provincia scarsa applicazione nei casi concreti, in quanto i cittadini e gli organi amministrativi, che avrebbero dovuto applicarle, cercarono, in quanto possibile, di mitigarne gli effetti» (fino a quando, «giunto il tedesco, coadiuvato da delatori fascisti, iniziò la vera persecuzione razziale, mettendosi alla caccia degli ebrei»); che a Firenze «le iniziative delle autorità locali nell’applicazione dei provvedimenti razziali mantennero sempre carattere esclusivamente formale» (fino a quando «il controllo delle applicazioni delle norme stesse venne avocato dalle autorità nazifasciste»); che a Grosseto «le leggi razziali furono applicate di mala voglia e senza alcuna acredine, a eccezione di alcuni casi, in Pitigliano, che si devono più che a faziosità alla troppo ligia interpretazione degli ordini che venivano dall’alto»; che a Pesaro, seppure «negli anni 1939 e 1940 le istruzioni emanate contro gli ebrei dal governo fascista furono sempre più restrittive, (…) gli uffici preposti per l’esecuzione di tali provvedimenti riuscirono, con vari accorgimenti, a mitigarne gli effetti deleteri e spesso a ometterne l’applicazione nonostante l’occhio vigile della federazione fascista e dell’ufficio politico della milizia»;
superiore
il fiore del partigiano
PIANO DIPLOMATICO I PROPRI INTERESSI
Adunata. Di Contardo Barbieri, «Adunata di gente in piazza (Ordine di adunata)», 1934. L’artista si ritrasse in camicia nera, sulla sinistra
che a Teramo «la nostra legge sulla razza trovò qui scarsa applicazione nei singoli casi concreti, e il popolo tutto e la quasi totalità degli organi amministrativi che avrebbero dovuto applicarla gareggiarono per sabotarla completamente o, per lo meno, per mitigarne al massimo gli effetti». Bari addirittura assicurava che «anche gli organi di polizia erano ostili verso le leggi razziali e tale ostilità si concretava nel sabotaggio sistematico dei provvedimenti di esecuzione relativi e nel suggerire agli interessati i cavilli procedurali onde sfuggire al rigore delle leggi». Rarissime invece erano le segnalazioni di «autorità locali che non si mostrarono moderate» (Ferrara). Insomma, tralasciando qui il periodo 19431945, nel 1938-1943 gli italiani ebrei sarebbero stati o non-perseguitati o perseguitati-pochino-pochino-tanto-per-tenerbuono-Mussolini, unico ma mai nominato persecutore. Ne deriva anche che il dittatore non sarebbe stato un dittatore, lo Stato fascista non sarebbe stato uno Stato di po-
lizia, la vicenda delle leggi antiebraiche sarebbe stata la riprova del fatto che nella seconda metà degli anni Trenta il regime (alla faccia di tutto l’odierno dibattito storiografico) sarebbe stato nel pieno degli «anni del dissenso», a partire proprio dagli alti funzionari del ministero dell’Interno (retto dal «non dittatore» Mussolini). E così i prefetti dell’Italia non più fascista si trovarono impegnati nella costruzione di un «passato ufficiale nazionale» diverso dal «passato materiale».
Tuttavia il fascicolo documentario dell’Archivio Centrale dello Stato (direzione generale della pubblica sicurezza, A5GIIg.m. (1944-1948), b. 3, fasc. «Rimpatrio degli ebrei italiani deportati in Germania») rivela che non si trattava esattamente di farina del loro sacco. Era stato infatti lo stesso ministero dell’Interno non più fascista ad avvertire i prefetti che il rappresentante diplomatico italiano in Belgio, trasmettendo a Roma il questionario sulle persecuzioni
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antiebraiche in Italia pervenutogli da una giornalista, aveva precisato: «Naturalmente, nel parlare con la signorina Lachin (la giornalista), ho messo in rilievo il fatto che la nostra legge sulla razza non solo aveva trovato una scarsa applicazione nei singoli casi concreti, ma il popolo tutto e la quasi totalità degli organi amministrativi che avrebbero dovuto applicarla avevano invece gareggiato per sabotarla completamente o, per lo meno, per mitigarne al massimo gli effetti. (…) Sarei grato a codesto ministero di fare nettamente risaltare che le iniziative italiane in materia di razza non solo non erano spontanee, ma che il loro carattere formale cessò unicamente quando gli invasori germanici estesero direttamente il loro controllo all’applicazione delle misure antisemite». E il ministero dell’Interno così sollecitava i prefetti: «Si prega di voler cortesemente mettere in grado questo ministero di dare una risposta alla citata R[egia] Rappresentanza» (il corsivo è mio, n.d.r.). Mentre debbo correggere qui stesso una mia soprastante troppo drastica affermazione (scrivendo «autorità nazifasciste» il prefetto di Firenze forse volle discostarsi dalle direttive ministeriali), desidero avvertire che questa vicenda deve essere meditata con grande attenzione. Intendiamoci bene: l’Italia (ovvero il nostro Paese) agì in tal modo per difendere sul piano diplomatico interessi forse legittimi (pezzi di territorio, penali di guerra, ecc.). Ma il fine comunque non giustifica il mezzo: agendo in tal modo, i suddetti rappresentanti e dirigenti dell’Italia postfascista hanno devastato la consapevolezza, la memoria e la storia della persecuzione. Hanno violentato gli (ex)perseguitati. HanY no negato un passato. iL RAZZiSmo iTALiAno neLLA ReTe ● Cdec Sito del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea http://www.cdec.it ● Leggi antiebraiche - Per leggere i testi delle leggi razziali http://space.tin.it/atourno ● Museo Yad Vashem di Gerusalemme La più vasta banca dati sull’Olocausto (in inglese) http://www.yad-vashem.org.il
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I crimini di guerra del
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il fiore del partigiano
I CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER CIVILI GESTITI DALLA II ARMATA (SUPERSLODA -
Un pezzo nascosto di storia italiana del da www.criminidiguerra.it
L
criminidiguerra.it è un sito web che presenta una ricca selezione di documenti storici (in parte inediti) sulla repressione operata su popolazioni civili dalle forze armate italiane nel corso delle guerre coloniali (Libia - Etiopia) e della seconda guerra mondiale (1925-1943). Pubblichiamo qui un estratto relativo ai crimini compiuti dalla Seconda Armata italiana nei territori della Slovenia e della Dalmazia negli anni dell’occupazione fascista.
a scelta di costituire campi di concentramento per i civili venne concepita dapprima per neutralizzare gli elementi ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico; vennero apprestati i primi campi in territorio friulano per detenere gli uomini arrestati durante il rastrellamento effettuato nella città principale della Slovenia italiana: Lubiana. Successivamente la politica di deportazione crebbe vorticosamente coinvolgendo quote sempre più vaste di popolazione soprattutto rurale. Gli alti comandi dell’esercito, che ottennero la gestione dell’ordine pubblico, optarono per la strategia della “terra bruciata”. In un vertice tenuto a Fiume il 23 maggio 1942, Roatta[1] annunciò l’appoggio di Mussolini alla linea dura dei generali: «Anche il duce ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e di applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario... Il duce concorda nel concetto di internare molta gente - anche 20-30.000 persone». Ai primi di giugno Roatta scrisse al duce di «giudicare necessari campi di concentramento per ventimila persone» e prospettò l’idea di «assegnare le case dei ribelli per costituire nuclei rurali tutti italiani di ex combattenti». A partire dal luglio 1942 le divisioni italiane, con grandi operazioni di rastrellamento alla caccia delle formazioni partigiane, svuotarono il territorio in cui queste erano più presenti, deportando la popolazione dei villaggi in campi di concentramento costituiti appositamente. Si trattava soprattutto di donne, bambini e anziani, poiché gli “uomini validi” erano fuggiti nei boschi alla vista dei reparti italiani, per evitare di essere presi come
ostaggi e fucilati nelle quotidiane rappresaglie decretate dai tribunali militari di guerra. Ma dai documenti degli stessi generali italiani emerge anche la determinazione per cui le rappresaglie contro i civili dovevano essere un’arma di pressione contro i partigiani del Fronte di Liberazione, che tenevano in scacco una grossa parte dell’esercito italiano. Scriveva Roatta: «A mio avviso occorrerebbe perciò – laddove si sono dimostrati vani i tentativi di pacificazione – colpire il male nelle radici e nelle propaggini, con provvedimenti aventi ripercussione sugli animi dei fuggiaschi e sulla vita materiale dei congiunti rimasti in posto». E Robotti[2] aggiungeva: «È da presumere che questo provvedimento riguarderà quasi esclusivamente donne, bambini e vecchi, in quanto gli uomini validi o sono già con le bande, o ad esse si aggregheranno al momento della realizzazione di questa parte del programma, per quanto improvvisa e rapida possa essere».
I campi di concentramento della II Armata Tra l’estate del 1942 e quella del 1943 furono attivi sette campi di concentramento per civili sotto il controllo della II Armata (che aveva la competenza su Slovenia e dalmazia occupate). A Chiesanuova, vicino a Padova (in Veneto), dal giugno 1942 nella locale caserma venne attivato un campo di concentramento per civili. Il campo di Fiume era situato all’interno dell’area della caserma diaz. A Gonars, a ovest di Palmanova (in provincia di Udine in Friuli), fino al marzo 1942 era attivo il campo POW n. 89 (per ufficiali dell’ex-esercito jugoslavo), dalla seconda metà di aprile venne trasformato in campo per internati civili. A Monigo, non lontano da Treviso (in Veneto), dalla seconda metà del giugno 1942 venne istituito un campo di detenzione per civili all’interno della locale caserma. Sull’isola di Rab (Arbe in lingua italiana), nella baia di Sant’Eufemia a 6 km dalla cittadina di Arbe, nel luglio 1942 venne realizzato con piccole tende militari, un campo per detenere i civili arrestati durante le opera-zioni militari in Slovenia e dalmazia, a causa della saturazione dei campi minori di Laurana, Buccari e Porto Re, situati vicino a Fiume. Solo nel gennaio 1943, in seguito a segnalazioni ufficiali del Vaticano di numerose morti, furono impiantate tende grandi (per 20 persone) e rese agibili le prime baracche in legno
o muratura. L’isola, che si trova nel golfo del Quarnaro, nel maggio 1941 venne annessa all’Italia insieme all’isola di Veglia e compresa nella provincia di Fiume, che comprendeva l’Istria (oggi in Croazia) ed era retta dal prefetto Temistocle Testa. A Renicci (comune di Anghiari, in provincia di Arezzo, nella regione Toscana) era stato reso operante nell’ottobre del 1942 sia il campo POW n. 97 sia un campo di internamento per civili. Qui vennero concentrati numerosi prigionieri (selezionati il 6 ottobre 1942: 1.168 a Chiesanuova e 482 a Gonars) per essere impiegati alla costruzione di un tratto di ferrovia in una zona in provincia di Perugia; 7 lire al giorno era la paga (T. Ferenc, Rab, Arbe, Arbissima Ljubljana 2000, p. 20). Negli altri campi attivi a Castel Sereni, Pietrafitta, Ellero e Tavernelle, vennero smistati parte dei detenuti giunti da Gonars e Chiesanuova; infatti questi quattro campi costeggiavano il costruendo tratto ferroviario citato. A Visco, a est di Palmanova (in provincia di Udine in Friuli), venne attivato un campo di detenzione per civili nell’inverno del 1942.
La difficile conta dei deportati Stabilire oggi il numero dei deportati risulta difficile sia per la frammentarietà degli archivi consultabili, sia perché le stesse autorità italiane scrivevano di non avere un quadro della situazione, infatti «gli internamenti sono stati effettuati con criteri diversi, secondo del modo di vedere dei vari Comandanti di Presidio, sino ai reparti minori (plotoni). – Non si è mai quindi potuto cono- scere, neanche con relativa approssimazione, il numero dei civili internati, i relativi nominativi, dove sono stati internati e per qual motivo il provvedimento è stato adottato» (così il 18 gennaio 1943 l’alto commissario per la Slovenia Grazioli riferiva al Ministero degli Interni). A questo proposito lo storico sloveno Tone Ferenc ha consultato diverse fonti e cita, tra le altre, il memoriale redatto dal tenente Luca Magugliani del comando dell’XI Corpo d’Armata, che indica in 20.000 il numero dei civili sloveni internati. Secondo le stime di Ferenc, ricavate dall’analisi di documenti militari italiani, il numero più alto si verifica alla fine del 1942, a conclusione delle grandi offensive antipartigiane, ed è attendibile che siano passati più di 25.000 tra sloveni e croati nei sette campi in questione. Lo storico italiano davide Rodogno ha reperito negli archivi dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano
fascismo
il fiore del partigiano
SLOVENIA DALMAZIA)
Novecento
(USSME) i dati degli internati civili e coincidono con quelli pubblicati dallo storico sloveno. Un documento del Ministero degli Interni italiano, databile alla fine dell’agosto 1942, indica un complesso di 50.000 elementi circa, sgombrati dai territori della frontiera orientale in seguito alle operazioni di polizia in corso, di cui la metà donne e bambini.
La distinzione tra internati protettivi e repressivi I comandi militari interpretarono la larga adesione, soprattutto di giovani, al Fronte di Liberazione, come frutto di un’opera di costrizione; quindi introdussero, accanto a quella dei deportati politicamente pericolosi (repressivi), una nuova categoria di internati: i cittadini da proteggere (protettivi). Ma emerge anche da un rapporto dei Carabinieri come la distinzione spesso sia stata, nel concreto, inesistente. Infatti nell’atto di deportare la popolazione, questa differenziazione spesso non venne considerata dai comandanti dei reparti militari che operarono gli arresti di massa.
I morti nei campi di concentramento Nel volume Rab, Arbe, Arbissima, Tone Ferenc pubblica una lista di nomi di sloveni e croati deceduti nei campi di concentramento italiani della II Armata. Lo stesso afferma che un numero preciso non trova concordi istituzioni, associazioni e singoli ricercatori; comunque tutti sono d’accordo nell’affermare che migliaia di civili morirono in questi luoghi di detenzione. La lista acclusa al libro citato indica morti a Rab/Arbe, a Gonars, a Chiesanuova, a Monigo, a Renicci, a Visco. La causa delle morti nei campi: la fame e il freddo. Già nel maggio 1942 una lettera di un dirigente cattolico di Lubiana segnalava alle autorità militari italiane, che «nel campo di concentramento di Gonars ... gli internati soffrono atrocemente la fame». La gravissima scarsità di alimentazione e la grave inadeguatezza dell’abbigliamento degli internati nei campi (soprattutto Arbe) venne segnalata in un memoriale dei vescovi sloveni, per via ufficiale trasmesso il 19 novembre 1942 dal Vaticano al Ministero degli Affari Esteri italiano. Inoltre dal rapporto destinato ai comandi militari e redatto da un ufficiale medico, che aveva effettuato un sopralluogo al campo di Arbe, emerge un livello di alimentazione insufficiente ed una situazione igienica inade-
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La tendopoli del campo di concentramento italiano di Arbe
guata tali che la conclusione è la seguente: «Premessi i dati surriferiti e la sproporzione tra le calorie di consumo e quelle che l’organismo ricava dalla razione alimentare assegnata, considerato lo stato igienico del campo, occorrerebbe, onde ovviare parzialmente alle deficienze, ricoverare gl’internati sotto tetto in locali chiusi e fornire gli stessi del vestiario occorrente...». Lo stesso affermava che la insufficienza alimentare si moltiplicava per il freddo e la dispersione di calore corporeo, vivendo i civili sotto tende, con abiti estivi e coperte insufficienti: «Si hanno così casi di cachessìa e di edemi da fame sui quali trovano facile innesto altre malattie»; ovvero questo provocava un pericoloso dimagrimento ed un ingrossamento dei ventri favorendo una forte propensione a malattie, che infatti colpirono in due mesi (metà settembre - metà novembre) il 65% dei detenuti. Secondo le autorità italiane, fino al 19 novembre 1942, ad Arbe i morti erano stati 289 (di cui 62 bambini). Il 13 febbraio 1943 un documento del Comando della II Armata, da cui dipendeva direttamente il campo di Arbe, indicava che, tra l’1 e il 10 gennaio 1943 erano morte 136 persone a fronte della presenza di 4.300 internati, e 234 erano stati i decessi nell’intero mese. Poi lo stesso comando si contraddiceva: in un rapporto del 26 giugno 1943 indicava 190 decessi in gennaio; anche per febbraio indicava “solo” 20 decessi ad Arbe, mentre prima aveva dichiarato 13 morti solo nei primi dieci giorni dello stesso mese. Evidentemente l’abnormità dei fatti aveva spinto i generali ad un tentativo di diminuire il numero dei morti, ma il disumano trattamento nei campi era stato frutto di una scelta precisa. Significative a questo proposito furono le affermazioni del generale Gambara, nuovo comandante dell’XI CdA in Slovenia, in data 17.12.1942: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo»; inoltre: «Le condizioni da deperimento dei liberati di Arbe sono veramente notevoli - ma Supersloda[3] da tempo sta miglio- rando le condizioni del campo. C’è
da ritenere che l’inconveniente sia praticamente eliminato». Le sofferenze e le morti di migliaia di persone sarebbero state un semplice inconve- niente! Grave fu anche la situazione in altri campi: a Gonars tra gennaio e maggio 1943 i morti sarebbero stati più che ad Arbe: 280, 104 a Monigo e 112 a Renicci, sempre nei primi cinque mesi dell’anno. A proposito di Renicci, un’ulteriore conferma viene da un sacerdote italiano, che nel febbraio 1943, dopo aver visionato una relazione del Ministero della Guerra, sottolineava l’infelicissimo stato degli internati civili in quel campo, confermando quanto già scritto dai vescovi sloveni. della gravità della situazione nei campi scrissero anche ufficiali dei Carabinieri Reali nei loro rapporti ai comandi: «... nei campi di concentramento ... la vita è davvero grama e fiacca il corpo e lo spirito. Particolarmente nel campo di Arbe, le condizioni di alloggiamento e del vitto sono quasi inumane: viene riferito che frequenti sono i casi di morte, gravi e frequentissime le malattie» e inoltre richiamarono «vari casi di decesso provocati dalla scarsità del vitto e da malattie epidemiche diffusesi per deficienza di misure sanitarie».
I campi di concentramento rimasero attivi fino al disfacimento dell’esercito italiano, avvenuto in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 e alla conseguente cessazione delle ostilità da parte delle truppe monarchiche italiane verso Y le forze di liberazione jugoslave.
[1] comandante dell’esercito italiano nella provincia di lubiana [2] Generale comandante di corpo d’armata [3] comando superiore ii armata supersloda in slovenia e dalmazia
la ricerca è stata e viene condotta da un gruppo di ricercatori storici e specialisti informatici operanti nel territorio milanese, con la collaborazione dell’istituto per la storia dell’età contemporanea (isec) di sesto san Giovanni (milano).
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Ricordare, per non rivivere la tragedia
27 gennaio, Giorno della Memoria
IN OGNI COMUNE MOMENTI DI CONOSCENZA E RIFLESSIONE SULLA SHOAH
Bellinzago - Il cuore dei buoni fermo nel vento
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er il Giorno della Memoria 2017 la sezione di Bellinzago Lombardo ha organizzato due incontri. • Venerdì 27 gennaio alle ore 21,00, presso la scuola media, la proiezione di Nessuno può tenere prigioniero il cuore degli uomini buoni, video sulle esperienze di Roberto Camerani nei campi di sterminio di Mauthausen-Ebensee. • Sabato 4 febbraio alle ore 16,00, presso la Biblioteca Comunale, la presentazione del libro di Maristella Maggi E il vento si fermò ad Auschwitz (Il vento rappresenta la pietà di quelli che, nel dramma di Auschwitz, non rimasero indifferenti).
Bussero - Le lettere profetiche antinaziste
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l comune di Bussero, il Circolo Familiare Angelo Barzago e l’ANPI di Bussero - Sezione Angelo Barzago, in occasione del Giorno della Memoria 2017, invitano a: • Venerdì 27 gennaio alle ore 21,00, presso l’Auditorium della Biblioteca di Bussero, in Via Gotifredo 1, lo Spettacolo della compagnia teatrale Caravan de Vie Destinatario sconosciuto di Katherine Kressmann Taylor, dal suo libro sotto forma di epistolario, che prefigurò i pericoli del nazismo.
Cassano - Per le scuole la Storia in 4 film
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uest’anno le iniziative sul tema del Giorno della Memoria privilegeranno gli interventi per le scuole. dal 23 al 31 gennaio, agli alunni sarà proposta la riflessione e la discussione sulla visione di: • Proiezione video La Breve vita di Anne Frank per le classi IV e V delle scuole
primarie. Il video sarà corredato da una scheda informativa e da una mostra. • Proiezione di Jona che visse nella balena film del 1993 di Roberto Faenza per le scuole medie inferiori. • Proiezione di Storia di una ladra di libri film del 2013 di Brian Percival per le scuole medie inferiori. • Proiezione di L’onda film del 2008 di dennis Ganse per il liceo Giordano Bruno.
Cernusco - Primo Levi e la sua multipla eredità
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rimo Levi ci lasciava 30 anni fa. L’ANPI di Cernusco, in collaborazione con scuole e associazioni lo ricorderà con una rassegna dal titolo «Primo Levi (1919-1987) – L’intellettuale, l’uomo, il testimone» che si svilupperà per gran parte dell’anno. • Sabato 28 gennaio, ore 15,30 - Sala «R. Camerani» - Biblioteca civica, via Fatebenefratelli - in occasione del Giorno della Memoria, si terrà il convegno Meditate che questo è stato sul Levi testimone e intellettuale, con la partecipazione della professoressa dell’ITSOS di Cernusco Elefteria Morosini (curatrice dell’edizione di Se questo è un uomo e La tregua per Einaudi Scuola) e Caterina Frustagli, insegnante e psicologa (autrice di Primo Levi davanti all’assurdo per Tra le righe libri, Lucca). Spazio anche ai lavori dei ragazzi della professoressa Morosini, con le loro riflessioni e i loro scritti sull’esperienza della deportazione. La rassegna continuerà presentando altri interessanti libri su Primo Levi, come Una stella tranquilla, emozionante graphic novel di Pietro Scarnera, o come Quattro ore nelle tenebre di Paolo Mazzarello, docente di Storia della medicina a Pavia. (maggiori dettagli a pag. 14)
Gorgonzola - Poesia, e musica in Crescendo
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er il Giorno della Memoria la Sezione ANPI, in collaborazione con il Comune e varie associazioni propone: • Sabato 28 gennaio, alle ore 21,00 presso
l’Auditorium di via Roma, Serata d’incontro e spettacolo con l’introduzione del sindaco Angelo Stucchi, la relazione di Leonardo Visco Gilardi, presidente della Sezione di Milano dell’ANEd, la musica di Béla Bartók e la poesia di Gianni Rodari con l’Orchestra Crescendo di Gorgonzola.
Inzago - Una conferenza, un film e una mostra
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n occasione del Giorno della Memoria la Sezione Quintino di Vona propone:
• Mercoledì 25 gennaio, alle ore 9,30 presso il Cinema-Teatro Giglio, Incontro Conferenza del Prof. Raffaele Mantegazza dell’Università degli Studi di Milano Bicocca che incontrerà gli studenti dell’Istituto Belisario. La conferenza è aperta anche ai cittadini.
• Mercoledì 25 gennaio, ore 21 presso il Cinema-Teatro Giglio, Proiezione del film Il figlio di Saul di László Nemes, Gran premio della Giuria al Festival di Cannes 2015.
• Lungo la settimana dal 23 al 29 gennaio, presso il Centro de André, sarà visitabile una mostra con foto e documenti sulla Shoah allestita dall’ANPI.
Pioltello - La memoria declinata al femminile
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l Comune di Pioltello, nell’ambito delle iniziative del ciclo “Per non dimenticare”, organizza in occasione del Giorno della Memoria: • Sabato 21 gennaio, ore 17,00, presso la Biblioteca comunale-sala eventi, la presentazione del libro Aurelia Josz di P. d’Annunzio, E. Heger Vita e C. Schiaffelli.
• Mercoledì 25 gennaio, ore 11,00, in Sala Consigliare, spettacolo sulla Shoah riservato alle scuole medie Anne Frank del TeaY tro Telaio/Teatro a Pedali.
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Grazie, Combattenti per la Libertà
le storie - la Storia
CONFERITI I DIPLOMI E LE MEDAGLIE PER IL 70° DELLA LIBERAZIONE
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La cerimonia si è tenuta al Conservatorio di Milano
Sabato 15 ottobre 2016 sono stati invitati dal Prefetto di Milano i partigiani, gli ex internati nei campi nazisti e i combattenti inquadrati nei reparti regolari delle Forze Armate di Milano e della Provincia a presenziare alla cerimonia di conferimento delle medaglie coniate per il 70° anniversario della Liberazione. Riportiamo qui l’intervento del presidente provinciale dell’ANPI.
R di
RobeRTo cenATi
ingrazio il Prefetto di Milano Alessandro Marangoni, l’Assessore al Comune di Milano Maria Carmela Rozza, il Comandante del Presidio Militare Gen. Settimo Caputo, il Sottosegretario alla Regione Lombardia Augusto Cioppa, le autorità civili, militari e religiose intervenute. Ma ringrazio soprattutto voi, Combattenti per la Libertà, per avere lottato non solo per la libertà di noi tutti ma per la costruzione di un mondo migliore.
Questo importantissimo appuntamento di oggi avviene proprio alla vigilia di una tragica ricorrenza per il nostro Paese. Settantatré anni fa, sabato 16 ottobre 1943, 1024 ebrei romani vennero rastrellati dai nazisti e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale solo in sedici ritornarono. dopo l’8 settembre del 1943, iniziò nell’Italia centro-settentrionale occupata dai nazifascisti, la deportazione di ebrei, di oppositori politici, di lavoratori impegnati negli scioperi del dicembre del 1943 e del marzo del 1944 e di chiunque si opponesse consapevolmente al disegno di sopraffazione delle forze nazifasciste che volevano imporre in Europa e nel mondo un regime oppressivo, fondato sul razzismo, sull’antisemitismo, sul terrore e sulla riduzione in schiavitù dei popoli considerati “inferiori”. da non dimenticare il ruolo nefasto svolto dalla Repubblica di Salò nella denuncia e nella cattura di ebrei, oppositori politici e lavoratori. Contro la barbarie nazifascista combatterono i Resistenti italiani ed europei per la libertà di tutti noi e per la costruzione di un mondo migliore.
Se si vuole intendere cosa fu la Resistenza italiana non si deve fare riferimento soltanto al periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. La Resistenza non attese Kessel-
un sabato speciale. La platea della sala Verdi del Conservatorio di Milano affollata dai Combattenti per la Libertà per il conferimento delle medaglie del 70° della Liberazione. In prima fila, Carlo Simone, presidente onorario della sezione ANPI di Inzago, con la figlia Paola
ring: essa aveva già avuto inizio sin da quando era cominciata l’oppressione, cioè sin da quando lo squadrismo fascista aveva iniziato la sistematica distruzione delle Camere del lavoro, delle cooperative, delle organizzazioni operaie e contadine sia socialiste che cattoliche, seminando il terrore e la morte. Senza l’opera dei primi oppositori al regime fascista tempratisi attraverso processi e carceri non ci sarebbe stata la nostra Resistenza, che tra le sue prime vittime ha visto uomini come Giacomo Matteotti, Antonio Gramsci, Giovanni Amendola, i fratelli Rosselli, don Minzoni, Piero Gobetti. La Resistenza ha avuto i suoi antecedenti più diretti nella partecipazione degli antifascisti a difesa del governo repubblicano, nel corso della guerra civile spagnola di cui quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario. È il caso di dire che se il fascismo in Spagna vinse la battaglia iniziale della Seconda Guerra Mondiale, in Spagna l’antifascismo creò i quadri e le premesse per la vittoria finale del 25 aprile. La Resistenza italiana si è caratterizzata per una sua particolare complessità. Non è stata solo delle partigiane, dei partigiani del Corpo Volontari della Libertà che agivano nelle montagne e nelle città, ma di quelle unità italiane che cancellarono la vergogna del fascismo, che combatterono e caddero nelle isole
dell’Egeo, a Cefalonia, a Lero, a Rodi; dei militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943, deportati nei lager tedeschi (furono complessivamente 650.000, 50.000 dei quali non fecero ritorno) che preferirono la prigionia alla promessa di rientrare in Italia, subordinata alla loro adesione alla Repubblica di Salò; degli oppositori politici al regime nazifascista, dei lavoratori deportati nei campi di concentramento a seguito dei grandi scioperi del novembre-dicembre 1943 e del marzo 1944; degli ebrei che videro spegnere la propria vita nei campi di sterminio nazisti.
Notevole e di grande peso fu la partecipazione delle donne alla lotta di Liberazione, che conquistarono il diritto di voto, di cui erano prive, militando nelle file della Resistenza italiana. Ad esse va tutta la nostra infinita gratitudine. Un particolare ringraziamento rivolgiamo a due partigiane ultracentenarie presenti alla nostra cerimonia: Emma Fighetti e Rosa Boniforti. C’è stata quindi una Resistenza armata e una Resistenza non armata: entrambe hanno svolto un ruolo fondamentale per la Liberazione del nostro Paese dal nazifasci-
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A distanza di settantuno anni dalla Liberazione dal nazifascismo, la pace, bene prezioso conquistato dalla Resistenza italiana ed europea che furono guerra alla guerra, è in serio pericolo. La guerra è – di per sé – il contrario dei diritti umani, perché ogni guerra, necessariamente, li calpesta e non di rado li annulla. Ma i diritti umani sono il fondamento della nostra convivenza, messa oggi seriamente in discussione dallo stragismo jihadista che ha provocato centinaia di vittime innocenti a Parigi, a Nizza, a Bruxelles e in altre parti del mondo. dalle guerre e dalla fame stanno fuggendo centinaia di migliaia di esseri umani che cercano accoglienza e rifugio nel nostro continente. Ma l’Europa, nella quale si sta pericolosamente ripresentando il virus del nazionalismo, della xenofobia, dell’antisemitismo, sembra soltanto capace di erigere muri, reticolati e barriere di filo spinato. È un’Europa profondamente diversa da quella prefigurata da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni nel Manifesto di Ventotene e dai Resistenti europei. Quella era un’Europa fondata sui principi di solidarietà, accoglienza e che guardava alle sofferenze della gente. Viviamo in una società che registra la caduta sempre più preoccupante dell’etica pubblica, che sembra vivere solo nel presente e che celebra ogni giorno il rito dell’effimero, dell’egoismo, del successo individuale, della scomparsa della solidarietà. Non è il paese che sognavo, titolava un bel libro del Presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che recentemente ci ha lasciato. Non dobbiamo però perdere la speranza, perché i lineamenti fondamentali, le prospettive del nostro Paese sono contenuti nella eredità più preziosa della Resistenza italiana, la Costituzione repubblicana, che a distanza di quasi 70 anni dalla sua entrata in vigore deve essere ancora attuata nei suoi principi fondamentali. Nostro compito è di contribuire alla sua attuazione e di far rivivere i valori della pace, della solidarietà, della politica intesa come servizio alla collettività e al bene comune che furono patrimonio dei Combattenti per la Libertà. «La Resistenza – ricordava Aldo Aniasi – non è un pezzo da museo, non deve essere mummificata, appartiene alla nostra vita, deve essere un elemento dell’impegno civile di ogni giorno».Y Roberto Cenati presidente provinciale dell’ANPI
le idee - le iniziative
le storie - la Storia
smo. determinante fu il largo schieramento unitario di tutti i partiti, dal Partito comunista a quello monarchico che, all’indomani dell’8 settembre 1943 costituirono il Comitato di Liberazione Nazionale per «chiamare gli italiani alla lotta e alla Resistenza». E Milano, Città Medaglia d’Oro della Resistenza, ha voluto ricordare i Combattenti milanesi per la Libertà incidendo i loro nomi sotto la Loggia dei Mercanti, luogo simbolo della Resistenza milanese.
Il nostro impegno per il bene comune
BELLINZAGO - NOTE DI BILANCIO E DI PROGRAMMA
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l referendum Costituzionale ci ha consegnato un risultato chiaro, un secco no ad una riforma che nulla aveva di prioritario per questo nostro Paese. A questo punto possiamo dire d’aver perso un anno intero a raccontarci circa una priorità che non esisteva? Forse! Di sicuro necessitava ben altro, di mettere fine ad un racconto retorico teso a rappresentare una realtà funzionale alla propria parte politica, edulcorata e spesso intrisa di vane speranze, prontamente smentite dai dati reali del Paese. Non a caso, tanti no sono stati pronunciati dalle giovani generazioni. Un impietoso giudizio contro le politiche di breve respiro praticate, non solo dall’ultimo, ma dai tanti governi nazionali che si sono succeduti. Governi che spesso sono risultati carenti o guidati da uomini interessati al proprio bene e non a quello comune. Governi, spesso inerti nei confronti di una globalizzazione capace di profonde diseguaglianze e macroscopiche ingiustizie sociali. Ma così va, non solo per la nostra piccola penisola, che rischia d’essere travolta dalle politiche nazionali oppure dalla cecità di una Europa che male affronta i temi correnti, compresa una migrazione che viene fatta apparire ingestibile e che necessiterebbe d’una risposta univoca da parte di governi che spesso smentiscono se stessi erigendo barriere culturali se non materiali. I populismi crescono, in America come in Europa, in Asia come in Africa. Nessuno è esente da un male che deriva dalle condizioni che noi stessi abbiamo ispirato. Per altro, in diversi continenti la politica è assente e a farla da padrone sono gruppi di potere che spogliano intere regioni delle proprie risorse. Tutto si fa nel nome di uno sviluppo inconciliabile con la nostra sopravvivenza. In momenti così difficili dovremmo almeno utilizzare il buon senso, ricordarci che siamo una comunità. Mi verrebbe da dire che occorrerebbe lo stesso spirito cresciuto durante la lotta di liberazione e nella ricostruzione di una comunità tanto provata dalle sofferenze del conflitto bellico. Invece, se ne combina peggio di Bertoldo. Vedremo! Nel frattempo, nel nostro piccolo e bel Paese, possiamo apprezzare il fatto che abbiamo smesso di concentrarci su alchimie in quanto strumenti per garantire, a questo o quel gruppo, il potere necessario per “ben” governare. E seppure non sia
merito dei partiti (neppure di tanta parte delle opposizioni più impegnate a mandare in soffitta il governo Renzi, piuttosto che a difendere la Costituzione), possiamo passare oltre. Auguriamoci che si sia compreso che la semplificazione sta nel rendere la politica credibile, propensa al bene comune e impegnata in soluzioni ai veri temi della nostra società, senza scorciatoie o discutibili agevolazioni che di fatto mortificano la partecipazione. Anche in questo sta il nostro impegno. L’ANPI continuerà a difendere la nostra Costituzione. Una Costituzione che può e, se necessario, deve essere modificata (come è già avvenuto), con ampio consenso. Una Costituzione che va difesa, ma in particolare andrebbe applicata in tutte le sue parti. Nei principi fondamentali c’è già tutto, basta ricordarcene e agire di conseguenza.
Nel frattempo e dopo l’impegno referendario, a Bellinzago continuiamo ad occuparci della quotidianità. Un esercizio praticato grazie alla partecipazione di nostri iscritti, ma anche dalle tante persone non iscritte che abbiamo trovato strada facendo. Questo ci ha aiutato a consolidare il nostro ruolo presso l’Amministrazione Comunale, presso la Scuola, dove si è evoluto un buon rapporto con alcuni docenti, contribuendo ad ampliare il coinvolgimento delle ragazze e ragazzi sulle tematiche attinenti la nostra Costituzione e la legalità. Fra l’altro, per i lavori svolti nell’anno scolastico 2015/16, abbiamo predisposto diversi pannelli, che sono stati esposti in ambito scolastico e raccontano dei lavori realizzati dai ragazzi. Un grazie di cuore va ai docenti, alle ragazze e ai ragazzi che hanno collaborato all’elaborazione dei lavori. Per quanto ci riguarda, confidiamo d’essere stati utili alla nostra giovane comunità. Il 27 gennaio celebreremo il giorno della memoria (vedi il programma a pagina 6). In febbraio ci sarà un intervento dell’Associazione “Sulle regole”. Il tema trattato sarà quello della legalità e gli incontri saranno gestiti direttamente dai docenti e da un rappresentante dell’associazione. In aprile, la celebrazione della Liberazione e poi la nostra festa di Zona, ormai alla quarta edizione, che vedrà la partecipazione di più sezioni territoriali e che vorremmo ampliare con belle novità. Y Angelo Brambilla direttivo ANPI di Bellinzago L.do
il fiore del partigiano
Sotto un sole scuro sulle orme di Roberto
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le iniziative
RICORDANDO ROBERTO CAMERANI NEI LAGER DI MAUTHAUSEN ED EBENSEE
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a tragica esperienza di Roberto Camerani nei campi di sterminio di Mauthausen ed Ebensee continua a rivivere in sua memoria nei viaggi (in media due all’anno, il prossimo a febbraio) organizzati dall’associazione che ne tramanda il nome, la prassi e il ricordo: “57555 - Associazione Roberto Camerani”. Coi miei amici Monica e Peppo ho partecipato al viaggio del 30 ottobre-1 novembre scorsi. Anche stavolta abbiamo cercato di compierlo raccontando e ricordando storie piccole di grandi uomini che hanno saputo soffrire e morire, e alcune volte vincere, in quegli anni terribili. Storie piccole e diverse, ma parte di una grande storia. È la seconda volta che partecipo a questi pellegrinaggi laici – ma si potrebbe dire anche sacri, per i luoghi di tante sofferenze e per il modo con cui si affrontano. Ma perché questi pellegrinaggi? Per non dimenticare quell’immane tragedia che fu il nazismo, con i suoi campi di sterminio che hanno ucciso milioni di esseri umani: bambini, donne e uomini con la sola colpa di essere ebrei, avversari politici, disabili, omosessuali, zingari o diversi. Non mancano momenti di commozione e silenzi nell’entrare in un lager: dal toccare le pietre delle mura, ricordandosi di quelle persone che con grande sofferenza le hanno posizionate; ai momenti di grande emozione davanti alle baracche; ma soprattutto allo sgomento davanti ai forni crematori, toccandone le maniglie; all’entrare nella camera a gas, simulando l’ultimo rumore della chiusura in attesa della morte; ai lo-
mauthausen. Nemmeno il sole riesce ad illuminare il buio d’orrore del campo di sterminio. Qui sotto: i forni crematori e le lapidi in tante lingue ricordano i “passati per il camino”
Il registro delle firme. Sotto: il gruppo dei partecipanti
cali dei sezionamenti dei cadaveri. E, quindi, meditiamo. Insomma: entravi da quel portone e uscivi per il camino e se ti salvavi eri uno zombi, come scrive primo Levi nel suo libro Se questo è un uomo. Cosa ci insegnano questi pellegrinaggi? Che nonostante tutte quelle atrocità l’uomo deve impegnarsi a non odiare mai e ad amare sempre di più. L’impegno di essere uomini tra gli uomini e di fare tutto il possibile per migliorarsi. Il portone di Mauthausen si è chiuso dietro di noi, ma non del tutto. Altri portoni sono ancora tra noi, come l’indifferenza, la nuova deportazione che avanza da diversi anni, per chi fugge dalle guerre, l’ostilità verso gli immigrati sino all’innalza- mento di nuovi muri. Ecco: finché ognuno di noi non si farà un po’ carico di queste tragedie, i portoni di tutti i lager non saranno mai chiusi per semY pre. Antonio (con Monica e Peppo) ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione 25 Aprile
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27 gennaio, Giorno della Memoria
il fiore del partigiano
Primo Levi ci esorta ancora: «meditate che questo è stato» N
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CERNUSCO DEDICA ALLO SCRITTORE TESTIMONE UNA SERIE DI INCONTRI
el trentennale della scomparsa di Primo Levi (11 aprile 1987), l’ANPI di Cernusco organizzerà, in collaborazione con scuole e associazioni del territorio, una serie di iniziative che si snoderanno a partire da gennaio e per gran parte dell’anno. La rassegna, dal titolo «Primo Levi (1919-1987) – L’intellettuale, l’uomo, il testimone», prenderà avvio il 28 gennaio, in occasione delle celebrazioni per la Giornata della Memoria, quando nella sala Camerani della biblioteca civica (ore 15.30), terremo il convegno Meditate che questo è stato, in cui verrà posto l’accento sul Levi testimone di Se questo è un uomo e sul Levi intellettuale de I sommersi e i salvati, il libro delle domande e suo testamento spirituale. Ad accompagnarci in questa analisi la professoressa dell’ITSOS di Cernusco Elefteria Morosini, curatrice dell’edizione di Se questo è un uomo e La tregua per Einaudi Scuola, e Caterina Frustagli, insegnante, psicologa e autrice di Primo Levi davanti all’assurdo (Tra le righe libri, Lucca), un testo molto interessante che ci spiega quanto il linguaggio dello scrittore torinese inneschi anche nel lettore di oggi forti reazioni emotive e lo richiami a riflettere sul male e sulla sua propagazione.
Naturalmente ci sarà spazio anche per i lavori dei ragazzi della professoressa Morosini, che in questi anni sono stati guidati in un percorso di grande spessore letterario e umano che li ha portati a riflettere e scrivere sull’esperienza della deportazione.
La rassegna proseguirà con la presentazione di altri interessanti libri su Primo Levi, come Una stella tranquilla, una emozionante graphic novel di Pietro Scarnera, o che hanno trattato vicende della sua famiglia, come Quattro ore nelle tenebre di Paolo Mazzarello, docente di Storia della medicina a Pavia. Per le celebrazioni del 25 aprile tratteremo de La tregua, il libro del ritorno a casa e alla vita per Levi e della ricostruzione di un’Europa nel segno di pace, libertà e democrazia. Ma sarà anche l’occasione per chiedersi cosa resti ai giorni nostri di quel progetto d’Europa, germogliato in un luogo di prigionia e in tempo di tirannia, che oggi sembra naufragare tra abissi liquidi di morte, fili spinati e muri di cemento e di indifferenza. E allora ecco che le parole dell’intellettuale Levi ci illuminano e ci ammoniscono: «devo dirlo, lo so, non è che lo penso, lo so: dove un nuovo fascismo, non è detto che sia identico a quello, un nuovo verbo come quello che amano i nuovi fascisti in Italia, cioè non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti, alcuni hanno diritti, altri no, dove questo verbo attecchisce, alla fine c’è il lager, questo io lo so alla perfezione». Y Giovanna Perego ANPI di Cernusco s/N sezione Riboldi-Mattavelli
COMMENTO DI SMURAGLIA SUL BILANCIO DEL PEGGIO DELLO SCORSO ANNO REDATTO PER IL “CORSERA”
Nel 2016 “pazzotico” di Pigi Battista manca solo lui da ANPInews n. 229 – 10/17 gennaio 2017
… Non posso che concludere queste note ricordando una vera e propria “amenità” (si fa per dire) che abbiamo letto in uno dei tanti “bilanci”, questa volta redatto per “voci”. Sul Corriere, nella pagina dedicata al “peggio” del 2016, Pierluigi Battista ha inserito una voce, “partigiani” che lascia trasecolati. Secondo l’autore, il 2016 è stato un anno “pazzotico” in cui si è imbastita una interminabile discussione su chi siano i “veri” partigiani; e qui sta il primo equivoco. Non abbiamo avuto notizia di una discussione del genere e tanto meno ci siamo accorti che fosse interminabile. Ma in più c’è il fatto che una discussione richiede più partecipanti, altrimenti è un monologo. Nel caso di specie, c’è stata un’improvvida affermazione di una componente del Governo, sulla quale era impossibile aprire una discussione, ma si poteva fornire, al più, come è avvenuto, qualche ironica risposta o una denuncia di cattivo gusto quando essa è stata completata dalla presentazione di una sfilata di partigiani “veri” che, naturalmente, votavano per il Sì. Poi più nulla, perché sul ridicolo non si di-
scute, ma – a seconda del carattere di ognuno – si ride o ci si arrabbia. Tutto qui. Poi il giornalista prosegue, specificando meglio il suo vero obiettivo, cioè coloro che “parlano a nome dell’ANPI e sono nati molti anni dopo la fine della Resistenza” e dovrebbero tacere – dice l’autore – e lasciare la parola ai partigiani che hanno fatto i partigiani. Ora c’è da dire che “parlare a nome dell’ANPI” non significa affatto parlare dei partigiani, ma di un’Associazione che è stata fino al 2006 composta solo da combattenti per la libertà e da allora, con una modifica statutaria approvata anche dagli organismi di controllo, ha ammesso anche gli “antifascisti” che si riconoscono nelle finalità e nei valori dell’Associazione. Da allora, anche se qualcuno non se ne è accorto, nell’ANPI sono entrati tanti giovani e tante donne, e tanti di una vera e propria generazione pacificamente successiva al periodo della Resistenza. Tra i partigiani e gli antifascisti si è creato un amalgama straordinario, che ha assicurato la “continuità” dei valori della Resistenza e della Costituzione, cui questa Associazione si è sempre ispirata. Se oggi il numero degli iscritti supera le 124.000 unità, questo è proprio perché quell’amalgama si è costituito nel
tempo ed ha perfettamente funzionato; e ai nostri successori affideremo, come lascito, quella “continuità” che è il bene e la caratteristica fondamentale dell’ANPI. Spero, così, di aver spiegato chiaramente, anche a chi non sa, come stanno realmente le cose. Ciò che ci colpisce particolarmente, però, è che questa voce “Partigiani” sia stata inserita nel “peggio” del 2016, cioè accanto ad Aleppo, Colonia, Erdogan, Odio, Zoticoni, Squadristi, Bambolotti, etc. Ci vuole una bella dose non dico di mancanza di rispetto, ma addirittura di disinvoltura per creare simili paragoni, che sono comunque offensivi non solo se riferiti ai “partigiani”, ma anche a quelli che tali non sono stati, ma che oggi appartengono a pieno titolo ad una Associazione come l’ANPI, a sua volta degna almeno di rispetto, reale e non solo formale. Potrei aggiungere anche che nessuno ha parlato “a nome” dell’ANPI, anche se era riconoscibile la sua appartenenza; ma forse non vale neppure la pena di soffermarsi ulteriormente sul tema. Y
Carlo Smuraglia
Presidente Nazionale ANPI
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Angelo Barzago, la vita spezzata a nemmeno vent’anni
le storie - la Storia
LA SEZIONE ANPI DI BUSSERO È INTITOLATA AL MARTIRE PARTIGIANO
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opo la caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, la guerra prosegue ancora per qualche mese. L’8 settembre, il maresciallo Badoglio, capo del Governo dopo la caduta di Mussolini, sigla l’armistizio che pone fine alla guerra contro gli anglo-americani. L’esercito italiano, abbandonato dal Re e dalla sua corte, dallo stesso Badoglio e dagli ufficiali dello Stato Maggiore, si dissolve. Senza ordini e senza capi supremi non è più in grado né di combattere contro le forze di occupazione nazifasciste né di schierarsi apertamente con gli antifascisti, che già dal 25 luglio si stanno organizzando per la lotta armata. È il “tutti a casa”, tanto che il 10 settembre il comando supremo germanico può annunciare: «Le forze armate italiane non esistono più». Ma la guerra non è finita: la disfatta dell’esercito non è la disfatta della nazione. E inizia la resistenza, contro l’avversario più pericoloso e infido: le forze tedesche di occupazione, coadiuvate dai fascisti, riuniti sotto la bandiera della Repubblica Sociale Italiana, i “repubblichini”.
I primi nuclei combattenti Come in tutto il centro-nord, anche nella zona della Martesana si formano i primi nuclei combattenti: militari che hanno lasciato la divisa, giovani che rifiutano di arruolarsi nelle file della RSI, antifascisti locali. Alle iniziali riunioni clandestine nelle cascine e nelle osterie seguono le prime azioni di propaganda antifascista, quali affissioni di manifesti, volantinaggio, comizi volanti. Ci si concentra poi sul recupero di armi e su azioni di sabotaggio. Con la costituzione di distaccamenti delle Brigate partigiane, in particolare le 103ª - 104ª - 105ª e 176ª Brigata Garibaldi (formanti la divisione Fiume Adda) e dell’11a Brigata Matteotti (e altre) e con alcune Brigate del Popolo, di ispirazione cattolica, il campo di azione si estenderà nella zona Adda-Martesana e in gran parte della Brian-
za; le azioni messe in campo diventano via via più mirate e incisive, di vera e propria guerriglia armata. Lo scontro si fa sempre più duro, la repressione nazifascista sempre più feroce. I partigiani rappresentano per l’occupante il nemico mortale, l’avversario irriducibile, imprevedibile, da odiare e distruggere. Scrive il feldmaresciallo Kesserling, comandante in capo delle forze armate tedesche in Italia: «Il soldato tedesco è costretto a supporre che ogni borghese di ambo i sessi sia capace di un assassinio a tradimento e che da ogni casa possano partire colpi di arma da fuoco mortali». Il Comando di raggruppamento Brigate Garibaldi SAP (Squadre Armate Patriottiche) dirama, nel settembre 1944, la se-
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guente circolare: «…Il combattimento deve essere inteso nel suo significato reale di stato di guerra, guerra feroce e spietata di ogni giorno, in cui il nemico ha messo da parte ogni stile cavalleresco con la fucilazione degli ostaggi, di persone innocenti prese a caso, con le torture e sevizie, con la distruzione di pacifici villaggi… alla sua ferocia si deve rispondere con vendicativo spirito di giustizia, senza esclusione di colpi, se si vuole impaurirlo e contenere la barbarie».
Le fabbriche si mobilitano La resistenza non consiste però solo in azioni armate contro l’occupante. Nelle grandi fabbriche del Milanese (Falck, Breda, Ercole Marelli, Magneti Marelli, Pirelli, Magnaghi, Borletti) – centri nevralgici della produzione industriale – i lavoratori si mobilitano. Inquadrati in formazioni partigiane e sotto la guida dei Comitati di Liberazione Nazionale, essi danno vita ad atti dimostrativi, di propaganda antifascista, di sabotaggio della produzione, di supporto economico alle famiglie di antifascisti incarcerati. In tutte le aree industriali del nord, i lavoratori si mobilitano. Già nel marzo 1943, gli operai della FIAT Mirafiori di Torino entrano in sciopero. Le motivazioni sono principalmente economiche, ma si intrecciano con motivazioni politiche di opposizione al regime. Allo sciopero di Torino fa immediatamente seguito quello nelle fabbriche del Milanese. Altri scioperi si hanno nell’autunno a Milano e Genova. Nel marzo 1944 un grande sciopero generale, al quale aderiscono non solo gli operai, ma anche gli impiegati, si estende da Torino a Milano, all’Emilia, alla Toscana, al Veneto e ha grande risonanza nel mondo libero, dagli Stati Uniti all’Inghilterra. Esso coinvolge sia fabbriche della zona Adda-Martesana, sia lavoratori, abitanti in zona, che hanno il loro
Pessano: il cippo a memoria dei sette martiri, posto nel luogo dell’eccidio. In alto: Angelo Barzago
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Angelo Barzago, la vita spezzata a nemmeno vent’anni
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posto di lavoro a Milano o a Sesto. La repressione è sempre durissima, dal sangue di Genova, con molti operai fucilati, alle centinaia di lavoratori di Torino e Milano arrestati, torturati, deportati in Germania, tanto che, alla fine della guerra, il numero di detenuti “politici” deportati, includendo in questa categoria anche lavoratori e operai, risulterà altissimo, addirittura superiore a quello degli ebrei.
Un giovane operaio antifascista Angelo Barzago nasce a Bussero il 15 giugno 1925. Giovanissimo operaio della Falck di Sesto San Giovanni, nello stabilimento Unione, entra ben presto a far parte della Resistenza, inquadrato nella 201a Brigata Giustizia e Libertà. Si impegna in azioni di propaganda antifascista, sabotaggio, recupero armi, distribuzione di materiale clandestino. Benvoluto e stimato dai compagni di lavoro, viene ricordato come attento e preciso lavoratore, sempre impegnato a propagandare ideali di giustizia e libertà. Ma, come detto, la repressione nelle fabbriche è sempre grande. I nazisti e le spie fasciste sono molto attivi e il 1° marzo 1945 Barzago, accusato di attività sovversive, è arrestato e rinchiuso nelle carceri di Monza. L’8 marzo 1945, a Pessano, in via Testi, vicino al ponte sul Molgora, un ufficiale tedesco, responsabile del distaccamento locale dell’organizzazione Speer (l’organizzazione si occupava prevalentemente della logistica per grandi opere di costruzione, utilizzando sovente forme di lavoro coatto e prigionieri di guerra), è ferito mortalmente da tre partigiani. Non è del tutto chiaro se lo scontro sia stato occasionale o organizzato preventivamente. In una relazione sulle attività della 105a Brigata Garibaldi SAP, il comandante della Brigata scrive: «8 dicembre 1944 – Viene giustiziato a Pessano un capitano tedesco, soprannominato La Tigre». Altre fonti sostengono che il comandante della guarnigione tedesca di Pessano, soprannominato “La Tigre” o “Il Tigre”, condannato a morte dal tribunale partigiano per le sue azioni di repressione e le rappresaglie da lui compiute, fosse stato da poco trasferito e che l’ufficiale giustiziato a Pessano nell’azione partigiana l’avesse sostituito nel comando. Lasciamo la descrizione dell’azione alle parole del comandante della 105a Brigata Garibaldi SAP, nella relazione sulle attività della Brigata: «L’8 corrente, in località Pessano, una pattuglia del 1° distaccamento
Sopra: Sesto San Giovanni, nei pressi dell’ex stabilimento Unione della Falck, la lapide che ricorda gli operai caduti per la Resistenza. Tra i nomi, anche quello di Angelo Barzago, che qui lavorò. A sinistra: il volantino del comando di zona nazifascista che comunica l’esecuzione della condanna a morte. Nella pagina a fronte: Bussero, la lapide in ricordo di Angelo Barzago posta nel 2013 sulla facciata del municipio
avvistava un capitano germanico armato di mitra accompagnato dal proprio attendente. I garibaldini lo avvicinavano decisi a disarmarlo, ma l’ufficiale, intuita la manovra, fece atto di voler reagire. Prontamente gli impavidi garibaldini facevano uso delle armi e lo stendevano al suolo. Un colpo raggiungeva pure l’attendente, che risultò in seguito ferito. La squadra poteva ritirarsi in perfetto ordine e senza incidenti». Esattamente 50 anni dopo, il 13 marzo 1994, al termine della manifestazione annuale a ricordo dei martiri di Pessano, un ex-partigiano, nome di battaglia “Sesto”, confida a uno degli antifascisti presenti: «Sono uno dei responsabili che l’8 marzo 1945 ha sparato all’ufficiale tedesco sul ponte del torrente Molgora a Pessano con Bornago. Io e altri due compagni della 184a Brigata Garibaldi della Falck di Sesto San Giovanni avevamo avuto l’ordine dal Comando di brigata di procurare armi, in quanto la brigata ne aveva necessità per effettuare azioni contro i nazifascisti. In bicicletta girammo nel circondario; a Gorgonzola riuscimmo a procurarci due machine-pistole. Stavamo quindi tornando a Sesto, quando a Pessano con Bornago sul ponte del torrente Molgora notammo un
ufficiale tedesco seduto sul parapetto e nell’immediata viuzza che costeggia il Molgora c’era un altro tedesco appoggiato a una macchina con un mitra nelle mani. dopo averli superati, immediatamente ci fu un’intesa repentina e con uno scambio di occhiate decidemmo di impadronirci delle armi in possesso dei tedeschi. I miei due compagni intimarono all’ufficiale di alzare le mani, ma questi mise mano sulla fondina della pistola e di conseguenza i miei compagni spararono; videro l’ufficiale accasciarsi al suolo. Mentre tutto questo avveniva io mi ero avvicinato al soldato della macchina per disarmarlo, ma questi si mise a scappare nel bosco con il mitra nelle mani, io sparavo con la pistola per cercare di fermarlo, ad un certo punto il soldato si fermò forse perché spaventato e si mise in ginocchio implorando pietà, buttando il mitra per terra. Ho avuto un attimo di esitazione permettendo al soldato di fuggire; raccolsi il mitra, nel frattempo fui raggiunto dagli altri due compagni e indisturbati raggiungemmo la Falck, dove facemmo rapporto. due giorni dopo ci è giunta la notizia della rappresaglia». L’ufficiale tedesco viene soccorso e trasportato all’ospedale di Monza, dove muore poco dopo. La rappresaglia nazifascista Le SS tentano di imputare la responsabilità dell’uccisione a partigiani di Pessano e chiedono al podestà del paese una lista di nomi da destinare alla fucilazione, ma de-
il fiore del partigiano tribunale. Ma uno dei tre di Carate, mettendogli la mano sulla spalla lo rimproverò benevolmente dicendo: “Che paura hai di morire? Non temere: abbiamo qui il nostro padre che ci assiste e benedice: il nostro sangue non sarà dato invano. Ci vendicheranno, ne sono sicuro”! Io avevo gli occhi così pieni di lacrime che a stento potevo vedere. Abbracciati sempre l’uno all’altro (erano ammanettati a due a due) seguimmo il comandante della SS che si era avvicinato per farci premura. Bisognava, diceva egli, arrivare sul posto dell’esecuzione prima dell’imbrunire. Scendemmo le scale, un nugolo di armati accompagnava il corteo: poco dopo, a Pessano, si compiva la strage!».
sistono in seguito dalla loro idea iniziale, anche perché, a quanto sembra, prima di morire, l’ufficiale tedesco è riuscito a dire che i suoi feritori non erano di Pessano. Accettano invece la proposta del famigerato gerarca fascista Luigi Gatti, noto torturatore e pluriomicida, che suggerisce una lista di nomi di detenuti nel carcere di Monza. Il comando SS di Monza decide quindi di prelevare alcuni prigionieri politici dal carcere della città e di portarli a Pessano per l’esecuzione. Questa la testimonianza di don Baraggia che, nel carcere di Monza, incontra per l’ultima volta i condannati: «Seppi subito in mattinata che si stavano giudicando una decina di carcerati tolti dal nostro San Vittore di via Mentana, dovendo essere condannati per rappresaglia dopo il ferimento di un tedesco in quel di Pessano… Verso le 13 potei sapere che la sentenza ormai era sicura. Sette dovevano andare all’altro mondo… Verso le 16 mi indirizzai di preciso verso le scuole Ugo Foscolo, luogo dove operava il tribunale ben presidiato e guardato dalle rigidissime SS in pieno assetto di guerra... Potei salire al primo piano del grande caseggiato ove erano i condannati, passando innanzi alle sentinelle disposte in ogni angolo... Mi feci innanzi nel corridoio, scortato da molte guardie delle SS in uniforme, ed abbracciai ad uno ad uno quei figlioli che compresero la triste realtà del loro destino! E quando, sotto gli occhi dei tedeschi, si inginocchiarono tutti e sette abbracciandomi in un unico amplesso e stringendomi forte forte quasi a comunicarmi tutti i loro sentimenti e recitarono l’ultima preghiera con me, io alzai la mano a benedirli; infine si rialzarono sorridenti e mi rivolsero le loro ultime parole. Lo sguardo sempre insistente delle SS (evidentemente sorprese e commosse), non mi permise altro se non che mi consegnassero chi il fazzoletto, chi la sciarpa: qualcuno non aveva proprio nulla! Sorse un’affrettata discussione tra di loro, in quanto uno di essi, il più giovane, affermava di essere stato escluso dalla fucilazione: così almeno sembrava a lui d’aver sentito dire in
Al calar della sera, l’eccidio Un camion, scortato da militari tedeschi e italiani, trasporta gli otto prigionieri, prelevati dal carcere di Monza nello stesso luogo nel quale l’ufficiale tedesco era stato mortalmente ferito. Uno solo, Carletto Vismara, sarà risparmiato, grazie alla sua giovanissima età, ma sarà costretto ad assistere all’eccidio. Così descrive l’atroce fatto, un testimone dell’epoca: «Imbruniva, a Pessano, la sera del 9 marzo 1945, quando i contadini di ritorno dai campi udirono venire dalla provinciale un insolito rumore di motori. Quasi contemporaneamente videro entrare in paese i camion mimetizzati. Su uno di questi, incatenati, erano sette giovani, dalle vesti lacere e dal viso smunto per i patimenti e le percosse. Tutti sapevano che in paese, il giorno prima, era stato ferito un ufficiale tedesco. E tutti sapevano cosa doveva accadere, senza avere il coraggio di dirlo... I giovani vengono buttati a terra e messi contro il muro. È l’ora: si punta la mitragliatrice, ma questa si inceppa; si fanno avanti due figuri neri, di cui uno è il caporione Gatti con due fucili mitragliatori. Una raffica, due, tre, dilaniano l’aria e fiotti di generoso sangue sgorgano dai petti dei sette eroi. Cadono l’uno sopra l’altro quasi a fondersi in un ultimo abbraccio». Muore così, alle 19 del 9 marzo 1945, Angelo Barzago, assassinato da un plotone formato da soldati delle truppe naziste di occupazione e da fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana. Non ha ancora 20 anni. Assieme a lui cadono Romeo Cerizza, appartenente alla 110ª Brigata Garibaldi, nato a Milano nel 1923, Claudio Cesana, nome di battaglia “Tito”, nato a Carate Brianza nel 1924, dante Cesana, nome di battaglia “Marco”, appartenente alla 119ª Brigata Garibaldi, nato a Carate Brianza nel 1919, Mario Vago, appartenente alla 182ª Brigata Garibaldi, nato a Sacconago nel 1923, Angelo Viganò, nome di battaglia “Tugnin”, appartenente alla 119ª Brigata Garibaldi, nato a Carate Brianza nel 1919. Il comando tedesco, dopo l’esecuzione, ordina la sepoltura dei sette martiri in una fossa comune, ma l’intervento di don Varisco, parroco di Pessano dal 1937, fa sì che a essi sia data degna sepoltura.
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Il giorno dopo viene celebrata la messa nella chiesa di Pessano, alla presenza di tutta la popolazione, e si svolgono le esequie al cimitero alla presenza dei parenti delle vittime. Le salme possono essere viste dai loro cari, dopo un’ennesima intercessione del parroco presso i fascisti che volevano impedirlo. Alle sette di sera le bare sono seppellite nel cimitero di Pessano, dove rimarranno fino alla fine della guerra. Successivamente ritorneranno nei loro paesi di origine per ricevere gli onori che a loro spettano.
Nomi scolpiti nella memoria Nel luogo dell’eccidio sarà eretto, dopo la Liberazione, un cippo, a imperitura memoria dei sette martiri di Pessano. Ogni anno, in una domenica di marzo prossima alla data dell’eccidio, l’ANPI e l’amministrazione comunale organizzano una manifestazione, molto partecipata, alla quale aderiscono le sezioni ANPI di zona e l’ANPI Provinciale, che si conclude nel luogo nel quale i sette giovani martiri furono barbaramente uccisi. Nei pressi dell’ex stabilimento Unione, a Sesto San Giovanni, dove Barzago aveva lavorato, una lapide ricorda i lavoratori della Falck caduti per la Liberazione. Tra di essi, il nome di Angelo Barzago. Nel dopoguerra, l’amministrazione comunale di Bussero ha dedicato ad Angelo Barzago una via del comune. Nel 2013 è stata posta, sulla facciata del palazzo comunale, una lapide a ricordo del sacrificio di Angelo Barzago. A lui sono intitolate la sede del Circolo Cooperativo di Bussero, fondato nel 1952, e la sezione locale dell’ANPI, sulla cui bandiera Y spicca il nome del giovane martire.
Direttivo ANPI di Bussero Sezione «Angelo Barzago»
bibliografia Giorgio Bocca: Storia dell’Italia Partigiana, feltrinelli, milano, 2012. Giorgio perego, Cascinotti della Liberazione, la Resistenza a Gorgonzola e in Martesana, a cura della sezione anpi di Gorgonzola, 2015. Giorgio perego, La resistenza armata in Martesana, in “Storia in Martesana”, n°7, 2013. aa.vv., Storia della resistenza a Brugherio, a cura della sezione anpi “f. vergani” di Brugherio. la Gazzetta della martesana, La Resistenza in Martesana, articoli pubblicati tra febbraio e aprile 2005. pagine della resistenza caratese, I Martiri di Pessano, a cura di luigi colombo e del comitato comunale antifascista di carate Brianza, 1975. Percorsi e memorie della Resistenza, a cura della sezione anpi di cernusco sul naviglio, www.memoriarinnovabile.org. insmli, istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in italia, archivio storico. isec, istituto per la storia dell’età contemporanea, archivio storico. Wikipedia, Eccidio di Pessano
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il fiore del partigiano
Ricordi di racconti di un «ragazzo del ’99»
le storie - la Storia
LA “GRANDE GUERRA” FU UN ORRENDO MACELLO CHE NON INSEGNÒ NULLA
I
di
LuciAno GoRLA
n casa, fin da ragazzino, ho sentito spesso ricordare la Prima guerra mondiale (della quale sta ricorrendo, forse un po’ in sordina, il centenario), vale a dire la Grande Guerra: come è entrata nelle definizioni della storiografia, della letteratura e della cinematografia. I nostri anziani, però, la definivano semplicemente, nella dizione dialettale: «La guera dal ’15 al ’18». Ne ho sentito parlare spesso perché mia madre fu un’orfana di quella guerra. Mio nonno, classe 1884, fu infatti dato per disperso il 13 dicembre 1917 nella prima battaglia del Grappa che si svolse violentissima dal 10 al 21 dicembre di quell’anno. Nello scenario della Prima guerra mondiale, dopo la disfatta di Caporetto, il massiccio delle Prealpi Venete aveva costituito la nuova linea difensiva italiana per impedire l’invasione austriaca della pianura trevigiana. Le truppe italiane, sulle montagne tra le valli del Brenta e del Piave, seppero opporre un’ardita ed eroica resistenza all’impeto dell’offensiva nemica, riuscendo, tra l’altro, ad attestarsi sulla linea del Col della Berretta, dove cadde mio nonno, decorato alla memoria con Croce di Guerra. Ho sentito tanto raccontare di quella guerra, anche perché, da adolescente, ho avuto la fortuna di conoscere un “ragazzo del ’99”, di nome Felice (padre di Ulla, mia zia), insignito nel 1968 – cinquantenario della vittoria – del titolo onorifico di Cavaliere di Vittorio Veneto. Una persona per la quale ho sempre nutrito una grande stima e della quale conservo un affettuoso ricordo. Egli, attraverso i suoi ricordi di guerra, fu per me come il mio vero nonno che non ho conosciuto. durante l’estate andavo spesso alla cascina dove avevano abitato i miei nonni e dove avevo l’occasione di incontrare Felice. Ho ricordi bellissimi ed indelebili dei lunghi pomeriggi passati in campagna, dove, all’ombra di rigogliose e fresche siepi, nell’attesa di raccogliere il fieno, chiedevo a Felice di raccontarmi della “sua” guerra. Egli non solo lo faceva volentieri, ma sapeva affascinarmi con racconti molto descrittivi, narrati con un tono di voce piacevole che stimolava l’ascolto. Felice, inoltre, non si spazientiva affatto, quando, alcune volte, la mia curiosità di ragazzino lo interrompeva per chiedere ulteriori particolari riguardanti le divise e l’equipaggiamento del Regio Esercito, gli aeroplani, le tradotte che portavano i soldati al fronte, le trincee, ecc. In quei frangenti, nel silenzio della campagna, mentre il mio
sguardo spaziava lontano, come per vedere su di uno schermo immaginario le scene dei racconti che stavo per ascoltare, egli, dopo essersi seduto sull’erba, si toglieva il cappello di paglia ed iniziava a raccontare. Era stato arruolato che non aveva ancora compiuto i diciotto anni: quel compleanno l’aveva festeggiato in divisa grigioverde “al fronte”. I nomi delle località dove era stato gli si erano fissati nella memoria e ricorrevano spesso nei suoi racconti. dopo un rapido addestramento era stato destinato al corpo di sanità, prima come porta feriti e poi come infermiere in un ospedale, quale addetto alla farmacia e alla preparazione e distribuzione delle terapie, sotto la direzione sanitaria di un capitano medico bergamasco e la supervisione di una suora, che tutti chiamavano “sorella”. Felice aveva così imparato a fare le iniezioni e a preparare la somministrazione dei farmaci, confezionati in polverine da pesare col bilancino. Nell’ospedale, inoltre, si prestava volentieri a leggere ai soldati analfabeti la corrispondenza che ricevevano, e a scrivere, sotto loro dettatura, le lettere che essi inviavano ai loro cari. Erano gesti che sapevano alleviare un poco la nostalgia dei ricoverati per gli affetti lontani. Alcune volte la sua voce si velava di commozione nel raccontare episodi che, all’interno e fuori dall’ospedale, l’avevano particolarmente colpito. Come era successo una volta, quando, insieme ad alcuni commilitoni, aveva visto una donna sbucare da un nascondiglio sotterraneo. A quella donna dall’aspetto spettrale, la cui magrezza e l’abbigliamento lacero denotavano uno stato di drammatico bisogno, si stringevano due figli piccoli, piangenti ed imploranti. Felice era rimasto scosso da quella scena: aveva
svuotato il suo tascapane di tutto quello che di commestibile conteneva per darlo a quella madre, e altrettanto avevano fatto i suoi commilitoni. I racconti della Prima guerra mondiale che ho ascoltato da ragazzino, terminavano sempre col rimarcare il dolore che quella tragedia aveva causato, con i morti, i feriti, i mutilati, gli invalidi, le vedove, gli orfani e le distruzioni; nonché con l’amara considerazione di come quel conflitto non avesse insegnato nulla: il riferimento era alla Seconda guerra mondiale, che deflagrò violentissima poco più di due decenni dopo la fine della prima. Ora, uscendo dai ricordi personali, a distanza di un secolo dal primo conflitto mondiale, nel contesto di un’Europa diventata oggi la casa comune di molte Nazioni, raccontare di schieramenti, di fronti, di offensive e di nemici, può suonare stonato. È però doveroso, pur aborrendo quella guerra e tutte le guerre, ricordare le sofferenze di allora e rendere omaggio alle vittime civili e ai soldati caduti, senza distinzione di nazionalità. I caduti della Prima guerra mondiale, iniziata il 28 luglio 1914, dopo l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e di sua moglie Sofia di Hohenberg, hanno registrato numeri spaventosi: 533.000 italiani, 2.000.000 tedeschi, 1.000.000 austriaci, 1.500.000 francesi, 1.000.000 inglesi e 1.700.000 russi. Soldati accomunati dal sacrificio supremo della vita, ai quali si deve la pietà e l’onore. Soldati giovani e meno giovani (gli inzaghesi caduti furono 115) che hanno riempito i cimiteri di guerra di mezza Europa e i sacrari nazionali, come quello di Redipuglia, dove i nomi di centomila caduti sono “PRESENTI” alla meY moria e alla storia.
pillole di resistenza culturale Siamo tutti uguali davanti alla morte. Non davanti alla storia. Y Italo Calvino
Lo stupido è insidiosissimo. L’imbecille lo riconosci subito (per non parlare del cretino), mentre lo stupido ragiona quasi come te, salvo uno scarto infinitesimale. Y Umberto Eco
Domandiamoci: la nostra fede è feconda? Produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia; il
a cura di
mAuRiZio GHeZZi
Signore potrà dirci: «Ti ricordi quella volta, sulla strada da Gerusalemme a Gerico? Quell’uomo mezzo morto ero io. Quel migrante che volevano cacciare via ero io. Quel nonno abbandonato ero io. Quel malato che nessuno va a trovare in ospedale ero io». Y Papa Francesco (Angelus 10 luglio 2016)
Nessuno si considera interamente un vigliacco, perché se qualcosa gli fa paura ne corre via lontano, esattamente fino al punto dove si considera di nuovo un eroe! Y Robert Musil (L’uomo senza qualità)
27 gennaio, Giorno della Memoria
IL MASSACRO DI ROM E SINTI DA PARTE DEI NAZISTI
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“Samudaripen”: lo sterminio rimosso il fiore del partigiano
Gennaio 2017
da Patria Indipendente pubblicato lunedì 16 gennaio 2017
ERNESTO ROSSI
secoli, la diaspora ripetuta, le stragi, hanno trasformato la lingua dei rom in un puzzle di parlate. Per alcune di queste, Porrajmos è un termine osceno. Pertanto preferiamo l’altro, Samudaripen, l’uccisione di tutti, che richiama con chiarezza persecuzioni e massacri, di cui gli zingari furono vittime durante la Seconda Guerra Mondiale. Per molti, soprattutto i più giovani, questa è un’oscura pagina di un passato remoto. Per affrontare la realtà di rom e sinti in Italia, riteniamo sia illuminante partire dalle attuali condizioni di questo popolo. Lo facciamo con una storia vera, che l’ombra d’un male terribile fa risaltare.
Dopo anni di relativa calma, in un’importante città del Nord, B. di sette anni, G. da dieci affetta da un tumore ricorrente, e i loro genitori, fratelli e sorelle sono tornati a vivere in un furgone scassato e privo ormai di assicurazione. Cacciati dal terreno di loro proprietà, distrutte le loro case mobili, derubati sotto gli occhi dei vigili preposti a impedire che loro vi tornassero, ridotti a campare tra un parcheggio e l’altro, secondo benevolenza o meno di altri vigili, poliziotti, carabinieri. Fermati e multati, perché «non si può abitare in un camper», rovesciate con una stivalata nella terra e nella cenere le salsicce che cuocevano per la misera cena; vigilati, seguiti, perseguiti senza sosta. Tornati a vivere nel carro, ormai senza cavalli, come cent’anni fa. Insomma, Erode è vivo e lotta contro di loro: ha dalla sua molte amministrazioni “democratiche”, tutte ugualmente accanite, di destra quanto di sinistra. È una famiglia di rom bosniaci, profughi dalle guerre etniche dei primi anni Novanta in Jugoslavia, come tante altre che hanno lasciato case, attività, le scuole dei loro figli. La Jugoslavia era uno dei Paesi in cui la condizione dei rom era migliore,
discriminati già dal 1937. A Ummenwinkels le comunità Rom e Sinti vennero confinate in questo primo campo. Da qui verranno spostati ad Auschwitz-Birkenau
Si ode spesso il solenne “Mai più”; ma cosa non dovrebbe succedere “mai più”, se non conosciamo appieno ciò che è successo? È il 72° anniversario della Liberazione, ma non per loro: la persecuzione continua pare per volontà di Tito stesso, avendo essi a migliaia partecipato alla Guerra di Liberazione. Oggi quelle persone, uomini donne bambini vecchi – qui ridotti a nomadi che non erano e un tempo ebbero una casa – continuano a vivere nei campi cosiddetti “nomadi”, a dispetto della sollecita legge 390/92 «Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli
sfollati delle repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia». A Milano, il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR) fu incaricato di censire i profughi presenti nel territorio: lavoro fatto, consegnato, pagato. Visitabile ancora oggi in un armadio municipale, a memoria d’una pronta applicazione della legge, senz’altra conseguenza. Poi, in tempi più recenti e altrove, le vicende dei comitati d’affari cresciuti intorno alla gestione dei campi.
In Italia, l’unico Paese europeo provvisto di campi stabili, vivono circa 180.000 fra rom e sinti, gran parte dei quali lo fa “normalmente” in case, lavora e manda i figli a scuola. Tutto il bailamme razzista che infuria sui media si abbatte sui 3540.000 ospiti, a caro prezzo esistenziale, appunto dei campi. Avessero dato loro i soldi che costano, al netto degli altrui affari, si sarebbero trovata un’abitazione come chiunque altro. dunque parrebbe che i campi siano utili. Certo, a fini elettorali. continua a pagina 20 ➔
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il fiore del partigiano
27 gennaio, Giorno della Memoria
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Gli sgomberi sono infatti esibizione muscolare, tesa a mettere il territorio municipale, come sempre si sottolinea, “in sicurezza”. da chi? Ma dalle terribili invasioni dei nomadi. Come alla caduta dell’Impero. Rom e sinti che non vivano in campi comunali sono soggetti di un diritto parziale e discrezionale. Vivono costantemente sotto la minaccia dello sgombero, che neanche si fa beffe delle prescrizioni: le ignora. Ha una logica e dei tempi propri: l’urgenza dimostrativa. durante queste azioni vengono sgomberate anche la dignità delle persone e la credibilità delle istituzioni. Uno scempio. Le ruspe distruggono per prime le case. Cos’è una “casa”? La casa, catoio, baracca di assi o lamiere, anche tenda, perfino grotta, qualunque cosa sia, è il luogo dove si è nati o cresciuti, il riparo cui tornare. La propria sicurezza. Contiene le suppellettili del cibarsi e riposare, forse attrezzi di lavoro, sicuramente quelli del lavoro infantile: giochi, libri, quaderni, astucci, zainetti. Anche soldi e documenti personali. Le case vengono abbattute insieme a tutto quanto contengono, oggetti e sentimenti. Si è arrivati a chiudere persino un campo comunale regolare, esistente da 30 anni, il più integrato della città, spargendone gli abitanti in collocazioni provvisorie e largamente inferiori per qualità a quelle di partenza, con la prospettiva della strada. È proprio su questo che l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa ci richiamano duramente e ripetutamente: siamo sulla soglia della procedura d’infrazione, perché non diamo opportunità abitative a queste persone. Con la conseguente violazione dei diritti fondamentali: lavoro, scuola, salute. A parte quel che costa alle vittime, costa moltissimo anche alle amministrazioni e quindi a noi cittadini: 30 – 50mila euro a sgombero. Vi sono amministrazioni, di destra come di sinistra, che ne hanno effettuati centinaia e centinaia in pochi anni. Ancor più costa la mancata integrazione: persone che potrebbero lavorare, produrre, corrispondere tributi e tasse; adolescenti che potrebbero progettare il futuro della comune società; bambini che invece di andare a scuola a costruire il proprio avvenire, lo perdono. Tutti trascinati nella polvere dello sgombero.
Il Samudaripen non appartiene allora solo al passato. Si sta ripetendo anche oggi, sotto tutt’altro aspetto, in condizioni del tutto diverse, qualcosa che richiama in un modo impressionante ciò che portò, allora, alle stragi e allo sterminio: le persecuzioni a macchia crescente; il disprezzo per le persone; gli individui ridotti a categoria, a massa indistinta; la distruzione ripetuta, immotivata e mai punita, dei poveri averi personali; la mancanza di
Una carovana di rom fermata dalla polizia nazista. Oggi il loro popolo continua a ricevere lo stesso tipo di “attenzioni”
considerazione e soccorso per le malattie; la mancanza di rispetto per le leggi e prescrizioni nazionali e internazionali. È un’uscita, un’evasione dall’ambito del diritto, di persone che saranno poi alla mercé di chiunque per qualunque cosa: Istituzioni, nella maggior parte dei casi, singoli gruppi o individui. La distruzione della dignità: obiettivo prioritario, basilare, della violenza nazifascista di ieri; oggi, sterminio virtuale. Tutto questo mentre ci apprestiamo a celebrare anche quest’anno il Giorno della Memoria, una ricorrenza internazionale: la data prescelta è quella dell’abbattimento dei cancelli del campo di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945, ad opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa, ed è stata indicata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005. Lo sterminio causò, fuori dai campi di battaglia, quindici milioni di morti, appartenenti alle categorie ritenute dal regime nazista “indesiderabili” nella “nuova” società che il Terzo Reich avrebbe costruito: Goebbels utilizzò, a questo proposito, la sua parabola del buon giardiniere, che strappa le male erbe dall’orto per far crescere bene piante e ortaggi. Fra queste “erbacce”, circa 5-6 milioni di ebrei: una vera Shoah, l’ebraico per “catastrofe, distruzione”. Ma al tragico totale di queste vittime vanno aggiunti: oppositori politici e comunisti, partigiani, prigionieri di guerra, soprattutto russi, Testimoni di Geova, disabili e malati mentali, omosessuali, lesbiche e transessuali… e Zingari, cioè rom e sinti. Considerati dal Reich “asociali”, già schedati durante la Repubblica di Weimar, divennero l’unico altro popolo, oltre agli ebrei, da estirpare dalla faccia della terra, proseguendo una lunga storia di persecu-
zioni e stragi che raggiungeva col nazismo il suo culmine. Così, fin dai primi anni del potere hitleriano furono rastrellati e collocati in appositi campi, per essere poi inviati ad Auschwitz. Impossibile ricostruire il numero delle vittime: dai 175.000 delle prime valutazioni nel dopoguerra ai 5600.000 solitamente accreditati, fino al milione e più che alcuni storici ipotizzano. dai campi di sterminio a qualunque sperduto villaggio si trovasse lungo l’avanzata delle truppe tedesche sul confine orientale, fino all’iniziativa di governi fantoccio o alleati, furono spesso massacrati a vista. Un conto impossibile: solo il ragionier Eichmann, con le sue meticolose registrazioni, ce ne ha lasciato qualche memoria. Gli altri sono persi, a loro stessi e a noi. A ogni memoria.
Eppure, il 16 maggio 1944, 4.000 rom internati nello Zigeunerlager[1] di Auschwitz-Birkenau decisero di opporsi ai loro aguzzini, venuti a prelevarli per condurli nelle camere a gas. di fronte a un’umanità ridotta in condizioni pietose – formata da nugoli di bambini pelle e ossa, donne e capifamiglia scalzi – era schierata la più potente e organizzata macchina di oppressione e morte di tutti i tempi. Uomini, donne coi piccoli in braccio, bambini, tutti decisi a non piegare il capo, raccolsero pietre, mattoni, spranghe, assi divelte dalle baracche, rudimentali lame e fronteggiarono le SS armate fino ai denti. Le prime file furono falciate, ma la massa arrivò ugualmente addosso agli assassini, strappando loro alcuni fucili e mitra. Anche i nazisti cominciarono a cadere, finché le SS, esterrefatte davanti a quelcontinua a pagina 22 ➔
L’«OMOCAUSTO» E LE ATROCITÀ NAZISTE
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Dai “triangoli rosa” alla Liberazione il fiore del partigiano
Gennaio 2017
Le discriminazioni fasciste contro gli omosessuali. Il loro ruolo durante la Resistenza
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da Patria Indipendente pubblicato lunedì 16 gennaio 2017
di cLAudio fineLLi e AnToneLLo SAnnino
i indica con il termine Omocausto lo sterminio degli omosessuali durante le persecuzioni nazifasciste. E si stima che gli omosessuali internati nei lager siano stati almeno 50.000. Qualche anno fa, Gabriella Romano, scrittrice e documentarista che, in passato, ha lavorato per numerose società di produzione inglesi, statunitensi e canadesi, ha dato alle stampe, con l’editore donzelli, un lavoro molto importante sulla vita di Lucy, transessuale bolognese che, durante il regime nazifascista, conobbe la reclusione nel campo di sterminio di dachau. Il racconto di Lucy, pubblicato con il titolo Il mio nome è Lucy è importante perché per la prima volta, una persona lgbt italiana, coinvolta nelle persecuzioni nazifasciste, esce allo scoperto e offre la propria inedita testimonianza sulla vita nei campi di concentramento. In realtà, la storia di Lucy non è costituita solo dal racconto della deportazione ma anche dalla narrazione del clima culturale e sociale in cui vivevano gli omosessuali durante gli anni del fascismo. Spesso i fascisti, ci racconta Lucy, facevano finta di accettare gli inviti di giovani omosessuali per attirarli in trappola e sottoporli a violenze e mortificazioni. Capitava che li massacrassero di botte. Altre volte, i fascisti si limitavano a ricoprirli di catrame. Una “punizione” decisamente simile a quella architettata dagli “squadristi” di Putin all’indomani della ripugnante legge anti-gay varata qualche anno fa in Russia. La tragica storia della deportazione di Lucy, però, fa luce anche su un altro significativo aspetto dello sterminio delle persone lgbt. Lucy riuscì, infatti, a farsi contrassegnare con il triangolo rosso, quello destinato agli oppositori politici: Lucy, che all’epoca era Luciano, era stato arrestato sì perché colto in flagrante, in atteggiamenti inequivocabili, con un ufficiale nazista ma forse, pro-
Marcello Mastroianni con Sophia Loren in una giornata particolare di Scola
prio per proteggere la “dignità” del soldato tedesco, non fu contrassegnato con il più infamante dei triangoli: quello rosa. Gli omosessuali maschi, nei campi di prigionia, erano contrassegnati da un triangolo rosa cucito all’altezza del petto. Alle donne toccava invece il triangolo nero: le lesbiche, insomma, erano classificate come “asociali” insieme a tutti quei prigionieri, anarchici, alcolisti, senzatetto, che nella loro “asistematicità” comportamentale venivano percepiti come un pericolo per la tradizionale famiglia di sana e pura razza ariana. I triangoli rosa nei campi di sterminio erano considerati i più turpi e più degni di riprovazione e punizione. Più dei triangoli rossi e di quelli neri. Se un triangolo rosa entrava in infermeria, non ne usciva quasi mai vivo. Perfino il sonno era loro negato, essendo costretti a dormire con la luce accesa e le mani sopra alle coperte per evitare che potessero avere rapporti tra loro. Il lavoro, assai duro e debilitante per tutti i deportati, era reso ancora più insostenibile per gli omosessuali, inviati spesso nelle cave estrattive a dachau, Sachsenhausen, dora, Buchenwald e altrove. Sia Lucy, sia altre autorevoli testimonianze relative allo sterminio, ci raccontano che le SS provavano
spesso sadica soddisfazione nell’infliggere torture atroci e violenze irripetibili agli omosessuali che, tra l’altro, erano drammaticamente discriminati anche dagli altri gruppi di detenuti a causa dei forti pregiudizi sociali omofobici. Il disprezzo per gli omosessuali coinvolgeva spesso le stesse famiglie dei deportati, che arrivavano anche a rifiutare l’urna contenente le ceneri del congiunto morto, qualora fosse stato “marchiato” con un triangolo rosa.
Brutalità inaudite ed esperimenti medici erano, poi, all’ordine del giorno per i triangoli rosa. Molto spesso, infatti, gli omosessuali venivano bloccati in maniera barbara (“paralizzando” gli arti con cemento a presa rapida, ad esempio) e venivano dati vivi in pasto ai cani, che li sbranavano pubblicamente davanti allo scherno dei soldati nazisti o venivano utilizzati per esperimenti medici, come cavie da usare e vivisezionare, senza alcuna pietà. A proposito dei cosiddetti esperimenti medici, bisogna ricordare gli “studi” raccapriccianti del medico endocrinologo danese Carl Vaernet che, nel lager di Buchenwald, continua a pagina 23 ➔
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“Samudaripen”: lo sterminio rimosso
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l’imprevedibile ribellione, a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che affrontava le pallottole e le baionette con la carne nuda, decisero di ritirarsi, portando con sé molti caduti. Solo il 2 agosto 1944 i nazisti – dopo aver progressivamente allontanato dal campo gli uomini più validi e ridotto in fin di vita la popolazione rom prigioniera, limitando al minimo il suo sostentamento alimentare – riuscirono a liquidare lo Zigeunerlager. di quegl’eroi rom 2.897 furono assassinati in una sola notte nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. La data del 2 agosto 1944 è stata simbolicamente scelta dall’Unione Mondiale dei Rom come Kalò Memorijalno Dives, il giorno nero della memoria, per ricordare tutti i sinti e rom vittime del genocidio[2]. E quell’episodio eroico cui diedero vita, come in un canto finale di riscossa, quegli oltre 2000 rom e sinti rivoltosi è l’inizio della loro Resistenza. Nell’assistere a rievocazioni di quelle vicende, si ode spesso il solenne «Mai più», a significare il nobile e fermo proposito che non si debbano mai più ripetere simili infamie. Ma cosa non dovrebbe succedere “mai più”, se non conosciamo appieno ciò che è successo? E quali sarebbero i presupposti per attenerci a questo
proposito se, mentre nuove stragi, guerre e genocidi si avvicendano su altri sfondi lontani, proprio nelle cronache quotidiane del nostro paese si ripetono nei confronti di questo popolo la stessa emarginazione, l’esclusione, il disprezzo che prepararono, allora, la strada dello sterminio? Rom e sinti, non hanno mai causato una guerra, distrutto una città, sterminato una popolazione. diceva Günter Grass che bisognerebbe attribuire al popolo sinto e rom il Nobel per la pace. E impiegò parte del cospicuo assegno ricevuto con il Nobel per la letteratura per costituire una fondazione loro dedicata. Forse il tanto accanimento è dovuto proprio alla loro innocenza nella Storia? Scrisse, parlando non solo di sé, un grande poeta ungherese ebreo, Miklos Radnóti, morto durante una marcia forzata nel gelo: «Uno di quelli che alla fine uccisi verranno / perché mai non hanno ucciso». Quest’anno ricorre il 72° anniversario della Liberazione, ma non per loro: la persecuzione continua. I loro diritti, che sono i nostri stessi, a loro vengono negati. Sono gli stessi diritti Fondamentali, proclamati solennemente dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine della Seconda Guerra Mondiale; appartengono a tutti, anche a loro. Ci permettiamo di rovesciare la drammatica invocazione di Primo Levi «ditemi se questo è un uomo». La rivoltiamo verso coloro che così agiscono: ditemi che uomini sono questi, che cacciano davanti a sé uomini, donne e bambini come armenti, col solleone o col gelo, di giorno come di notte. Peggio, perché la pecorella smarrita la vai a cercare:
è del tuo gregge! roba tua. Questi non sono di nessuno. Come Giulia, a Milano: 6 anni, 15 sgomberi subiti. Li chiamano nomadi perché lo siano.
Così, mentre lodevolmente ci sforziamo di ricordarla e trasmetterla ad altri, la Storia si ripete. Si ripete, proprio com’è stato detto della vita, mentre siamo occupati con altro. «La Storia insegna», diceva Gramsci, «ma non ha scolari». Curzio Malaparte, di fronte alla violenza e al disprezzo dei nazisti contro gli ebrei, usò espressioni che dovrebbero far riflettere: «Una misteriosa paura degli inermi», disse, induce, provoca «il furor d’abiezione». da dove nasce oggi questa paura dei più deboli in chi avrebbe il compito di proteggerli? Forse dal non sapere, o dal rifiuto di sapere, che è la vera ignoranza: bisogna arrestare il contagio della incultura dei diritti e della dignità della persona, che oggi nella nostra società si sta sempre più diffondendo. Occorre rispondere alla domanda di diritti. Il problema del nostro tempo è la dignità, la mancanza di dignità. È un tempo caotico, ricco di possibilità, ma confuso sui valori, su ciò che veramente conta. Chi non ha o non cura la propria dignità, è portato a calpestare quella degli altri. E il Y sonno della ragione genera mostri. Ernesto Rossi Presidente associazione ApertaMente [1] campo per zingari [2] alcuni passaggi di questo paragrafo sono ripresi dall’articolo “siamo tutti rom: raccogliamo l’eredità degli eroi”, di roberto malini, 2008
GUIDO CALDIRON RICOSTRUISCE E DOCUMENTA I RAPPORTI CONTROVERSI TRA HITLER E IL VATICANO
La fuga dei nazisti e la complicità della Chiesa da Left.it del 27 gennaio 2016
l responsabile dei più atroci esperimenti nazisti, Menghele, fu protetto da una rete di rapporti inIternazionali, in Argentina e Paraguay. Ma si cal-
cola anche che attraverso la ratline «la più grande via di contrabbando per i criminali di guerra nazisti» siano arrivati in Argentina circa 60mila colpevoli di crimini nazisti. Intanto Priebke ha vissuto fino alla morte in Italia fiero del proprio nazismo. Capò e «nazisti della porta accanto», ovvero gregari e complici della Shoah, dopo la fine della guerra, hanno fatto carriera negli Usa e in altri Paesi. Gerarchi ed ex ufficiali delle SS, colpevoli di atroci crimini contro l’umanità, celati sotto nuove identità, hanno giocato un ruolo di primo piano nella rete internazionale dello spionaggio e dell’estremismo nero nell’ultimo mezzo secolo. Complice la Chiesa. Perché «molti esponenti della gerarchia cattolica, quando non il Vaticano stesso – scrive Guido Caldiron ne I segreti del Quarto Reich – avevano sostenuto più o meno apertamente durante il conflitto regimi e movimenti fascisti, che facevano del riferimento al cattolicesimo una delle proprie principali armi
propagandistiche, in particolare nei Paesi dell’Europa dell’Est alleati con Hitler e Mussolini». Ricostruisce tutte queste trame, denunciando le responsabilità anche di alleati e del Vaticano, il giornalista Caldiron in questo nuovo libro (come il suo precedente che indagava le destre estreme per l’editore Newton Compton). da queste cinquecento pagine di ricostruzioni minuziose e documentate sulla fuga dei criminali nazisti e la rete che li ha protetti emergono vicende che mettono alla sbarra non solo Pio XII, di cui si conoscevano le pesantissime responsabilità, ma anche una diffusa rete di prelati collaborazionisti. Nel libro Caldiron riporta, fra molti documenti e testimonianze, anche quella di Simon Wiesenthal: «In molti casi la Chiesa si spinse ben oltre il tollerare la costruzione di comitati di aiuto e prese l’aspetto di un autentico favoreggiamento dei criminali» scrisse il noto cacciatore di nazisti. Sottolineando che «principale via di fuga per i nazisti si rivelò essere il cosiddetto itinerario dei conventi, tra l’Austria e l’Italia. Sacerdoti della Chiesa cattolica romana, soprattutto frati francescani dettero il loro aiuto all’Odessa (rete del soccorso nazista, ndr) nello spostare clandestinamente i fuggiaschi
da un convento all’altro, sinché essi non venivano accolti a Roma, in luoghi come il convento di via Sicilia che apparteneva all’ordine francescano e che divenne un regolare centro di transito di criminali nazisti». Il fenomeno, riporta Caldiron, «si sviluppò progressivamente a partire dal 1946 e raggiunse l’apice tra il ’48 e il ’49, per assottigliarsi a partire dal 1951». Ma interessante – fra molto altro perché questo libro è zeppo di notizie cadute in un comodo oblìo per molti – sono anche i capitoli dedicati all’amnesia italiana rispetto al passato fascista, complici le mancate epurazioni in seguito all’amnistia togliattiana. «L’assenza di una Norimberga italiana, la rapida archiviazione del capitolo dell’epurazione degli ex fascisti e le ripetute amnistie non avrebbero inciso solo sul lungo periodo, nel formarsi di una memoria storica parziale e con ampie zone d’ombra nel nostro Paese e nel breve termine sulle sorti personali dei personaggi coinvolti, ma – sottolinea Caldiron – avrebbero anche reso possibile il rapido rinserrarsi delle fila di coloro che dall’immediato dopoguerra sarebbero stati ribattezzati come neofascisti». Y
Simona Maggiorelli
Dai “triangoli rosa” alla Liberazione
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“operò” diversi omosessuali con l’intenzione di “ripararli”. Vaernet, dopo aver castrato le malcapitate cavie umane, vi impiantò una ghiandola artificiale e iniettò nei testicoli un liquido a base di testosterone e altri ormoni sintetici che avrebbero dovuto far crescere, secondo il suo delirio, un pene nuovo e sano. Ovviamente, il suo studio era sotto “l’illuminato” controllo di Himmler che aveva creato un organo centrale del Reich per la lotta contro l’aborto e l’omosessualità. I crudeli esperimenti di Vaernet, oltre ad essere inumani, furono privi di qualsiasi concreto esito “clinico” e l’80% dei deportati, sottoposti all’intervento chirurgico, morirono tra atroci sofferenze. Restando nell’ambito degli esperimenti inumani, è importante ricordare anche il ruolo che ebbero le castrazioni forzate come pratica di “punizione” degli omosessuali durante la persecuzione nazifascista. A partire dal novembre del 1942, un ordine segreto autorizzò i comandanti dei campi di concentramento ad effettuare la castrazione dei prigionieri anche in casi non previsti dalla legge: venne legalizzata in tal modo la castrazione forzata degli omosessuali. I gay che si fossero fatti castrare e avessero manifestato una buona condotta, secondo quanto millantato da Himmler, sarebbero stati prontamente rilasciati. Le cose, invece, andarono diversamente. Gli omosessuali sottoposti a castrazione furono inviati al fronte come “volontari” nella brutale “Formazione dirlewanger” – unità penale delle SS – impegnata sul fronte, nota anche per la sua violenza.
D’altronde, la cattiveria con cui furono perseguitati i “triangoli rosa” dai nazisti era già prevedibile, osservando i primi obiettivi che Hitler si diede all’indomani della nomina a cancelliere. Infatti, già il 6 maggio del 1933, Hitler decise di distruggere la biblioteca e l’archivio dell’Istituto di Scienze Sessuali e questa può anche essere indicata come la data d’inizio della persecuzione antiomosessuale. La più massiccia ondata repressiva iniziò nel giugno del 1934 e coincise con l’assassinio di Rohm, dirigente delle SA, notoriamente omosessuale. Giovanni dall’Orto, storico e noto studioso di storia lgbt, precisa che «il razzismo nazista si basava sull’assunto ottocentesco secondo cui le persone omosessuali costituiscono una specie di ritorno all’indietro nel cammino darwiniano dell’evoluzione della specie, una involuzione che nel gergo scientifico dell’epoca si chiamava degenerazione. Il programma razziale nazista esigeva l’eliminazione di tutte le persone che, essendo degenerate, costituivano un handicap al trionfo del popolo tedesco nella selezione naturale fra i popoli». Ecco perché per i nazisti, o meglio per la loro follia omicida, era necessario uccidere tutti coloro i quali – ebrei, omosessuali, disabili, asociali – avrebbero frenato,
il fiore del partigiano con la loro stessa esistenza, quella “rigenerazione” della razza che era l’obiettivo ultimo del programma nazista. Himmler, all’interno di un discorso segreto fatto nel 1933 ai generali delle SS circa i pericoli insiti nell’omosessualità, affermò di aver scoperto che in Germania esistevano diverse associazioni omosessuali e che queste contavano almeno due milioni di iscritti. Secondo Himmler, dunque, circa il 10% dei tedeschi era omosessuale e se la situazione non fosse cambiata, tutto il popolo tedesco sarebbe stato annientato da questa “malattia contagiosa”. Ecco perché era necessario sterminarli.
Sull’onda delle leggi razziali, nel 1936 anche il fascismo decise di iniziare la persecuzione ai danni delle persone omosessuali, trattate prima alla stregua di “delinquenti comuni”. Nel 1939, però, i fascisti fecero marcia indietro e decisero di abolire questa “classificazione” specifica perché sostenere la necessità di perseguitare gli omosessuali significava affermare l’esistenza di un fenomeno omosessuale strutturato all’interno del nostro Paese e la morale fascista, fondata sulla presunzione di “virilità” del popolo italiano e sull’idiozia antistorica che l’omosessualità fosse un vizio inglese e tedesco, non poteva essere messa in crisi dall’idea che esistesse uno stile di vita gay da perseguitare. Ammesso che in Italia esistessero degli omosessuali – pensò probabilmente il duce – non andavano presi in considerazione come “gruppo sociale” ma solo come casi rari e isolati di “vizio” da correggere. Correzione, d’altronde, affidata da sempre all’azione repressiva della Chiesa cattolica. Sia chiaro, questo non significa che i fascisti rinunciarono a reprimere gli omosessuali; rinunciarono semplicemente a inserirli nel novero delle “categorie” da perseguitare sistematicamente, come invece facevano i nazisti. Contro gli omosessuali italiani, il fascismo usò il confino, il pestaggio, le classiche bottiglie d’olio di ricino, l’arresto domiciliare e il licenziamento. A proposito dei licenziamenti, paradigmatica è la storia che si racconta nel film Una giornata particolare, diretto da Ettore Scola nel 1977, il cui protagonista, Gabriele, interpretato da un magistrale Marcello Mastroianni, è un ex radiocronista dell’EIAR, licenziato perché omosessuale.
Se è vero che spesso, troppo spesso, si tace colpevolmente relativamente all’omocausto, negando talora la stessa esistenza di una persecuzione sistematica degli omosessuali da parte dei nazisti, è altrettanto vero che un silenzio ancora più fitto sembra esserci intorno alla presenza di partigiani omosessuali durante la Resistenza. In un’intervista rilasciata alcuni anni fa da Franco Zeffirelli ad Antonio Gnoli, de la Repubblica, il celebre regista affermò che il suo primo vero amore con un altro uomo fu tra i partigiani. E, del resto, anche Aldo Braibanti, intellettuale omosessuale vittima di una feroce ed ingiusta persecuzione giudiziaria, che negli anni Sessanta lo condusse ad un’assurda condanna per plagio, era stato un militante partigiano.
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Viene, in effetti, da porsi una domanda: perché non si parla mai di omosessualità relativamente agli atti eroici della Resistenza? E se esiste una buona produzione letteraria che racconta storie di omosessualità ai tempi del dominio nazifascista, perché non vi è una produzione altrettanto ricca di storie che raccontano dell’eroismo di partigiani omosessuali? Esiste, per caso, una forma di “vergogna” ad immaginare che, tra i resistenti, ci fossero anche delle persone omosessuali? Stefano Paolo Giussani, scrittore che ha pubblicato ben due romanzi che parlano di amore tra uomini all’interno della lotta partigiana (L’ultima onda del lago e Farà nebbia) ci ricorda che, se oggi siamo liberi di parlare di diritti, in questo Paese, lo dobbiamo anche a chi ha imbracciato un fucile e ha rischiato la sua vita per noi, da omosessuale.
In realtà, soprattutto negli ultimi anni, grazie alla vicinanza tra Arcigay Napoli e il comitato provinciale ANPI di Napoli, si è intensificata un’azione di recupero e divulgazione della centralità della componente omosessuale all’interno della lotta di liberazione. Antonio Amoretti, partigiano e presidente dell’ANPI di Napoli, ha più volte rimarcato, sia in eventi pubblici che nel corso di varie interviste, che la comunità omosessuale di Napoli ha partecipato attivamente alla Resistenza. «d’altronde – ricorda sempre Amoretti in una intervista rilasciata al magazine online Campaniasuweb – nonostante fossero perseguitati dai nazifascisti, gli omosessuali napoletani avevano il proprio punto d’incontro nei pressi di Piazza Carlo III, in un terraneo sito vicino al cinema Gloria, nella zona di San Giovanniello. In un certo qual senso, gli omosessuali e i femminielli napoletani sfidavano il regime nazifascista partecipando alle barricate popolari delle Quattro Giornate di Napoli, ma anche facendo feste e continuando a vivere liberamente». Lo stesso Amoretti il 20 settembre del 2016 è stato il testimone della prima Unione civile a Napoli, tra Antonello Sannino, Presidente di Arcigay Napoli e danolo di Leo, ballerino del San Carlo, ricordando come questa legge di fatto renda oggi più vero quel principio di uguaglianza sancito negli articoli 2 e 3 della nostra Carta costituzionale. L’ANPI Napoli, come ogni anno, in occasione del Giorno della Memoria, in collaborazione con il Comune di Napoli, la comunità LGBT, la comunità ebraica, le associazioni che si occupano del superamento dell’handicap, la comunità rom, l’Istituto campano per la Resistenza, organizza e coordina una serie di incontri con le scuole; quest’anno saranno organizzate 5 mattine con le scuole, dal 23 al 27 gennaio, in concomitanza con l’esposizione della Mostra del Giocattolo (http://www.storiedigiocattoli.net/) dedicato ad Ernst Lossa, bimbo zingaro vittima dell’euY genetica nazista. Claudio Finelli responsabile nazionale cultura Arcigay Antonello Sannino presidente Arcigay Napoli, segreteria provinciale ANPI Napoli
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Dall’altra parte il fiore del partigiano
IL RACCONTO - TERZA E ULTIMA PUNTATA
8 settembre 1943, a 19 anni il coraggio di una scelta: Aldo Aldi, studente-operaio, parte per il fronte alleato e intraprende il lungo viaggio da Milano a Taranto. Tra rischi, sacrifici e paure, scopre la coraggiosa solidarietà di tanta gente umile
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➔ segue dal numero scorso
ortiamo a termine la pubblicazione del breve diario di
uno dei tanti giovani che, dopo l’8 settembre 1943, a soli 19 anni, ha saputo scegliere con la propria testa, con il cuore e con coraggio, come lottare contro le prepotenze, le crudeltà dei nazisti e dei fascisti. La sorella Nella ha scoperto solo alla sua morte il quaderno in cui vengono narrati - giorno dopo giorno - i sacrifici, le paure, i rischi passati durante i 600 chilometri di strada percorsa per arrivare al fronte, ma anche la solidarietà e il coraggio di tanta buona gente che, nonostante i bombardamenti, i rastrellamenti dei nazifascisti, la paura e i lutti, è sempre pronta ad aprire la porta di casa a chi chiede aiuto. Aldo Aldi combatterà con il reggimento San Marco al seguito degli inglesi, sarà ferito e tornerà a Milano il 25 aprile del ’45. Grande invalido di guerra, ammalato di tbc, dovrà essere ricoverato in sanatorio per tre anni. Terminerà gli studi, si iscriverà ad una scuola di regia e farà a lungo il regista di allora popolarissimi fotoromanzi. Quest’ultima parte del diario descrive il suo avvicinarsi al fronte, tra i pericoli più forti provati nel suo lungo Quella gente viaggio a piedi.
aveva negli occhi la desolazione di quelle terre un tempo così rigogliose
Tra San Vito Chietino e Rocca San Giovanni, 8 novembre Piove. Se il tempo si guasta è un guaio. Sono in una casetta adibita a pollaio, in compagnia di sette grosse galline. devo essere davvero comico. Sette galline, non mi ricordo in quale libro ho letto che il sette porta fortuna agli avventurieri e forse qualcuno può considerarmi anche tale. Ho vagato quasi tutta la giornata in mezzo ai boschi, cercando di ripararmi, quando potevo, dalla pioggia che cadeva lenta, pigra, incerta anche lei se doveva continuare ad inzupparmi o smettere. Il terreno, per natura argilloso, era diventato viscido e, anche camminando sull’erba, mi reggevo a stento. Non avevo freddo, ma tutto quell’umido addosso mi dava fastidio, le scarpe poi avevano perso tutte le qualità che possono giustificare il loro nome e davano libero e abbondante accesso all’acqua, tanto che non mi curavo più delle pozzanghere. Il fronte era a cinque chilometri solo! Rocca San Giovanni, Fossacesia e Mozzagrogna costituivano i baluardi difensivi tedeschi. dalla casa dove io ora sto scrivendo, Rocca San Giovanni dista in linea d’aria solo tre chilometri e rappresenta l’immediata retrovia; due chilometri più avanti Fossacesia e Mozzagrogna formano la prima linea. E fino a quella e oltre a quella io devo
giungere. Procedo molto cautamente e oggi, per esempio, non ho fatto altro che esplorare un gran numero di masserie e interrogare qualche contadino che sembrava errare senza meta in quella zona. Essi facevano qualche “picchiata” alle loro case per vedere se riuscivano a recuperare qualche cosa, ma invano. Quella gente aveva negli occhi la desolazione di quelle terre un tempo così rigogliose, belle e tranquille, e il loro animo è forte solo per quella grandi fiducia in dio che sostiene gli uomini. Io non ho mai visto praticare i dettami della religione cristiana come in Abruzzo. E triste fu la mia esplorazione. La maggior parte delle case che visitavo erano scoperchiate completamente, i mobili per la maggior parte sconquassati, i pavimenti asportati per metà e stoviglie sparse ovunque in frantumi. distruggere per distruggere. Il mio odio per i tedeschi è incommensurabile e non l’ho mai sentito così prepotente. Solo quegli angosciosi spettacoli rivelavano la vicinanza del fronte, per il resto nulla. Nessun colpo di cannone, nessun crepitio di mitraglia giungeva al mio orecchio. Gli inglesi erano fermi al di là del Sangro e i tedeschi aspettavano fortificandosi. Anche gli “Spitfires”, che nei giorni scorsi vedevo sorvolare bassissimi in esplorazione, per queste zone oggi non si sono fatti vedere. Nulla, solo un abbandono completo che mi stringeva il cuore e che il cielo di piombo e la pioggia rendevano ancora più pesante. Mi sentivo ormai solo contro la guerra, e solo la natura mi soccorreva, dandomi l’impressione che mi celasse nel suo seno. Poi ho trovato questa casetta misera e semiabbandonata, vicino a un piccolo cimitero. È abitata da un uomo con una donna e un bambino di tre anni. Sono sempre stati poveri, però mi hanno offerto una fetta di pizza calda, che ho divorato con grande appetito. Mi sono asciugato vicino al fuoco, ma mi sono ritirato presto in questo sgabuzzino, perché mi hanno detto che qualche sera i tedeschi capitavano lì a far bisboccia e a giocare; forse per questo hanno risparmiato la loro casa, ma più tardi? Ho deciso che domani arriverò fino alle prime linee.
A un chilometro da Rocca San Giovanni, 9 novembre Undici giorni che sono fuggito da casa e oggi ho vissuto la mia giornata più terribile. Sono ancora sotto l’impressione degli avvenimenti, che si sono svolti così fulmineamente che ora stento a connetterli; mi sembra di aver fatto un brutto sogno. Questa mattina ho lasciato i miei polli e mi sono avviato lentamente verso il fronte. Aveva cessato di piovere e già di buon mattino i caccia inglesi avevano cominciato il loro carosello. Quegli apparecchi mi davano un senso di sicurezza, mi sentivo quasi protetto dalle loro ali e sapevo che di giorno i tedeschi non si arrischiavano troppo a gironzolare. Per giungere alla prima linea dovevo attraversare tre colli. Ebbene, quei colli erano deserti e con poche masserie, abbattute, solo nelle valli; in grotte
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il fiore del partigiano scavate nel tufo vivevano famiglie di contadini. Quando mi affacciai a una di esse, la povera gente che vi dimorava mi assalì di domande; da dove venivo? ero passato per la tal masseria? che cosa fanno i tedeschi? e gli inglesi sono sempre fermi? Avevano trascorso otto giorni in quelle condizioni ed attendevano con ansia la liberazione. dissi loro qualche parola di conforto e li esortai a sperare che fra pochi giorni sarebbero ritornati alle loro case. Camminando mi tenevo sempre a circa un chilometro dalla costa. Questa zona era meno protetta dai tedeschi perché molto scoperta e sottoposta continuamente a ricognizioni aeree, perciò potevo essere più sicuro. Giunsi sulla sommità del penultimo colle che è costituta da una spianata abbastanza vasta e completamente coperta da un bosco di ulivi. Questo piano si chiama “Piano Favaro”, incomincia sulla costa e finisce al baluardo tedesco di Rocca San Giovanni. Lo attraversai tutto, fermandomi ogni tanto dietro a un albero per spiare d’intorno. Nemmeno l’anima di un tedesco, solo una quantità enorme di fili telefonici attraversavano il terreno ed io badavo bene di non inciamparvi. Giunsi così al limitare opposto, che in vari tratti è costeggiato da una siepe ormai nuda, ma i cui rami mi offrivano un riparo sufficiente e attraverso i quali potevo osservare senza essere visto. Avevo di fronte la prima linea. Prima linea! Che sapore strano hanno queste parole, sentivo come una voce dentro che continuava a sussurrare: «Prima linea… prima linea…». Anche il vento fra gli alberi sembrava che le scandisse e persino lo sciacquio appena distinto del mare. Ed io rimasi come incantato a guardare. davanti a me, a duecento metri in linea d’aria, stava l’estremo reticolato, oltre a quello la terra di nessuno; potessi averla già raggiunta! Pensavo che se mi avessero colto in quel luogo mi avrebbero passato immediatamente per le armi, ma non avevo la sensazione che mi pescassero. E continuavo a guardare, a spiare avidamente quelle buche, quei camminamenti, gli oscuri ingressi dei rifugi, i sacchi di sabbia e qualche soldato che ogni tanto sbucava da sottoterra come un bruco, per poi scomparire in un altro buco. Silenzio, molto silenzio. Quella dunque era la prima linea? Continuavo a cercare la via per poter passare, e la trovai anche. Nel fondo della valle correva una strada costeggiata da un fosso. Questa strada, giunta a un centinaio di metri dal mare, piegava a destra, in una profonda incassatura attraversava il colle tenuto dai tedeschi. In quel punto era attraversata da dei cavalli di frisia, ma camminando dentro il fosso si poteva benissimo attraversare i reticolati e l’unico pericolo consisteva nelle sentinelle tedesche. Ero soddisfatto, ma non pensavo ancora di attuare il mio piano, preferivo aspettare ancora qualche giorno per vedere se gli inglesi si decidevano a passare. Per mangiare sapevo dove trovare degli alberi ancora carichi di mele, quando i contadini non avrebbero avuto più nulla da darmi. Ritornai sui miei passi. Mezzogiorno doveva essere passato da un poco, a giudicare dalla posizione del sole. Avevo una sete terribile. Ero ritornato quasi al punto di partenza, ma mi trovavo molto più vicino al mare. Vidi una masseria che, dall’aspetto tranquillo e ordinato, non doveva essere stata ancora visitata dai tedeschi (ormai ci avevo fatto l’occhio). Questa mi si presentava dalla parte posteriore, di modo che non potevo vedere l’aia. Mi avvicinai tranquillo, ma appena l’ebbi aggirata il mio cuore cessò di battere: un tedesco stava fumando tranquillamente una sigaretta davanti alla porta. Si sorprese, vedendomi, perché non mi aveva udito arrivare e piantandomi il parabellum mi disse con una voce da cornacchia «Come» e accennò con la testa che entrassi. “Sono fritto” pensavo fra me, ma entrato nella masseria affer-
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rai al volo la situazione: i contadini si preparavano a sloggiare, sotto la minaccia di una pistola di un altro tedesco stavano radunando delle masserizie. dovevo fingere di essere di famiglia per non passare guai maggiori. Aiutai la padrona di casa a legare dei materassi, che caricammo su un cavallo. Essa aveva capito e mi sorrideva mestamente, mi sentii stringere il cuore. Un vecchio mi disse che i tedeschi avevano intenzione di portarli in un campo di concentramento vicino a Pescara. Era un vero guaio, dopo tutto quello che avevo fatto per giungere fin lì. dovevo approfittare della prima occasione per fuggire. Io presi il cavallo per la briglia e mi incamminai, seguendo il tedesco che camminava avanti, l’altro seguiva la colonna osservando tutti. Percorrevamo il sentiero che costeggiava il ciglio del colle, alla sinistra a due passi incominciava un ripido declivio boscoso che portava al fondovalle. Arrivammo ad un’altra masseria: sosta, altri contadini dovevano sloggiare e congiungersi a noi. Io legai il cavallo sull’orlo del declivio e, fingendo di accomodare e stringere i legacci dei materassi, osservavo i tedeschi. Come avevano fatto prima, uno era entrato e l’altro si era seduto vicino ad un pagliaio tenendoci d’occhio. Ad un certo punto, un bimbo uscì dalla masseria tenendo in mano una fetta di pizza e il tedesco, vedendolo, gli corse incontro per togliergliela. Era il momento buono; con un balzo mi buttai a precipizio per la china, saltando fra gli alberi. Sentivo qualcuno che mi seguiva, ma non avevo il coraggio di voltarmi e continuavo a fuggire disperatamente verso il fondo della valle. Non ho mai sentito la morte così vicina. Poi udii urlare uno «Stop!», seguito da una raffica, un altro grido rauco e voltandomi vidi un contadino che rotolava per il sentiero finché un albero non l’arrestò. Tutto si era svolto nel giro di pochi secondi e in un baleno capii cosa era accaduto. Quel contadino mi aveva visto fuggire e mentre tentava di imitarmi era stato visto, inseguito e ucciso. Io avevo iniziato a salire l’erta di fronte, arrampicandomi ansante fra gli alberi. Ogni tanto mi fermavo fra qualche cespuglio per Non ho mai ascoltare. Ero senza fiato, il cuore mi batteva in gola e avevo il cappotto strappato in vari sentito la morte punti. I tedeschi dovevano aver notato che così vicina. mancavo, perché li sentivo battere il bosco, lanciandosi ogni tanto qualche frase nella loro Udii urlare orribile lingua. Mi sentii perso, quando avvenne il miracolo. uno «Stop!» Una vecchia era scesa fino a me senza che la e una raffica udissi, mi aveva afferrato per un polso e mi aveva trascinato in una grotta vicina, perfettamente nascosta fra gli alberi. Mi disse che lì ero al sicuro e che sarebbe tornata al tramonto. Costei avrà avuto una sessantina d’anni, i capelli completamente bianchi, magrolina, poche rughe sul viso, lineamenti fini e due occhi azzurri bellissimi. Era agilissima. Tornò, come aveva promesso e mi condusse in una casetta, dove abitavano con lei suo marito, un vecchio molto alto e molto forte, e due sposi con una bambina di un anno. Mi hanno dato da mangiare e da bere senza mai domandarmi nulla, mi hanno accomodato su un pagliericcio in uno sgabuzzino, dove ora sto scrivendo. Questa casa si trova a un chilometro da Rocca San Giovanni. Sono contento, perché mi mantengo molto vicino alle linee. Si decideranno, questi inglesi! Ho trovato anche dell’altra carta per scrivere, non sapevo proprio più come fare. continua a pagina 26 ➔
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➔ segue da pagina 25 In una grotta, 10 novembre I tedeschi mi danno la caccia. Questa mattina il vecchio che era di guardia nel granaio mi salvò da una cattura certa, nascondendomi in questa grotta sita in un bosco di loro proprietà. A mezzogiorno mi ha portato da mangiare e mi ha detto che i tedeschi avevano perquisito la casa da cima a fondo; avevano domandato se avevano visto un uomo così e così, minacciandoli di morte se avessero mentito. «Non vero, kaputt!» continuavano a ripetere, così mi diceva il vecchio, e continuava «Ma io dei loro kaputt me ne infischio. Tu stai tranquillo, che finché ci saremo noi non ti mancherà il pane». Temo per loro.
A fianco, Aldo Aldi ritratto in divisa militare e, sotto (indicato dalla freccia), nel gruppo di commilitoni del battaglione San Marco
Sempre nella grotta, 11 novembre Notte pessima, completamente insonne. Ho pensato lungamente a Lory e mi sono sentito stanco ad un tratto. Avrei desiderato tanto essere vicino a lei. durante tutta la giornata non si è fatto vivo nessuno dei miei protettori; che non abbiano potuto muoversi? Per fortuna io ho una piccola riserva di viveri. Ho passato tutta la giornata sdraiato e senza mettere il naso fuori. Nel pomeriggio è accaduto…
«Una vita coerente con le proprie idee fino a 85 anni». Dice la sorella Nella
Il diario di Aldo Aldi si interrompe qui. I giorni seguenti, probabilmente, non gli permisero di proseguirlo. Quello che sappiamo di lui è come, infine, riuscì ad attraversare la linea: guadando a nuoto il Sangro. dichiarate le sue generalità, viene condotto a Taranto, quindi al Gruppo di comando tattico “Folgore”, dove presterà servizio nel Reggimento San Marco, battaglione Caorle, compagnia Comando. Combatterà al seguito degli inglesi, risalendo al nord con il generale comandante Giorgio Morigi. Ferito. Ammalato. Invalido di guerra. La sua lotta di liberazione durò dal 30 ottobre 1943 al 29 aprile 1945, quando la grande coraggiosa avventura finì. «Aldo… Aldo… è tornato Aldo!» Tutto il palazzo è in subbuglio. La sofferta, logorante attesa del padre e della sorella si scioglie finalmente in lacrime. Aldo Aldi sarà riconosciuto Grande invalido di guerra. Ammalato di tbc, sarà curato per tre anni nel sanatorio di Garbagnate. Poi la vita riprende: maturità classica, scuola di regia, regista di allora popolarissimi fotoromanzi. «Ha vissuto – dice la sorella Nella – una vita coerente con le proprie idee fino a 85 anni». Y
A fianco, un fotoromanzo ambientato nelle miniere grossetane, con un chiaro stampo neorealista. Regìa di Aldo Aldi. A sinistra: in uno dei foglietti che circolavano nel dopoguerra troviamo, con la fotografia del cantante Enzo Mauri, una canzone. La didascalia dice: «Versi e Musica di Aldo Aldi»
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Nascosti nella nebbia
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le storie - la Storia
UN GIRO NEL NORD-EST, TRA LE PAURE DEI RESIDENTI E LE DELUSIONI DEI MIGRANTI
È
di
da iAmnesty del gennaio 2017
iVAn GRoZny compASSo*
Se Abano Terme è una località molto nota, certo non lo sono Goro e Gorino, nella provincia di Ferrara. È gente semplice quella di queste parti. Gorino è un avamposto di terra nel delta del Po. Come se poi finisse il mondo. Una comunità di poche centinaia di persone, quasi tutte impegnate nella pesca di vongole. Ci si alza alle quattro del mattino, tutti i
chiama brutalità in Africa. La maggior parte delle persone che vedi qui, non c’è solo a causa della situazione economica. Per noi l’Africa è un paradiso. Non abbiamo bisogno di vivere in Europa, il mio lavoro da giornalista in Africa mi può permettere un alto tenore di vita. La brutalità dei nostri governi è quello che ci spinge oggi a perdere le nostre vite in mare per essere protetti dall’Europa». Quando gli chiedo però se si sentono protetti qui, non esita e risponde: «Possiamo dire che gli italiani non sanno realmente quello che succede in Africa, perché siete troppo chiusi e troppo conservatori. Ma è l’Europa che ci ha deluso. Condanniamo l’Unione europea che dovrebbe riconoscere le situazioni politiche dei nostri paesi». Amir si fa portavoce della sensazione di tanti intorno a lui: «Le condizioni in cui viviamo in questi campi sono davvero pericolose. Porta il nostro grido di aiuto alla Commissione italiana, alla Comunità europea. Questa è una situazione di emergenza». Quando gli chiedo del suo paese mi dice: «È più che una guerra, nel mio paese! È più che una guerra». Lo ripete più volte, vuole essere certo che ho compreso. «I conflitti tra i gruppi etnici che stiamo affrontando adesso sono molto più che guerra. Se oggi all’interno della stessa comunità tu e il tuo vicino non appartenete allo stesso gruppo etnico o partito politico, questa divergenza può portare a delle conseguenze tragiche. Sono questi i conflitti di oggi». Attorno a noi la nebbia. «Siamo qui in ciabatte, la maggior parte di noi non è pronta a passare dentro delle tende un periodo così freddo. E la nebbia. Quella non l’avevamo mai vista. È come se servisse a tenerci nascosti, ancora di più di quanto lo siamo già». Y
*giornalista e videomaker freelance
foto ivan Grozny compasso
settembre quando a fronte dei numerosi «no» da parte dei comuni della provincia di Padova, il prefetto Patrizia Impresa ha deciso di utilizzare un’ex caserma dei carabinieri a Giarre, piccolo centro nei pressi di Abano Terme, per ospitare circa 350/400 migranti. Un gran numero di abitanti e associazioni locali hanno subito dichiarato guerra al progetto, organizzando marce e fiaccolate. Il 27 settembre, più di 1500 persone hanno nuovamente protestato contro gli arrivi. Il ministro dell’Interno Alfano ha assicurato «che una soluzione verrà trovata e che sarà fatto il meglio per risolvere questa situazione». Nel frattempo c’è stato il referendum, è caduto il governo e la sorte di questa gente è sempre sospesa. Il comune di Abano Terme è commissariato da giugno, per via delle vicende legali che hanno coinvolto l’ex primo cittadino. Storie di tangenti, riciclaggio e corruzione. Tra i promotori dell’iniziativa “anti migranti” proprio i suoi fedelissimi, che gridano alla minaccia “illegalità”, che gli stranieri portano con loro in dote, insieme alle malattie. «No Hiv, No scabbia», recitava uno striscione che dei bambini del posto hanno tenuto per tutta la fiaccolata. A rincarare la dose, proprio sotto il municipio rappresentanti del Coisp e del Siulp gridano al pericolo “straniero”, portatore di droga e criminalità. C’erano praticamente tutte le forze politiche, alcune solo con esponenti politici locali. Tutta la destra, anche estrema. Non hanno smesso di presidiare l’ex caserma ma, nonostante questo, a fine novembre diversi senza dimora, proprio all’interno di quella struttura abbandonata, hanno trovato rifugio. Ci sono voluti giorni prima che qualcuno se ne accorgesse.
giorni. La nebbia una costante, assieme alla fatica. «Anche in questo settore c’è crisi, non si guadagna più come una volta», ripetono tutti. C’è un bar, una chiesa, un alimentari e un ostello. Per comprare il giornale, invece, bisogna andare fino a Goro. C’è un’unica stretta strada che collega i due paesi al resto del mondo. Sulla parete di cemento del piccolo porto c’è una vecchia scritta inneggiante Basile Boli, il campione africano del Marsiglia che segnò il gol decisivo nella finale di Champions contro il Milan del 1993. La gente di qui è salita alla ribalta delle cronache per aver respinto donne e persone che avrebbero dovuto trovare rifugio nell’ostello di Gorino. Un esponente leghista locale, che fa capolino su tutte le tv locali, facendo leva sul fatto che a quell’ora del mattino, le cinque, la gente di lì era già in piedi, ha aizzato l’intera comunità che, al contrario di quanto si è detto, non ha bloccato una strada ma si è rinchiusa in se stessa. L’eco mediatico ha fatto il resto. Polemiche, accuse, umiliazioni, alla fine di tutto, quelle che ne sono uscite peggio sono proprio le persone di quei luoghi, finite in un gioco più grande di loro. Si sono ritrovate sulle prime pagine dei giornali ridotte a delle macchiette. A coloro che avrebbero dovuto trovare rifugio lì, per la maggior parte donne di cui alcune incinte, è stata poi trovata un’altra destinazione. Intere comunità, piccole o grandi, note o meno note, si trovano a dover fronteggiare quella che è evidentemente un’emergenza e questo non fa altro che innescare una guerra tra più poveri, che per interessi politici o pratici vengono tirati da una parte o dall’altra. E non ne esce nulla di buono. Non è molto diverso a cavallo tra le province di Venezia e Padova. Siamo in piena pianura padana. Ci sono due ex caserme dell’aeronautica riempite di persone, 1500, che aspettano di sapere cosa ne sarà di loro. Qui incontro Amir, un collega free lance che è dovuto fuggire. «Vengo da Conakry, in Guinea. Nel mio paese parliamo francese, ma per via della mia professione oggi sono in grado di esprimermi in diverse lingue. Vedi questa?», dice, indicando una delle sue cicatrici, sparse su tutto il corpo. «Questa è la situazione, questi sono i segni. Questa si
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La montagna degli armeni il fiore del partigiano
le storie - la Storia
IL 24 APRILE 1915 LA TURCHIA DIEDE IL VIA AL GENOCIDIO DI QUESTO POPOLO
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da diario del 22 aprile 2005
ALeSSAndRo mARZo mAGno
erseguitati dai turchi, circa cinquemila armeni, tra cui tremila donne, fanciulli, vecchi, si erano rifugiati verso la fine di luglio nel massiccio del Mussa Dagh, a nord della baia di Antiochia, dove erano riusciti fino ai primi di settembre a tener testa agli aggressori; ma da allora gli approvvigionamenti e le munizioni cominciarono a venir meno, ed essi erano sul punto di soccombere inevitabilmente, quando riuscirono a segnalare a un incrociatore francese la loro grave situazione. Gli incrociatori della squadra francese, che facevano il blocco delle coste della Siria, recarono subito il soccorso e poterono assicurare lo sgombero dei cinquemila armeni che vennero trasportati a Port Said, dove ricevettero la migliore accoglienza e furono installati in un accampamento provvisorio». Parigi, 22 settembre 1915 (comunicato stampa ufficiale francese)
L
eggi I quaranta giorni del Mussa Dagh e pensi: vorrei andarci lì, vorrei vedere i luoghi dove cinquemila armeni hanno resistito per oltre un mese agli attacchi dell’esercito turco. Poi prendi un atlante, lo apri, guardi e cerchi. Mussa dagh? Non c’è? E nella versione turca, Mussa Ler? Niente. della montagna di Mosè, questo il significato del nome, non c’è traccia. dov’è: in Siria? In Turchia? La maniera migliore per distruggere è cancellare. Anche i nomi, anche la memoria. Il Mussa dagh non esiste, oggi: sparito dalle carte geografiche. Bisogna cercare in internet, consultare qualche amico armeno, e alla fine la questione si risolve: il Mussa dagh si trova in Turchia, in una regione, la Cilicia, che un tempo apparteneva alla Siria e non lontano da una città piuttosto nota, Antiochia (l’attuale Antakya), dove san Pietro fu vescovo prima di andare a Roma (in ogni caso ti mostrano una chiesa rupestre dicendo che è quella di san Pietro) e dove nacque l’evangelista Luca. È solo un caso, ma viene da pensare a uno scherzo del destino: da questi luoghi dove nacque il cristianesimo 1915 anni più tardi gli ultimi cristiani armeni in fuga furono costretti a imbarcarsi sulle navi
durante l’estate in cinquemila resistettero su un monte, il Mussa dagh, prima di essere salvati. Torniamo sul luogo del delitto. dimenticato, ma non da tutti
francesi per sfuggire al genocidio che stava decimando i loro correligionari. La Turchia non ha soltanto cancellato la presenza armena, uccidendone un milione e mezzo sui due milioni che erano, e costringendo i superstiti alla diaspora, ma sta continuando a cancellare la memoria del genocidio. I diplomatici turchi sono pronti a scatenarsi se qualcuno «osa» citare il genocidio armeno, ufficialmente inesistente: di recente hanno tentato di far chiudere una mostra a Londra e sono riusciti a far modificare i libri di storia del Land tedesco del Brandeburgo che citavano il suddetto genocidio (poi reinserito in seguito a una furiosa campagna stampa).
Il genocidio negato. Nel 1915 la Turchia ottomana, decrepita, ma religiosamente tollerante (quanti cristiani nel corso dei secoli precedenti si erano «fatti turchi» per sottrarsi al violento conformismo religioso imposto dalla Chiesa di Roma) sta ormai definitivamente lasciando il posto alla Turchia laica, ma ultranazionalista e intollerante, di Kemal Atatürk e dei suoi «giovani turchi». Il 24 aprile 1915 è il giorno più infausto per gli armeni. Gli esponenti di maggior rilievo della comunità di Costantinopoli, l’odierna Istanbul, vennero ammazzati e poi a valanga toccò a tutti gli altri. Nell’estate di quell’anno centinaia di migliaia di armeni, quelli che erano sopravvissuti ai massacri e agli stupri di massa, furono concentrati ad Aleppo (dove pure esisteva, e qui per fortuna resiste ancora, una comunità armena. Gli allora proprietari del mitico Baron’s Hotel – ci andavano Lawrence d’Arabia e Agatha Christie – Onige e Armen Mazloumian si dettero da fare e riuscirono a salvarne un po’. «Qualche centinaio, niente in confronto al milione e mezzo di morti», dice il nipote Armen Mazloumian, attuale gestore del Baron’s, «ma sempre qualcosa»). da Aleppo partirono e furono fatti marciare per giorni e giorni nel deserto, senza cibo né acqua. I pochi che ce la fecero e non morirono lungo la strada furono abbandonati nel nulla, vicino all’odierna città siriana di dayr az Zawr, a 320 chilometri di distanza. Avevano loro raccontato che si sarebbero potuti reinsediare in quei luoghi. In realtà attorno c’era solo deserto. Ancora oggi in quelle che vengono chiamate «grotte degli armeni» si trovano ossa, oggetti, pezzi di stoffa. Ogni
tanto arriva qualcuno a pregare. Normalmente da molto lontano: Francia, Stati Uniti, Canada. La negazione continua. Il lavorio negazionista della Turchia, in ogni caso, qualche effetto lo provoca: se questo articolo parlasse di Olocausto non ci sarebbe stato bisogno di specificare luoghi e date: tutti sanno cos’è Auschwitz. Ma quasi nessuno sa delle grotte nel deserto. La lobby armena negli Stati Uniti (che c’è ed è attiva) non è tra le più potenti e non ha Hollywood dalla sua (un’eccezione è il recente Sideways dove si vede un matrimonio armeno, ma pensate un po’ a quanti film sono stati fatti sul Tibet), gli ebrei e gli armeni solidarizzano moltissimo a livello personale, ma pochissimo sul piano ufficiale. Israele ha nella Turchia l’unico Stato islamico alleato e se lo vuole tenere stretto. Con ciò si spiega perché una volta Simon Peres, da ministro degli Esteri israeliano, abbia detto che quello armeno non è un genocidio, ma «una tragedia». Vakifli è l’unico villaggio armeno rimasto in tutta la Turchia (si noti bene questo fatto: l’unico centro interamente armeno ancora esistente in uno Stato di 68 milioni di abitanti) ed è quello che resta dei sette villaggi armeni che si trovavano alle pendici del Mussa dagh, la montagna simbolo della resistenza al genocidio. Uno scrittore ebreo boemo, Franz Werfel (come tutti gli ebrei praghesi era di madrelingua tedesca, vedi Franz Kafka), conobbe l’epopea del Mussa dagh, se ne interessò a fondo, e ne scrisse un memorabile romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh (Die vierzig Tage des Mussa Dagh). «Quest’opera fu abbozzata nel marzo dell’anno 1929 durante un soggiorno a damasco. La visione pietosa di fanciulli profughi, mutilati e affamati, che lavoravano in una fabbrica di tappeti, diede la spinta decisiva a strappare dalla tomba del passato l’inconcepibile destino del popolo armeno. Il libro fu composto dal luglio 1932 al marzo 1933», scrisse Franz Werfel. La prima edizione italiana è del 1935, uscita nella Medusa di Mondadori. Corbaccio l’ha ristampato nel 2003, purtroppo con la medesima datata e retorica traduzione. Werfel ebbe anche un’intuizione tragica: «Quel che hanno fatto agli armeni un giorno lo faranno a noi». In effetti quando Hitler pianificò l’Olocausto con i suoi collaboratori commentò: «Chi si ricorda oggi degli armeni?».
il fiore del partigiano Il Mussa Dagh visto dal mare, dalla spiaggia in cui sbarcarono i francesi. In basso: il massacro. La foto è stata scattata ad Aleppo, in Siria, nel 1919 e mostra cadaveri di armeni uccisi a quattro anni dall’inizio del genocidio. Nella pagina a fronte, in alto: il cartello indicatore di Vakifli.
Vakifli è un appellativo giuridicoburocratico ottomano, significa: «Proprietà appartenente alla minoranza», tanto per mettere le cose in chiaro. Anche lì, come ovunque in Turchia, c’è il busto di Atatürk d’ordinanza e accanto alla chiesa armena sventola la bandiera rossa con la mezzaluna bianca, come su tutti gli edifici pubblici e di culto turchi. Ma Vakifli non è un luogo qualunque: per gli armeni è un po’ come se qualcuno avesse collocato un busto di Hitler in mezzo a un ghetto, o come se la bandiera con la croce uncinata sventolasse, oggi, accanto a una sinagoga. Nessuno lo dice, per paura, ma il pensiero corrente è questo. Ora le cose vanno un po’ meglio, Ankara ha allentato la pressione sulle minoranze per accontentare Bruxelles e aprire le trattative di adesione all’Unione europea (ricordiamo che questo articolo fu scritto nel 2005, ndr). Ma le ferite bruciano sempre.
foto ap/armenian national archives
La difesa del silenzio. A Vakifli, 35 case e 40 famiglie, una chiesa restaurata abusivamente otto anni fa perché i permessi non arrivavano mai, un cimitero diviso in due dalla strada che attraversa il villaggio, stanno via via arrivando sempre più giornalisti. Qualcuno si ricorda dei 90 anni del genocidio. «Vengono stranieri, ma anche turchi. La gente però non parla volentieri con loro perché non sa chi sia
davvero un giornalista e chi invece sia venuto per sentire come la pensano sulla Turchia e sulla questione armena». A parlare così è Elis Bisanz, 45 anni, insegnante di semiotica ed estetica all’Università di Lüneburg, vicino ad Amburgo, in Germania. La sua storia è sintomatica di come siano andate le cose da queste parti. È nata in Libano, dove suo padre era fuggito dalla natìa Vakifli. Poi è emigrata in Germania, ha sposato un tedesco, si è costruita una vita e ha due figli ormai grandi. Suo padre, ora morto, non aveva mai più messo piede a Vakifli da quando se n’era andato. Il nonno era il prete del villaggio (i sacerdoti gregoriani armeni possono sposarsi) ed è morto, vecchissimo, pochi anni fa. Lei ci è venuta per la prima volta in vita sua nel 2002. Ora ci è tornata, per qualche giorno, e la prossima estate conta di portarci i figli, per far loro vedere la casa del nonno, per conoscere i cugini che sulle pendici del Mussa dagh sono rimasti. dentro di lei si dibattono sentimenti complessi e contraddittori, come spesso accade nell’intimo degli oppressi, degli sradicati. «Come armena del Mussa dagh», osserva, «sono contenta che la Turchia entri nell’Unione europea perché finalmente sarò libera di andare e venire dalla mia terra. Come armena te-
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desca sono fermamente contraria perché Ankara non rispetta i diritti umani. Io avevo paura dei turchi, sono stata allevata con un’educazione antiturca, la prima volta che mi sono trovata in mezzo ai turchi, in aeroporto e nell’aereo, avevo paura. Ora che sono qui è diverso, mi è passata. Stando qui abbiamo una sensazione di pace che sgorga dall’intimo. Anche la diaspora è schizofrenica: molti armeni della diaspora sognano le terre da dove provengono, ma gli armeni che abitano qui non amano parlare della diaspora, ne hanno paura e hanno paura delle conseguenze».
Una strada tra i monti. In effetti la sensazione che dà oggi Vakifli è di pace assoluta. Per arrivarci bisogna avere una buona carta e un’altrettanto buona dose di fortuna: le indicazioni stradali sono un’opinione tra questi viottoli di montagna. Si prende la strada che da Antakya va al mare e a un certo punto si devia verso l’interno. da lì in poi è tutto un chiedere e un provare e riprovare, esultando quell’unica volta (unica!) in cui si scorge un cartello con scritto che Vakifli è a quattro chilometri. Nel paesino non si vede quasi nessuno. Verso mezzogiorno passa un pullmino di ragazzini: è il secondo turno della scuola elementare (ci sono 15 bambini e quattro ragazzi in paese, ora il nemico è lo spopolamento: i giovani vanno a studiare a Istanbul e non tornano più). Si intravvede qualche anziana affaccendata nell’orto di casa e qualche anziano sulle panchine sotto gli alberi accanto a un’edificio con uno squallido stanzone che dev’essere una specie di centro di ritrovo. Qualcuno passa a cavallo, un mezzo di trasporto ancora comune. Tutt’attorno al paese, splendidi aranceti, con frutti grossi come un pugno: è l’unica fonte di sostentamento per gli abitanti. Vivono portando le arance al mercato, con qualche problema perché la terra non è loro, nel corso degli anni se la sono accaparrata ricchi proprietari turchi e arabi (questa era Siria, come detto, e la maggior parte della popolazione è araba, non turca; così accade che minoranza armena e minoranza araba in Turchia vadano abbastanza d’accordo, soprattutto per proteggersi da Ankara). E poi c’è la chiesa, come detto. Non è antichissima, e si vede. Risale al 1929. «dei sette villaggi armeni attorno al Mussa dagh», spiega Bisanz, «questo era il più piccolo, non aveva chiesa. Gli altri avevano chiese del IX e X secolo. Oggi alcune sono rovine, altre sono state trasformate in moschea». Nella chiesa di Vakifli, però, si officia solo di rado. Il vecchio prete è morto un paio d’anni fa, quasi novantenne. da allora la parrocchia è vacante. Il sacerdote deve venire da Istanbul, sede del patriarcato di Costantinopoli, e arriva a Natale, Pasqua, per la festa della Madre di dio a cui la chiesa è dedicata, e per i funerali. La chiesa armena condivide con quella ortodossa turca un ulteriore problema: ci sono sempre meno preti. Il governo di Ankara ha chiuso il seminario e non permette che officino i riti sacerdoti provenienti dall’estero, dalla Repubblica d’Armenia, o dai Paesi della diaspora. Se non cambierà qualcosa, i patriarcati cristiani di Costantinopoli saranno costretti a chiudere per consunzione. Quando agli armeni del Mussa dagh venne ingiunto di abbandonare le proprie case, decisero di non farlo continua a pagina 30 ➔
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e di resistere. «Poco dopo il tramonto, il popolo dei sette villaggi s’era messo in cammino, diviso per schiatte e per famiglie, carico di fardelli, per salire sul monte dalle diverse strade più vicine a seconda del punto di partenza. Quantunque gli abitanti di questa valle non fossero poveri, solo la minor parte delle famiglie possedeva un asino da sella o da soma. Spesso due famiglie tenevano un animale in comune. Già la luna aveva sorpassato la metà del cielo e le tribù ansanti continuavano a sfilare. Sempre lo stesso quadro: alla testa, piantando cupo il bastone innanzi a sé, il padre di famiglia col suo fardello. Le donne barcollavano sotto carichi che piegavano le loro spalle fin quasi a terra. E intanto dovevano badare continuamente alle capre, che non si smarrissero», scriveva Werfel. Gli armeni resistettero in cima al Mussa dagh. Erano male armati: solo una cinquantina di fucili moderni, il resto vecchiume vario e armi da caccia. Ma, grazie ai trinceramenti e alla consapevolezza che la sconfitta avrebbe significato la morte, riuscirono a respingere vari attacchi da parte delle truppe turche, dotate sì di un’inarrivabile superiorità tecnica, ma assolutamente svogliate nello svolgere il compito di stanare quasi uomo per uomo i combattenti armeni. I giorni passavano e nel golfo di Antiochia non si vedevano navi. Finché una buona volta un’unità francese di base nella vicina Cipro, attirata da un incendio, si avvicinò alla costa e vide lo striscione bianco che gli armeni avevano issato sulla cima del monte. «Aiuto, cristiani in pericolo», in LibReRiA c’era scritto. Venne I quaranta giorni del l’incrociatore Guichen, Mussa Dagh di franz Werfel, corbaccio, 26 poi arrivò una squadra euro. il grande romanzo navale. I francesi aiutache descrive l’epopea dei rono gli armeni cannocinquemila. Werfel, ebreo neggiando le posizioni praghese, capì che il suo turche e quindi fu popolo avrebbe subito la presa una decisione inmedesima sorte degli armeni. fu un bestseller solita per delle unità da nell’europa degli anni guerra: caricare tutti e trenta. portarli in salvo. I cinLa vera storia del Mussa quemila del Mussa Dagh di flavia amabile e dagh furono sistemati marco tosatti, Guerini e a Port Said, in Egitto. associati, 14 euro. testimonianze d’epoca, note Nessuno tornò, con e diari di armeni che resiun’eccezione: quelli di stettero sulla montagna Vakifli. I primi rientradi mosè ritrovate negli rono nel 1926, gli ularchivi di mezza europa. timi tre anni più tardi e ma non in quelli turchi, rinel 1929 la chiesa era gorosamente sigillati. ormai terminata. Cartolina. Visto dal mare, dalla spiaggia su cui sbarcarono i francesi, il Mussa dagh non è una gran montagna: un panettone di 1.281 metri che sovrasta placido il Mediterraneo proprio nel punto in cui i romani fondarono Seleucia Pieria, ovvero la città che sarebbe dovuta essere la capitale della Cilicia e invece, a causa della difficoltà a difenderla, fu degradata al rango di porto di Antiochia. A mezza costa si vede chiaramente un centro abitato, con il suo minareto che svetta tra le case. Elis Bisanz
aveva detto che nei sette villaggi armeni i più ricchi abitavano in quelli vista mare, i poveracci si accontentavano del versante interno, come a Vakifli. da Kapisuyu, questo il nome, del villaggio a mezza costa (Kapusyé in armeno), il mare si vede, eccome. In certi punti sembra di stare in una cartolina per quanto è bello il paesaggio delle verdi pendici del Mussa dagh che digradano verso il celeste del mare. La strada (da quelle parti il concetto di strada diverge parecchio da quello a cui siamo abituati) si ferma su uno slargo a fianco della moschea. Si vede chiaramente che era una chiesa, il minareto – quello che si scorgeva dalla spiaggia – è un campanile mozzato con la sommità rifatta. Adem Coskun, 15 anni, e Onder Aksel, 18, prendono in consegna il visitatore. Il primo è uno studente, indossa ancora la divisa della scuola, pantaloni carta da zucchero e maglioncino bordeaux, il secondo fa il contadino. Adem corre a casa a depositare lo zainetto e lo scambia con un vocabolario turco-inglese. Comincia il tour. I due sembrano sapere perfettamente cosa sta cercando il visitatore. Mostrano vecchie abitazioni in pietra. Il più anziano spiega: «Ermeni house». Non c’è bisogno di vocabolario. Le vecchie case armene sono per lo più o vuote o trasformate in stalle accanto alle quali i subentrati abitanti turchi hanno costruito delle nuove case in mattoni. Gli armeni usavano fango e paglia per tenere insieme le pietre e l’impasto continua a resistere, dopo tanti anni. Ci sono ancora molte finestre con la grata di legno, tipica delle case ottomane, e i ragazzi le indicano quando dicono: «Ermeni house». Ciò che impressiona più di tutto è una bellissima ex cappelletta da cui sgorga uno zampillo d’acqua. Un tempo era oggetto di culto, ora c’è una vacca che si abbevera. Onder strappa delle piante che nascondono una lapide in armeno, datata 1824. Sarà poi Baykar Sivazliyan, docente di armeno all’Università di Milano e di turco in quella di Lecce, a chiarire di cosa si tratti. È una cappella per i viandanti, dove si poteva prendere acqua e recitare una preghiera prima di proseguire il cammino. La lapide è dedicata a un tale che nel 1824 l’ha fatta restaurare. La cappelletta, infatti, appare costruita in epoca precedente. La memoria cancellata, la memoria oltraggiata. I tremila abitanti di Kapisuyu sanno che prima di loro c’erano gli armeni, ma nessuno ha spiegato loro perché se ne siano andati. La storiografia ufficiale turca afferma che c’era la guerra, che gli armeni guardavano con speranza alla Russia (in parte vero, ma la stragrande maggioranza degli armeni serviva fedelmente nell’esercito turco; un po’ come gli italiani di Trieste: il 10 per cento passò le linee, il restante 90 combattè con gli austroungarici) e che quindi si trattava di nemici che poi se ne sono andati. Punto. Ed è già tanto che qualcuno sappia che c’erano dei villaggi armeni poi svuotati. Aden e Onder continuano nel loro tour. Ora ci si lascia il paese alle spalle e ci si inoltra nel bosco. Arrivati alle pendici di una parete rocciosa si sale in cima a una scala di ferro e si giunge su una terrazza a una quindicina di metri di altezza. C’è una rientranza, che i ra-
gazzi spiegano essere un altare, c’è una specie di pozzo e, accanto, un rialzo nella pietra con una canaletta. Sotto questo rialzo rivoli bruni di sangue rappreso indicano che in quel punto si fanno dei sacrifici. Sull’orlo del pozzo e all’interno dell’altare si vedono dei carboni spenti e granelli di incenso ancora incombusti. Sugli spuntoni della roccia all’interno dell’altare sono legati decine e decine di nastrini di stoffa. Chi venga qui a fare sacrifici e accendere incenso non è chiaro. I ragazzi dicono: «Turisti, dall’Inghilterra, dalla Francia». Ovviamente è improbabile che si tratti di turisti come li intendiamo noi. Una casa armena più grande delle altre (doveva essere della famiglia più ricca del paese) ha una data sul montante in pietra del portone che dà accesso al cortile, 1834, e un nome: Garabet (Carlo), probabilmente la persona che l’ha fatta costruire. dentro ci sono gli attuali abitanti e un’atmosfera di rovina che stringe il cuore. Troppo grande e troppo costosa per due anziani contadini, la casa armena ha conservato la struttura originaria. Soltanto che cade a pezzi. Al primo piano, entrando nelle stanze vuote dopo aver passato un ballatoio di legno dall’aspetto molto poco rassicurante, si vedono le finestre a grata riprodotte come mensole e vecchie cose abbandonate. due anfore di terracotta appaiono piuttosto vecchie. Abbastanza per essere appartenute agli scomparsi abitanti armeni? Chissà dove saranno oggi i discendenti di quella famiglia. Se gli antichi inquilini sono andati in cima al monte, con ogni probabilità saranno sopravvissuti. I loro nipoti oggi potrebbero vivere nei grandi centri della diaspora armena: Chicago, Marsiglia, Buenos Aires.
Eppure potrebbe essere diverso. È bello pensare che se il governo turco avesse un atteggiamento diverso nei confronti del genocidio armeno, e si decidesse una buona volta di chiedere scusa, invece di negarlo, qui potrebbero arrivare i soldi della diaspora e queste vecchie case essere recuperate. Vakifli potrebbe essere un punto di riferimento per gli armeni di tutto il mondo e il Mussa dagh essere quello che dovrebbe essere: meta di silenzioso pellegrinaggio. Invece, se non si va a cercarne le tracce in mezzo alla montagna, non c’è niente, qui, che parli di armeni. Sulla costa è di recente sorto un paesino, Çevlik, che è tutto un susseguirsi di ristorantini e alberghetti. «Viene un sacco di gente qui d’estate», spiega il proprietario di uno di questi locali, «arrivano dalla Germania, dalla Francia, anche dall’Italia». Turisti che arrostiscono al sole esattamente sulla spiaggia dove ai primi di settembre di 90 anni fa sbarcarono i francesi, angeli salvatori di cinquemila che resistevano lassù, sulla cima di quella montagna che basta alzare gli occhi dalla sabbia scura della spiaggia per vedere. Nulla, nessuno, spiega a questi turisti che cosa accadde lì dove oggi vanno in vacanza. Un cartello, una corona di fiori, un minimo di pietà umana per le vittime del genocidio e di rispetto per chi a quel genocidio seppe sottrarsi resistendo con le armi. Niente. Solo oblio e bandiere turche. Y Alessandro Marzo Magno
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le idee
Lager italiano. Interno della Risiera di San Sabba, campo nazifascista alla periferia di Trieste (foto mario dondero)
Incomparibile Trieste
la fede accecante di sudditi e di seguaci. Fin dove possa arrivare l’accecamento, fin dove le persone si vietino di riconoscere la verità per non rinnegare la propria speranza nel futuro o, peggio, la di AdRiAno SofRi propria fedeltà a un passato: questo è un punto moralmente decielle nostre inesauste guerre di parole, guerre per le parole, sivo. La comparazione qui non serve, se non come un pretesto da sta superbamente accampata la parola «comparabilità». pubblici accusatori e un cavillo da difensori d’ufficio. Ogni storia Ha molte applicazioni. La più ingente riguarda la compa- risponde di sé. rabilità fra nazismo e stalinismo. La più delicata riguarda la Shoah, Una combinazione di circostanze ha fatto di Trieste un luogo che aveva voluto per sé la parola, apparentemente opposta, «uni- esemplare di questa contraddizione. Trieste ospita, nella sua pecità». riferia cittadina e nel suo entroterra carsico, due Abbastanza inevitabilmente, le ragionevoli monumenti dell’orrore, ambedue a lungo invisicomparazioni storiche sconfinano nelle avvenbili, come le cose che non si vogliono vedere, per Soltanto pochi tate comparazioni morali: se regimi totalitari o un desiderio di convalescenza dall’odio e dalla chilometri di strada paura, e per una rimozione faziosa. Questa lunga crimini politici siano stati reciprocamente migliori o peggiori o equivalenti. Questo genere di collegano la Risiera sottrazione, un’assenza, una mimetizzazione, raffronti fomenta il rinfacciamento polemico: sono il solo legame fra la Risiera di San Sabba e di San Sabba si procura con l’accusa ad altri l’indulgenza per le foibe del Carso. La Risiera è stata, nelle mani di e le foibe del Carso. militari tedeschi e di fascisti italiani spesso non sé, insinua nel giudizio morale una soggezione alla quantità. meno feroci, un luogo di sterminio diretto di Luoghi dove Le persone, e le comunità, partecipano della ebrei e resistenti e di smaltimento dei corpi (fra i ideologie diverse storia – facendosene complici o venendone tra3 e i 4 mila), di concentramento e invio di ebrei volte – da un posto ricevuto per sorteggio: verso Auschwitz, e di prigionia e tortura di partiseguirono percorsi l’anno e il luogo di nascita, l’anagrafe etnica, giani. La Risiera di San Sabba è difficile da metdi violenza sessuale e religiosa, l’appartenenza sociale. tere assieme alla canzone consolante dell’italiano «imparagonabili» Margarete Buber Neumann era una fervente brava gente. comunista tedesca, moglie di un dirigente di Anche l’azione sistematica e violenta condotta dal primo piano del Partito comunista: suo marito fascismo per «snazionalizzare» sloveni e croati fu liquidato in Urss, lei fu rinchiusa per anni nei campi staliniani, di Istria negli anni Venti e Trenta non va d’accordo con quella cane da lì consegnata alla polizia politica nazista e ai suoi lager. Nella zone. sua biografia la questione della comparabilità è risolta senza discussione. Le foibe sono cavità sotterranee del Carso, dall’imboccatura d’altra parte, come si può rinfacciare a Primo Levi, che vide arri- stretta e dal fondo via via più largo: nella primavera del 1945 (e, vare un giovane soldato russo a cavallo alle porte di Auschwitz e nell’entroterra istriano, già nel 1943) sono state impiegate da parguardare sbigottito quella città di morti vivi, di aver riluttato a tigiani comunisti jugoslavi e da parte della popolazione slava, spemettere sullo stesso piano la Germania hitleriana e l’Urss? del resto, della tragedia delle dittature e dei loro crimini fa parte anche continua a pagina 32 ➔
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da diario del mese del 26 gennaio 2001
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le idee
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cialmente contadina, per ammazzare o seppellire migliaia di cittadini italiani, scelti fra i nemici politici fascisti, veri o presunti, e fra quelli, antifascisti compresi, trasformati in nemici dall’odio sociale o nazionale o dal desiderio di vendetta. Quando, poco fa, un’amministrazione pubblica lombarda ha vincolato il proprio sostegno a viaggi scolastici d’istruzione a Trieste all’assicurazione di una visita congiunta alla Risiera e alle foibe, la distorsione della mania di comparazione ha toccato probabilmente il colmo. Non tanto per l’invadenza, peraltro grottesca, quanto per il principio di lottizzazione delle tragedie e dei morti – in realtà delle fazioni, come per ogni altra lottizzazione – cui grossolanamente si ispirava. È probabile che una scolaresca vivace abbia interesse a visitare la Risiera e la foiba di Basovizza. Ma la visita di precetto trasferisce su una bilancia caricaturale e cinica la pretesa imparzialità. Cui si prestano, temo, le obiezioni che, prendendo per buona questa versione della comparabilità, si ingegnano di sconfessarla con la quantità – la portata del genocidio degli ebrei nei confronti delle stragi di italiani nelle foibe o nei luoghi di deportazione in Jugoslavia – o con le distinzioni terminologiche. Le tragedie sono infatti moralmente incommensurabili. Lo dicono i paradossi religiosi sul divieto del sacrificio di uno solo per la salvezza dei tanti, o sul salvataggio di uno solo che vale tutti.
Ci sono voragini nella memoria pubblica. Se la prescrizione amministrativa del pellegrinaggio congiunto alla Risiera e alle foibe può esser pronunciata senza paura del ridicolo, lo si deve all’aria che tira e all’ignoranza che tira ancora di più, ma anche, in modo assai più interessante, alla lunga rimozione. Per decenni le foibe sono state argomento pressoché esclusivo degli esuli giuliani e poi degli studiosi di frontiera. Se ne sapeva molto, purché se ne avesse voglia. Perché se ne aveva così poca? Per molte ragioni. Una era l’intenzione del quieto vivere politico ed economico con la Jugoslavia di Tito, tanto più dopo la rottura del 1948 col Cominform. Un’altra era l’insofferenza nei confronti di uno strascico ingente e penoso della guerra come l’esodo di circa 300mila italiani dalla dalmazia e dall’Istria, protratto fino a mezzo degli anni Cinquanta. Confinate nei campi profughi, o spinte all’emigrazione oltreoceano, ignorate o consegnate a un’aura stereotipa di nostalgia nazionalista se non fascista, furono così bandite dal riconoscimento civile le cittadinanze pressoché intere di Zara, Pola, Fiume. Voglio fermarmi su un capitolo peculiare di questa rimozione, dopotutto ancora ignorato dall’opinione: vero cimento per la memoria e le sue peripezie. La memoria personale deve infatti mettere insieme con qualche dignitoso compromesso la fedeltà al passato con il giudizio di oggi. (Per lo più, si sacrifica l’uno all’altro, a piacere). La memoria di chi è stato comunista, o del comunismo non è stato nemico, è sottoposta a una prova particolare. La verità del comunismo sovietico (e delle sue varianti asiatiche o in genere terzomondiste) non lascia scampo. Tuttavia – c’è, nella memoria dei non giovani, un tuttavia. Esso dipende dal tormentato ricordo di ciò che si è stati, che non si lascia ridurre a quella certificata e tragica verità; di più, dipende dalla sensazione che, a differenza dagli epigoni dei fascismi, i discendenti del comunismo vedano nei crimini compiuti in suo nome il tradimento delle loro speranze: così per l’antisemitismo. Un po’ consolazione, un po’ alibi, questa differenza continua a illudere un angolo del cuore. Come potrebbe altrimenti rimettersi in pace con se stesso chi sia stato militante da un lato della storia, una volta che la distanza lo forzi a misurare l’errore o la colpa della sua antica trincea? Occupata oggi dai sovrannumerati «ragazzi di Salò», la questione riguarda drammaticamente e silenziosamente la memoria di tanti ex comunisti e di loro compagni di strada.
La «storia» allontanata dalle storie delle persone rischia di destituirne dalle radici l’identità passata, e dunque di sradicare la presente. Questa difficoltà è la vera rimozione della questione comunista in Italia, altrimenti estinta per morte naturale, o tenuta
artificialmente in vita per ragioni di economia marginale e di completezza delle parti in commedia. Per esempio, come ci si libera di idee, parole e gesti di cui si è scoperto – capito, sperimentato – l’errore o la falsità, senza venir meno al rispetto e all’affetto per i propri antenati, padri e fratelli maggiori – o minori, anche: i morti giovani, quelli più esigenti della fedeltà dei vivi? Gli ex-comunisti sono costretti a chiedersi che cosa sarebbe stata l’Italia se avessero vinto, se avesse potuto imporsi un’insurrezione frontista, se il 18 aprile non fosse andato così; e a felicitarsi di aver perduto, e tutt’al più congratularsi col machiavellismo di Togliatti, che sapeva tutto, e fece in modo di perdere… Non è facile. Il fatto è che a Trieste, nella Venezia Giulia, in Istria, la cosa successe. I comunisti vinsero. I partigiani titini occuparono Trieste, pronti ad annettersi la Venezia Giulia fino all’Isonzo. Una parte importante dei dirigenti comunisti italiani si schierò per l’annessione. Una parte ancora più importante della base, soprattutto degli operai, di Gorizia, di Monfalcone, di Trieste, come di Fiume, auspicò l’annessione, o non la contrastò, riconoscendovi una vittoria non del nazionalismo sloveno o croato o jugoslavo, ma dell’internazionalismo proletario e della sua madrepatria, l’Urss di Stalin. Gli operai fiumani ne fecero l’esperienza diretta, molti dei monfalconesi e goriziani e friulani emigrarono oltre la frontiera provvisoriamente ristabilita a ridosso di Trieste per partecipare alla costruzione del socialismo, in attesa della sua marcia a ovest. Alla scomunica di Tito da parte di Stalin, la maggioranza dei comunisti italiani si schierò con Mosca, raddoppiando così il movente, nazionale e ideologico, di avversione della Lega jugoslava. Un gran numero di quei comunisti, istriani o immigrati giuliani, finirono nelle galere o nelle isole di deportazione e torture jugoslave, altri riuscirono a tornare indietro, tutti provarono il più amaro dei disinganni. della rimozione della tragedia giuliana – la vendetta nazionalista, politica, sociale e contadina di parte slava contro gli italiani, le migliaia di infoibati (fra i due e gli ottomila: il calcolo resta arduo), le altre migliaia di giustiziati e deportati, le centinaia di migliaia di profughi, e la loro ulteriore umiliazione in Italia – fa parte, come un aspetto particolare e insieme una spiegazione, questa vicenda di fede internazionalista mortificata e castigata. Se ne trova il racconto piuttosto nella narrativa che nella storiografia, che è più reticente, e anche più inetta ad afferrare il legame fra le pretese della Storia e le vite di persone. Lo si trova anche nel Sogno di una cosa di Pasolini: lo stesso Pasolini che diventava comunista quando una banda comunista filoslava ammazzava in un agguato partigiani rivali, e fra loro suo fratello Guido, e quando si compiva la tragedia dell’espatrio internazionalista e del rientro frustrato dei lavoratori italiani. Prova per paradosso del nodo complicato (e non si dica semplicemente: masochista) che avvince storia e vita.
Ho sentito qualche sera fa Susanna Tamaro rispondere in televisione a una domanda sulla sua infanzia e adolescenza triestina e le foibe. Ha detto di aver avvertito un segreto, nella città e nei suoi silenzi, e che dietro quel segreto si intuiva la morte e il lutto, e che anche quando raramente i luoghi venivano nominati, le foibe, la Risiera, erano luoghi di morte indistinta, senza che si dicesse chi aveva ammazzato e chi era stato ammazzato. Io ho quindici anni più della Tamaro, e la Trieste in cui sono nato la frequentavo da bambino pressoché solo d’estate, sul Carso fra Opicina e Monrupino, quando la guerra era ancora recente. Una dozzina d’anni fa ci ero tornato, e avevo scritto così: «Ora, le foibe più sinistre, in cui furono precipitate centinaia e migliaia di vittime, sono segnalate da cartelli: allora no. Ne restava una memoria orale e distratta – non si badava quasi a chi avesse ammazzato chi – e l’uso leggero e frequente della parola infoibare. Così distratta che i ragazzi ci gettavano dentro ramaglia incendiata perché il fumo ne cacciasse i colombi selvatici, e li aspettavano al varco dell’imbuto della foiba per ammazzarli a colpi di frasche. Per divertimento». Y
Adriano Sofri
il fiore del partigiano
L’antifascismo? È modernissimo
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le idee
A PROPOSITO DELLA VULGATA DESTRORSA RACCOLTA ANCHE TRA I PENTASTELLATI
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da Patria Indipendente pubblicato lunedì 19 dicembre 2016
lessandro di Battista, questo conosciuto. Il parlamentare 5Stelle, da tempo in ascesa nel firmamento della politica italiana, è stato recentemente intervistato da Gianni Minoli su La7. A dire il vero, più che un’intervista, è stato un interrogatorio, durante il quale il giornalista ha bombardato il giovane dirigente politico di domande, dando sovente lui stesso le risposte, con un plus di aggressività e di faziosità. Il punto non è condividere o meno le opinioni di di Battista o di chiunque altro e tanto meno di addomesticare l’intervista, ma di esigere per tutti la stessa misura e lo stesso equilibrio da parte dell’intervistatore. detto questo per chiarezza e correttezza, il di Battista, al termine dell’interrogatorio, ha affermato ripetutamente che «nel 2016 parlare di fascismo e antifascismo è come parlare di guelfi e ghibellini». L’affermazione è solo in apparenza stravagante, perché si coniuga pienamente con la teoria, diffusa (ma non generalizzabile) nella sua formazione politica, del superamento della destra e della sinistra come categorie della politica. Il problema è che tale teoria, oltre a essere spesso patrimonio di una certa estrema destra (sic!), è clamorosamente sbagliata e in desolante contraddizione con le opinioni di altri dello stesso movimento e con alcune affermazioni proprio di di Battista. Quando questi afferma ripetutamente nel corso dell’intervista di sostenere a spada tratta la Carta, al punto di dire che si sente garantito solo dalla Costituzione della Repubblica, dovrebbe interrogarsi sulla sua origine e sulle sue radici. Scoprirà, come disse Calamandrei il 26 gennaio 1955, che essa nacque «nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati». Parlare dell’antifascismo, come categorie della politica, delle idee, dei valori e perciò della vita, solo al passato, vuol dire capire poco del presente e delle stesse speranze di cambiamento per il futuro; libertà, uguaglianza, cittadinanza, solidarietà, lavoro, pace, svuotate dalle loro ragioni storiche, rischiano di
ma di battista non lo sa. Il mausoleo di Rodolfo Graziani, gerarca fascista, rischia di mettere nei guai il sindaco di Affile e 2 assessori. Il pm Francesco Menditto ha chiesto la condanna per apologia del fascismo del sindaco Ercole Viri e degli assessori Lorenzo Peperoni e Giampiero Frosoni.
diventare pura declamazione, retorica politica o, nella migliore delle ipotesi, un auspicio generico, un “volersi bene” senza alcun fondamento reale. d’altra parte affermare che l’antifascismo è “superato” rinvia esattamente alle stesse corde di chi sostiene che la Costituzione del 1948 è “superata”. L’esperienza storica dei guelfi e dei ghibellini, peraltro lunghissima ed importante, si esaurì nel corso di più di due secoli, dal XII al XIV, con effetti perduranti nel tempo successivo. La Costituzione, invece, come ha confermato l’esito referendario, è quanto mai attiva e vivente, e con lei le sue radici e le sue ragioni. È lo strumento e la bussola per affrontare la modernità nel nostro Paese. Ed infine il cancro neofascista, nel tempo di gravissima crisi che attraversa l’Italia e l’intero continente, è tutt’altro che scomparso, e si presenta in modo proteiforme, più o meno mescolato alle suggestioni razziste, alle paure xeno-
fobe, al mito nazionalista. Basta vedere l’inchiesta pubblicata proprio su questo numero di Patria Indipendente (http:// www.patriaindipendente.it/persone-eluoghi/inchieste/la-galassia-nera-su-facebook/). Non vedere la drammatica attualità di questo fenomeno vuol dire escludere l’assunzione di contromisure democratiche e perciò negare l’urgenza di un antifascismo che, a partire dalla memoria della Resistenza, diventi linguaggio contemporaneo, ascolti le giovani generazioni, sia alla base di una solida struttura di valori civili e sociali che ispiri ed informi i “cittadini”, parola così cara proprio al Movimento5Stelle. di Battista, dunque, sbaglia di grosso. Certo, si dirà, è un errore, non un crimine. Ma ci pensi su il di Battista, perché potrebbe riferirsi anche a lui la famosa frase attribuita a Talleyrand dopo il rapimento e l’esecuzione del duca d’Enghien nel marzo del 1804: «È stato peggio di un crimine, è stato un erY rore».
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Il sapore agrodolce del ricordo
le idee
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
I
lia tagliacozzo - il mistero della buccia di arancia einaudi ragazzi, collana storie e rime, età: 9+, pp. 120, € 11,00
da il manifesto del 21 gennaio 2017
l giorno della presentazione della sua ricerca ai compagni di classe, Anna è nervosissima. Niente colazione e infila la porta senza un cenno di saluto alla madre. Non è così strano: come dice lei stessa, sulle sue spalle non porta solo lo zaino e il computer del fratello, ma tutta la storia della nonna Miriam. Una storia che inizia con un particolare all’apparenza insignificante: alla nonna di Anna, da sempre, non piacciono le bucce d’arancia candite, specialità per cui suo marito è tanto famoso tra famigliari e amici. Il mistero della buccia d’arancia, il libro scritto da Lia Tagliacozzo per Einaudi Ragazzi (dai 9 anni in su, con le illustrazioni di Angelo Ruta), ha un magnifico espediente narrativo con cui intrappola il lettore nelle sue maglie: procede per cerchi concentrici, va dal piccolo dettaglio (il gusto della nonna che non ama il sapore di quell’agrume) ai macroeventi (la guerra, la persecuzione degli ebrei, le fughe per la salvezza). Come un sasso lanciato in uno stagno, allarga la conoscenza altalenando tra presente e passato, seminando di indizi il percorso e lanciando immaginari flashback, quelli che la protagonista Anna «vede» seguendo alcune tracce intriganti (fotografie, lettere e alla fine – con coraggio – la nonna stessa, sua fonte orale). A comporre il mosaico della trama come fosse un giallo, non è una fiction, ma una stagione di vita
vissuta. Una stagione sospesa, un «tempo rubato», rivisitato – come confessa l’autrice – «mettendo nel frullatore le persone della mia famiglia» (i fatti narrati riguardano in realtà sua madre e poi i fili delle storie si intrecciano). Non sveleremo in questa sede cosa mai avesse nonna Miriam contro le bucce d’arancia candite (che restano comunque buonissime), ma il romanzo di Lia Tagliacozzo (già autrice di Gli anni
Ravensbrück, dimenticato inferno per donne
aggio 1939. 867 donne - casalinghe, dottoresse, cantanti M d’opera, politiche, prostitute - furono prima costrette a marciare per cinquanta miglia nei boschi a nord di Berlino, e
sarah helm - il cielo sopra l’inferno newton compton - pp. 720, € 12,90
poi ad attraversare gli enormi cancelli di ferro tra gli insulti e le percosse delle guardie. Erano appena arrivate a Ravensbrück, campo di concentramento femminile ideato da Heinrich Himmler. Alla fine della guerra, 130.000 donne – provenienti da più di venti paesi in tutta Europa – erano state detenute qui. Erano di diversa estrazione, provenienza, credo politico o religioso: ebree, zingare, esponenti della Resistenza, nemiche politiche vere o presunte, disabili o con disturbi mentali. dovettero sopportare privazioni, fame, sevizie, malattie, lavori forzati ed esecuzioni sommarie. Ed entro l’aprile del 1945, vi trovarono la morte tra 30.000 e 90.000 di loro. Per molti anni, fino alla fine della guerra fredda, la storia di Ravensbrück è rimasta nascosta, e ancora oggi se ne sa pochissimo. Grazie a interviste esclusive e documenti inediti, Sarah Helm ci offre una vivida ricostruzione storica e una teY stimonianza indimenticabile.
spezzati. Storie e destini nell’Italia della Shoah, edito da Giunti) affronta un tema spinoso, con una mano leggera: l’importanza della testimonianza “in presenza”, attraverso la voce di chi ha sperimentato sulla propria pelle la paura della deportazione, la necessità di fuggire e abbandonare tutto, la fame, l’incertezza del futuro. È qui il senso della “fonte orale” che Anna porterà in dono alla esigente maestra Marcella – e naturalmente ai suoi compagni di classe -, quel racconto che disegna una geografia sentimentale di spostamenti, mai neutrale, ma piena di affetti e dolori. Soprattutto, se come controparte si ha di fronte una nonna (e anche una zia) che ricorda e che conserva in un mobile segreto, sempre rigorosamente chiuso, la sua unica bambola stropicciata – regalatale dalla figlia di contadini in Svizzera, luogo d’esilio insieme alle sorelle quando era piccolissima – e le lettere sbiadite del padre Giorgio (bisnonno di Anna). Ci vorrà la furbizia dei bambini e una complicità strategica tra fratelli e cugini per scardinare la resistenza psicologica degli adulti, riconsegnando il passato al presente. Un’operazione di spostamento temporale, questa, che si può fare in mille modi. Qui, la vicenda della famiglia della scrittrice torna prepotentemente in scena non solo per vivificare la memoria di una tragedia immane come l’Olocausto, ma anche per sottolineare alcune somiglianze con l’epoca attuale, quando persone che scappano da guerre e persecuzioni nei loro paesi cercano di varcare i confini su gommoni che, spesso, vanno alla deriva, infrangendo Y i loro sogni.
Arianna Di Genova
Lo strano prete resistente
onferrato, 1943. Lisa Vita Finzi ed Enrico Levi, zio del futuro scrittore Primo, fuggiti da GeM nova in campagna allo scoppio della guerra, dopo
paolo mazzarello - Quattro ore nelle tenebre - Bompiani - pp. 256, € 13,00
l’8 settembre capiscono di non essere più al sicuro tra le mura del palazzo dei Martinenghi, dove si erano trasferiti all’inizio del 1941. Con una coppia di amici cercano rifugio a Lerma nell’antico santuario della Rocchetta, dove da qualche anno è approdato uno strano prete, don Luigi Mazzarello. Intelligente, affascinante e dal passato turbolento, don Luigi riuscirà con abilità a resistere alle intimidazioni dei nazifascisti e a salvare la vita dei suoi protetti ebrei, mentre nei monti circostanti infuria una delle peggiori stragi nazifasciste del nostro paese, l’eccidio della “Benedicta”, che portò all’uccisione di 147 partigiani e alla deportazione in Germania di molti altri giovani. Quattro ore nelle tenebre ricostruisce questa vicenda drammatica, una delle tante piccole luci che si accesero nel momento più cupo della storia. Y
il fiore del partigiano
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Ritratto sentimentale di una stella tranquilla
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Gennaio 2017
pietro scarnera, con prefazione di marco Belpoliti - Ritratto sentimentale di primo Levi comma 22, collana “i pavoni” - pp. 240, € 14,00
da www.lospaziobianco.it
na graphic novel per riscoprire Primo Levi. La mattina del 19 ottobre 1945, Primo Levi tornava a Torino dopo un anno di prigionia nel lager di Auschwitz e un viaggio di molti mesi nell’Europa dell’Est. Levi era allora un ragazzo di 26 anni, e ritornava «gonfio, barbuto e lacero», con in corpo un bisogno quasi fisico di raccontare. Più di mezzo secolo dopo, due ragazzi arrivano a Torino per ripercorrere le tracce di Levi e per raccontare una storia: quella di come l’ex prigioniero 174517, giovane chimico alle prime armi,
riuscì a testimoniare l’orrore dei lager nazisti, e di come continuò poi a raccontare, passando dalla fantascienza alle storie di fabbrica, dalla poesia alla saggistica, fino a diventare una delle figure più importanti della cultura italiana. Basandosi solo su episodi raccontati dallo stesso Levi, Una stella tranquilla (titolo di uno dei racconti più belli dello scrittore torinese) è un ritratto di Primo Levi come emerge dalle sue opere. Ed è un ritratto sentimentale, perché l’autore (che con Levi condivide la città natale, Torino) si è comportato come davanti a un vecchio album di famiglia, quando si prova a immaginare com’erano i nostri genitori, o i nostri nonni, quando ancora noi non c’eravamo. Il risultato è un racconto a metà tra biografia e fiction, che rende la complessità della figura di Levi (testimone, chimico e scrittore) ma non sconfina mai nella vita privata dell’uomo Levi. Il racconto si ferma infatti un attimo prima di quella mattina dell’aprile 1987, quando la stella tranquilla chiamata Primo Levi, brillante punto di riferimento per molti, si spense proprio come fanno le stelle, in maniera fragorosa. Il suicidio dello scrittore, con tutti i dibattiti che l’accompagnano, è affrontato in questa graphic novel con particolare delicatezza: senza la pretesa di stabilire una verità, ma raccontando come in questi anni la memoria di quell’evento si sia “attorcigliata”, rischiando di oscurare l’opera di Levi. È questa la domanda di fondo contenuta in Una stella tranquilla: Come raccogliere l’eredità dello scrittore? Come trasmetterla a nostra
volta alle nuove generazioni? Scarnera prova così a riscoprire la figura di Levi dal suo punto di vista, quello di un ideale “nipote” che condivide con lo scrittore lo stesso bisogno “fisico” di raccontare. Con un tratto chiaro e una bicromia delicata, Una stella tranquilla è costruito anche graficamente partendo dalle immagini presenti nell’opera di Levi. Le copertine dei libri, le fotografie d’archivio, ma anche i disegni fatti al computer da Levi e le strane sculture in filo di rame che riempivano il suo studio. Come quella maschera di gufo che Levi “indossa” in copertina, simbolo della distanza tra l’immagine pubblica di Levi, raccontata qui, e la sua dimensione privata, di cui al contrario sappiamo molto poco. Sullo sfondo, la città di Torino e le sue trasformazioni, dal dopoguerra al boom economico, dagli anni del terrorismo alla metropoli moderna dei giorni nostri. Y pietro Scarnera è nato a torino nel 1979, vive e lavora a Bologna. ha esordito nel mondo del fumetto nel 2009, aggiudicandosi il primo premio al festival del fumetto di realtà komikazen con il progetto per la sua prima graphic novel, Diario di un addio. pubblicato nel 2010 da comma 22 e nel 2012 tradotto in francia per l’editore ca et là, il libro è una testimonianza dei cinque anni passati dall’autore accanto al padre, in stato vegetativo dal 2003 al 2008. pensato come una ideale “base” per il dibattito su un delicato tema etico, Diario di un addio descrive con precisione la vita di una persona in stato vegetativo, le reazioni dei familiari e la routine degli ospedali, ma è soprattutto la storia di un figlio alle prese con la malattia del padre. Una stella tranquilla è la sua seconda graphic novel ed è frutto di tre anni di lavoro: una ricerca che l’autore racconta sul suo blog, http://pietroscarnera.blogspot.it
Giornalisti, specchio del carattere nazionale
na storia d’Italia attraverso i giornali o meglio U ancora: una storia d’Italia nelle sue tappe principali attraverso i giornalisti italiani. Ne am-
pier luigi vercesi - ne ammazza più la penna. Storie d’italia vissute nelle redazioni dei giornali sellerio, collana la nuova diagonale - pp 388, € 10,00
mazza più la penna è la storia dei giornalisti italiani dai tempi della caduta di Napoleone – e precisamente dal primo possibile scoop, il misero fallimento dell’impresa di Gioacchino Murat fermato dalla plebe calabrese nel 1814 mentre tentava di tornare sul trono di Napoli – fino agli anni Sessanta del Novecento. Storia di giornalisti, più che del giornalismo, da Ugo Foscolo (messo a libro paga dagli austriaci) alla rivoluzione editoriale di Enrico Mattei. Giornalisti avventurieri, giornalisti scandalosi, giornalisti venduti e comprati, giornalisti eroici, di svelatori di luminose verità o occultatori di vergogne nazionali: dai grandi ai meno noti, ognuno con la precisa cifra della propria per-
sonalità. Mentre le loro carriere si adeguano alle innovazioni tecnologiche, politiche, culturali, sociali e finanziarie del mondo che cambia, sullo sfondo della vita in redazione scorre la storia d’Italia nei suoi momenti cruciali, colti nella realtà quotidiana. Così il rapporto tra i due versanti del racconto – i giornalisti e la storia d’Italia – è tessuto in modo tale che i giornalisti sembrano quello che in realtà furono: l’ombra della storia d’Italia, il suo lato meno noto, ma parte integrante, e a volte determinante, dell’intero. Patriottismi e scandali, ideali e corruzione, coraggio innovativo e conflitti d’interesse, servitù culturale e ardimento d’avanguardia, fanno da refrain a un racconto che diventa, pagina dopo pagina, una storia culturale minuziosissima di notizie, fatti e aneddoti. Questo libro riesce a riflettere, come uno
specchio, il carattere nazionale nella minuta vicenda di ascese e cadute personali, con la concertazione vera e piacevole di una commedia di coY stume.
pier Luigi Vercesi, da trent’anni giornalista in numerose testate, tra cui la stampa e il corriere della sera, attualmente è direttore di sette, il settimanale del quotidiano di via solferino. È autore di alcuni saggi di storia del giornalismo, tra cui una storia del giornalismo americano, e ha insegnato teoria e tecniche del linguaggio giornalistico presso la facoltà di lettere dell’università degli studi di parma.
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il fiore del partigiano
Per un reale contrasto ai neofascismi
Gennaio 2017
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DUE ANIME: IL NEOFASCISMO ORGANIZZATO E UNA SORTA DI “FASCISMO STRISCIANTE”
S
da Patria Indipendente pubblicato lunedì 16 gennaio 2017
e il buongiorno si vede dal mattino, forse l’ANPI e il mondo antifascista possono guardare con fiducia al 2017. L’entusiasmo destato dalla lotta per la Costituzione sembra aver messo in moto un’interessante fenomeno di rinnovamento, concretizzatosi nel coinvolgimento di tante nuove energie nelle nostre sezioni. Terminata con successo una delle battaglie più delicate e complesse della nostra storia associativa – la vicenda referendaria -, ci accingiamo a portare avanti la nostra principale missione: il contrasto al mondo del neofascismo. dobbiamo tener conto che, rispetto ai decenni e agli anni passati, il fenomeno presenta una complicazione ben maggiore: se poniamo infatti attenzione ai meccanismi sociali che alimentano la vulgata neofascista, è piuttosto facile notare che questa si alimenta di due componenti profondamente diverse, con indoli e necessità risolutive diversificate.
La prima anima è quella del neofascismo organizzato, caratterizzato dal proliferare di partiti e movimenti strutturati, i quali operano, a fini legittimatori, anche in attività esulanti la politica, come la Protezione Civile (La Salamandra, associazione costituita da CasaPound) o la raccolta alimentare. dietro la presunta innocuità di questi gruppi, spesso si celano linguaggi politici incitanti all’odio e all’intolleranza, riferimenti espliciti al modello fascista e ancora aggressioni, violenze, profanazioni di luoghi della memoria. Il tutto in un contesto di sostanziale lassismo delle istituzioni, che si unisce al rafforzamento del potere contrattuale politico di questi soggetti e alle reti più o meno palesi di finanziamento esterno che ne determinano l’espansione. Ove il neofascismo opera con presunti miti del passato, catturando adepti e simpatizzanti tramite slogan di lotta all’immigrazione e difesa dell’italianità, il mondo istituzionale ha il dovere di contrastarne la proliferazione attraverso un più marcato riferimento alla legge Scelba e al reato di apologia di fascismo. Soltanto attraverso il riferimento alla normativa e a un’attenta supervisione
degli ambienti di estrema destra (oltre che da parte dell’ANPI, da parte dei partiti, delle forze dell’ordine e degli organi istituzionali) si potrà bloccare l’escalation di soggetti sociali in qualche modo irrecuperabili nelle loro mire di razzismo, antisemitismo e denigrazione del patrimonio storico della Resistenza. Ove questo fosse praticamente utopico nella realizzazione pratica, più che il riferimento alla legge potrà la sensibilità dell’opinione pubblica e degli amministratori, che hanno il dovere di opporsi con mezzi democratici e legislativi all’apertura di nuovi circoli e a cortei o manifestazioni di spiccata inopportunità civile. A questi sistemi di contrasto, più tradizionali, se ne aggiunge uno totalmente nuovo: il controllo dei social network e internet che riporti il valore della legge nazionale anche nella babele del mondo virtuale.
L’argomento ci conduce direttamente alla seconda anima del neofascismo, quella di una vulgata assai più estesa rispetto all’attivismo neofascista tout-court. C’è una sorta di “fascismo strisciante” in una parte dell’opinione pubblica, che si manifesta anche nella forma di pulsioni pararazziste, violenze verbale sui social ed in altri molteplici modi. Matrice comune del fenomeno è l’ignoranza dei soggetti, il momento storico complicato, la lettura superficiale dell’attualità. In un mondo in cui un ruolo importante è giocato dall’influenzabilità delle masse da parte dei media, è logico che la matrice dell’attivismo fascista trovi (complice anche l’ambiguità e le posizioni dei populismi e dell’antipolitica) adepti e simpatie, o riesca comunque a trasmettere in serie messaggi fuorvianti e xenofobi. Ove la superficialità e l’ignoranza generano mostri e menzogna, più che lo stru-
mento risolutivo legale serviranno due contromosse: una maggiore qualità della scuola e la militanza quotidiana che ognuno di noi dovrà dedicare – dalla tastiera del computer di casa e con la presenza alle manifestazioni – al contrasto di fenomeni, fisici e virtuali, inneggianti il fascismo. Molto potrà fare l’ANPI, forte del suo ruolo storico e del protocollo d’intesa con il MIUR, per pressare su un sistema scolastico spesso inadeguato o svogliato nell’impegnarsi sull’analisi del fascismo e dell’antifascismo. Si eviterà così il proliferare di falsi miti che sovente trovano tra i giovani e nell’inadeguatezza preparatoria delle famiglie il miglior veicolo di trasmissione dei germi dell’odio. E tanto potremo fare noi tesserati, dimostrando alle istituzioni, con il nostro lavoro e partecipazione, che le ricorrenze e i fatti della lotta di Liberazione non sono soltanto eventi vuoti a cui dedicare doverose e fredde commemorazioni, ma sono l’essenza del nostro vivere democratico.
Queste sono le sfide forse ancora maggiori che spettano all’ANPI nel 2017, ben più difficili rispetto alla pura lotta al neofascismo: la guerra all’ignoranza e la continua attività di pungolo per le istituzioni, affinché ricordino quale sia l’origine del proprio ruolo e si applichino per garantirne la Memoria. Rimaniamo fiduciosi. Alcuni segnali sono incoraggianti: pensiamo alla mozione approvata in Emilia Romagna e Toscana per bloccare la vendita di gadgets fascisti. Sembra poco, ma questo è già un grande punto di partenza che dovrà replicarsi ovunque per dare un primo importante scacco al nero mondo Y del rimpianto e dell’ignoranza.
Luca Grisolini
presidente provinciale dell’ANPI di Arezzo
il fiore del partigiano peRiodico deLL’ASSociAZione diViSione
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