anno 8 numero 21
aprile 2017
Festa della Liberazione
A di
Pubblichiamo l’intervento del Presidente dell’ANPI tenuto all’iniziativa del 10 marzo promossa dall’ANPI di Modena sul tema del contrasto ai neofascismi.
Carlo Smuraglia
bbiamo assunto l’impegno di dedicare il 2017 alla Costituzione, per celebrare la ricorrenza del 1947, l’anno della Costituente, l’anno delle grandi discussioni e infine della sua approvazione con un voto significativo (85%), su cui, in partenza, nessuno avrebbe potuto scommettere. La nostra Costituzione ha sicuramente bisogno di continuA A pAg. A pAginA 2 ➔
W L’ITALIA
LIBERA DEMOCRATICA EMANCIPATA SOLIDALE
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marilena nardi
Antifascisti ancora e sempre
UN INTERVENTO DEL PRESIDENTE
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AChiaravalleilneo il fiore del partigiano
aprile 2017
Festa della Liberazione
PARLA IL SINDACO DEL COMUNE MARCHIGIANO, LA CUI GIUNTA HA APPROVATO
Chi manifesta sul suolo pubblico deve dichiarare
da Patria Indipendente 7 aprile 2017
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Natalia mariNo
amiano Costantini è il sindaco di Chiaravalle, comune della Vallesina in provincia di Ancona. La sua Giunta ha approvato un innovativo atto di indirizzo: ogni associazione o partito che volesse manifestare su suolo pubblico dovrà sottoscrivere una dichiarazione di condanna delle ideologie razziste o fasciste. Nel rispetto della Costituzione.
Sindaco Costantini, cosa ha spinto l’iniziativa della Giunta di Chiaravalle? Come Giunta ci siamo resi conto del proliferare, sia nella Regione Marche sia in tutto il territorio nazionale, di gruppi e gruppuscoli organizzati che tentano di radicarsi e far proselitismo inneggiando ai disvalori del fascismo, del nazismo, della xenofobia, della omofobia. La Costituzione e altre leggi della Repubblica lo vietano espressamente. Non neghiamo affatto il diritto di manifestare, semplicemente chiediamo il rispetto del dettato costituzionale e delle norme del nostro ordinamento. Per di più sembra affermarsi una sorta di vittimismo che tende a rovesciare la Storia e i fatti. Si approfitta del tempo trascorso da quel periodo oscuro, tanto poco studiato a scuola.
Antifascisti ancora e sempre
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essere attuata, in tante parti ancora carenti, ma forse, prima ancora, ha bisogno di essere pienamente conosciuta. Un illustre politologo ci disse, in un incontro all’Istituto Cervi, che c’era bisogno di un maggior “patriottismo costituzionale”. E dunque più conoscenza, più amore, non solo per i singoli articoli, spesso richiamati, ma soprattutto per i princìpi di fondo ed i valori che hanno bisogno di essere rivalutati, in un Paese troppo spesso smarrito. Ma il primo valore che dovrebbe essere posto in luce e rilanciato è quello dell’antifascismo. L’art. 1 della Costituzione dice che la nostra è
Il sindaco Damiano Costantini. In alto: una gloria del paese, Maria Montessori
Cosa prevede l’atto di indirizzo? Semplicemente che chiunque vorrà mobilitarsi in piazza o in qualsiasi altro luogo pubblico, per ottenere l’autorizzazione, dovrà sottoscrivere un modulo prestampato in cui si afferma di non professare e non manifestare ideologie razziste, xenofobe, antisemite,
omofobe, antidemocratiche e discriminatorie. Si chiede di rifiutare ogni espressione di odio o intolleranza religiosa. Tutto qui.
Eppure sembra un atto politico clamoroso… In realtà richiama espressamente la Costitu-
una Repubblica democratica; dunque democrazia vuol dire – come affermavano gli ateniesi 430 anni prima di Cristo – il governo di molti e non di pochi e partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica. E già questo basterebbe per dire che la Costituzione è il netto contrario di ogni forma di autoritarismo. Ma poi non c’è, in tutta la Carta, la parola “fascismo”, salvo nella XII disposizione finale, che vieta la ricostituzione del partito fascista. Questo perché i Costituenti erano all’indomani di una vittoria sul fascismo e sul nazismo e le vittorie appaiono sempre definitive, al momento. Quindi, al più, si trattava nel loro pensiero di vietare ora e sempre la ricostituzione del partito fascista. Ma il fascismo non si identifica solo nel regime di Mussolini. Il fascismo, comunque lo si denomini, può assumere mille forme che hanno connotati costanti: autoritarismo, diniego delle libertà e dei diritti dei cittadini, razzismo. Sotto questo profilo la Costituzione è profon-
damente e intrinsecamente antifascista, perché non solo l’art. 1, con quell’aggettivo “democratica” lo dimostra, ma tutti i princìpi e i valori della prima parte sono incompatibili con quelle idee e ne sono l’esatto contrario.
Il fascismo non è finito È per questo che noi sosteniamo che c’è una qualche differenza, ancora, fra questi valori della Costituzione e la realtà delle stesse Istituzioni. La prima cosa che si sarebbe dovuto fare, in sostanza, sarebbe consistita nel fare i conti col fascismo; conoscerlo, farlo conoscere, indicarne gli effetti, precisando anche con chiarezza responsabilità e colpe, così rendendo identificabile ogni traccia, non solo del fascismo mussoliniano, ma anche di qualsiasi tipo di fascismo, latamente inteso. La seconda, avrebbe dovuto essere non solo il “pilastro”, la defascistizzazione dello Stato, ma anche e soprattutto la democratizzazione dello
fascismo è off limits il fiore del partigiano
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QUESTO PROVVEDIMENTO
di condannare ideologie razziste o fasciste zione, che va applicata, e lo Statuto comunale approvato nel 2001: il Municipio ha voluto recepire anche formalmente gli Articoli 2 e 3 della Carta fondamentale italiana; si condannano inoltre i regimi totalitari, in Europa e nel mondo, che basati sul terrore e la compressione della libertà e democrazia hanno provocato lutti e miserie; si ribadisce chiaramente che l’Amministrazione deve svolgere la propria attività concreta ispirandosi ai principi della Costituzione antifascista nata dalla Resistenza. Lo Statuto di Chiaravalle stabilisce che il Comune si caratterizza per il rispetto di ogni diversità: religiosa, etnica, linguistica. Quindi con questo atto di indirizzo chiunque può manifestare, ma il No a ogni fascismo, neofascismo o intolleranza è altrettanto netto.
Gli uffici comunali dovranno applicare fin da subito dell’atto di Giunta? Il provvedimento si appella esplicitamente allo Statuto e dunque è validissimo. Da punto di vista della burocrazia è già operativo. Vogliamo però ampliare il sostegno all’atto con un’approvazione in Consiglio comunale. La nostra terra ha contribuito molto alla Liberazione dall’occupazione nazifascista. I chiaravallesi sono antifascisti. In altre località della provincia come Jesi, Santa Maria Nuova, Monsano si sono approvate mozioni in Assemblea comunale. Noi vogliamo fare qualcosa di più e per questo vogliamo che l’atto di indirizzo politico venga inserito negli atti regolamentari applicati dai funzionari obstesso. Questi sono tutti obiettivi mancati e praticamente mai completamente raggiunti; tant’è che oggi c’è chi può tentare di rivalutare il fascismo, di sostenere la tesi di un fascismo “buono” e dei fascisti, in quanto italiani, “brava gente”. Sappiamo che non è così, che il fascismo si comportò duramente con gli oppositori, malissimo con gli ebrei, malissimo nelle colonie. E c’è chi ripropone, oggi, alcuni valori in realtà inesistenti ed inaccettabili, proprio perché contrastanti con i princìpi di libertà, eguaglianza e dignità che sono il cardine dei valori costituzionali. Dunque, attenzione: quando ci dicono che il fascismo non c’è più ed è finito, bisogna essere pronti a dimostrare che non è vero, e non solo perché ci sono i movimenti neofascisti, ma anche perché c’è una mentalità e dei falsi valori, che non solo sono duri a morire ma sono pronti a riprendere vigore, non appena si presenti il terreno favorevole. Infine, e lo ha detto una sentenza della Corte di
bligatoriamente, in virtù del principio di legalità.
Critiche, Sindaco Costantini, ne ha ricevute? Qualcuno sostiene che l’atto di indirizzo della Giunta sia ovvio, che a dettar legge sono già Costituzione e Statuto cittadino, per me non è affatto così. C’è chi giustifica le nuove forme di fascismo a causa della crisi economica, e a volte anche istituzionale, che sta attraversando il Paese. È un alibi. Così non vorrei che qualcuno pensasse di individuare soluzioni nella discriminazione degli stranieri e nei comportamenti antidemocratici. Chiaravalle è luogo di democrazia, accoglie immigrati e rifugiati. Facciamo parte del progetto Sprar, avviato di concerto con la Prefettura, abbiamo anche una sede dedicata. La congiuntura negativa va affrontata nelle sedi giuste e idonee.
Il Sindaco di Chiaravalle è un iscritto all’ANPI? Ho 47 anni e da una trentina sono iscritto all’Associazione. Nella mia campagna elettorale ne ho fatto un punto di orgoglio. Da poco tempo abbiamo inaugurato la nuova sede, ci sono almeno cento iscritti. Attivissimi. I partigiani e i loro discendenti antifascisti stanno facendo un gran lavoro, recuperando la memoria delle figure storiche della Resistenza chiaraval-
Cassazione, fascismo e razzismo sono termini pressoché indissolubili; e non solo perché il regime fascista perseguitò, e duramente, gli ebrei, ma perché alla base di ogni autoritarismo c’è sempre un insieme di fattori che vanno dal nazionalismo, all’egoismo, all’odio razziale, all’odio per chiunque sia “diverso”.
Le tendenze europee Di tutto questo ce n’è in abbondanza in Europa e nel mondo. In Europa c’è un’enorme spinta a destra, non verso la destra liberale e conservatrice, ma verso una destra disponibile a tingersi di nero, frutto di un misto di autoritarismo, di negazione della libertà, di egoismo nazionalista, di razzismo. Che altro sono, del resto, i muri che vengono alzati e i fili d’acciaio che vengono utilizzati per creare barriere? Ci sono esempi notevoli di tutto questo: il successo della Le Pen in Francia, il fascismo di un partito che ha addirittura sfiorato il successo in Austria, il pericolo non definitivamente risolto
lese, organizzando mostre e presentazioni di libri. La cittadinanza apprezza molto.
Chiaravalle è anche la città natale di Maria Montessori, una illustre pedagogista, ne siete orgogliosi? Ci piace ricordare Maria Montessori anche come scienziata e per i suoi celebri scritti sulla pace e sul movimento femminista. Chiaravalle è pure una cittadina operaia. C’è la Manifattura Tabacchi dove una volta si producevano sigari. Le maestranze erano tutte donne, le “sigaraie”. In occasione di un incontro europeo a Berlino fecero una colletta per pagarle il viaggio ed essere rappresentate. Chiaravalle dunque, soprattutto, è la città della democrazia, della solidarietà e del lavoro femY minile.
dell’estrema destra in Olanda; senza contare che abbiamo già in Ungheria, in Slovacchia, in Polonia e in Romania, tendenze molto nette all’autoritarismo, all’innalzamento di barriere, alla negazione della libertà di stampa e dei diritti dell’opposizione. Tutto questo ci deve far riflettere, se è vero ciò che ha scritto, anni fa, un illustre storico francese (Pierre Milza), avvertendo che la situazione odierna è ricca di pericoli per ragioni economiche e sociali, per una progressiva decadenza della cultura, dell’uguaglianza, della solidarietà. E aggiungeva, che se è vero che il fascismo e il nazismo non si riprodurranno nella stessa forma, è anche vero che sarebbe follia rifiutare la lezione della storia, e dunque è necessario essere consapevoli che il peggio, se non è mai certo, non è neppure impossibile; donde la necessità di fare molta attenzione ai sintomi, per mettere in atto, in tempo utile gli continuA A pAginA 4 ➔
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Vite mai domate. La il fiore del partigiano
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Festa della Liberazione
ESTRATTI DAL LAVORO (LIBRO + 2 CD) A CURA DI ALESSANDRO PORTELLI CON
«Q
Un’intervista a Giovanna Marturano: le nozze a Vento
da il manifesto del 24 aprile 2016
uesta città ribelle e mai domata…». Il verso della canzone dei partigiani romani dà il titolo a un lavoro – due cd e un libro – che raccoglie un secolo di storie e canti antifascisti dall’archivio del Circolo Gianni Bosio, con la collaborazione del Museo della Liberazione di via Tasso, a Roma. I cd documentano un antifascismo cantato che non appartiene solo alla stagione della Resistenza, ma comincia prima dell’avvento del regime e continua oggi; e non appartiene solo all’Italia sopra la linea gotica, ma anche a Roma e al Lazio, all’Umbria, all’Abruzzo, alla Campania, alla Sardegna. E i testi del libro raccontano una Resistenza tutta al femminile: dodici storie di donne che hanno combattuto il fascismo in tutti i modi, dalla lotta armata alla resistenza senza armi, hanno conosciuto il carcere e il confino, hanno trasmesso la memoria (alcuni canti dei cd li ascoltiamo dalle voci di alcune di loro). Il genere femminile del titolo «mai domata» ribadisce che non si tratta di «contributo delle donne alla Resistenza», ma di una Resistenza delle donne, protagoniste.
Antifascisti ancora e sempre
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antidoti, assolutamente indispensabili soprattutto in periodi di crisi economiche e sociali e di declino morale. Tutto questo per dire che se non è mai stato semplice essere antifascisti, il problema, oggi, è più complesso, perché dobbiamo combattere non solo contro i nostalgici e i neo fascisti ma anche contro tendenze e pericoli sempre più diffusi e spesso meno avvertibili. Il che vuol dire che la battaglia va condotta su molti piani e che è un errore pensare che tutto si riduca al contrasto dei fenomeni più appariscenti, anche se sono quelli che ci colpiscono di più perché più visibili.
di
aleSSaNdro Portelli
Dall’intervista con la partigiana Giovanna Marturano Voi forse non sapete, come stavano i parenti, soprattutto la moglie, anche fresca sposa, a Ventotene. Allora: il confinato che riceveva dei parenti, lui doveva affittare una camera. Questa camera doveva essere esterna, doveva avere una finestra, con le grate. Perché la chiudevano a chiave la notte. Poi a intervalli regolari venivano con un bastone, (battevano) così su queste cancellate, ran dan dan dan. Poi avevano il diritto, il dovere, di vedere che facevano questi qua. Certo, per due sposi non era… Poi vedevano se le finestre, le barre, erano tagliate; a noi ci chiusero senza gabinetto, allora ’n ci avevamo manco il gabinetto. Però quello che ci affittava la casa quando ci ritiravamo ci teneva aperta la porta per andare al gabinetto. Contenti e imbrogliati. Questa è la cosa. Poi il giorno dopo le nozze Adele Bei ci fece gli gnocchi, non so come ha trovato la farina, perché non c’era niente, era in tempo di guerra. Ci fece degli gnocchi – così, tanto così. Dico: «Adele tu sei esagerata, che credi che siamo l’orco e la moglie dell’orco?». Ce li siamo mangiati tutti. Una fame tremenda, ma lo sai che a un certo punto sparirono i gatti delle compagne; gatti a Ventotene non c’erano più. Lepre in salmì. Anche i topi si mangiavano.
Le fave col baco. La seconda volta che andai, dopo sposata. Allora, ti piacciono le fave? Primo piatto: fave a minestra con due cannolicchi. Secondo piatto, fave col sugo. Terzo piatto, c’era il dolce – ci mettevano un po’ di cioccolato, quello che trovavano, e facevano un dolce. Solo fave, ed era una preparazione per quando la guerra noi abbiamo mangiato il prosciutto badogliano coi vermi. Ogni giorno, ogni volta che prendevo il prosciutto, levavo tutti i vermi, cuocevo la parte che dovevamo mangiare, e chiudendo gli occhi ce la mangiavamo. E, com’era buono, per carità. Naturalmente mio marito non li voleva vedere i vermi; la compagna dove eravamo nascosti neanche lei. Io ero più coraggiosa evidentemente, in questo senso, e allora mi chiudevo a chiave perché se no sbirciavano e non mangiavano più niente. Dico: «Ahò, volete spreca’?». Durante la Resistenza, durante il periodo clandestino, facevamo una vita terribile perché non avevamo il tempo di cucinare e c’era poco da mangiare. Allora si metteva in una stufa, si metteva questo pentolone, si gettava tutto quello che avevamo da mangiare per la giornata. Una volta mi ricordo che dividemmo un uovo in tre; io lo sbattei forte per farlo gonfiare e poi lo misi a cuocere, senza olio perché l’olio non si trovava, e gridavo: «Venite, venite a tavola, se no si sgonfia». Se avevamo un uovo era tanto, e anche un uovo in tre era tanto.
Allora, che fare? 1 - Far conoscere sempre di più e meglio che cosa è stato il fascismo e quali effetti ha prodotto e contemporaneamente quali sono i veri valori, cioè quelli della Costituzione. Ciò va fatto soprattutto nelle scuole, dove i giovani hanno bisogno di conoscere la storia e di riflettervi sopra, prima ancora di apprendere tante nozioni; perché queste ultime possono contribuire a realizzarsi professionalmente, sempre che il mercato e l’economia lo consentano; ma è la storia, è la memoria, è l’insieme dei princìpi della Costituzione conosciuti ed amati, che possono aiutare a diventare dei cittadini, per di più partecipi. 2 - Far conoscere, apprezzare e sentire come propri i valori di fondo della Carta (democrazia, libertà, uguaglianza, dignità, solidarietà). 3 - Contrastare tutti i fenomeni di neonazismo e neofascismo, smascherandone i falsi valori e dimostrando quanto sono ingannevoli le loro lusinghe, soprattutto ai giovani più facilmente
suggestionabili. Contrastare, prima di tutto sul piano culturale; poi cercando di capire perché questi movimenti riscuotono un certo successo proprio sui giovani; infine contrastare le manifestazioni, apparentemente solo nostalgiche, ma che in realtà sono significative sotto ben altri profili. Un contrasto, dunque, per il quale non è utile, non serve lo scontro diretto, come qualcuno vorrebbe, ma chiedendo prima di tutto alle Istituzione che facciano il loro dovere, neghino le piazze e le sale e non solo per motivi di ordine pubblico, ma perché sono costituzionalmente inaccettabili le manifestazioni che vi si propongono. Insomma bisogna chiedere che si tolga la possibilità di far comparire in giro per le strade i simboli che hanno sapore di morte come il saluto romano, l’esibizione delle svastiche; ricordando sempre che dietro l’apparente ridicolo c’è una storia di persecuzione e di distruzione. Bisogna anche cercare di coinvolgere nel rifiuto i Sindaci, a proposito dei quali voglio ricordare
Resistenza delle donne il fiore del partigiano
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ANTONIO PARISELLA
tene, un uovo diviso in tre. I canti antifascisti proibiti e pericolosi Da “Note sul canto antifascista” «I coniugi Ortenzi Giuseppe fu Bernardino e Cenci Maria Angela fu Tommaso, entrambi da Monterotondo ed ivi residenti, riferirono il 20 u.s. mese a quell’Arma come più volte e per ultimo durante tutta la giornata dal 18 – lavorando in una loro vigna – avessero udito la proprietaria di altro fondo attiguo Salvatelli Florinda fu Domenico e fu Sensi Carolina, nata anch’essa a Monterotondo il 18 marzo 1890 ed ivi residente cantare a squarciagola canzoni da essa improvvisate e adattate su motivi popolari contenenti invettive e minacce a S. E. il Primo Ministro (Benito Mussolini, nda). L’Arma esperì le indagini del caso e la Salvatelli – ricercata dai militari e trovata la sera del 21 u.s. – ribelle e mai domata. confermò, con ciniCanti e racconti smo, il fatto attridi antifascismo e resistenza, buitole, dichiarana cura di Alessandro Portelli do anche per iscritcon Antonio Parisella, to che simili canSquilibri editore. zoni – da essa stesIn alto a sinistra del titolo, sa inventate – ha Giovanna Marturano cantato in passato
il bellissimo intervento, all’Istituto Cervi, del Sindaco di Udine, che dichiarò di considerarsi al di sopra delle parti, come primo cittadino, ma di non poter essere neutrale quando si tratta di materia di Costituzione e di democrazia. Bisogna contattare anche i parlamentari, delle proprie sedi, chiedendo che facciano interrogazioni ed interpellanze, che mettano in movimento i disegni di legge da tempo pendenti in Parlamento, che rappresentino, al centro, quella volontà democratica che pervade largamente il popolo. Bisogna anche ricordare a Questori e Prefetti, che spesso dicono di non poter fare nulla perché non c’è una legge, che di leggi, oltre alla Costituzione, ce ne sono ben due, e il massimo organo giudiziario, cioè la Cassazione, ha dichiarato più volte operanti, confermando condanne per manifestazioni tipicamente fasciste. E bisogna ricordare che non è vero che tutto ciò che avviene sul web non è perseguibile per mancanza di un’adeguata legislazione, perché
quasi tutti i giorni ed è disposta a cantare sempre, in qualsiasi tempo e luogo». Luciana Romoli, antifascista romana, canta una popolare parodia comunista di Spartacus Picenus (T’amo con tutto il cuore / O rossa mia santissima bandiera), e racconta: «Mia madre, quando eravamo piccole, io sono la terza di dieci figli, mia madre cantava questa e cantava Addio Lugano bella, poi diceva: “Adesso che l’avete imparate non l’andate a canta’ de fòri se no ce fate arresta’ a tutti”. Questa quando ci addormentava – T’amo con tutto il cuore… – questa poi si canta lentamente, proprio lentamente. Mia madre la cantava lentamente». Durante il fascismo, come sappiamo da moltissimi esempi, questi canti sono proibiti e pericolosi. Ancora Luciana Romoli: «Mio zio Angelo (…) andava nelle osterie e quando andava all’osteria si metteva a canta’ le canzoni antifasciste. Cantava ’e parodie contro Mussolini; e quindi l’arrestarono». Nel 1939, cinque contadini di Monterotondo, sorpresi da un vicino a cantare l’Internazionale, furono spediti per due anni al confino. Se si canta, dunque, è bene non farsi sentire, cantare a voce bassa (l’errore dei cinque di Monterotondo e di Florinda Salvatelli è che cantavano “a voce piena”, “a squarciagola”), in casa («non
anche in questo caso – pur se sarebbe auspicabile una legislazione puntuale – la Corte di Cassazione non ha mancato di intervenire, come dimostra il noto caso di Stormfront, a Roma, uno dei siti più conosciuti e alla fine anche uno dei più condannati. E non sarebbe male insistere perché la polizia postale, che ha tutte le competenze necessarie, sia messa in condizione di operare con più intensità e con mezzi un po’ più sofisticati.
Comunicare e coinvolgere Certo, dopo o assieme a tutto questo, ci sono anche i presìdi. Si fanno normalmente, è bene farli perché si manifesti la voce dell’antifascismo, ma richiedono ormai un approfondimento e una riflessione. Perché se il presidio si limita alla presenza dei soliti convinti, in una piazza isolata, mentre la città e il Paese proseguono nell’intenso corso della loro vita, il presidio diviene insufficiente. Bisogna individuare modalità che lo facciano diventare strumento di
l’andate a canta’ de fòri», ammoniva la madre di Luciana Romoli alle figlie che la tradizione del canto sovversivo la succhiavano praticamente col latte materno), in luoghi rinchiusi come il carcere o il confino (dove Anna Menichetti impara dal padre le canzoni antifasciste e Mastrobbio si perfeziona nell’arte del violino), o che si credono protetti, come l’osteria o le scampagnate del Primo Maggio («cantavano Bandiera rossa in campagna, andavano in campagna e cantavano Bandiera rossa contro il fascio», ricorda Carolina Zancolla). È solo in queste circostanze eccezionali, fra l’altro, che è possibile cantare insieme e non da soli. Cantare da soli significa, infine, cantare per se stessi – ed è quello che fa Florinda Salvatelli, inventando canzoni, strofette e parodie che nesY suno deve sentire.
comunicazione, di informazione e di coinvolgimento nei confronti degli indifferenti e degli inerti. È un tema che affido volentieri alla riflessione di tutti, perché dobbiamo convincerci che da soli, quelli che pensano democraticamente non ce la possono fare, se non creano alleanze e se non convincono la maggioranza dei cittadini dei pericoli che si corrono e della necessità di contrastarli e prevederli. 4 - Ci sono, peraltro, azioni ancora più vaste per coinvolgere lo Stato in tutte le sue componenti e indurre le Istituzione ad assumersi le proprie responsabilità. Con la Presidente dell’Istituto Cervi, stiamo facendo il giro delle massime autorità lasciando documentazione sul fenomeno, oltre un quadro di proposte organiche e fattibili. Abbiamo incontrato il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, la Presidente della Camera; ora incontreremo il Presidente del Consiglio Gentiloni. continuA A pAginA 6 ➔
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Festa della Liberazione
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L
Paolo Berizzi, contro il fiore del partigiano
LA SUA DENUNCIA DELLA COMUNITÀ DO.RA. CHE CHIEDE LA MESSA FUORILEG
Sotto tiro il giornalista di “Repubblica”, autore di vari
da Patria Indipendente del 21 marzo 2017
a notizia è questa: agenti di polizia controlleranno l’abitazione di Paolo Berizzi e i luoghi che frequenterà il coraggioso giornalista di Repubblica che ha denunciato l’esistenza e l’attività del gruppo neonazista di Varese Do.Ra. e che sul medesimo tema ha scritto su questo periodico (http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/il-nazista-della-porta-accanto/). In merito, il segretario generale e il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, hanno dichiarato: «Dopo aver più volte minacciato il collega per le sue inchieste sull’attività dei gruppi neonazisti in alcune zone della Lombardia, i componenti di una formazione che si ispira ad Adolf Hitler hanno preso di mira l’auto di Paolo Berizzi, incidendo sulla carrozzeria una svastica e altri simboli del nazismo. Ce n’è abbastanza perché il ministero dell’Interno adotti i provvedimenti previsti dalla legge, disponendo lo scioglimento del suddetto gruppo neonazista. Al collega Paolo Berizzi, la solidarietà della Fnsi, nella convinzione che quanto accaduto non gli impedirà di proseguire nella attività di inchiesta e di denuncia condotta fino ad oggi». Su Repubblica è stato pubblicato il seguente comunicato: «Il CdR e la redazione di Repubblica sono al fianco del collega Paolo Be-
Antifascisti ancora e sempre
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A tutti chiediamo di intervenire, ognuno nel proprio campo, di rispondere alle interpellanze, di far camminare i disegni di legge sulla vendita di gadget fascisti, sul regime di disponibilità delle piazze e sulla inammissibilità di liste elettorali manifestamente fasciste. Ma chiediamo anche di sentire pronunciare la parola antifascismo, nei discorsi pubblici, di dimostrare più attenzione rispetto alla Costituzione, realizzando così un esempio e una linea di orientamento per i cittadini. Adesso, sulla base della ricerca effettuata dal gruppo di lavoro e pubblicata su Patria Indipendente online, che dimostra tangibilmente
rizzi, per il quale il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica ha disposto una misura di sicurezza e di vigilanza, in seguito alle ripetute minacce ricevute via web da gruppi di estrema destra e frange neonaziste, culminato poche sera fa con un grave atto intimidatorio. Paolo, da anni, con servizi e inchieste si occupa e racconta l’estremismo politico di destra con le sue derivazioni xenofobe e violente; non si è mai fermato di fronte alle minacce, così come siamo certi che non si fermerà ora. La redazione tutta è solidale con Paolo e fa sapere che non saranno volgari e vigliacche provocazioni a impedire il nostro lavoro giornalistico». Ma cosa è successo in concreto a Paolo? Ce lo racconta lui stesso in diretta per telefono: «L’ultima novità è stata trovare sulla carrozzeria della mia auto, parcheggiata sotto casa, queste “incisioni”: una croce, una svastica, il simbolo delle SS. In realtà tutto è iniziato nel 2013, con uno striscione presso il Forum di Assago con la scritta “Berizzi infame”, poi successivamente un nuovo striscione con un’altra scritta più o meno con queste parole: “Berizzi informatore prezzolato”. Più recentemente, con insospettato senso dell’humor, l’ennesimo striscione: “Berizzi, la tua parola vale quanto il tuo giornale: 1.50 euro”. Tutto con ripetute minacce di morte sui social». Si ricorderà, a proposito dei muscolosi e tatuati individui del gruppo neonazista Do.Ra. ciò che proprio Paolo ha scritto sulle pagine di questo giornale, e cioè che costoro hanno
minaccioso - Un energumeno del gruppo neonazista Do.Ra. col fascio littorio tatuato. In alto, Paolo Berizzi
promosso «una petizione per chiedere la messa al bando dell’ANPI e un processo per crimini di guerra per tutti i partigiani ancora in vita». Non si tratta solo di grottesco folklore. C’è una zona grigia (anzi, per la precisione, nerissima) che riguarda gli ultras del basket e del calcio di Varese, ma che vale in realtà per tutto il Paese, ove convergono storie di curve da stadio, simboli runici, teste rasate, saluti nazisti, cori razzisti. O peggio. Un melmoso sottofondo-bassofondo in cui la delinquenza politica si mescola alla criminalità comune, dando vita ad un composto instabile ed altamente pericoloso. Il tutto, in conclamato, palese ed intollerabile contrasto non solo con le leggi dello Stato (la legge Scelba e la legge Mancino, oltre che – più banalmente – il Co-
che sul web si muovono circa 400 associazioni o organismi che predicano fascismo, razzismo e odio, chiediamo che si intervenga con vigore, con leggi e strumenti adeguati contro uno strumento che è enormemente diffusivo e che è visto anche da moltissimi giovani; il tutto, da fare con saggezza e rispetto della Costituzione, per non togliere libertà e privacy al cittadino. Questo lavoro non può essere fatto solo ai vertici; bisogna che esso sia compiuto anche nei singoli luoghi e da parte delle singole strutture organizzative, perché lo Stato non è solo a Roma, ma è dovunque c’è una sua rappresentanza; sia che si tratti di una rappresentanza istituzionale in senso stretto, sia che si tratti del sistema delle autonomie, che è pur sempre – lo dice l’art. 5 della Costituzione – Stato. 5 - Dobbiamo essere anche convinti che tutto ciò non basta se non affrontiamo il problema anche a livello europeo, dove il neonazismo è abbastanza diffuso e dove qualche neonazista occupa anche posti di governo, e dove poi c’è
molto autoritarismo, nei Paesi che ho già ricordato. Dove circola una mentalità pericolosa, se è vero che c’è ancora chi auspica l’ingresso nell’Unione Europea della Turchia, dove si consumano quotidianamente autoritarismo e negazione della libertà, vale a dire una delle moderne forme di fascismo. Stiamo cercando di potenziare la Federazione Internazionale dei Resistenti e degli antifascisti e di collegarla ad altre forme di associazionismo che ci sono in Italia e in Europa; nonostante le difficoltà. Per un’Europa più democratica e sociale E non basta ancora, se non si riesce a colpire il terreno favorevole per questi indirizzi che è dato dalle perduranti crisi economiche, dal predominio dell’economia sul diritto, dal predominio dei poteri forti, dalle crescenti disuguaglianze. Bisogna quindi condurre una battaglia con grande impegno perché l’Europa non sia solo unita ma anche democratica e so-
i nazifascisti senza paura il fiore del partigiano
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GE DELL’ANPI
articoli sul fenomeno neonazista in particolare nel Varesotto dice Penale) ma anche con lo spirito e la lettera della Costituzione. È palese a tutti che gli effetti della difficile situazione del Paese (e dell’intera Europa) agevolano il proliferarsi, nelle forme più disparate, di queste formazioni politiche, pseudopolitiche o teppistico-politiche. A Paolo va ovviamente la piena e incondizionata solidarietà della redazione di Patria indipendente. «Appassionata solidarietà» al collega e amico Paolo Berizzi, resa nota sul suo profilo FB, anche da parte di Andrea Liparoto, componente della Segreteria nazionale ANPI con delega alla comunicazione e stampa. Ma non ci si può fermare qui. Se si è deciso di assumere misure di tutela nei confronti della persona fisica di Paolo Berizzi, vuol dire che si è pienamente consapevoli di una potenziale minaccia alla sua incolumità e – date la sua attività professionale e le caratteristiche delle intimidazioni – dell’origine di tale minaccia. Hanno dunque clamorosamente ragione (per chi non se ne fosse ancora accorto) l’ANPI nazionale e Patria indipendente a denunciare la gravità della diffusione delle organizzazioni neofasciste e neonaziste e dei loro comportamenti, sia sul terreno virtuale – le migliaia di pagine sui socialnetwork che inneggiano a Hitler, Mussolini e compagnia cantante (vedi http://www.patriaindipendente.it/persone-eluoghi/inchieste/facebook-ancora-sulla-galassia-nera/) –, sia sul terreno reale, ove minacce, aggressioni, intimidazioni e porcherie di ogni genere da parte degli squadristi del terzo millennio hanno assunto un ritmo ed un’intensità
prattutto sociale. E bisogna riportare in Europa parole che sembrano dimenticate come libertà, uguaglianza e dignità. Sappiamo che il fenomeno delle grandi migrazioni favorisce oggettivamente l’insorgere dei nazionalismi e dei razzismi; ma bisogna riuscire a dimostrare che si tratta di un fenomeno inarrestabile, che va in qualche modo regolato, nel più assoluto e totale rispetto dei diritti umani. Concludendo, ci aspettano compiti sempre più vasti. Noi stiamo lavorando ad un incontro nazionale su questi temi, in cui approfondire, con altre forze democratiche, tutte le problematiche cui ho accennato, cercando di coinvolgere in questo dibattito anche le Istituzioni. Siamo impegnati in un discorso contro l’antipolitica, che finisce per giovare solo ai populisti, ma nel contempo operando per la rigenerazione della politica perché anche questo è un campo in cui si combatte una battaglia politica ed antifascista. Se la situazione attuale induce, come rivela un
impressionante. Da molto tempo l’ANPI nazionale ha posto ai massimi vertici della Repubblica questo tema: come operare perché lo Stato sia pienamente antifascista. Dopo la vicenda Berizzi, che mette a nudo il tentativo di condizionare violentemente la libertà d’informazione, è giunto il momento di avere delle risposte chiare e distinte: bene le misure di sicurezza; si tratta di un provvedimento necessario e urgente, ma parziale. Il tema è tutto politico e giuridico. È lo Stato che deve intervenire non solo operando ad personam, come peraltro doveroso, non solo attrezzandosi subito per stroncare il crescente squadrismo di queste “associazioni”, ma anche per far sì che ogni sua articolazione – dalla magistratura, alle forze dell’ordine, alla scuola – operi perché crescano la consapevolezza antifascista e le buone pratiche conseguenti. Per dirla col documento approvato in merito dall’ANPI nazionale e dall’Istituto Cervi, «si ritiene necessario che lo Stato assuma, nel suo complesso ed in tutti i comportamenti dei suoi esponenti, un atteggiamento più nettamente e dichiaratamente “antifascista”, nel presupposto che a contraddistinguere il nostro sistema come “antifascista” non è soltanto la XII disposizione transitoria, ma tutta la Costituzione, per il netto contrasto tra i princìpi e valori che essa esprime
recente sondaggio, molti ad auspicare l’uomo forte, questo è un segnale che va colto e che deve indurci ad impegnarci proprio per eliminare le ragioni per le quali possono manifestarsi simili tendenze proprio nel momento in cui di uomini forti dall’America in giù ce ne sono già fin troppi. Dunque si tratta di un impegno politico serio anche per favorire dei cambiamenti della società, che vadano appunto nella direzione opposta a quella temuta, favorendo invece ogni forma di intensa partecipazione dei cittadini.
Il nostro impegno, debito coi liberatori Questi sono i compiti fondamentali dell’ANPI in questa fase, insieme – come ho detto – alla difesa della Costituzione e alla diffusione delle sua conoscenza e alla pretesa della attuazione della stessa. A chi dubita che questi siano compiti che spettano all’ANPI dobbiamo rispondere che così come non ci sarebbe stata memoria se non
ed ogni tipo di fascismo, di autoritarismo, di razzismo, di populismo. Non si tratta solo di aspetti formali, ma del “segno” che da parte delle pubbliche Autorità deve essere dato, nella citata direzione, a tutte le iniziative ed a tutti i comportamenti di qualsiasi organo dello Stato». A questo punto ci si aspetta un intervento serio e programmato che colpisca alla radice gli Hitler e i Mussolini su scala tatuata e ponga le basi per una profonda riforma democratica dello Stato. Ce lo conferma proprio Paolo Berizzi, quando ci dice, scandendo le parole: «Le provocazioni e le minacce a cui sono sottoposto mi fanno raddoppiare l’impegno su questi temi. Il fatto che nel 2017 nel nostro Paese ci siano ancora gruppi nazisti è una vergogna nazionale. La politica, le istituzioni, la magistratura non Y possono più fare finta di niente».
l’avessimo sostenuta per settanta anni, così non ci sarebbe antifascismo se non fossimo in testa ad un movimento democratico ed antifascista fondato su valori della Costituzione. Noi siamo, lo hanno detto una serie di tribunali, lo ha detto anche la Corte di Cassazione, gli eredi e i successori a titolo universale dei combattenti per la libertà. E allora dobbiamo riflettere sul fatto di come i sogni dei combattenti di allora rischiano di essere vanificati proprio da queste ondate di autoritarismo e fascismo, in qualunque forma si presenti. Ed è quindi un impegno forte che dobbiamo assumere, perché lo dobbiamo a loro, a quelli che hanno combattuto e si sono sacrificati per noi. Lo hanno fatto per cacciare tedeschi e fascisti, ma lo hanno fatto anche soprattutto per portare libertà, giustizia e democrazia nel nostro Paese. Noi siamo tenuti a realizzare fino in fondo le loro attese spezzate. Y Carlo Smuraglia Presidente Nazionale ANPI
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Le bufale sul fascismo il fiore del partigiano
PRONTUARIO CONTRO LE LEGGENDE CHE CIRCOLANO SULLA RETE DEL WEB (1a PUNTATA)
la Storia - le idee
«Mussolini fu un dittatore buono» dissero Dell’Utri e Berlusconi
da ceifan.org Centro di Indagine sui Fenomeni Anomali diretto dal Servizio Antibufala
P
È da molto tempo che circolano su internet bufale sul fascismo e su Mussolini, spesso strumentalizzate a fini politici o di riabilitazione del fascismo, che vengono condivise da molte persone ignare della loro attendibilità. Qui di seguito verranno riportati alcuni miti su Mussolini.
er ben inquadrare il periodo storico, ricordiamo che Benito Mussolini governò l’Italia dal 28 ottobre 1922 alla fine del fascismo con la seconda guerra mondiale, finendo per essere giustiziato dagli italiani il 28 aprile 1945 (data che coincide con la fine di quello che restava del fascismo). Invece, per inquadrare bene Mussolini ed il fascismo, ecco spiegato in breve i suoi doni all’Italia.
Squadrismo e violenza politica Fra le attività “qualificanti” del fascismo del primo periodo vi è il sistematico ricorso alla violenza contro gli avversari politici, le loro sedi e le loro organizzazioni, da parte di bravacci legati ai ras locali. Torture, olio di ricino, umiliazioni, manganellate. Non di rado, perdipiù, gli oppositori perdevano la vita a seguito delle violenze. Un calcolo approssimativo induce a calcolare in circa 500 i morti causati dalle spedizioni punitive fasciste fra il 1919 e il 1922. Il parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni, fu assassinato in un agguato da due uomini di Balbo, nell’agosto del 1923. Ma anche quando il fenomeno della violenza squadrista sembrò perdere le proprie caratteristiche originarie, e gli uomini legati ai ras locali vennero convogliati in organizzazioni ufficiali come la Milizia volontaria, forme di violenza politica sostanzialmente analoghe allo squadrismo non cessarono di costellare la vicenda del fascismo al potere. Per tutti, tre casi notissimi: nel giugno 1924 Giacomo Matteotti venne rapito e assassinato con metodo squadrista, e il gesto sarebbe stato esplicitamente rivendicato da Mussolini nel gennaio dell’anno successivo; Piero Gobetti, minato dall’aggressione subita nel settembre 1924, morì due anni dopo, in esilio; Giovanni Amendola spirò per le ferite riportate in un’aggressione fascista subita nel luglio 1925.
La repressione - dagli omicidi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato Assunto il potere, Mussolini si poté giovare dell’apparato di repressione dello Stato. Che venne rafforzato e riorganizzato. Con la nascita dell’OVRA (l’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo) venne razionalizzata la persecuzione degli antifascisti, con tutti i mezzi, legali e illegali. Anche l’omicidio politico in paese straniero. Arturo Bocchini, capo della polizia, venne incaricato dallo stesso Duce e dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano di eliminare fisicamente Carlo Rosselli che allora risiedeva a Parigi. Il 9 giugno 1937, a Bagnoles-de-l’Orne dove Carlo Rosselli e il fratello Nello si erano recati per trascorrere il fine settimana, un commando di cagoulards (gli avanguardisti francesi) compì la missione: bloccata l’auto sulla quale viaggiavano i due fratelli, Carlo e Nello furono prima pestati, poi, accoltellati a morte. Lo strumento ufficiale della repressione fascista fu invece il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. L’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, il 31 ottobre 1926, offrì l’occasione di una serie di misure repressive. Tra queste la «legge per la difesa dello Stato», n. 2008 del 25 novembre 1926, che stabilì, tra l’altro, la pena di morte per chi anche solo ipotizzava un attentato alla vita del re o del capo del governo. A giudicare i reati in essa previsti, la nuova normativa istituì il Tribunale speciale, via via prorogato fino al luglio 1943, quindi ricostituito nel gennaio 1944, nella Rsi. Nel corso della sua attività, emise 5619 sentenze e 4596 condanne. Tra i condannati anche 122 donne e 697 minori. Le condanne a morte furono 42, delle quali 31 furono eseguite mentre furono 27.735 gli anni di carcere. Tra i suoi ‘beneficati’, ci furono Antonio Gramsci, che morì in carcere nel 1938, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini e Michele Schirru, fucilato nel 1931 solo per avere espresso «l’intenzione di uccidere il capo del governo».
Il confino Il confino di polizia in zone disagiate della Penisola, fu una misura usata con straordinaria larghezza. Il regio decreto 6 novembre 1926 n.1848 stabilì che fosse applicabile a chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine statale o per l’ordine pubblico. A un mese dall’entrata in vigore della legge le persone confinate erano già 600, a fine 1926, oltre 900, tutte in isolette del Mediterraneo o in sperduti villaggi dell’Italia meridionale. A finire al confino furono importanti nomi della futura classe dirigente:
da Pavese a Gramsci, da Parri a Di Vittorio, a Spinelli. Gli inviati al confino furono, complessivamente, oltre 15.000. Ben 177 antifascisti morirono durante il soggiorno coatto.
Deportazione La politica antiebraica del regime fascista culminò nelle leggi razziali del 1938. Alla persecuzione dei diritti subentrò, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, anche la persecuzione delle vite. La prima retata attuata risale al 16 ottobre 1943 a Roma; degli oltre 1250 ebrei arrestati in quell’occasione, più di 1000 finirono ad Auschwitz, e di essi solo 17 erano ancora vivi al termine del conflitto. Il Manifesto programmatico di Verona (14 novembre 1943) sancì che gli ebrei erano stranieri e appartenevano a “nazionalità nemica”. Di lì a poco un ordine di arresto ne stabilì il sequestro dei beni e l’internamento, in attesa della deportazione in Germania. Nelle spire della “soluzione finale” hitleriana il regime fascista gettò, nel complesso, circa 10.000 ebrei. Oltre alla deportazione razziale, fra le responsabilità del regime di Mussolini c’è anche la deportazione degli oppositori politici e di centinaia di migliaia di soldati che, dopo l’8 settembre, preferirono rischiare la vita nei campi di concentramento in Germania piuttosto che aderire alla Rsi.
La guerra Fuori dai confini i morti contano meno? Allora non si possono proprio considerare tali gli etiopi uccisi con il gas durante la guerra per l’Impero, o i libici torturati e impiccati durante le repressioni degli anni Venti e Trenta, o gli jugoslavi uccisi nei campi di concentramento italiani in Croazia. Ma la spada di Mussolini provocò tanti morti anche tra i suoi connazionali. Mussolini trascinò in guerra l’Italia il 10 giugno del 1940, per partecipare al banchetto nazista. I risultati, per l’Italia, furono questi. Fino al 1943, 194.000 militari e 3.208 civili caduti sui fronti di guerra, oltre a 3.066 militari e 25.000 civili morti sotto i bombardamenti alleati.Dopo l’armistizio, 17.488 militari e 37.288 civili caduti in attività partigiana in Italia, 9.249 militari morti in attività partigiana all’estero, 1.478 militari e 23.446 civili morti fra i deportati in Germania, 41.432 militari morti fra le truppe internate in Germania, 5.927 militari caduti al fianco degli Alleati, 38.939 civili morti sotto i bombardamenti, 13.000 militari e 2.500 civili morti nelle file della Rsi. A questi vanno aggiunti circa 320.000 militari feriti sui vari fronti per l’intero periodo bellico 1940/1945 e circa 621.000 militari fatti prigionieri dalle forze anglo-americane sui vari fronti Y durante il periodo 1940/1943. continuA nel prossimo numero ➔
25 aprile: festa di primavera della democrazia il fiore del partigiano
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aprile 2017
Festa della Liberazione
UNA CONQUISTA CHE NON È MAI PER SEMPRE
S di
FraNCo SalamiNi*
ono passati ormai 72 anni da quel 25 aprile del 1945, data simbolo della Liberazione del nostro Paese dal nazifascismo. Il governo Mussolini però venne destituito due anni prima; un governo che si era caratterizzato come una dittatura feroce, fautrice di una guerra che avrebbe dovuto portare gloria e ricchezza ed invece consegnò un Paese alla sconfitta, alla morte, alla fame, alla miseria. Quelle istituzioni che si erano dichiarate invincibili si dimostrarono per quello che erano: una farsa. E poi fu l’8 settembre con l’ignobile fuga del re e dello Stato Maggiore dell’esercito italiano, lasciato allo sbando. Nasceva la Resistenza armata contro le truppe di invasione tedesche, sostenute dai fascisti, mentre nell’Italia meridionale avanzavano le truppe alleate. La guerra continuava, seminava lutti, le città erano bombardate dalle truppe alleate, l’esercito nazista seminava morte e terrore. Il 25 aprile simbolicamente fu la fine di tutto questo, anche se la Storia non ha mai quelle linee nette come noi la raccontiamo. Il 25 è una data indicativa, in alcune parti del Paese la liberazione avvenne prima, in altre dopo. E nelle stesse città, se in un luogo si acclamavano le unità partigiane e gli alleati che venivano a liberare, in un altro ancora si sparava sui tedeschi in fuga.
Se ci soffermiamo sulle immagini d’epoca, sulle foto, sui filmati in bianco e nero, l’immagine è quella di una grande gioia, masse di cittadini allegri che applaudono le truppe liberatrici. Camion carichi di partigiani dall’abbigliamento improvvisato, tanti giovani felici, uno sguardo fiducioso sul domani. Ognuno poi il domani se lo immaginava secondo i propri ideali, la propria ideologia, le proprie speranze, forse illusioni. La certezza era che comunque sarebbe stato meglio, niente più sirene durante la notte per avvertire di un imminente bombardamento, niente più fughe precipitose al buio nei rifugi. Non più la fame, la paura, la distruzione. Si sarebbe assaporato il profumo ed il sapore del pane. Le famiglie si ricongiungevano, si poteva pensare ad un futuro lavoro, agli affetti, mettendo da parte durezza e privazioni di quei mesi trascorsi in montagna. Non più il nemico da combattere e da cui difendersi. La gioia che porta la pace dopo anni di guerra.
Certo negli anni successivi molte di quelle speranze sono andate deluse. La Storia ha preso una piega diversa da quella per cui avevano combattuto i molti che erano saliti in montagna o i Gappisti che erano rimasti in città. Le immagini di quel giorno comunque ci fissano e ci rimandano al momento della gioia, della festa della Liberazione, festa di aprile, festa di primavera. La natura si risveglia dal torpore dell’inverno, irrompono i colori e i profumi, quasi a fondere le vicende umane con le stagioni della terra. Un’allegoria che vede il ritorno alla vita di un popolo dopo tanta morte, come il fulgore della primavera che è simbolo di rinascita. Credo sia giusto recuperare, valorizzare la dimensione della festa e sarebbe già sufficiente per giustificare il perché ogni anno onoriamo quella data. Fu la Liberazione, da lì nasce la nostra democrazia, la Repubblica. L’eredità dell’esperienza della guerra partigiana è la nostra Costituzione.
Il 25 aprile è la data fondativa di un Paese che riconquista la libertà nella democrazia ed incomincia a scrivere il proprio futuro. A voler dare sfoggio di saggezza, riflettendo su quella data, possiamo ricevere insegnamenti che valgono anche per l’oggi. Diffidare dell’uomo solo al comando, del capopopolo che arringa le folle plaudenti. Le guerre non le vince nessuno, sono solo veicolo di morte e sofferenza. Non esistono soluzioni miracolistiche dell’unto del Signore di turno che con ricette semplicistiche promette di risolvere problemi complessi. L’informazione, quando è propaganda, non aiuta a crescere, a fare conoscenza e più i mezzi sono sofisticati e più bisogna diffidare. Si deve avere il coraggio di opporsi al pensiero unico con la capacità di formarsene uno proprio. La delega non è mai in bianco, ma bisogna essere attenti, vigili e partecipare. Un popolo diventa adulto se ognuno si assume le proprie responsabilità, se ognuno fa la propria parte, se si interessa, si informa e si fa protagonista, rifiutando “il menefrego”. Una comunità è tale se non è ognuno per sé e contro tutti, ma si riconosce nelle regole di convivenza civile, nei principi e nei valori contenuti nella Costituzione; senza una comunità solidale è la barbarie. L’elenco potrebbe dilungarsi e diventare anche un po’ noioso e saccente. Oggi è il 25 aprile giorno di festa, festa della Liberazione, festa di primavera. La Storia ci insegna però che non è mai una volta per sempre, che non basta ricordarsene una volta all’anno, ma, come fu nella Resistenza, ogni giorno dobbiamo fare la noY stra parte.
*ANPI di Cernusco s/N sezione Riboldi-Mattavelli
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aprile 2017
il fiore del partigiano
In festa sui pedali
Festa della Liberazione
TORNIAMO IN BICICLETTA PER CELEBRARE I MARTIRI ANTIFASCISTI
Domenica 23 aprile ci ritroviamo da tutta la Zona Fiume Adda, in bicicletta come gli anni scorsi. Sarà il nostro modo di festeggiare la Liberazione e ribadire che le conquiste democratiche vanno difese e rafforzate anche oggi, sempre. Molte le iniziative che in ogni paese le nostre sezioni hanno preparato in ricordo dei partigiani e in difesa del bene supremo della Libertà, da loro riconquistato per tutti
Basiano e Masate
L’Assessorato alla Cultura dell’Unione Lombarda dei Comuni di Basiano e Masate, in collaborazione con l’ANPI - Sezione “G. Alberganti” Basiano-Masate, organizza, in occasione delle celebrazioni per il 72° anniversario della Festa della Liberazione
• Sabato 22 aprile, ore 10.30 Piazza della Repubblica - Masate Deposizione della corona d’alloro al cippo commemorativo concerto del Corpo bandistico di Burago Molgora, Saluto del sindaco di Masate e intervento di Antonia Bini, Presidente Sezione ANPI Basiano-Masate.
Per sabato 27 maggio l’ANPI organizzerà una grande giornata dell’antifascismo. Seguite le iniziative delle nostre sezioni, partecipate e informate
Bellinzago
La sezione “25 aprile” dell’ANPI, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Bellinzago Lombardo invita alle iniziative per il 72° anniversario della Liberazione
• Martedì 25 aprile, ore 10.30 Ritrovo presso il Comune Interventi, alzabandiera e deposizione di una corona d’alloro ore 14.00 Ritrovo alla stazione MM di Gessate
Bussero
per la manifestazione di Milano. La sezione “Angelo Barzago” dell’ANPI, il Circolo Familiare Angelo Barzago, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Bussero invitano alle iniziative per il 72° anniversario della Liberazione • Venerdì 21 aprile, Incontro con i ragazzi di terza media, sui valori della democrazia. continuA A pAginA 12 ➔
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il fiore del partigiano
Il sindaco, come al bar, insulta per schermare l’indifendibile
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Festa della Liberazione
INZAGO - ANPI E AMMINISTRAZIONE COMUNALE SEPARATI ALLA FESTA DEL 25 APRILE
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acciamo chiarezza, partendo dall’inizio. A Inzago la giunta di centrodestra che governa il Comune dallo scorso giugno ha modificato il Regolamento di Polizia Urbana per limitare l’esposizione di manifesti, striscioni e cartelli in piazza Maggiore, minacciando multe salatissime ai trasgressori. Il provvedimento ha creato grande stupore: in giunta governa anche la Lega Nord, che il materiale oggi incriminato lo ha sempre usato in abbondanza, (v. box sotto). Le reazioni di partiti e associazioni che con la maggioranza comunale hanno motivo di contrasto non si è fatta attendere. Manifesti del Prc e dell’ANPI hanno denunciato il carattere palesemente strumentale del provvedimento. In particolare, la nostra associazione ha ricordato in un suo comunicato l’articolo 21 della Costituzione che recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». «Il sindaco se ne è completamente dimenticato, facendo votare una delibera in cui viene vietata l’installa-
zione provvisoria di manifesti in piazza Maggiore. – si legge nel testo – Pensiamo che non si voglia dare voce a chi non la pensa esattamente come questa maggioranza. Non possiamo, come ANPI, tollerare questo modo di agire, perché la nostra ragione d’essere è la libertà di parola, di pensiero, di espressione. I nostri padri e nonni hanno combattuto e sono morti per questi ideali». La serata del Consiglio comunale che ha visto la presentazione della delibera, è stata piuttosto vivace. Il sindaco Andrea Fumagalli ha motivato il provvedimento facendo richiamo al decoro: «Si possono usare strumenti diversi per comunicare, perché il “salotto di Inzago”, cioè la piazza, merita maggiore rispetto e l’esposizione di quei manifesti è oltraggio al decoro. A me non interessa quale sia il soggetto: ANPI, Rifondazione o altri…» e più avanti: «Per me Rifondazione è come il nazismo, il comunismo è come il nazismo e quando vedo i cartelli di Rifondazione mi vengono i conati di vomito.» La nostra presidente Rita Catanzariti, presente tra il pubblico, ha risposto:
«La dica da un’altra parte, la sua idea, non in Consiglio!». Forse al signor Sindaco e alla sua maggioranza, in effetti, gioverebbe un buon ripasso della Storia del Novecento. Quantomeno, in mancanza di conoscenza del movimento di Liberazione del nostro Paese, del ruolo che vi ebbero le formazioni partigiane, comprese quelle comuniste e del carattere delle attuali forze politiche e dei valori a cui si ispirano, gli esponenti della maggioranza dovrebbero astenersi dall’esprimersi in veste ufficiale e in sede istituzionale con linguaggio da bar. Se il signor Sindaco nutre, come dice, sentimenti di avversione per il nazismo si preoccupi semmai di cosa va propugnando il partito suo più stretto alleato: quella Lega Nord che incita all’odio xenofobo, che dell’ideologia nazista è il fondamento. Soprattutto, si imponga moderazione e coerenza. L’episodio della sede della nostra sezione e ora questo dell’ordinanza sui cartelli non lo fanno risplendere di buona luce. Affrontare continuA A pAginA 14 ➔
Il decoro urbano visto con la trave nell’occhio
INZAGO - L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE VUOLE LIMITARE LE COMUNICAZIONI IN PIAZZA
D
i Inzago, piazza Maggiore è il centro topografico e sociale. Qui si passa, ci s’incontra, ci si ferma per un caffè, per parlare, per discutere. Magari davanti ai manifesti esposti, di preferenza a fine settimana, da associazioni e partiti. Ora una modifica al regolamento di polizia urbana, concepito dalla giunta di centrodestra, vorrebbe restringere la possibilità d’espressione tramite l’uso dei manifesti, limitandola agli spazi offerti dai due “funghi” installati a due angoli della piazza. Il motivo ispiratore, che sarebbe quello del decoro, minato dalle installazioni mobili incriminate, ha letteralmente dell’incredibile. Non si può che essere d’accordo con le lodevoli attenzioni per la “pulizia” dell’immagine del paese e delle sue strade che il sindaco e la sua giunta hanno espresso fin dalla campagna elettorale. Però ci permettiamo di raccomandare coerenza e limpidezza di comportamento a chi gestisce la cosa pubblica. Ad esempio, che autorevolezza e credibilità può avere nel chiedere pulizia “del salotto del paese” chi per anni lo ha inondato col proprio materiale propagandistico (compresi i pannelli dei “funghi”), usando disinvoltamente come supporto perfino la segnaletica stradale? Su queste illegalità, il vicesindaco Giuliani non se la può cavare facendo spallucce e scaricando su “qualche ragazzino” la colpa. Di simboli leghisti sono ricoperti, da molti anni, parecchi pannelli stradali, in paese e alle sue entrate. In dieci mesi di responsabilità amministrativa il novello paladino della pulizia del borgo non ha trovato il tempo e la voglia di rimuovere quegli imbrattamenti. O, magari, di quelli non se ne fa un problema. Così, però, lascia aperto il dubbio che stia usando, lui e la sua amministrazione, un doppio peso a sfavore di chi manifesta opinioni diverse dalla maggioranza che governa il municipio. Allora ci permettiamo un invito — a chi di rispetto delle tradizioni cristiane ama infarcire la propria propaganda — a rileggere i Sacri Vangeli, iniziando dalla parabola del fariseo e del pubblicano (Luca 18,9-14): “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” Y
QuaNdo “deCorare” Si Può - Sopra: in via Roma. Sotto: all’ingresso del paese sulla Padana Superiore, venendo da Cassano d’Adda (sCatti del 31 marzo 2017)
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aprile 2017
il fiore del partigiano le manifestazioni in programma per celebrare il 72° della Liberazione
Festa della Liberazione
➔ segue dA pAginA 10
• Martedì 25 aprile, ore 10.30 Ritrovo presso il Comune, davanti alla lapide commemorativa di Barzago; Corteo per le vie del centro fino al monumento ai caduti in piazza Vittorio Emanuele, con brevi interventi del Presidente del Circolo e del Presidente della locale sezione ANPI e discorso conclusivo del Sindaco.
• Mercoledì 19 aprile, ore 21.00 Biblioteca Civica in via Fatebenefratelli, sala Camerani Primo Levi (1919-1987) - L’uomo, l’intellettuale, il testimone La tregua... fragile: dall’Europa che sognavamo a oggi Intervengono: Elefteria Morosini, insegnante ITSOS Marie Curie di Cernusco, formatrice ANFIS e autrice di testi per la scuola, Daniela Vignati, ricercatrice di Storia delle relazioni internazionali, Università Statale di Milano.
Cassano d’Adda
L’ANPI e il Comune di Cassano d’Adda invitano tutta la cittadinanza a partecipare alle iniziative nell’ambito del 72° anniversario della Liberazione
• Venerdì 21 aprile IPSIA E. Majorana di Cernusco sul Naviglio Laboratorio sul fumetto Pietro Scarnera, autore del libro Una stella tranquilla, disegna per i ragazzi il suo Primo Levi
• dal 25 marzo al 25 aprile presso il corridoio della Biblioteca comunale A. Sciondi in via Dante Alighieri 4, Esposizione di documenti e materiale iconografico in occasione dell’80° anniversario della guerra civile spagnola, che vide la partecipazione di un cassanese. (v. articolo a pag. 17)
ore 21 Villa Fiorita, via Miglioli incontro con Pietro Scarnera, autore del fumetto su Primo Levi Una stella tranquilla
• Venerdì 21 aprile ore 20.45 presso l’auditorium della Biblioteca comunale A. Sciondi in via Dante Alighieri 4 concerto con letture e immagini del coro ANPI di Cassano, Note di Libertà: ’900: dai canti di protesta e del lavoro, ai canti partigiani Festa della Liberazione
• Lunedì 24 aprile ore 16.00 Parco Giovanni Vanoli, via Buonarroti Coloriamo la Liberazione Laboratorio per bambini dai 4 anni a cura di Bau Atelier
• Martedì 25 aprile, ore 09.00 S. Messa nella chiesa di S. Zeno
dove si terrano le orazioni ufficiali.
ore 10.15 Corteo al cimitero di Cassano d’Adda
L’ANPI di Cernusco sul Naviglio, sezione “Riboldi-Mattavelli” e il Comune ricordano
ore 09.45, piazza Matteotti Concentramento, corteo e alzabandiera in Piazza Garibaldi.
Cernusco
Cassano d’Adda ha celebrato i suoi cinque martiri e Fausto e Jaio
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omenica 26 marzo, mattina, come ogni anno si è tenuta la commemorazione dei cinque martiri cassanesi, che ha visto una buona partecipazione nonostante la pioggia. Erano presenti oltre 12 sezioni ANPI della zona Adda-Martesana, l’Amministrazione comunale di Cassano e di Ornago con i gonfaloni, il sindaco e la giunta comunale di Cassano con alcuni consiglieri comunali, Loris Maconi per ANPI regionale, l’ANPC, una folta delegazione dei ragazzi della scuola media che avevano partecipato al Concorso “L. Restelli” sul tema del discorso ai giovani sulla Costituzione di Calamandrei. La celebrazione ha incluso la distribuzione delle tessere ad honorem ai familiari dei
cinque martiri e ai deportati cassanesi o benemeriti per la Resistenza, alle associazioni d’arma, l’ANA (alpini), Carabinieri, Guardia di finanza e Polizia locale, con l’accompagnamento della banda musicale di Cassano, associati ANPI e cittadini.
Nella sera di mercoledì 5 aprile, presso l’auditorium della Biblioteca comunale di Cassano d’Adda, un folto pubblico ha assistito alla proiezione del dvd Il sogno di Fausto e Jaio con la presenza di uno dei registi, DaY niele Biacchessi.
Giancarlo Villa
ANPI di Cassano d’Adda sezione B. Colognesi
• Martedì 25 aprile 72° anniversario della Liberazione ore 9.45 Corteo cittadino da piazza Conciliazione a largo Riboldi-Mattavelli discorsi delle autorità in piazza Matteotti.
Gorgonzola
La sezione dell’ANPI, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Gorgonzola invita alle iniziative per il 72° anniversario della Liberazione • Martedì 25 aprile, ore 11.00 Ritrovo presso il Comune e Corteo per le vie del centro al pomeriggio Momento di festa con band giovanili in piazza della Repubblica.
Inzago
L’ANPI di Inzago, sezione Quintino Di Vona, invita a celebrare il 25 Aprile 2017 72° anniversario della Liberazione
• Domenica 23 aprile Biciclettata partigiana Partenza da Cassano d’Adda alle ore 9.00, arrivo a Pessano alle ore 11.30.
continuA A pAginA 14 ➔
il fiore del partigiano
le iniziative
I
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Consegnamo la Memoria in mano ai ragazzi
BUSSERO - L’ANPI A FIANCO DEI GIOVANI, NUOVI TESTIMONI
n occasione della Giornata della Memoria 2017 la Sezione ANPI Angelo Barzago di Bussero ha sostenuto e partecipato ad alcune iniziative svoltesi nel territorio. Tra queste, in particolare, il 27 gennaio scorso, in collaborazione con la Scuola Media E. Majorana ed il Centro di Aggregazione Giovanile Il Geko di Bussero, ha organizzato un incontro per gli studenti della scuola secondaria di primo grado sul tema. Il lavoro, Le mani nella memoria, presentato ai ragazzi delle classi terze, nasce all’interno del progetto “Educare alla memoria” delle Politiche giovanili di Spazio Giovani Martesana. Un bellissimo lavoro fatto di racconti, emozioni, immagini, testi e testimonianze, frutto dell’esperienza di ragazze e ragazzi del Centro di Aggregazione Giovanile Il Geko, che nel corso degli ultimi otto anni hanno partecipato ai Viaggi della Memoria nel campo di concentramento di Mauthausen. «I ragazzi» dicono Serena, Alessandro, Stefano e Pietro, educatori del Geko, «sono prima di ogni cosa persone e cittadini. Per questo siamo convinti sia importante, una volta tornati dall’esperienza del Viaggio della Memoria, che diventino Nuovi Testimoni. Quello che hanno visto e sentito in quel luogo, le loro emozioni sono preziose
Passaggio del testimone. Sopra: un’aula attenta segue il racconto dei ragazzi del Geko sull’esperienza al campo di sterminio di Mauthausen. A destra la mappa delle parole uscite dalle loro riflessioni
proprio perché raccontate attraverso le loro parole». L’equipe del Geko, nel corso degli anni, ha sperimentato l’importanza del lavoro di rete e delle collaborazioni tra i ragazzi del CAG e le istituzioni, le associazioni e le diverse realtà del paese. Alla base di ciò vi è la profonda convinzione che il protagonismo giovanile, come partecipazione e sviluppo di cittadinanza attiva, vada valorizzato sempre più nel territorio, in modo che i cittadini stessi, di tutte le età, possano viversi sempre più come una comunità educante. L’educazione tra pari è una strategia educativa che mira ad attivare un processo spontaneo di passaggio di conoscenze, emozioni ed esperienze da parte di alcuni membri di un gruppo ad altri membri di pari status; la vicinanza d’età permette di avere accesso al sistema valoriale e simbolico dei partecipanti, di comprendere il loro linguaggio e di essere il soggetto ideale per stabilire con loro un rapporto di fiducia e ascolto. L’ANPI di Bussero ha sostenuto l’iniziativa, ritenendola un primo passo per coinvolgere e responsabilizzare i più giovani su un tema così importante. Una mattina indimenticabile, quella del 27 gennaio, l’emozione era palpabile e la commozione tanta. I ragazzi del Geko, con le loro testimonianze, hanno coinvolto i pre-
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Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi. Y da Se questo è un uomo di Primo Levi
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senti, trasmettendo loro il proprio vissuto nel visitare e “toccare” con le loro mani e con il loro corpo la “memoria” dei campi di sterminio. L’esperienza vissuta e la consapevolezza che ne saranno portatori per il futuro è nella ricchezza dei contenuti dei loro scritti, nelle sensazioni che hanno provato e che hanno poi trasformato in «coscienza di ciò che è stato»: di aver toccato con mano ciò che i testi scolastici non riescono a trasmettere, di aver provato dolore nel camminare in quei luoghi dove milioni di individui, solo perché ebrei o “diversi”, sono stati eliminati. La consapevolezza che l’iniziativa abbia prodotto pensieri e riflessioni è data anche dall’emozione che una studentessa tredicenne ha espresso in due parole: «mi vergogno» per come sia stato possibile che esseri umani abbiano potuto fare questo! Alle ragazze e ragazzi del CAG che hanno voluto, con la loro diretta esperienza, far vivere attraverso la loro testimonianza quello che hanno provato visitando un campo di concentramento: Marcella, Riccardo, Veronica, Pamela, Selene, Miriam, con l’ausilio di Asia, Alessandro e Laura, va tutta la gratitudine dell’ANPI di Bussero, con la speranza che possano continuare ad essere i “nuovi testimoni” affinché ciò che è stato Y non si ripeta più. Direttivo ANPI di Bussero Sezione«Angelo Barzago»
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In Alsazia sulla linea Maginot
Festa della Liberazione
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Per Inzago l’appuntamento è alle ore 9.15 in Piazza Maggiore, davanti alla lapide di Quintino Di Vona.
la Sezione di inzago organizza un viaggio in alsazia con partenza il venerdì 19 maggio e rientro la domenica 21. Visiteremo il Fort de schoenenbourg, sulla linea maginot, il piccolo bel borgo di riquewihr e le città di Friburgo, mulhouse e lucerna con il suo splendido lago. Y
• Martedì 25 aprile, ore 8.30
ore 10.15 Ritrovo presso la sede dell’ANPI, al Palazzo Comunale in piazza Di Vona Corteo verso il cimitero Deposizione di corone alla cappella dei Caduti. Ripartenza per per Piazza Maggiore. ore 11.00 Intervento di un esponente dell’ ANPI.
ore 15.00 Manifestazione nazionale a Milano Ritrovo a Porta Venezia.
ore 11.15 Festeggiamo il 25 aprile con il gruppo musicale “Gli amici di Giò”
• Dal 29 aprile al 1° maggio presso la sede dell’ANPI sarà allestita la mostra “Imprevedibile legno 2017”.
• Dal 21 al 25 aprile e dal 29 aprile al 1° maggio Festa ANPI nel cortile della Cooperativa di via Bozzotti.
Pioltello
La Festa della Liberazione nel suo 72° anniversario anche quest’anno si svilupperà con molti appuntamenti
Pozzuolo-Truccazzano
Le iniziative saranno tenute in modo autonomo da quelle dell’Amministrazione comunale (v. articolo a pag. 11)
L’Amministrazione Comunale e l’ANPI invitano la popolazione a festeggiare il 25 aprile 2016 72° anniversario della Liberazione
• Domenica 23 aprile Biciclettata partigiana ci troviamo direttamente a Cassano d’Adda presso il cippo dei partigiani fucilati (di fronte alla Casa di Riposo) alle ore 09.00 da dove partiremo per Inzago - Bellinzago Gorgonzola - Pessano con Bornago. Ad ogni monumento porteremo dei fiori e leggeremo articoli della Costituzione della Repubblica. Al termine ad accoglierli ci saranno il Gruppo 1000 E UNA NOTA ed un ritemprante ristoro.
• Lunedì 24 aprile, ore 15.30 Posa della corona d’alloro alla lapide ai Caduti presso Villa Opizzoni in via Aldo Moro n. 22.
Ore 16.00 Omaggio floreale ai defunti che l’ANPI, riconoscente, ricorda presso il cimitero di Pioltello.
• Martedì 25 aprile
Truccazzano mattina: manifestazione per il 25 aprile palazzo Comunale.
Il sindaco insulta come stesse al bar ➔ segue dA pAginA 11
“i problemi” con le provocazioni non è un bel modo di governare. Infine, dopo che anche una richiesta di scuse è stata avanzata all’Amministrazione ed è stata respinta, il direttivo ANPI della Sezione “Quintino Di Vona” ha deciso di organizzare la celebrazione del 25 aprile, Festa della Liberazione in modo autonomo. È la prima volta che succede, è un fatto gravissimo di cui porta la responsabilità l’Amministrazione Fumagalli con i suoi insulti alle forze politiche protagoniste della Lotta di LiberaY zione dal nazi-fascismo.
Rocco Ornaghi
• Martedì 25 aprile
• Martedì 25 aprile, ore 10.20 Piazza della Repubblica Ritrovo con le autorità comunali e istituzionali, le associazioni cittadine e il corpo musicale S. Andrea.
ore 10.30 Corteo lungo le vie cittadine, omaggio floreale al Monumento ai Caduti in Piazza Giovanni XXIII, proseguimento verso il Monumento ai Martiri della libertà in via Don Carrera, posa della corona d’alloro, discorsi celebrativi delle Autorità. Conclusione presso il cortile della Cooperativa del Popolo di via Bozzotti.
Pozzuolo Martesana pomeriggio, ore 15.00 corsa campestre non competitiva su un percorso di 5 km “Corsa per il 25 aprile” con i ragazzi delle scuole e con i genitori, in collaborazione con il Comune di Pozzuolo Martesana. ore 16.30 Celebrazione del 25 aprile discorsi celebrativi e banda musicale.
Ci vediamo alla biciclettata e a Milano, alla manifestazione nazionale. Buon 25 aprile a tutti! Y
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Don Luigi, il prete anomalo che protesse i Levi dai fascisti
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CERNUSCO S/N - PER IL PERCORSO “PRIMO LEVI”, UN LIBRO PRESENTATO AI RAGAZZI
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roseguendo il percorso “Primo Levi (1919-1987) – L’uomo, l’intellettuale, il Le leggi razziali e le loro testimone”, il 2 marzo all’ITSOS Marie conseguenze sulla vita Curie di Cernusco abbiamo presentato il libro di Paolo Mazzarello Quattro ore nelle tene- di migliaia di ebrei italiani bre (Bompiani) insieme all’autore, docente di spiegati dalle vicende Storia della medicina a Pavia e preside del Sistema Museale di Ateneo. Più di un centinaio del romanzo del professor i ragazzi coinvolti, che hanno seguito con inPaolo Mazzarello teresse il racconto di Paolo. Quattro ore nelle tenebre tratta della storia di don Luigi Mazzarello (nessuna parentela con l’autore) che tra il 1943 e il 1945 nascose nella sua pieve di Lerma (nel Monferrato Alessandrino) quattro persone ebree. Prima di addentrarsi nella storia di don Luigi, l’autore ripercorre le tappe fondamentali della “questione ebraica” in Sopra: il libro Italia, a partire dalla proe l’autore, Paolo mulgazione nel luglio 1938 dei Mazzarello. primi manifesti sulla razza (Il faA destra e sotto: scismo e i problemi della razza, Paolo Mazzarello Manifesto del razzismo italiano) discorre e dai provvedimenti legislativi del del suo libro novembre che diedero luogo a nella biblioteca una persecuzione violenta nei confronti dello 0,1% dell’intera dell’ITSOS gremita di studenti popolazione italiana, la quale, da un giorno all’altro, si trovò privata di diritti e dichiarata inferiore e straniera. Fu teorizzato l’ebraismo come malattia genetica e la persecuzione avvenne per la prima volta non per questioni religiose o economiche, ma di razza biologica. A essere colpiti furono soprattutto professionisti e docenti universitari, che dovettero lasciare l’insegnamento. Da notare che il primo manifesto sulla razza fu stilato da Mussolini e da figure secondarie proprio del mondo accademico, a cui però si adeguarono man mano gran parte degli altri docenti. L’Italia perse intelligenze sopraffine: scienziati del calibro di Salvatore Luria, Franco Modigliani, Emilio Segrè (tutti e tre otter- nuto il Nobel, fuggì con la moglie ebrea negli ranno poi il Nobel), espatriarono negli Stati USA. Uniti; Rita Levi Montacini emigrò in Belgio, Ma fu soprattutto dopo l’armistizio dell’8 setpoi tornò in Italia dove, tra molti rischi, tembre e l’occupazione tedesca che la persesvolse attività scientifica in laboratori di for- cuzione contro gli ebrei in Italia si acuì: da un tuna; Enrico Fermi, che aveva appena otte- piano prevalentemente dei diritti si passò a
Don Luigi Mazzarello ritratto a Lerma. Sotto: il santuario della Rocchetta a Lerma
una persecuzione delle vite, che provocò circa 6.000 vittime.
Una delle prime stragi avvenne a Omegna il 15 settembre 1943, un episodio drammatico conosciuto come “olocausto del lago Maggiore”, in cui perirono annegati 56 ebrei catturati dai tedeschi nella zona di Novara e del Verbano-Cusio-Ossola. Tra di essi Mario Levi e suo figlio Roberto, rispettivamente zio e cugino di Primo Levi, che si trovavano in loco perché in procinto di scappare in Svizzera con l’aiuto di don Giuseppe Annichini e del podestà di Orta, l’amico Gabriele Galli. La vicenda venne raccontata dal film di Carlo Lizzani del 2007 Hotel Meina, ispirato all’omonimo saggio storico di Marco Nozza. La vicenda vera e propria narra della storia di un altro ramo della famiglia Levi, di cui facevano parte Enrico e a sua moglie Lisa Vita Finzi, anch’essi zii di Primo Levi, i quali, durante l’estate del 1943, si trasferirono da Genova alla loro tenuta dei Martinenghi, al confine tra Alessandrino e Liguria. Tuttavia dopo l’ordinanza di polizia del 30 novembre 1943 emanata dal ministero dell’Interno della RecontinuA A pAginA 16 ➔
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le storie - la Storia
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Nelle foto d’epoca, dall’alto: l’abbazia della Benedicta, rifugio dei partigiani; il recupero delle salme dei combattenti; messa sul sito della strage. In basso: il sacrario della Benedicta oggi
pubblica Sociale Italiana, che disponeva l’immediato arresto o la deportazione di ogni ebreo nel territorio occupato dalle truppe tedesche e repubblichine, i Levi, insieme a due amici, Gastone e Valentina Soria, accettarono di farsi proteggere da don Mazzarello, che offrì loro un asilo sicuro al santuario della Rocchetta di Lerma.
Fin dalle prime battute capiamo che don Mazzarello era davvero un prete anomalo: giovane e raffinato cappellano sulle navi della compagnia Navigazione Generale Italiana, aveva percorso il Mediterraneo e l’Atlantico. Aveva poi insegnato a Tunisi e quindi era stato coadiutore delle autorità consolari della Missione cattolica a Ginevra. Di lui «tutti intuivano che aveva avuto una storia, che aveva vissuto. Per lo sguardo superiore e mai meravigliato con cui guardava alle debolezze di chi andava a confessarsi, l’indulgenza con cui le sanzionava, la consapevolezza che l’imperfezione è dell’uomo». Lasciatosi alle spalle una vita movimentata, nel 1939 don Luigi, che da poco aveva superato la cinquantina, approdò alla Rocchetta di Lerma, antico santuario riedificato dai marchesi Spinola nel XV secolo. Lì instaurò buoni rapporti con i contadini (i cabané) e creò nel santuario una piccola comunità che, allo scoppio della guerra era formata dalla sorella Maria, dal pronipote Luigi (attraverso i cui occhi e le cui parole il professor Mazzarello ha ricostruito il nucleo portante della storia), dalla nipote acquisita Elena Brunetti, insegnante, con la figlioletta di un paio d’anni, Graziella, e dal campanaro Tomaso Sobrero, soprannominato “Mascìllu”, con la moglie Maria Agosto.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre anche don Luigi si trovò a un bivio e, sorretto dalla propria coscienza più che dalla propria vocazione, accolse con calore e senza pregiudizi «i signori distinti, guardinghi e anche un poco misteriosi» che venivano da villa Martinenghi. La comunità salì così a undici persone che vivevano in armonia, nonostante i disagi della guerra. Tuttavia erano tempi in cui nessuno poteva sentirsi al sicuro: la delazione per un tozzo di pane era all’ordine del giorno e le ritorsioni verso chi aiutava gli ebrei erano feroci. Seppur attutita, giungeva anche alla Rocchetta l’eco delle minacce, delle rappresaglie, delle deportazioni alle quali la comunità ebraica ligure e piemontese era sottoposta. La sera, allora, intorno all’apparecchio radio sintonizzato già da tempo sulle frequenze di Radio Londra, si cercava di far luce sul
vano pagine drammatiche di storie, come il terribile eccidio di partigiani alla Benedicta (i morti furono tra i 140 e i 147) che avvenne tra il 6 e l’11 aprile del 1944 ad opera di militari della Guardia nazionale repubblichina e di reparti tedeschi sulle montagne non molto distanti da Lerma, fra Piemonte e Liguria. Sull’epilogo della storia dei Levi e dei Soria non diciamo nulla, vale la pena leggere il libro.
reale andamento della guerra e sul suo possibile epilogo. Gli ospiti di don Luigi e la comunità rischiarono molto in tre occasioni, quando si verificarono delle perquisizioni, due operate da fascisti e una da nazisti, che avevano il sentore che qualcuno si nascondesse in quella pieve. Don Luigi escogitò uno stratagemma ingegnoso per proteggere i quattro ebrei. Nel frattempo, intorno a Lerma, si consuma-
Don Luigi morì nel 1959 e la sua storia rimase confinata tra i racconti di paese, finché qualcuno cominciò a parlarne in tv locali e man mano emersero maggiori particolari. Per la sua opera di bene, don Luigi nel 2012 fu insignito del titolo di “Giusto fra le nazioni” dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele. A Paolo Mazzarello il merito di aver scoperto che Enrico e Lisa Levi altri non erano che degli zii di Primo, e di aver immortalato la figura di questo prete irregolare, anticonformista, ripreso più volte dalle autorità ecclesiastiche, ma tenace nel suo proposito di seguire una legge superiore a quella contingente, che impone di rimanere umani e di vedere nella sofferenza dell’altro la propria sofferenza. Per concludere, l’incipit del libro: «Quando scese il buio, ognuno cercò di contrastarlo come poteva. Tutti avevano una loro luce, ma non per tutti fu sufficiente a vedere nell’oscurità. Quando la sorte tirò i suoi dadi e decise che alcune creature fossero diverse, e che bisognasse eliminarle, considerarle non pienamente umane, qualcuno riuscì a gettare uno sguardo più lontano, a vedere nell’altro se stesso e a provare compassione per la sua sorte. Perché nella sofferenza e nel destino di un essere umano c’è anche la propria sofferenza e il proprio destino. Salvare gli altri salva anche se stessi: forse per questo è detto, nelle antiche scritture, che chi salva un uomo Y salva l’umanità intera». Giovanna Perego ANPI di Cernusco s/N sezione Riboldi-Mattavelli
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C’era una volta un cassanese...
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CASSANO D’ADDA - ALLA BIBLIOTECA DI VIA DANTE ALIGHIERI 4 FINO AL 25 APRILE
1936-1939/2016-2019: 80° anniversario della guerra civile spagnola. In mostra foto e documenti dell’epoca raccontano storie comuni di resistenza antifascista. Storie di piccoli, grandi uomini e donne in Spagna
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el 2016 sono ricorsi importanti anniversari per la Spagna e per la storia dell’Umanità. Tra questi, la morte di Federico Garcìa Lorca e l’85° anniversario della Seconda Repubblica spagnola che finì tragicamente con lo scoppio della guerra civile. I tre eventi sono tra loro collegati, come lo sono i drammatici fatti che seguirono. L’Associazione Passato prossimo Onlus si è proposta di riportarli alla memoria, affiancata dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) sezione di Cassano d’Adda, in collaborazione con l’Istituto Cervantes di Milano e con il supporto dell’Associazione Italiana Combattenti Antifa-
scisti in Spagna (AICVAS), l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (INSMLI) e del liceo linguistico Alessandro Manzoni di Milano.
Lo spunto nato da racconti orali Questo progetto nasce tra le carte di diversi archivi e dalle parole di alcuni oratori preziosi (Giancarlo Villa, Luigi Gatti, Francesco Sacchi) che inconsapevolmente hanno trasmesso una memoria. Si tratta di una piccola, minuscola memoria. Da questa piccola storia siamo partiti per creare ponti e collegamenti, ricostruire fatti e ritratti. Nell’allestimento proposto nel 2016 a Milano, presso l’Istituto Cervantes, all’interno di una settimana dedicata alla guerra civile spagnola, e riproposto quest’anno a Cassano d’Adda, presso il corridoio della Biblioteca comunale di via Dante Alighieri 4 (dal 25 marzo al 25 aprile), sono esposte riproduzioni di documenti appartenenti a: -fondo AICVAS, conservati presso l’archivio dell’INSMLI, Milano -fondo Casellario Politico Centrale (CPC), conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato (ACS), Roma e fotografie scattate presso il liceo linguistico Alessandro Manzoni di Milano durante lo svolgimento dei laboratori di di-
Contadino e socialista combattente. Foto del fascicolo di Enrico Brambilla e dei documenti che testimoniano il tentativo di fuga in Francia alla fine degli anni ’20 e la sua scomparsa proprio in concomitanza alla guerra civile in Spagna. Sono documenti rinvenuti presso il Casellario Politico Centrale, all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. In alto: taccuino perforato da proiettile
dattica della Storia relativi al progetto Historia en nuestra manos, nel quale gli studenti hanno ricostruito memorie inedite partendo dalle fonti primarie.
La storia segreta di “Baciccia” Tutte le fonti riportano alla luce ritratti sepolti dalla guerra. Si tratta di storie piccole che, tutte insieme, fanno la Storia. Emblematica, in tal senso, la storia di Enrico Brambilla, conosciuto da molti cassanesi come “Baciccia”. Nato a Milano, vissuto e morto a Cassano d’Adda, partì probabilmente come volontario per la Spagna partecipando alla guerra civile spagnola. Al rientro, misterioso, nel 1943, seguì un’attività di Resistenza clandestina, fino al 1945, quando fu nominato dal CLN fra i membri della Commissione di epurazione a Cassano. Si tratta di una singolare storia perché il protagonista era un umile contadino, apparentemente privo di particolari risorse ecoY nomiche e culturali.
Silvia Giugno
Presidente dell’Associazione Passato prossimo Onlus
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di
Cantabile
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IN AMERICA E IN EUROPA MOLTI DISCHI
da il manifesto del 19 agosto 2016
dimitri PaPaNikaS
ttant’anni fa, il 17 luglio 1936, nei territori dell’Africa occupata, il generale Francisco Franco con i suoi legionari del Tercio e los Regulares, mercenari indigeni del protettorato spagnolo del Marocco, si solleva in armi contro il governo della Repubblica. Pochi giorni dopo attraversa lo stretto di Gibilterra alla guida di un esercito di ribelli in marcia verso Madrid. Quello che a prima vista sarebbe dovuto essere un golpe militare lampo si trasformerà in una cruenta guerra civile che in poco meno di tre anni causerà 450 mila morti, 150 mila esiliati e 50 mila fucilati, prolungando la sua tetra ombra sui quasi quattro decenni successivi. Galvanizzato dal consolidamento di Mussolini, dall’ascesa di Hitler, dal «posto al sole» sui lidi abissini ottenuti a colpi di cannonate e iprite italiani, il generale Franco si proclamava caudillo di una Spagna cattolica intenzionata a risorgere grazie a un’originale «crociata» condotta, suo malgrado, da truppe more, marocchine e musulmane. Suo obiettivo quello di mettere fine alla Seconda Repubblica, considerata «inaccettabile» nella cattolica monarchia spagnola, responsabile della conquista d’America, della vittoria di Lepanto e della Santa Inquisizione. Ad eccezione infatti dell’effimera Prima Repubblica del 1873, la Spagna non vantava certo una tradizione liberale. Dal 14 aprile 1931, con l’abdicazione di Alfonso XIII, il Paese stava vivendo una grande instabilità politica. Una stagione che, benché inaugurata da importanti riforme come la separazione di Stato e Chiesa, la riforma agraria e l’abolizione dei privilegi della vecchia nobiltà, cominciò presto a esaurirsi a causa delle violente lotte intestine tra destra e sinistra che culmineranno con la dura repressione dei moti asturiani del 1934.
La cattiva fama della Repubblica In un Paese che non conobbe l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, tantomeno quella liberale, passato senza soluzione di continuità dagli Asburgo ai Borbone, con la breve parentesi dell’occupazione di Giuseppe Bonaparte, la Repubblica non godeva certo di buona fama. Non piaceva alla Destra tradizionalista né a gran parte della Sinistra, che continuava ad auspicare una rivoluzione proletaria come accaduto pochi anni prima in Russia e Messico. Fu così che, in un clima di forte diffidenza, Franco trovò terreno fertile per la sua propaganda. Nel frattempo la Repubblica, abbandonata a se stessa dalle democrazie di tutto il mondo, cadeva sotto gli occhi implacabili dell’indifferenza.
La guerra civile spagnola fu la prova generale di una nuova dilaniante guerra mondiale, terreno privilegiato per testare nuove strategie di distruzione di massa, i cui scheletri nell’armadio permangono tutt’oggi, come severo monito, in un Paese incapace di fare i conti con il proprio passato, come mostrato dalle violente polemiche scaturite dall’approvazione nel 2007 di una «Legge sulla Memoria storica» prontamente accantonata dal governo successivo. In questo contesto quasi 40 mila volontari provenienti da più di 50 Paesi giunsero in Spagna spinti dal desiderio di cambiare se non il mondo almeno il proprio ruolo in esso. Giovani, studenti, qualche professore, intellettuali, artisti, ma soprattutto operai, proletari, lavoratori di ogni religione, colore e partito, furono i grandi protagonisti di questa storia. Tra questi il padre del dadaismo Tristan Tzara, il muralista messicano David Alfaro Siqueiros, l’eccentrico scrittore André Malraux fino ad arrivare a Pablo Neruda, console cileno a Madrid. Se Albert Camus non riuscì ad arruolarsi nelle brigate internazionali a causa delle sue precarie condizioni di salute, la filosofa francese Simone Weil trascorse un mese nella colonna comandata dall’anarchico Buenaventura Durruti, mentre George Orwell aderì come miliziano al Poum, il Partido Obrero de Unificación Marxista.
Spettatori inermi di un inferno Appoggiarono la Repubblica uomini come Max Aub, che organizzerà il padiglione spagnolo all’Esposizione Universale di Parigi del 1937, incaricando Pablo Picasso di realizzare un contributo alla causa. Il bombardamento tedesco di una piccola cittadina dei Paesi Baschi ispirerà al grande pittore lo struggente Guernica. Parteciparono inoltre Joan Miró, il cineasta Luis Buñuel e importanti fotoreporter come Henri Cartier-Bresson, Robert Capa e la sua compagna Gerda Taro, morta durante la battaglia di Brunete. Tra i corrispondenti di guerra ricordiamo Langston Hughes, Klaus Mann, figlio di Thomas
La guerra civile di Spagna si è lasciata dietro una scia di morte e distruzione. Ma anche una raccolta di canzoni - solidali o insurrezionali - nate durante il conflitto e destinate a diventare punti di riferimento per i movimenti di protesta a venire
Mann, un giovane Antoine de Saint-Exúpery e lo stesso Hemingway. Sarà dalle stanze dell’Hotel Florida che lo scrittore statunitense darà inizio al proprio amore con Martha Gellhorn, spettatori inermi di un inferno che si consumava di fronte ai propri occhi. Nel giugno 1938, poche settimane dopo il bombardamento italiano di Barcellona, il tenore Ernst Busch, membro del Thälmann-Kolonne, un battaglione di 500 tedeschi, registra in maniera rudimentaria una serie di canzoni antifasciste. Si tratta di una straordinaria testimonianza umana. Alcune di queste vengono interrotte dalla mancanza improvvisa dell’elettricità durante i bombardamenti. L’album verrà pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti, nel 1940, dalla coraggiosa casa discografica Keynote Records con il titolo Six Songs for Democracy.
Il Battaglione Lincoln Ad ogni modo sarà il Battaglione Lincoln a destare il maggior interesse da parte dell’industria musicale. Quasi tremila i volontari statunitensi giunti in Spagna tra il natale del 1936 e il ’37. Un centinaio gli afroamericani, ansiosi di lottare in nome di diritti che nella loro patria erano loro stati fino ad allora negati. Uomini come James Yeates e Oliver Law, primo comandante nero a guidare un battaglione di bianchi, morto pochi giorni dopo aver assunto l’incarico durante la battaglia di Madrid. Bisognerà attendere il 1950, con la guerra di Corea, per rompere nuovamente questo tabù razziale. Infatuato dalle loro
antifascista
il fiore del partigiano
CELEBRARONO L’ESPERIENZA INTERNAZIONALISTA ANTIFASCISTA
Studenti, artisti soprattutto operai. Qui a sinistra, due celebri scatti di Robert Capa: la partenza delle Brigate Internazionali e (sotto) Ernest Hemingway con Ilya Ehrenburg e Gustav Regler. In alto a destra del titolo: la copertina di six song for democracy. Nella pagina a fronte: due immagini del Battaglione Lincoln
storie l’eclettico cantante e attivista nero Paul Robeson decide di viaggiare in Spagna nel 1938 per visitare il Battaglione Lincoln. Si tratterrà tre mesi, al fronte, condividendone le sorti, per testimoniare la propria vicinanza e ammirazione. Con i volontari del Lincoln registrerà The Four Insurgent Generals e una versione di Peat Bog Soldiers. Finita la guerra civile, con la sconfitta repubblicana, nel 1942, a New York, il produttore discografico Mose Asch, padre delle collane di dischi Folkways dello Smithsonian Institution, incarica Pete Seeger, Tom Glazer, Baldwin Hawes e Bess Hawes di registrare il 78 giri Songs of the Lincoln Battalion. Cavallo di battaglia del disco sarà la famosa Jarama Valley, dedicata alla battaglia per la difesa di Madrid in cui, in appena venti giorni, nel febbraio del ’37, morirono ventimila soldati. Nel maggio del ’37 le ataviche rivalità tra comunisti, stalinisti, trotskisti, internazionalisti, socialisti, anarchici e repubblicani iniziarono a riemergere con inaudita violenza. Regolamenti di conti, lotte clandestine, sabotaggi, delazioni, atti di umana viltà, il tutto condito con le immancabili fucilazioni di rito, minarono dall’interno quella che era stata l’esperienza rivoluzionaria più avanzata mai vista fino ad allora in Europa. Un
anno dopo, con la battaglia dell’Ebro, si chiuderà amaramente la storia delle brigate internazionali. In questo senso le pagine di George Orwell restano ancor oggi la più completa, intelligente, sottile ma allo stesso tempo drammatica testimonianza sulle purghe interne organizzate dagli stalinisti ai danni dei dissidenti anarchici, libertari e marxisti non allineati. In quest’ottica il suo Omaggio alla Catalogna (1938) è assai ben più attendibile di Per chi suona la campana (1940) del collega Ernest Hemingway, la cui prospettiva fu viziata fin dall’inizio da interessi più letterari. Quel suo Robert Jordan, protagonista del romanzo, un professore del Montana, wasp, romantico, avventuriero e solitario, era in fondo troppo simile allo stesso Hemingway per risultare credibile.
«Antifascisti prematuri» I veri brigatisti erano in realtà gli operai, gli ultimi, gli esclusi, gli emarginati di una società che non fu mai disposta a prendersene cura. Nonostante molti di loro torneranno di lì a breve in Europa, con lo sbarco in Normandia del giugno del ’44, per difendere il continente dall’avanzata dei totalitarismi, al loro definitivo rientro in America subiranno violente ritorsioni. Non si perdonerà mai loro l’aver combattuto in Spagna nelle file delle Brigate Internazionali. Sottoposti dall’FBI a stretta sorveglianza per anni, calunniati, emarginati, accusati di essere dei potenziali sovversivi. Sul loro fascicolo negli archivi federali appariva la sigla «P.A.» («antifascisti prematuri»), che nell’America degli anni ’50 equivaleva a dire «comunisti».
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Per saldare parzialmente i conti con quella «meglio gioventù» d’America, nel 1961, in occasione del 25º anniversario della guerra civile, la Folkways Records ristampava i due storici dischi di Pete Seeger e Ernst Busch. Un anno dopo pubblicava un secondo volume con selezione di canzoni registrata nella Repubblica democratica tedesca pochi mesi prima. Al fianco di Seeger, Guthrie e Busch apparivano cori catalani, asturiani e andalusi e un certo Bart van der Schelling, un clown e cantante d’opera olandese che partecipò come volontario nel Battaglione Lincoln e che in seguito dedicò gran parte della sua carriera a raccogliere fondi a favore delle vittime del nazismo in Europa. Contemporaneamente, dall’altro lato dell’Atlantico, il cantautore libertario spagnolo Chicho Sánchez Ferlosio, esiliato in Svezia, firmerà Spanska motandssanger (Canzoni della resistenza spagnola) tra il 1963 e il 1964 diventando un riferimento internazionale per la canzone di protesta. Da segnalare, oltre al fondamentale lavoro di Paco Ibáñez nel reinterpretare la grande poesia di lingua spagnola, l’impegno civile della Nova Canço catalana e di artisti come Joan Manuel Serrat, Raimón, Lluis Llach, Elisa Serna, Maria del Mar Bonet per citare solamente i più noti. Ricordiamo i due dischi monografici sulle canzoni popolari e di resistenza della guerra civile firmati dal cantautore cileno Rolando Alarcón (1967) e dal messicano Óscar Chávez (1975), per arrivare al più recente ¡No pasarán! Canciones de guerra contra el fascismo dei catalani Francesc Pi de la Serra e Carme Canela con direzione musicale di Pere Camps (1997). Citiamo infine le due raccolte Spain in My Heart. Songs of the Spanish Civil War (2003) firmata da artisti di varie nazionalità, tra cui Arlo Guthrie, Lila Downs e l’immancabile Pete Seeger, e il monumentale Spain in my Heart, la più grande raccolta di canzoni sul tema mai riunita finora, pubblicato in Germania dalla Bear Family nel 2015.
Bianchi e neri, stessi ideali Canzoni di protesta in ricordo di una generazione che ebbe il coraggio di sfidare il potere guardandolo diritto negli occhi, come suggeriva Elias Canetti. Come scrisse l’afroamericano James Yeates, tra gli ultimi sopravvissuti del Battaglione Lincoln, sarebbero dovuti passare altri vent’anni per tornare ad assaporare quell’effimero vento di libertà vissuto in Spagna. Un Paese in cui, nonostante la morte fosse sempre dietro l’angolo, bianchi e neri poterono per la prima volta convivere, condividendo lo stesso pane, gli stessi ideali, la stessa bandiera, in una comune lotta per l’uguaglianza e la giustizia. Ad attenderli, una volta rientrati in America, ci sarebbero state nuove persecuzioni e battaglie in cui schierarsi. Le loro e quelle dei propri figli e nipoti, Y a cui in qualche modo aprirono la strada.
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L’isola senza biciclette
il fiore del partigiano
aprile 2017
PICCOLE STORIE IN UNA GRAN MOLE DI DOCUMENTI, TESTIMONI DI UN’ITALIA MESCHINA
le storie - la Storia
da il manifesto del 22 aprile 2016
«L
di
lia tagliaCozzo
a bicicletta Bianchi, tipo ‘suprema’ numero 971440 di matricola (…) già in possesso dell’ebrea internata Israel Sara è stata consegnata allo Studio Agricolo Commerciale S.A. di Rodi, che ne reclamava la restituzione. La bicicletta in questione era stata acquistata a rate mensili dall’ebrea Israel Sara e non completamente pagata, quindi per il disposto n.10 delle condizioni generali di vendita, la bicicletta in parola non poteva essere venduta né ceduta». Il sequestro della bicicletta di Sara Israel venne disposto dalle autorità italiane mentre probabilmente lei era ancora prigioniera a Rodi in attesa di essere deportata ad Auschwitz con quello che fu «drammaticamente il convoglio più lontano che giunse ad Auschwitz, e neanche l’ultimo». L’amministrazione italiana a Rodi ganti nel Mediterraneo verso la Pa– come nella penisola – compì un lestina». lavoro minuzioso e preciso: non si Dopo essere stati internati sull’isola limitò a censire gli ebrei in quanto – «il costo mensile a persona che persone ma anche i loro beni. E gericeveva pane, pasta, riso, legumi, stirne, tra furti e scomparse, gli olio e grasso, sapone, ossa, zampe e averi: tra cui la bicicletta Bianchi di coda di maiale, legna, olive, verSara Israel. dura e sale era di 26,50 lire» – il A scrivere la vicenda di Sara e della gruppo venne condotto nel campo storia di coloro (tra i 1781 e 1846 di concentramento di Ferramonti ebrei rodioti, il numero esatto è andi Tarsia in provincia di Cosenza. cora ignoto) furono deportati dalUna «storia a parte» per coloro l’isola nel luglio del 1944, sono che, alla fine, furono tra i primi Marco Clementi e Eirini Toliou in ebrei a essere liberati in Europa il Gli ultimi ebrei di Rodi. Leggi raz14 settembre 1943 dagli angloameziali e deportazioni nel Dodeca- Deportazioni in Grecia, 25 marzo 1944 (Foto wetzel-bild) ricani. Ma le carte dell’archivio dei neso italiano (1938 -1948), edito carabinieri raccontano molte stoda Deriveapprodi (pp. 307, euro rie individuali e collettive: quelle 23). Un volume di straordinario interesse, ma 1947, che concluse per l’Italia la seconda dei carabinieri che si rifiutarono di giurare fecon un limite significativo: la mancanza di guerra mondiale, rimasero ad Atene anche deltà alla Repubblica sociale italiana voluta da un’introduzione che ne racconti la genesi e ne quegli archivi il cui studio oggi concorre a ri- Mussolini e dall’alleato nazista, e di coloro che motivi la precisione della scrittura, la mole disegnare i confini della storia patria, del ven- invece quella fedeltà giurarono. delle fonti, e l’apparente discontinuità dell’in- tennio fascista e del ruolo che vi ebbero non Di ebrei salvati – importante l’opera svolta dal dice. Il suo valore, infatti, consiste nell’essere solo i carabinieri ma l’amministrazione nel giovane console turco Selahattin Ulkumen il primo studio sulla vicenda ebraica rodiota suo complesso. che riuscì a salvare alcune persone «dandodurante il fascismo e la seconda guerra mon- In questo senso il libro di Clementi e Toliou si gli» la cittadinanza turca – e di quelli uccisi, diale che si avvale del grande archivio inserisce a pieno titolo e con rigore in un della dirigenza della comunità ebraica di Rodi «Gruppo carabinieri reali – ufficio centrale nuovo filone della ricerca che indaga i com- che cerca di comportarsi con equilibro in una speciale», fino a ora impossibile da consultare. portamenti degli apparati dello Stato e dal realtà che non ne ha più. E della storia di Si tratta della dicitura dietro la quale si na- quale emerge un’Italia ben più abietta e me- quelle figure chiave del governo italiano a scose, dal 1932 fino alla fine della seconda schina di quanto ci piacerebbe pensare, e che Rodi, corresponsabili della deportazione degli guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di concorre a sfatare quel «mito del bravo ita- ebrei rodioti, che tornarono in Italia a finire le liano» che anche parte della riflessione degli loro carriere. pubblica sicurezza. Dallo studio delle carte emerge ora che su una storici condivide. Porre infatti come limite temporale il 1948 popolazione di centotrentamila abitanti ven- Il volume inizia in realtà ricostruendo la vi- consente di collegare la vicenda non solo al nero raccolti circa novantamila dossier perso- cenda del Pencho, il battello fluviale che, par- ventennio fascista ma anche alla storia delnali: indicazioni che contribuiscono a tito da Bratislava a maggio, naufraga al largo l’Italia repubblicana e antifascista, lasciando modificare sostanzialmente l’immagine della delle coste di Rodi a ottobre del 1940 con il aperti molti punti interrogativi su se e come amministrazione italiana del Dodecaneso, suo carico di ebrei in fuga dalla guerra e dalla questa abbia saputo fare i conti con l’eredità fino ad ora valutata anche dagli storici con so- persecuzione dopo aver percorso il Danubio lasciatale dalla dittatura fascista e sulla sostanziale bonomia, per restituire invece una per raggiungere illegalmente la Palestina sotto stanziale continuità istituzionale. Le Sara modalità di controllo delle persone e del terri- mandato inglese: «I soliti ebrei – come li de- Israel deportate da Rodi ad Auschwitz sono finisce nelle carte il governatore De Vecchi, cinque, tutte decedute: quelli dello studio agritorio tipico di uno Stato autoritario. Nella fretta della dismissione del possedi- triunviro del fascismo, dopo aver disposto l’al- colo commerciale di Rodi si sono tenuti la bimento in osservanza del trattato di Parigi nel lontanamento del piroscafo in avaria – va- cicletta Bianchi. Y
In «Gli ultimi ebrei di Rodi. Leggi razziali e deportazioni nel Dodecaneso italiano (1938 1948)» Marco Clementi e Eirini Toliou svelano l’archivio segreto della pubblica sicurezza
il fiore del partigiano
Le torture a Bolzaneto hanno padri politici. Chi paga?
IL PARLAMENTO DEVE FARE LUCE SUI RESPONSABILI DEL PIANO ILLEGALE
le idee
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aprile 2017
da il manifesto dell’8 aprile 2017
«G
di
Patrizio goNNella
.O.M. ovvero Gruppo Operativo Mobile, ovvero Corpo speciale di Polizia Penitenziaria. Sganciato da ogni controllo, è chiamato a gestire le emergenze, i casi particolari, le situazioni a rischio. E la caserma di Bolzaneto era una di queste». Era questo l’incipit di un articolo mio e di Stefano Anastasia, allora presidente di Antigone, pubblicato sul manifesto il 28 luglio del 2001, a una settimana dalle torture avvenute a Genova. Torture come nella tradizione tragica di Villa Triste a Firenze o di Villa Grimaldi a Santiago del Cile. Villa Triste e Villa Grimaldi erano i luoghi della tortura rispettivamente durante il periodo nazifascista e la dittatura di Pinochet. Erano chiamate ville ma erano luoghi di annientamento, di esaltazione brutale dell’ego fascista.
Bolzaneto è invece un quartiere genovese dove nel 2001 viene improvvisato un carcere all’interno della locale caserma. Silvio Berlusconi vinse le elezioni nel giugno del 2001. Fu il suo governo a gestire il G8. Probabilmente, però, la decisione di trasformare una caserma in un carcere fu presa precedentemente quando premier era Giuliano Amato e ministri della Giustizia e degli Interni erano rispettivamente Piero Fassino ed Enzo Bianco. La caserma doveva servire da galera provvisoria dove detenere i presumibili arrestati per le proteste durante il G8. Bolzaneto fu trasformato in villa della tortura.
Strasburgo/Italia. Il carcere improvvisato nella caserma genovese per detenere i presumibili arrestati per le proteste durante il G8, e messo nelle mani di un corpo speciale di Polizia penitenziaria, fu un modello pensato da qualcuno più in alto
A Bolzaneto è accaduto che alcuni agenti della polizia penitenziaria, dopo essersi vantati di essere nazisti e di provare piacere a picchiare un «omosessuale, comunista, merdoso», nonché dopo averlo apostrofato come «frocio ed ebreo», lo hanno portato fuori dall’infermeria e gli hanno strizzato i testicoli. A Bolzaneto è accaduto che una ragazza ha chiesto di andare in bagno nonché di avere un assorbente. Al posto dell’assorbente le fu data della carta appallottolata, gettata sul pavimento della cella, attraverso le sbarre. La ragazza fu costretta a cambiarsi alla presenza anche di uomini. A Bolzaneto è accaduto che a una giovane ragazza straniera venne detto: «Entro stasera vi scoperemo tutte». A Bolzaneto è accaduto che una ragazza italiana fu costretta a camminare lungo il corridoio con la testa abbassata e le mani sul capo come nelle migliori tradizioni dello
pillole di resistenza culturale Quante squallide figure che attraversano il Paese Com’è misera la vita negli abusi di potere Sul ponte sventola bandiera bianca Y Franco Battiato (Bandiera Bianca - 1981)
A casa nostra intanto era venuto Dante Castellucci, che aveva conosciuto in Calabria il fratello della Lucia Sarzi, quando era al confino e che era stato vari anni in Francia. Ragazzo fantasioso, intellettuale, pitturava e scriveva. Insieme a lui e alla Lucia i miei figli organizzarono un piano per far scappare i prigionieri dal campo di Fossoli. Di notte vanno ai lati del campo, tagliano i fili spi-
a Cura di
maurizio ghezzi
nati, e Castellucci chiama i prigionieri in francese, come fa l’uccellatore con gli uccelli. I prigionieri scappano e trovano sulla strada donne in bicicletta che li portano a casa mia. Così se prima la casa sembrava una caserma, adesso somigliava alla Società delle Nazioni. Y Alcide Cervi (con Renato Nicolai) (I miei sette figli)
Lo scrutatore non votante è indifferente alla politica. È come un ateo praticante seduto in chiesa alla domenica si mette apposta un po’ in disparte. Per dissentire dalla predica. Y Samuele Bersani (Lo scrutatore non votante)
squadrismo. La ragazza fu colpita con calci e pugni. Venne derisa e minacciata. Mentre camminava veniva insultata: «puttana», «troia». Le vennero dette frasi offensive e machiste: «che bel culo», «ti piace il manganello». Fu costretta a fare il saluto romano e a dire: «viva il duce» o ancora più miseramente «viva la polizia penitenziaria».
L’Italia a sedici anni da quelle torture ha dovuto riconoscere che tortura avvenne a Bolzaneto. Se torture di massa furono, non basta risarcire i ricorrenti o prendere, per ora a parole, impegni legislativi. Si può e si deve fare qualcosa di più. Nel nome della lotta all’impunità deve aprirsi una inchiesta amministrativa e disciplinare su tutti i funzionari, medici, infermieri, poliziotti responsabili di quanto accadde a Bolzaneto. Tra gli appartenenti ai G.O.M c’è stato chi ha detto che la responsabilità delle violenze era di un’altra forza di Polizia e non la loro. Si faccia chiarezza anche su questo, per via amministrativa. Si istituisca una commissione amministrativa interministeriale di inchiesta sulle torture al G8 di Genova. Ma anche questo non basta. Bolzaneto, come carcere improvvisato messo nelle mani di un corpo speciale di Polizia penitenziaria, fu un modello pensato da qualcuno più in alto. Dunque è compito del Parlamento fare luce sui responsabili politici di quella scelta. La Commissione di inchiesta sulle violenze al G8 fu boicottata dieci anni fa dell’Italia dei Valori e dall’Udeur. Bolzaneto non è solo una questione giudiziaria. Villa Bolzaneto è storia tragica di questo Paese su cui vogliamo anche una verità politica. Alle vittime di tortura, oltre che giustizia, vanno riconosciute dignità, memoria e verità storica. Bolzaneto non fu una questione di mele marce. Se così fosse stato il giorno dopo avremmo visto capi delle Polizie e ministri far saltare teste e invocare la previsione del reato*. Così non è stato. Dunque la giustizia passa anche dalla individuazione delle Y responsabilità politiche. * a bolzaneto – ricordiamo – fece visita anche l’allora ministro della Giustizia, il leghista roberto Castelli. lui non vide nulla di anomalo e quando poi emersero alla luce i racconti delle torture, di fronte alle denunce sul comportamento violento degli agenti fece spallucce, parlando di «solo episodi isolati frenati dagli stessi colleghi» (ndr).
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All’ombra di Gladio
il fiore del partigiano
aprile 2017
le storie - la Storia
UNA STRUTTURA ARMATA ORGANIZZATA E FINANZIATA DALLA CIA, DI CUI FRANCESCO
V di
da il manifesto del 5 maggio 2016
Saverio Ferrari
ia Brusuglio è una traversa di via Pellegrino Rossi, nel cuore di Affori, quartiere all’estremo nord di Milano confinante con Brusuglio, frazione del comune di Cormano. Da queste parti diverse sono le storie che hanno visto protagonisti bombaroli e gladiatori. Quella più nota ebbe come teatro, nel novembre del 1990, il cimitero di Brusuglio, fino ad allora conosciuto solo per aver dato sepoltura ai familiari di Alessandro Manzoni.
Un intrigo di cimiteri, bombe e bombaroli, dietro alla vicenda «Stay Behind», nasconde anche le prove che in Italia non furono mai resi pubblici alcuni ritrovamenti di depositi di armi effettuati dopo lo scioglimento del piccolo esercito segreto
chiesette, cimiteri o camere mortuarie. Ben 139 depositi segreti con armi portatili, munizioni, bombe ed esplosivo plastico C4. Uno dei nasco, come relazionato da Giulio Andreotti, composto da tre cassette metalliche, con esplosivi, bombe a mano, armi, munizioni e macchine fotografiche, fu posto, il 10 luglio 1963, tra gli undici collocati in Lombardia, proprio nel cimitero di Brusuglio. Il suo dissotterramento fu un caso. In base ai documenti dei servizi segreti, i contenitori dovevano trovarsi vicino a un muro nel frattempo abbattuto per ampliare il cimitero. Sotto la supervisione dei carabinieri, con la collaborazione dei tecnici del comune e l’uso di metal detector, si scavò a fine novembre 1990 per più giorni tra le tombe, a cancelli chiusi, suscitando non poche apprensioni tra i parenti dei defunti. Non fu trovato nulla. Diverse le ipotesi, tra le altre, che le armi fossero già state dissepolte, non si sa bene da chi, o, come disse qualcuno, nascoste magari nella cava di via Moneta, dove una volta c’era «il cimitero vecchio di Brusuglio».
I depositi segreti Siamo all’epoca della “scoperta” di Gladio, ovvero della esistenza, per quasi quarant’anni, di una struttura armata segreta composta da civili e militari, costituita allo scopo di contrastare, in caso di invasione sovietica, l’Armata rossa. A rivelarlo fu l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti con una relazione, il 18 ottobre 1990, alla Commissione stragi. Questa struttura, creata il 28 novembre 1956, a seguito di un Due cassette, accordo tra il nostro servizio due becchini segreto militare, il Sifar (Ser- L’esplosivo rinvenuto nel nasco di Negrar nel 1990 (Contrasto). In alto: In realtà un grosso quantitavizio informazioni forze ar- a sinistra, Francesco Cossiga; a destra, la residenza di Giancarlo Rognoni tivo di esplosivo era già stato mate) e la Cia statunitense, rinvenuto, nell’estate del nell’ambito dell’allestimento 1964, nell’altro camposanto in tutti i Paesi dell’Alleanza atlantica di organizza- che fu al centro di moltissime sedute della Com- di Cormano, a circa un chilometro di distanza dalla zioni simili, assunse il nome convenzionale di Stay missione stragi e spinse ben cinque procure a frazione di Brusuglio. Se ne occupò in due articoli Behind («Stare dietro»), mentre la specifica rete istruire procedimenti giudiziari su possibili devia- il Corriere della sera il 20 agosto e il 2 settembre italiana fu chiamata Gladio. A livello politico gli zioni eversive. successivo che parlò di «bare al plastico». Due, inunici ad essere informati della sua esistenza erano fatti, furono i ritrovamenti ad opera di due becstati i presidenti del Consiglio e i ministri della Di- Piccolo esercito clandestino chini. Gladio, che fu formalmente sciolta, anche a seguito Le cassette erano identiche, 25x25x30 centimetri, fesa. di queste accuse, il 27 novembre 1990, con un de- contenenti «tritolo, gelatina, petardi, bombe increto dell’allora ministro della Difesa Virginio Ro- cendiarie, micce e detonatori», per «circa sei chiUna rivelazione fragorosa La rivelazione ebbe una risonanza a dir poco fra- gnoni, si dotò di un piccolo esercito clandestino e di logrammi», con tanto di «foglietto con l’istruzione gorosa, dando avvio a uno scontro politico e istitu- un centro di addestramento in Sardegna, a Capo per l’uso», «sepolti» come da accertamenti dei cazionale senza precedenti che portò, tra l’altro, alla Marragiu, vicino ad Alghero, totalmente finanziato rabinieri «dopo il 25 aprile 1945». Furono gli stessi richiesta di impeachment nei confronti dell’allora dagli americani. Qui vennero inviati consistenti ar- carabinieri a far brillare il tutto. Due i cimiteri, dunpresidente della Repubblica Francesco Cossiga, che mamenti, contenuti in speciali involucri infrangi- que. aveva orgogliosamente rivendicato, in quanto sot- bili, che a partire dal 1963 furono interrati in Agli inizi di febbraio del 1991 arrivò anche l’intertosegretario alla Difesa dal 1966 al 1970, il suo appositi nascondigli con il nome convenzionale di vista rilasciata a Radio Popolare da parte di un ex «concorso» alla formazione di Gladio. Una bufera nasco, quasi tutti localizzati nel Nordest, spesso in dipendente di un’impresa di pompe funebri che so-
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il fiore del partigiano COSSIGA ANDAVA FIERO
Il ritrovamento accidentale Improvvisamente, poi, il 12 ottobre 1999, a Brusuglio un contadino accidentalmente fece riaffiorare con il suo trattore una bomba a mano nei pressi delle mura del cimitero. I militari di Sesto San Giovanni recuperarono così le tre casse mai precedentemente ritrovate con ben 1.600 cartucce calibro 9, sei bombe tipo ananas in uso durante la seconda guerra mondiale, due pistole, un mitra inglese Sten, materiale per fotografie e istruzioni per l’occultamento. Il Giornale avanzò subito il sospetto che si trattasse di armi nascoste dai comunisti, venendo seccamente smentito dai carabinieri. «Ma quali armi del Kgb! – dichiarò il comandante del Reparto Operativo – Dalle analisi effettuate gli armamenti ritrovati sono materiale del periodo bellico in uso alle forze occidentali». Si trattava del nascondiglio di Gladio sfuggito nel 1990 alle ricerche. Resta il fatto che molte più di tre fossero le cassette nascoste, non in uno ma in ambedue i cimiteri di Cormano. Date le caratteristiche, cassette con diversi pacchetti, ciascuno con la sua targhetta esplicatrice e istruzioni per l’uso, certamente appartenenti a Gladio, ma mai rese pubbliche allo scioglimento della struttura.
Le bombe di via Moneta Nella stessa via Brusuglio, ad Affori, sicuramente un caso, abitava al 47 negli anni Sessanta il capo di Ordine nuovo milanese, Giancarlo Rognoni, condannato a 15 anni e sei mesi per la tentata strage sul treno Torino-Roma del 7 aprile 1973. Non sappiamo se vi abiti ancora. Si tratta di una villetta a due piani dove, in bella mostra, sul cancello d’ingresso troneggiano due aquile assai simili a quelle degli stemmi della Repubblica sociale italiana. Lì vicino, in via Teodoro Moneta (dove un tempo sorgeva «il cimitero vecchio di Brusuglio»), la mattina del 5 maggio, sempre del 1973, in un prato, furono rinvenute in una cassetta militare, trenta bombe a mano, tipo Srcm, in perfetto stato, uguali a quelle lanciate dai neofascisti meno di un mese prima, il 12 aprile, contro le forze dell’ordine, uccidendo l’agente di polizia Antonio Marino. Qualcuno aveva voluto disfarsene a seguito delle numerose perquisizioni che avevano interessato le abitazioni di numerosi neofascisti milanesi. Poche le vie da quelle parti, ma tante le bombe e le armi. Y
Frammenti di felicità nonostante le cicatrici
SEGNALI DI RISCOSSA NELL’AZIONE ANTIMAFIA
le idee - le iniziative
stenne che in tre occasioni, tra il 1963 e il 1974, i necrofori del cimitero di Brusuglio, mentre scavavano fosse per l’inumazione, avessero rinvenuto casse di color verde militare piene di armi. Una decina in totale che non vennero denunciate all’autorità, ma affidate all’addetto alla nettezza urbana del cimitero che se ne disfò scaricandole in una cava con altri rifiuti.
aprile 2017
M di
NaNdo
da il Fatto Quotidiano del 25 febbraio 2017
dalla
ChieSa
a che gioia. Oltre alla settimana bianca e della moda c’è ormai anche la settimana dell’antimafia. Che, nonostante le cicatrici, accende e lascia in ciascuno frammenti di felicità. Locri, sabato scorso, ad esempio. Scrutavo da vicino monsignor Nunzio Galantino, il segretario della Cei, quando parlava alle centinaia di familiari di vittime innocenti riunite da Libera. Ed era davvero uno spettacolo la sua tensione, mentre assicurava che «tutte, ma proprio tutte», le chiese della Calabria rifiutano la ’ndrangheta e non le danno spazio nemmeno nelle processioni, nemmeno in cambio di donazioni. O mentre ricordava la scomunica di papa Francesco, di cui aveva appena letto il messaggio. Come non riandare all’82, quando Giovanni Paolo II scese in Sicilia nei momenti più tragici e riuscì a non pronunciare mai la parola mafia (lo farà, finalmente, solo nel maggio del 1993, ndr), o agli odierni inchini dei preti sotto i balconi dei boss?
E la domenica la folla che all’arrivo di Mattarella, cosa da nessuno raccontata, intona spontaneamente Fratelli d’Italia, come per gridare che la Calabria vuole essere parte d’Italia, non per invocare soldi pubblici per le clientele, ma per condividere, dell’Italia e della sua Costituzione, diritti e libertà. Momenti da brivido. Che saranno dispiaciuti a chi nella notte ha tracciato le scritte contro don Ciotti, esaltate come libera espressione di pensiero da quella Rosy Canale portata anni fa in giro per l’Italia come eroina dell’antimafia, per ricevere standing ovation nei teatri più celebrati del nord. Per fortuna l’ubriacatura degli eroi da tam tam mediatico è finita, e pure questa è buona notizia, specie se confrontata con i 25mila giovani veri giunti a Locri martedì mattina.
Anche perché lunedì, in un altro teatro del nord, al Gaber della Regione Lombardia, Tina Montinaro, simbolo vero dell’antimafia, moglie di Antonio, il caposcorta di Giovanni Falcone, ha scosso i cuori di centinaia di persone insieme al figlio dell’agente Vito Schifani, commosso fino alle lacrime e ormai libero dalle telecamere di Vespa e Salvo Riina. Mentre il mattino dopo nella Milano che sogna la cacciata dei clan, nell’estremo nord
di Quarto Oggiaro – droga, violenza e generose associazioni in trincea –, una piazza intera si è colorata di bandiere e di grandi farfalle di cartone dedicate ciascuna a un caduto della lotta alla mafia. Promesse reciproche, canti, balli. Una vera festa dell’antimafia. Un ragazzino delle medie inferiori voleva lasciarmi in ricordo la sua farfalla, che mi riguardava. L’ho ringraziato e gli ho suggerito di tenerla per sé, per ricordare. Ho chiesto come si chiamasse. Nome e cognome erano incredibilmente gli stessi di un ex presidente della Repubblica, pura omonimia, ma meglio lui.
E poi mercoledì sera una gioia contagiosa all’università per la presentazione pubblica delle tesi migliori sulla criminalità organizzata. Collegamenti dall’estero con laureati che spiegavano perché gli è servito studiare quella materia: lo raccontavano dal Libano, dall’Ecuador, da Vienna, dall’Irlanda, dalla Spagna. Impegnati nella lotta alla droga, nell’aiuto ai rifugiati, nel contrasto delle ecomafie, nell’antiriciclaggio, nel turismo etico, per dire che il lavoro c’è, e pure di qualità. Un’altra scommessa vinta.
E infine giovedì, ancora alla Regione Lombardia, in un auditorium affollato, il festival delle idee. Quelle dei cittadini a cui la Commissione antimafia regionale ha finalmente chiesto di dire la loro su come usare i beni confiscati anziché farne la sede di associazioni spesso semi-sconosciute. Suscitando decine e decine di proposte: semplici cittadini, associazioni, scuole, studenti universitari. Un vero, prezioso scaffale delle idee per il prossimo futuro. E al pomeriggio l’incontro riservato con un gruppo di imprenditori prestigiosi vogliosi di sconfiggere la mafia a Milano e in Brianza con uno slancio che mai, tra prudenze e balbettii, avevo colto nei decenni. Bella sorpresa. Come la piccola festa organizzata in onore di Riccardo Orioles, giornalista formatore di talenti antimafiosi, cui sarà applicata la legge Bacchelli sotto la spinta di un inedito movimento di opinione.
Tutto bello e gioioso? No, cari lettori. C’è stata una serata in cui, grazie a Libera, si sono recitati i nomi delle vittime innocenti a Corsico, la celebre Corsico dello stoccafisso dei clan. Eravamo sessanta. In totale solitudine, con appena due persone dietro le finestre di palazzoni infiniti. Sembrava di essere nella Sicilia di Peppino Impastato. Eppure era giusto farlo. I frammenti di felicità non Y arrivano mai gratis.
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aprile 2017
Migranti: in fondo a il fiore del partigiano
le idee
LO STATO DI DIRITTO NEGATO DALLA TURCO-NAPOLITANO DEL ’98, DAI SINDACI-SCERIFFI,
I DI
Anche il “decreto Orlando-Minniti” nel solco da MicroMega del febbraio 2017
ALESSANDRO CANELLA
n un’intervista pubblicata pochi giorni fa dall’edizione locale del Corriere della Sera, l’assessore bolognese Matteo Lepore ha fatto molto arrabbiare i suoi colleghi di partito affermando che gli elettori non vedono più la differenza tra il Pd e gli altri partiti di centrodestra come Lega Nord e Forza Italia. Non è chiaro se l’esponente democratico parlasse di un problema solo ideologico oppure si riferisse a questioni molto pratiche, dal momento che sono ormai vent’anni che, nonostante programmi elettorali nominalmente dalla parte dei segmenti più deboli della società, illustri esponenti del centrosinistra, quasi tutti oggi iscritti al Pd, hanno dichiarato guerra ai poveri e agli emarginati a suon di provvedimenti legislativi ed ordinanze. Oggi fa discutere il decreto Minniti. Il ministro degli Interni democratico ha preparato una legge sulla sicurezza da fare invidia a quella targata Maroni e Berlusconi del 2009. Il nuovo decreto, in realtà, è solo la ciliegina sulla torta di un processo che è cominciato nel 1998, quando due attuali esponenti del Pd scrissero una legge da molti ritenuta spaventosa: la Turco-Napolitano.
La detenzione amministrativa per migranti Con l’obiettivo dichiarato di riordinare la materia dell’immigrazione, l’attuale presidente emerito della Repubblica e l’ex ministra della Solidarietà Sociale firmarono una legge che introdusse i Cpt (Centri di Permanenza Temporanea), gli antenati dei Cie: veri e propri centri di detenzione per migranti in attesa di espulsione. Per la prima volta nell’Italia repubblicana si sanciva la reclusione di persone che non avevano commesso reati penali, ma erano semplicemente sprovvisti di un documento. E le modalità del trattenimento hanno fatto assomigliare queste strutture a veri e propri lager etnici. Sebbene l’articolo 14 della legge, quello che istituiva i centri, affermasse anche che «Lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità. (...) È assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno», la realtà dei fatti si è dimostrata ben diversa. Numerose inchieste, in diversi Cpt sparsi per lo Stivale, hanno certificato che i migranti re-
Sceriffo. Marco Minniti, ministro dell’Interno ad alto gradimento (Foto
clusi erano oggetto di pestaggi, condizioni igienico-sanitarie indecorose, fino a sedazione non consapevole con farmaci mischiati agli alimenti.
La stagione dei sindaci-sceriffi Il livello statale, però, non fu l’unico su cui agirono esponenti del centrosinistra in questa guerra ai poveri. Per tutto il primo decennio del secolo, in tantissime città italiane amministrate dal centrosinistra, fioccarono provvedimenti e ordinanze contro le fasce più emarginate della popolazione: mendicanti, lavavetri, clochard, tossicodipendenti e migranti. Uno degli esempi più simbolici riguarda Padova, dove nel 2006 il sindaco dem Flavio Zanonato, ordinò la costruzione di un muro per separare la città dal ghetto di via Anelli. Il muro, per quanto simbolico, non fu l’unico elemento urbanistico messo in campo per scoraggiare la presenza di indigenti. In quegli anni fiorì una vera e propria architettura ostile su e giù per il Paese. Dalle panchine con braccioli per impedire ai clochard di sdraiarsi alla chiusura o rimozione di fontanelle pubbliche, dalle toilette a pagamento
Ciro FusCo-ansa)
nelle stazioni agli spuntoni metallici davanti ai portoni per impedire il bivacco: stratagemmi per allontanare il degrado – questa la parola più utilizzata in quegli anni – rappresentato dagli individui più poveri. Nel novembre del 2009, a Firenze, il sindaco della città, un certo Matteo Renzi, firmò un’ordinanza anti-accattonaggio che vietava di chiedere l’elemosina in molti luoghi e, non potendo vietare in toto la questua, la consentiva solo in alcune zone purché non fosse “aggressiva”, cioè non disturbasse i cittadini “normali”. La pena ai trasgressori, in un paradosso implicito, era una multa da 80 a 480 euro. Lo stesso Renzi, però, era già intervenuto l’anno precedente sul tema dei lavavetri fermi ai semafori con un’ordinanza che prevedeva sempre multe e allontanamenti. Il tema dei lavavetri fu molto caro ai sindacisceriffo, come furono ribattezzati in quella stagione politica. E nei primi cittadini di centrosinistra si registra una sorta di primato. Appena insediato, il neo-sindaco di Bologna Sergio Cofferati dichiarò guerra ai lavavetri, arrivando ad ipotizzare che dietro di loro ci fosse il racket. Un’inchiesta della Procura di Bologna sul
destra
il fiore del partigiano
DAI NUOVI PROVVEDIMENTI
tema fu archiviata perché non riuscì a trovare riscontri. Cofferati invocò fortemente più poteri al Ministero, presieduto allora da Roberto Maroni. E fu accontentato. Nel frattempo, preconizzando uno slogan di Matteo Salvini, fece rombare le ruspe contro baracche e insediamenti di fortuna abitati da disperati sull’argine del fiume Reno.
L’accoglienza disincentivante L’accanimento contro i poveri dell’ex sindacalista, che curiosamente oggi si colloca a sinistra del Pd, fu però più organico e strutturale. La giunta Cofferati postulò e realizzò la “accoglienza disincentivante”, un’espressione ossimorica che si tradusse con una riorganizzazione (e numerosi tagli) dei servizi sociali, al fine malcelato di escludere e allontanare dalla città gli indigenti. Fin dal suo insediamento, nel 2004, Cofferati sostenne che Bologna era una città troppo tollerante e accogliente e che, se lo fosse stata meno, non si sarebbe dovuta accollare il peso dell’assistenza a senza tetto provenienti da altre città. Nel 2007 la vicesindaco Adriana Scaramuzzino affermò pubblicamente che i dormitori pubblici sarebbero stati a pagamento. Una sorta di selezione per privilegiare una “elite” tra i clochard. In questo clima anti-poveri, lo stesso anno Mariano Tuccella, un homeless noto in città, fu pestato a sangue in strada da due ragazzini, agonizzò in coma alcune settimane e morì. Il cambio di passo, però, si registrò con la riforma del decentramento dei servizi. Anche in questo caso il proposito era nobile: avvicinare i servizi comunali ai cittadini trasferendo competenze ai Quartieri. La traduzione concreta fu il vincolo della residenza per l’accesso ai servizi sociali, con la conseguenza che chi non era residente (i senza dimora) incontrava grosse difficoltà ad usufruirne. Parallelamente furono tagliati servizi a bassa soglia: il drop in che distribuiva metadone ai tossicodipendenti, la mensa continuA A pAginA 26 ➔
VERITÀ NASCOSTE - QUANDO IL GRUPPO TEME LA DIVERSITÀ
le idee
securitario
La sponda dei crimini dell’odio
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aprile 2017
S
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da il manifesto del 14 gennaio 2017
SaraNtiS thaNoPuloS
econdo dati della Polizia di Londra e dell’Fbi, i crimini dell’odio (legati al pregiudizio nei confronti della diversità) hanno avuto una forte impennata dopo il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump. Sembra che, almeno in Gran Bretagna, questi crimini siano poi tornati ai livelli precedenti. Resta il fatto di una loro correlazione innegabile con due vittorie elettorali della xenofobia. Indubbiamente sentirsi dalla parte dei più agisce come una legittimazione dell’aggressività nei confronti dei diversi (sul piano del colore della pelle, della religione, dei costumi, delle preferenze sessuali) e dei marginali. Pure come autorizzazione della sua estrinsecazione. Freud ha spiegato la trasmissione dei sintomi isterici (i fenomeni di «isteria» di gruppo) mediante un meccanismo di identificazione: tra più individui si stabilisce un legame per analogia su un punto (un’affinità psichica) e quando in uno di loro l’elemento comune estrinseca il suo potenziale patologico, la stessa cosa accade anche negli altri. La pato-
L’ex ministra Cécile Kyenge, fu oggetto di attacchi di bassa Lega (domeniCo stinellis - ap photo)
logia si propaga come il fuoco tra oggetti infiammabili contigui. Nel caso delle manifestazioni emotive morbose di massa della nostra epoca, la contiguità si stabilisce attraverso il processo di omogeneizzazione, indifferenziazione delle reazioni psicologiche che è tipico di un assetto psichico collettivo difensivo (come quello che sfocia nel rigetto della diversità). L’esplosione di un comportamento distruttivo in questo o in quell’altro individuo si trasmette facilmente ad altri individui parimenti vulnerabili, a condizione che questo comportamento, che agisce come detonatore di ulteriori e più violente esplosioni, abbia la risonanza necessaria. I mezzi di comunicazione agiscono da amplificatori in misura che va ben oltre il diritto all’informazione. La violenza xenofoba (in modo analogo al terrorismo) è particolarmente redditizia nel mercato delle notizie. Cattura l’attenzione di tutti in modi complessi e contraddittori. Attiva sentimenti di compassione nei confronti delle vittime e agisce come argine delle proprie riserve nei confronti dell’alterità. Crea un sollievo per il fatto di sentirsi né carnefici né vittime. Su un piano più insano stimola un’identificazione inconscia con l’aggressore: meglio carnefici che vittime. L’odio legato al pregiudizio si diffonde rapidamente, con il contributo indiretto dei mass media, a causa del suo carattere identitario. Produce un senso di appartenenza perverso che non riconosce le differenze e lo scambio ed è finalizzato a mantenere il soggetto che vi aderisce nel campo di una maggioranza indistinta, compatta, anonima. La preoccupazione sottostante è di finire, a causa delle proprie sensibilità, sofferenze e difficoltà personali, minoritari, messi ai margini. Si odia nel diverso la possibilità di essere «altro», la tentazione di abbandonare abitudini e sicurezze collaudate per dare voce alle proprie inclinazioni più private e particolari, sperimentare altri modi di essere. Si odia il proprio desiderio che si identifica con il desiderio del discriminato, la compassione più sconveniente e insopportabile per chi sente il proprio privilegio, vero o presunto che sia stato, in stato di avanzata precarietà. La fiammata di violenza nei confronti delle minoranze etniche e culturali, seguente all’ebbrezza di sentirsi confermati nella propria esigenza di essere dalla parte dei più, illumina il carattere esaltante, drogante della compulsione che guida il soggetto del pregiudizio. L’esigenza di ingannare, far tacere la sua doppia mancanza: il privarsi della parte più vera di sé nell’atto di privarsi delY l’altro.
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il fiore del partigiano
dei poveri di via del Porto, l’asilo notturno di via Lombardia e un laboratorio informatico destinato ai clochard. Il 5 gennaio del 2011, con la città commissariata e guidata da Anna Maria Cancellieri, la riforma del decentramento mostrò l’effetto più nefasto. Devid Berghi, un neonato di pochi giorni, figlio di una coppia che, insieme ad altri due figli, trovava riparo diurno nella centralissima biblioteca Sala Borsa, morì di polmonite e di freddo. A produrre la tragedia fu anche e soprattutto un cortocircuito burocratico. Il Quartiere Santo Stefano aspettava la documentazione del Quartiere San Donato sull’affido dei primi due figli della coppia. Il Quartiere Saragozza scrisse al Santo Stefano per segnalare la presenza in Sala Borsa della famiglia con i tre figli ma, come spiegò l’amministrazione commissariale, «non risulta che in seguito ci sia stato l’intervento dei servizi sociali».
Il Piano Casa La guerra ai poveri, però, è continuata anche a livello nazionale ed ha avuto un nuovo apice nel 2014 con il Piano Casa. Se è vero che la stesura fu in capo a Maurizio Lupi, ex ministro di Ncd, ora Ap, il premier Renzi e il gruppo parlamentare del Pd avallarono il decreto. L’ormai famoso articolo 5 della legge, oggi messo in discussione, recita: «Chiunque occupa abusivamente un immobile ai sensi dell’articolo 633, primo comma, del codice penale, non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Una misura che ha generato numerosi contenziosi, dubbi di costituziona-
lità e persino inchieste giudiziarie. Ancora a Bologna, l’attuale sindaco Virginio Merola fu oggetto di indagine giudiziaria, poi archiviata, per aver disposto il riallaccio dell’utenza idrica in due occupazioni abitative cittadine in cui erano presenti minori.
I provvedimenti xenofobi L’altro fronte caldo italiano ed europeo, i flussi migratori, non ha mancato di registrare prese di posizione e provvedimenti discutibili di amministratori locali di centrosinistra. Se le barricate anti-profughi dei cittadini di Gorino, nel ferrarese, hanno avuto un risalto nazionale diventando simbolo di xenofobia, non altrettanto clamore ha fatto il gesto di Raffaele Scarinzi, sindaco dem di Vitulano (provincia di Benevento), che non molto tempo fa fece scaricare camionate di terra sulla strada dalla quale do-
vevano transitare alcuni richiedenti asilo inviati dalla Prefettura per raggiungere una struttura sul territorio comunale. Pochi mesi prima il sindaco di Ventimiglia, Enrico Ioculano, firmò un’ordinanza che vietava alla popolazione di dare da mangiare o da bere ai migranti che speravano di varcare la frontiera con la Francia. Fastidio dal sapore xenofobo, inoltre, è trapelato dalle dichiarazioni di Dario Nardella, attuale sindaco di Firenze, che pochi giorni fa lamentava un’eccessiva presenza di cittadini di origine straniera negli alloggi popolari.
Il decreto Minniti Oggi si discute del decreto Minniti sulla sicurezza. Il provvedimento arriva dopo l’intervento sui migranti, in cui viene recepita l’idea del Guardasigilli Andrea Orlando, oggi candidato della sinistra nel congresso Pd,
lapresse)
le idee
➔ segue dA pAginA 25
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aprile 2017
LUIGI MANCONI MOTIVA IL SUO DISSENSO CHE LO HA PORTATO A NON VOTARE IL DECRETO
«No a quella sorta di diritto “etnico” di Minniti»
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da il manifesto del 30 marzo 2017
na giustizia minore e un diritto diseguale. L’approvazione, ieri, del decreto OrlandoMinniti sancisce l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di diritto “etnico” per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria “propria” con deroghe significative alle garanzie processuali comuni. Deroghe non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. È questa la ragione principale che ha indotto me e Walter Tocci a non partecipare al voto di fiducia richiesto dal governo sulle misure di «Accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, e per il contrasto dell’immigrazione illegale». Con questo gesto abbiamo inteso esprimere il nostro giudizio fortemente negativo su un provvedimento di legge che introduce una profonda lesione nel nostro sistema di garanzie. Una normativa che, appunto, non prevede appello per il richiedente asilo che ha ricevuto un diniego alla domanda di protezione.
La possibilità di impugnare i provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali è limitata al primo grado e fortemente affievolita poiché, salvo casi eccezionali, non è previsto il contraddittorio: ovvero che il richiedente asilo compaia davanti al giudice e possa esercitare pienamente il suo diritto alla difesa. Così una procedura che regola tutte le iniziative giudiziarie, comprese le liti condominiali, il furto di un chinotto in un supermercato e l’opposizione a una sanzione amministrativa, non viene applicata nel caso di un diritto fondamentale della persona, come la protezione internazionale, riconosciuta dalla nostra Costituzione. L’alterazione di questa procedura e la sua riduzione a due gradi di giudizio ha conseguenze pesanti sulla vita dei richiedenti asilo e sui diritti di cui sono titolari. Ne discende che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato proprio ai soggetti più vulnerabili. E volendo entrare ancor più nel merito della questione, quanto emerge nel corso del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione territoriale, in alcuni casi e per una serie di ragioni, potrebbe non bastare per disegnare il quadro completo della vita
di quella persona e far emergere gli aspetti più delicati da un punto di vista umanitario. A questo serve l’udienza col giudice, e la presenza di un certo numero di esiti favorevoli al richiedente asilo in quella sede con il conseguente riconoscimento di una forma di protezione, nonostante la decisione della Commissione territoriale, non può che confermare quanto sia indispensabile garantire quell’impianto complesso – con il contraddittorio e con i suoi tre gradi di giudizio – previsto dal nostro ordinamento. Le esigenze di riduzione dei tempi di queste procedure, dato il contesto difficile e faticoso in cui il nostro Paese si sta muovendo e si muoverà nei prossimi anni, non vanno certo trascurate. Superare tutti i limiti evidenti emersi nella gestione del fenomeno migratorio deve essere un obiettivo per tutti perché migliorerebbe le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche dei territori coinvolti nell’accoglienza. Ma il risparmio del tempo nelle procedure non può corrispondere a un risparmio di garanzie e diritti. Y
Luigi Manconi
Senatore del Partito Democratico
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il fiore del partigiano
La solidarietà criminalizzata
VENTIMIGLIA E NON SOLO
le idee
che limita le garanzie per i richiedenti asilo. La misura riduce da due a uno il numero dei ricorsi che un richiedente asilo può presentare in tribunale qualora la sua domanda di protezione fosse stata respinta dalla commissione territoriale. Inoltre ripropone, con una formulazione leggermente differente, la detenzione amministrativa alla base dei vecchi Cpt e Cie, ora Cpr. Il decreto sicurezza, invece, allarga lo spettro a tutti i settori della diversità sociale considerata deviante, consentendo ai sindaci di disporre l’allontanamento e il divieto di accesso nei centri cittadini di tutti coloro che discrezionalmente vengono ritenuti un problema per il decoro urbano, oltre a multe pecuniarie per i medesimi. Alle critiche avanzate da molti, Roberto Saviano in primis, il ministro replica che il provvedimento non sarebbe di destra perché «non aumenta le pene e non introduce nuovi reati». Eppure l’allontanamento di persone è di per sé una pena. È quanto avveniva con il confino su base politica o etnica. Su questo versante la formulazione della legge è generica e ambigua, proprio per lasciare massima discrezionalità ai sindaci. Gli interventi sono «diretti a prevenire e contrastare situazioni che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità», quali spaccio, sfruttamento della prostituzione e accattonaggio con minori e disabili. La legge, inoltre, prevede l’istituzione di “zone rosse” o “zone vip”, a cui è vietato l’accesso a persone che rappresentano una minaccia per il decoro: aree museali, luoghi turistici e parchi pubblici. Insomma: tutti i luoghi dove la “gente comune” non deve essere disturbata anche solo dalla presenza di emarginati. Minniti chiede anche: «è di destra una legge che sottrae la definizione delle politiche della sicurezza nelle nostre città alla competenza esclusiva degli apparati, trasformando la sicurezza in bene comune e chiamando alla sua cogestione i rappresentanti liberamente eletti dal popolo, vale a dire i sindaci?». La risposta è sì, dal momento che storicamente in Italia sono i partiti conservatori a pretendere più poteri e più discrezionalità per gli organi esecutivi. In uno stato di diritto le leggi valgono per tutti, da Aosta a Siracusa, e il potere giudiziario, quello che può disporre l’allontanamento di una persona da un luogo perché ha commesso un reato, non funziona sulla base di un consenso raccolto nelle urne, né spetta al sindaco, ma ai tribunali. Secondo questa logica, i sindaci potrebbero discrezionalmente e potenzialmente decidere di rimuovere tutto il dissenso con un pretesto legato al decoro. Proprio attraverso il concetto di decoro, il testo della legge, pur evocandola, sposta di un passo dalla condotta allo status il criterio della punibilità. Il provvedimento, ora al vaglio del Senato, asseconda dunque le pulsioni populiste e la guerra fra poveri, marginalizzando sempre più il disagio senza alcuna intenzione di riY solverlo. Alessandro Canella
aprile 2017
C di
da il manifesto del 29 marzo 2017
livio PePiNo
i sono fatti illuminanti su quello che sarà il nostro futuro se non si contrastano prassi e culture che si stanno diffondendo in modo preoccupante. Il primo fatto è accaduto a Ventimiglia, confine ligure con la Francia e, per questo, luogo di “stazionamento” di molti migranti in attesa di varcare il confine. Ventimiglia e la zona dei “Balzi rossi” sono stati nell’estate scorsa sotto i riflettori per le proteste contro il blocco della frontiera francese poste in essere da migranti, dapprima accampati sulla spiaggia e successivamente ripiegati in città dove, peraltro, le strutture di accoglienza erano e sono insufficienti. Così molti dormono in strada e vengono sfamati dalla Caritas o da una mensa parrocchiale. Ma anche queste non bastano. Perciò ogni sera volontari francesi provenienti dalla Val Roja distribuiscono a chi ne ha bisogno panini, acqua e tè. Ma a Ventimiglia vige una ordinanza, emessa dal sindaco l’11 agosto 2016, che vieta la distribuzione di cibo ai migranti e così – incredibile ma vero – nei giorni scorsi tre volontari sono stati denunciati per il reato di «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità» previsto all’art. 650 del codice penale. All’altro capo dell’Italia, nel mare che divide la Sicilia dalle coste africane e in acque internazionali, si muovono da qualche tempo alcune navi di organizzazioni non governative che vigilano su eventuali naufragi e, nel caso, soccorrono i naufraghi o recuperano i corpi di chi non ce l’ha fatta. Anche qui è accaduto che la Procura della Repubblica di Catania abbia aperto una «indagine conoscitiva» sulle organizzazioni interessate sospettate di favorire l’immigrazione clandestina se non addirittura – come sostengono alcuni commentatori – di agevolare gli scafisti.
Questa criminalizzazione della solidarietà che, paradossalmente (o forse no), colpisce chi cerca di sopperire alle lacune delle istituzioni ha dei riferimenti precisi. Essa, infatti, è ormai regola negli Stati Uniti, dove il diritto penale sempre più persegue non solo i poveri ma anche chi vuole esercitare il diritto (o il dovere morale) di aiutarli. Il fenomeno è descritto in termini analitici, e con ampia esemplificazione, in un recente e lucido libro di Elisabetta Grande (Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017) da cui si ap-
prende, tra l’altro, che in molti Stati il divieto di camping penalmente sanzionato colpisce non solo l’homeless che vi fa ricorso, ma addirittura il proprietario che consenta al senza tetto di dormire in tenda sul proprio terreno per più di cinque giorni consecutivi, o che analogo divieto si estende all’autorizzazione a parcheggiare nel proprio spazio privato l’auto utilizzata da un homeless come abitazione. Quanto alla somministrazione di cibo ai poveri, poi, si è assistito finanche all’arresto di un novantenne, fondatore di un’organizzazione benefica, colpevole di servire pasti caldi agli homeless su una spiaggia e, come lui, di altri attivisti dalla Florida al Texas o alla richiesta di cifre altissime, come tassa per l’occupazione di suolo pubblico richiesta, in California e in South Carolina, alle organizzazioni che distribuiscono cibo nei parchi. Il meccanismo della criminalizzazione è lo stesso adottato dal sindaco di Ventimiglia: l’adozione di ordinanze contenenti proibizioni dettate da motivazioni per lo più speciose, come quella di garantire la sicurezza dei consociati, messa in pericolo dall’assembramento dei bisognosi che si recano a mangiare, o addirittura quella di proteggere la sicurezza alimentare o la dignità degli homeless, che meriterebbero un cibo controllato e un luogo coperto in cui consumare il pasto (tacendo che cibi e luoghi siffatti in realtà non esistono). La cosa più inquietante è che quelle ordinanze, comparse la prima volta alla fine degli anni Novanta, hanno visto di recente una notevole intensificazione, con un aumento del 47% nel solo periodo tra il 2010 e il 2014, parallelamente al crescere della povertà e del numero di soggetti esclusi anche dai buoni alimentari assistenziali.
Ci fu, nella storia, un tempo (nell’Alto Medioevo) in cui la povertà divenne fonte di diritti, tanto da far assurgere il patrimonio della Chiesa a «proprietà dei poveri», destinata a chi non era in grado di mantenersi con il proprio lavoro e non alienabile neppure dai vescovi. Ma fu eccezione: quando il diritto si è occupato dei poveri lo ha fatto, per lo più, in chiave di punizione e di difesa della società. Ciò è stato messo in discussione, nel nostro Paese, dalla Costituzione repubblicana, che pone a tutti un dovere di solidarietà e indica l’uguaglianza sociale come obiettivo delle istituzioni. Sarebbe bene non dimenticarlo, anche da parte dei sindaci e dei procuratori della ReY pubblica.
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le storie - la Storia
aprile 2017
il fiore del partigiano
Accoglienza: esistono anche modelli che funzionano
LE ESPERIENZE POSITIVE CHE UN’INFORMAZIONE DISTRATTA E UNA PROPAGANDA
C DI
da il manifesto del 28 marzo 2017
GUIDO VIALE
i sono molti modi di gestire l’accoglienza dei profughi. I media si occupano quasi solo dei casi peggiori che comportano ruberie, isolamento e maltrattamenti delle persone ospitate, che suscitano o alimentano reazioni di rigetto. Ma ci sono molti esempi, anche di successo, di cui i media parlano poco, lasciando l’impressione, che poi si alimenta con un effetto a valanga, che la maggioranza della popolazione veda nei profughi la principale fonte del proprio disagio; che ha invece ben altre origini. È ora di raccogliere e rendere pubbliche queste esperienze positive. Una è quella dell’associazione Padova Accoglie, reduce da una grande manifestazione pro accoglienza – Side by Side – a Venezia il 19 marzo scorso con oltre 4000 persone, promossa con Melting Pot e Overthe fortress. Tra i fondatori e coordinatori di Padova Accoglie c’è Stefano Ferro, la cui attività operativa si svolge principalmente attraverso la cooperativa Percorsovita Onlus, nota per l’attività di strada contro la tratta svolta da don Luca Favarin. Percorso Vita ha aperto 12 centri di accoglienza a Padova e provincia con più di 100 richiedenti protezione internazionale. Da giugno dell’anno scorso ha aperto il secondo ristorante che, insieme a quello aperto due anni fa, dà lavoro complessivamente a 12-15 richiedenti asilo di cui tre assunti con contratto a tempo indeterminato, tre in formazione professionale e gli altri con contratto a tempo determinato o pagati, finora, con voucher. L’ultimo nato, Strada Facendo Ristorante etico, si trova in una ex casa del popolo, poi trasformata in un ristorante che non ha avuto successo e ha ceduto i locali alla cooperativa. L’altro ristorante, The last one, somministra pasti preparati nella cucina di Strada Facendo, dove è stata centralizzata la produzione. La cucina è di alto livello (Trip Advisor: 25 eccellente e 6 buono su 35 valutazioni), ma con un rapporto qualità/prezzo imbattibile. Biggy, vicecuoco della Guinea Bissau, ha svolto il suo apprendistato con chef di livello come Dimitri e Ale Meo, che prestano la loro collaborazione rifiutando offerte di prestigio più vantaggiose. Il ristorante non propone una cucina etnica, ma multiregionale italiana, con prodotti di alta qualità che per questo non sono a chilometri zero né esclusivamente biologici. Chef a parte, nessuno aveva esperienza nel settore della ristorazione, a partire dalla responsabile Carolina che nei giorni di chiusura del locale è a capo, con don Luca, di una unità di strada anti tratta che solo un mese
fa ha portato in salvo due ragazze nigeriane di 16 anni e che ha trasformato il locale come fosse casa sua. Il successo di entrambe le iniziative è stato travolgente: i locali sono sempre affollati e Strada Facendo prevede di raggiungere il punto di pareggio quest’anno. Accanto a queste attività, Percorso Vita ha attivato un campo di due ettari e mezzo con annesso casale in località Saccolongo, precedentemente utilizzato per coltivazioni di biomassa, bonificandolo e destinandolo, sotto la guida di Guglielmo Donadello, responsabile na- hanno già ricevuto il diniego sia della commiszionale tecniche di agricoltura di Legambiente, sione che del giudice e sono in attesa di appello, ad alberi da frutta e legumi di specie che non ri- che per molti dovrebbe svolgersi prima che chiedono trattamenti. È un esempio contagioso entri in vigore la sua abrogazione con il decreto perché molti agricoltori vicini, di fronte a que- Minniti. Se il giudizio di primo grado sarà consta vistosa trasformazione della produzione, si fermato o quando non sarà più possibile adire sono dichiarati disposti a cedere alla coopera- all’appello, tutti i lavoratori della cooperativa tiva parti dei loro terreni, perché le coltivazioni dovranno venir licenziati ed entrare in clandea cui sono attualmente destinati non danno stinità. Un modo perfetto per distruggere la vita rendimenti soddisfacenti. Così Percorso Vita è di tante persone che dopo mille vicissitudini doin procinto di acquisire nuovi e consistenti ap- lorose avevano trovato il modo per ricostruirpezzamenti che potrebbero garantire alcune de- sela; ma anche per mandare in malora un’attività economica florida e un esperimento cine di ulteriori posti di lavoro. Tra gli altri progetti, un Gruppo d’acquisto so- di accoglienza da moltiplicare. lidale e un master in mediazione culturale con È una situazione che rischia di travolgere non il dipartimento di agraria dell’Università di Pa- solo questa impresa, ma tutto quanto di posidova. Il corso è partito lo scorso gennaio con 17 tivo è stato creato nell’ambito dell’accoglienza allievi che fanno il tirocinio al ristorante e uno in tutto il Paese. In balìa di una legislazione feroce e incoerente la cosiddetta accoglienza dello dei quali è già stato assunto dalla cooperativa. Anche l’accettazione è un esempio di successo, Stato italiano si trasforma così nel suo esatto non solo sul posto di lavoro. Biggy, il vicecuoco, contrario. Una vicenda che richiede un’immeha una casa in affitto in località Brusogone, diata mobilitazione perché non finisca così. Y dove a vive con due colleghi. È una zona abitata da anziani, non sempre in buoni rapporti Pioltello - Con l’ANPI, lezioni nemmeno tra di loro, che quando sono arrivati quei di “Cittadinanza e Costituzione “neri” hanno avuto una reaper studenti figli di immigrati zione di rigetto. Ma poi, vedendoli gentili, collaborativi e A Pioltello, con il supporto e l’intermediazione del Coanche impegnati a rimettere a mune, è stata stipulata una convenzione fra l’Associaposto situazioni in abbandono zione delle Comunità Islamiche e il CPIA – Centro – aiuole, ringhiere, locali coProvinciale per l’Istruzione agli Adulti – per lo svolgimuni, ecc. – hanno cambiato mento di corsi di lingua araba e hurdu nei locali del Cenatteggiamento e ora non solo li tro, destinati ai figli di immigrati extra UE nati in Italia o trattano da pari a pari (hanno che, comunque, hanno frequentato solo scuole italiane e anche migliorato i rapporti tra non conoscono le lingue della loro famiglia di origine. loro), ma una vicina prepara La convenzione prevede, inoltre, l’inserimento nella proanche per loro la cena tutte le grammazione dei corsi di un’ora settimanale di insegnasere per pura amicizia. mento di “Cittadinanza e Costituzione” rivolti agli Tutto bene? Neanche per studenti della scuola secondaria, che, su richiesta delsogno! A Padova la commisl’Amministrazione comunale, la Sezione locale dell’ANPI sione territoriale per le richieha accettato di tenere, con propri volontari. ste di asilo dispone il 78 per Il ciclo di lezioni (svolto nel periodo gennaio-aprile 2017) cento di dinieghi e quando curato dall’ANPI di Pioltello ha come oggetto specifico i sono presenti esponenti della primi 12 articoli della Costituzione italiana relativi ai Lega, il 90 per cento. Tutti i Y Principi Fondamentali. membri della cooperativa Pierino Rossini Presidente ANPI di Pioltello
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il fiore del partigiano IN MALA FEDE NASCONDONO
da il manifesto del 14 aprile 2016
a rivista statunitense Fortune lo ha classificato tra le «50 personalità più influenti del pianeta». Mimmo Lucano, sindaco di Riace dal 2004, è un uomo schivo che non si lascia ammaliare dalle luci della ribalta. Sente più l’onore o il peso di questo riconoscimento? E che effetto fa, a un uomo riservato come lei, essere annoverato tra le personalità influenti del globo? La premessa è che non sono, né mi sento, potente piuttosto che influente. Qui a Riace abbiamo solo sperimentato un’idea che a me è connaturata sin dai tempi in cui militavo, negli anni’70, nel movimento studentesco. Volevamo un mondo libero e giusto e abbiamo provato a costruirlo in queste lande. Io faccio il mio lavoro di sindaco con normalità. La nostra la definisco l’utopia della normalità. Mai troveranno spazio ordinanze contro rom o lavavetri come accaduto altrove. Perché, come dico spesso, il migrante che arriva a Riace ha gli stessi diritti del sindaco. È un microcosmo che declina una Calabria solidale, dove i germi dell’umanità hanno attecchito. E questo è anzitutto un processo culturale che mi piace condividere con tutti e che deve partire da una consapevolezza, ovvero che fenomeni epocali, come le migrazioni cui stiamo assistendo, non si arresteranno finché non cesseranno le politiche predatorie del mondo occidentale. Perché un laboratorio come quello di Riace, un esperimento di integrazione reale da perseguire e da emulare, è stato ignorato per anni, o è arrivato agli onori della cronaca con grande ritardo? Perché è più facile urlare, veicolando odio e disprezzo come fa Salvini che è onnipresente in tv. Le guerre tra poveri, le isterie xenofobe, le speculazioni fanno audience, mentre i casi di buona politica dell’immigrazione ne fanno molta meno. La nostra “utopia della normalità” non tira perché è più facile diffondere un discorso razzista che costruire ponti sociali e meticciati culturali. Anche le soluzioni semplicistiche, come combattere il traffico di esseri umani bombardando le carrette del mare come disse Renzi mesi fa, sono boutade che non risolvono i problemi, sono solo utili alla propaganda. A Riace si accoglie il migrante e non lo si respinge, lo si inserisce nel tessuto sociale e non lo si rinchiude in un hot spot. Qui vivono stabilmente e lavorano 400 rifugiati. Che idea s’è fatto delle politiche europee in tema di immigrazione? A Riace non esistono linee di demarcazione, fili spinati, gabbie. C’è semplicemente un’integrazione diffusa dove aborriamo ogni forma di nazionalismo che è alla base dei fallimenti dell’Europa in tema di processi migratori. Pochi credevano che un borgo
semideserto si potesse davvero rianimare, che le botteghe artigiane della tessitura della ginestra o della lavorazione della ceramica potessero davvero riaprire, che a Riace si potessero davvero organizzare asili e scuole multilingue per far crescere i figli dei migranti senza bandiere e barriere nazionali, etniche o religiose. Il laboratorio Riace nasce e cresce nelle specificità della Locride. Come si concilia con la narrativa criminale in cui la Locride è confinata? La Calabria è una terra stranissima, è la terra degli estremi e delle contraddizioni. Qui a Riace non ci sentiamo portatori di un’idea salvifica ma crediamo che sia la normalità la vera utopia rivoluzionaria. Le risorse che lo Stato destina ai migranti le spendiamo al meglio. I 35 euro al giorno che lo Stato elargisce per l’ospitalità di ogni migrante – un costo dimezzato rispetto a quello che comporterebbe la sua permanenza in un centro d’accoglienza – non li usiamo in modo assistenziale e parassitario, ma li investiamo per creare posti di lavoro, istituire borse di lavoro. E i migranti molte volte li usano come rimesse verso i loro Paesi di origine. Perché qui nulla si spreca e mai si specula. In altri contesti le risorse disponibili per l’accoglienza sono state accaparrate da mascalzoni che a volte hanno intrappolato i migranti in strutture indegne. In alcuni casi si sono persino infiltrate le mafie. Come fa un amministratore a distinguere i veri operatori dell’accoglienza dagli speculatori? Partendo da una presa di coscienza: che il migrante è una risorsa e non un business. Che non si lucra sulla disperazione della povera gente, ma si lavora insieme a loro per il riscatto. Quel che in questi anni abbiamo provato a fare con il nostro ‘albergo diffuso’, cioè l’assegnazione ai migranti delle case abbandonate, che è arrivato a disporre di ben 150 posti letto. Oppure con i laboratori artigianali, la raccolta differenziata dei rifiuti – che all’inizio i migranti facevano con gli asini, per inerpicarsi nei vicoli del borgo – e poi con le piccole imprese di agricoltura biologica. Lei parteciperà al convegno di Cassano allo Jonio su “Riduzione in schiavitù e l’alternativa di Riace”, organizzato dall’associazione “Combinato disposto” con Arci, Flai Cgil e il vescovo don Savino. Teme che la schiavitù possa costituire un moderno modello di sviluppo e una diffusa disciplina del mercato del lavoro? Assolutamente sì. Qui nel Mezzogiorno i migranti vivono una condizione di schiavismo legalizzato. Ma non se ne esce rafforzando le politiche securitarie, impiantando uno stato di polizia o inasprendo le leggi, ma solo estendendo le tutele e garantendo Y politiche di accoglienza. Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
OSSESSIONI OCCIDENTALI
le idee
L
Il sindaco di Riace: «Il migrante è una risorsa e non un business»
aprile 2017
Integrarsi non è un obbligo
T
di
da il manifesto del 27 marzo 2016
emaNuele giordaNa
utte le volte che la guerra altrove guerreggiata bussa alle porte di casa nostra, la domanda si ripete. Ma questi islamici che vivono tra noi, e da noi così diversi, si sono integrati? Si vogliono o no integrare nelle società che li ospitano accettandone i valori fondanti? Sentir far queste domande in televisione al musulmano di turno e vederne l’imbarazzo nel tentativo di dare la risposta che vada bene all’intervistatore, ha un che di penoso e umiliante. Come se integrarsi fosse un dovere e non un diritto. Chi è ospite in un Paese deve infatti rispettarne le regole, le leggi e le tradizioni ma non per questo è obbligato a condividerle. Non è questione di relativismo culturale ma di rispetto: il rispetto che si deve a chi vive in mezzo a noi ma non ha nessuna intenzione di integrarsi se questo vuole dire condividere, per amore o per forza, i nostri valori. Se per avventura andassimo a lavorare in Arabia saudita, saremmo obbligati a rispettare codici che non condividiamo, ma nessuno può chiederci l’integrazione in quella società. Vale anche in un Paese europeo o negli Stati Uniti. Possiamo osservare le leggi ma nessuno può costringerci ad approvare la pena di morte o il rito del pub al sabato sera che impone di ubriacarsi sino a stare male. Nella convinzione che i nostri siano i valori della civiltà più avanzata del pianeta facciamo fatica ad accettare che qualcuno non li condivida. E ci pare assurdo che un musulmano praticante, pur non essendo un terrorista, possa continuare a pensare che le nostre società sono la terra dei miscredenti e che quindi ci si può vivere ma mantenendo le distanze. L’integrazione è solo una bella favola e non solo perché le nostre paure ne impediscono comunque la realizzazione, ma perché ognuno è libero di integrarsi se vuole oppure di rimanere convinto delle sue convinzioni. Solo un mondo senza frontiere, in cui l’identità non sia una vessillo ma solo una delle tante risorse, è quello di un’integrazione possibile basata sul rispetto della diversità. Ma questo è un mondo di frontiere, per lo più chiuse e per lo più disegnate da noi, in cui si è accettati solo se si condivide e si abiura. Ha ragione lo storico indiano Dipesh Chakrabarti: dovremmo «provincializzare l’Europa», renderci conto che non siamo il Verbo, che la civiltà è un progresso comune e che possiamo persino imparare dagli altri. Senza pretendere che ci assomiglino e senza essere obbligati ad assomigliare a loro. Y
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le storie - la Storia
aprile 2017
Kater I Rades, i dimenticati il fiore del partigiano
UNO DEI SOPRAVVISSUTI ALLA STRAGE, KRENAR XHAVARA, RACCONTA
Il 28 marzo 1997 la corvetta militare Sibilla impegnata nel blocco navale deciso dall’allora governo Prodi, speronò la carretta del mare Kater I Rades affondandola. Furono 105 morti
V DI
da il manifesto del 28 marzo 2017
TOMMASO DI FRANCESCO
enti anni fa si consumava la tragedia della nave albanese Kater I Rades. Ad uno dei sopravvissuti, Krenar Xhavara, che incontrammo già nel 1997 e che fu portavoce delle famiglie dei profughi raccolti poi nell’ex caserma Caraffa di Brindisi, abbiamo rivolto alcune domande. Krenar ha perso nel naufragio la moglie e la figlia di sei mesi oltre che tutta la famiglia del fratello; lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Valona in Albania.
Che cosa ti ricordi ancora di quei momenti? Per me è come se fosse accaduto ieri. Ho sempre davanti agli occhi quei momenti. Mi ricordo il nostro terrore, le urla, il rumore sordo dello scontro con la nave Sibilla che avvenne in acque internazionali, violando tutte le leggi del mare senza alcun rispetto per le vite civili. Eppure quelle persone fuggivano dalla guerra civile in Albania che era scoppiata perché l’allora presidente Berisha voleva reprimere la rivolta popolare contro le Piramidi finanziarie che lui e il suo governo avevano favorito.
C’erano già molti morti nelle città albanesi, a nord come a sud. Io avevo già trovato riparo in Italia ed ero tornato per prendere la mia famiglia e quella di mio fratello. Si sparava dappertutto, le caserme erano assaltate, tutti erano armati, così abbiamo pensato di spostare le famiglie e portarle in Italia. Non avremmo mai pensato di fare quella fine quando siamo partiti quella sera che nessuno di noi dimenticherà mai. Soprattutto chi come me ha perso la moglie e la figlia di sei mesi, o come mio fratello che ha perso tre figli e la moglie. Il fatto è che siamo stati dimenticati, messi da parte. Quella sera, dopo un’ora che eravamo partiti da Valona, appena dopo avere superato l’isola albanese di Sezano, siamo stati accostati ancora in acque albanesi dalla nave militare italiana Zefiro, che non fece però manovre pericolose. Ci avvertivano solo con il megafono di tornare indietro. Noi eravamo troppo disperati e abbiamo scelto di andare avanti. Allora abbiamo visto, anche se era inverno e buio pesto, peggio che di notte, arrivare dalla direzione di Brindisi un’altra nave militare. Era buio, ma vedevamo bene tutto, perfino un militare italiano che puntava la mitragliatrice contro dalla nave. Dopo un’ora e mezza di inseguimento è arrivato un elicottero, credo della Zefiro e dieci minuti dopo l’elicottero, è arrivata la nave Sibilla. Stava attaccata dietro di noi e ha colpito la nostra nave. È stato terribile.
Voi poi siete stati raccolti, portati in salvo. Quanti sono stati i sopravvissuti? I sopravvissuti all’affondamento sono stati 34, eravamo partiti in 139. Dunque le vittime sono state 105, e da quello che io so molti corpi non sono mai stati trovati.
cose da sapere RIFUGIATO: chi, in base ai requisiti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare o avvalersi della protezione di detto Stato».
a Cura di
emergeNCy
PROFUGO: genericamente, chi lascia il proprio Paese a causa di guerre o catastrofi naturali.
MIGRANTE: il cittadino straniero che lascia il proprio Paese d’origine per cercare un lavoro e migliori condizioni di vita o ricongiungersi alla propria famiglia. Contrariamente al rifugiato, può far ritorno a casa Y in condizioni di sicurezza.
Valona (Albania), la disperazione delle famiglie al rientro delle salme ritrovate, nel novembre 1997. Sotto, nella pagina a fronte: Brindisi, il recupero della Kater I Rades
Avete chiesto giustizia. Dall’Albania, perché Berisha, il repressore della rivolta popolare, fosse incriminato come responsabile delle fughe dei civili. Ma chiedevate giustizia anche dall’Italia. Che cosa è successo? Eravamo in fuga perché terrorizzati da quello che succedeva e dal disastro delle Piramidi che Berisha aveva voluto. Ma, dopo una violenta crisi interna, Berisha tornò a vincere le elezioni nel 2005 e a governare l’Albania. Qui i diritti delle persone erano stati cancellati, da Berisha ma anche dai governi precedenti compreso quello di Fatos Nano dal quale ci aspettavamo cambiamenti. Comunque nessun governo albanese – anche il nuovo premier Edi Rama parla ma alla fine non fa nulla – si è battuto fino in fondo per la verità sulla Kater I Rades. Non si voleva che la Marina militare italiana fosse incriminata per quello che è successo. Il governo albanese poi è stato praticamente assente dalla commissione rogatoria italo-albanese incaricata dell’inchiesta. A loro interessava e interessa solo e soltanto il potere e il commercio delle persone, comprano merci e scambiano persone…
Ma avete avuto giustizia dall’Italia? C’è stata la sentenza nel giugno del 2005, con una prima condanna a due anni e mezzo per entrambi i comandanti delle navi, ma nessun generale dello Stato Maggiore o ammiraglio della Marina è stato incriminato. Ora mi pare che tutto sia archiviato. Dopo c’è stato un ricorso al tribunale di Lecce già nel gennaio-febbraio 2006. Con una condanna definitiva a tre anni per Fabrizio Laudadio, comandante della Sibilla, e due anni a Namik Xhaferi, comandante della Kater I Rades. L’Italia ha deciso un risarcimento alle fami-
il fiore del partigiano
Una memoria che brucia ancora
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aprile 2017
le idee
1997-2017. UN MISFATTO MADE IN ITALY
glie delle vittime, in due fasi nel 2000-2001 e poi nel 2003, in tutto per dieci miliardi di lire, 5 milioni di euro attuali. Responsabili di questo risarcimento erano la Marina militare e il ministero della Difesa. Alla fine tra spese processuali, cose poco chiare e «raggiri», sono stati dati circa 10mila euro ad ogni sopravvissuto e 33mila euro per ogni vittima. Una vita umana dunque vale 33mila euro.
La strage oggi sarà ricordata? C’è stata, ma solo domenica 26, una cerimonia ufficiale a Valona con l’ambasciatore italiano e il premier Rama. Oggi io sarò a Otranto, ad una iniziativa per inaugurare la trasformazione in monumento della motovedetta, a cura dello scultore greco Costas Varotsos. Non posso non tornare dove la mia vita è cambiata, avevo 27 anni, ora è come fossi già vecchio. In Italia avevo chiesto asilo politico, fuggivo dalla guerra civile, ma nessuno me l’ha mai concesso. L’Italia e l’Europa vantano i diritti umani e la libertà, ma i migranti vengono sempre respinti. Non bastano i monumenti. Devono chiedere scusa alle vittime del Canale di Otranto e del Mediterraneo rimaste sconosciute. Almeno noi abbiamo avuto una «fortuna»: si è subito saputo e visto. Y
V
da il manifesto del 28 marzo 2017
enti anni fa esatti, il 28 marzo del 1997, si consumava un misfatto a mare che avrebbe tristemente anticipato le stragi che hanno riempito di vittime negli ultimi anni le fosse del Mediterraneo. Così, ricordare la Kater I Rades, tornare a sentire come abbiamo fatto i sopravvissuti di quell’eccidio, non è purtroppo esercizio di memoria. È pura attualità. L’origine materiale e violenta della stagione dei respingimenti. Una chiara dimostrazione di cosa può provocare un blocco navale militare più volte evocato, anche in sede europea, contro i disperati in fuga attraverso le coste della Libia. E di come l’uso dei mezzi militari produca stragi. Anche allora dilagava un clima di isteria contro i profughi. In quel caso gli albanesi che arrivavano con le carrette a mare, con la Lega Nord – ben rappresentata da Irene Pivetti allora a capo del Parlamento – che cominciava a chiedere espressamente di sparare sulle navi dei profughi e di ributtarli a mare. Così, il 28 marzo del 1997, una nave militare italiana speronò in acque internazionali la carretta del mare Kater I Rades, provocandone l’affondamento con la morte di oltre cento persone – 105 per la precisione – molte delle quali donne e bambini. Fuggivano tutti
dalla guerra civile che era scoppiata in Albania contro il fallimento delle Piramidi finanziarie e il presidente Sali Berisha che le aveva promosse e che, per rispondere alla rivolta popolare, aveva dichiarato lo stato d’emergenza.
La Sibilla era tra le navi italiane impegnate in un «blocco» deciso dal governo Prodi in accordo con quello albanese e con il presidente Sali Berisha senza l’assenso del Parlamento e senza che ancora fossero conosciute le regole d’ingaggio delle forze militari impegnate nell’operazione di «respingimento e dissuasione» dei profughi albanesi in fuga. La versione dei fatti fornita dalla Marina militare apparve subito lacunosa. Risultò che la Sibilla si era avvicinata al cargo albanese che era in evidenti condizioni precarie di navigazione, nonostante il mare mosso, per «consigliare» con un megafono all’imbarcazione di tornarsene in Albania. Nelle condizioni del mare a forza cinque, una nave militare delle dimensioni e della stazza della Sibilla era tenuta a rispettare una distanza di sicurezza di almeno cento metri. Cosa che naturalmente non avvenne. Al di là dei fatti accaduti «a mare» resta ancora adesso tutta quanta la responsabilità, oggettiva e politica, del governo di allora per il «pattugliamento navale» e la finalità per la quale era stato organizzato. Fu subito un rimpallo di responsabilità. Colpa di Andreatta alla Difesa? Colpa di Lamberto Dini ministro degli Esteri? No, colpa di Giorgio Napolitano allora ministro degli Interni che, con il decreto d’emergenza e le espulsioni, aveva messo in moto il meccanismo del blocco navale. Una cosa sola fu certa: quelle misure vennero prese da tutto il governo. Il primo governo di centrosinistra, con i Ds (allora Pds) in posizione dominante, si era messo d’accordo con un personaggio impresentabile come il premier albanese Sali Berisha, per un blocco navale e per l’invio di una forza militare che intanto lo sostenesse. Un «muro» di navi da guerra, dinanzi alle coste albanesi per interdire la navigazione ai profughi diretti verso l’Italia, deciso senza mandato parlamentare, con l’opposizione di forze della maggioranza di governo come Rifondazione comunista (tutta, ancora non c’era stata la rottura) e i Verdi. E con l’aperta ostilità dell’Alto commissario Onu per i rifugiati, Fazlum Karim. Ecco l’humus da cui prese le mosse la Bossi-Fini. E pensare che il governo italiano, replicando al rappresentante dell’Onu, aveva escluso e negato l’esistenza del blocco navale. Y Tommaso Di Francesco
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Orfani della ragione il fiore del partigiano
le storie - la Storia
ORA UN’INCHIESTA PROVA A FAR LUCE SUGLI ABUSI SESSUALI DI CUI FURONO VITTIME.
La Gran Bretagna che oggi non vuole più immigrati per secoli ha spedito migliaia e migliaia di bambini ai quattro angoli dell’Impero con intenti d’ingegneria razziale
L di
leoNardo ClauSi
da il manifesto del 8 marzo 2017
a Gran Bretagna ha una storia recente assai più presentabile di quella del resto d’Europa: niente fascismo (o quasi), niente lager, niente gulag, nessun rischio rivoluzionario. Anzi: due guerre mondiali vinte, e la seconda inequivocabilmente dalla parte della ragione, quella del «mondo libero». Naturalmente c’è il dettaglio dell’impero, una cosina da nulla grazie alla quale furono evitate le barbarie totalitarie innescate dalla diseguaglianza su cui si fonda l’occidente capitalistico. Fatto sta che il «depredare fuori per sedare dentro» è stata una strategia – deliberata o no – che sulle isole britanniche ha funzionato per gran parte della modernità, e che ha, en passant, prevenuto l’avvento di una vera e propria rivoluzione borghese. Ma gli scheletri ci sono anche nelle monarchie costituzionali, solo che sono nascosti meglio, dentro armadi chiusi a doppia mandata. E quando non si riesce proprio più a tenerceli dentro, si cerca di descriverli e raccontarli diversamente con un apposito revisionismo storico.
Con l’inchiesta governativa apertasi lo scorso lunedì 27 febbraio a Londra sugli abusi inflitti ai bambini spediti nelle colonie dal 1947 agli anni Settanta, denominata Independent inquiry into child sexual abuse (Iicsa), quest’operazione si annuncia difficile. Non solo per le vittime, oggi persone anziane che devono rievocare l’indicibile dramma della propria infanzia perduta e delle loro famiglie distrutte dietro ai deliri d’ingegneria sociale di allora, ma per lo stato tout court.
Vi convergono due filoni vergognosi, che s’intrecciano in modo perverso e inquietante, al punto da mettere in crisi il processo di riverniciatura delle porcherie dell’impero britannico che certa storiografia Tory e filo-imperiale – che trova in Niall Ferguson (e nell’ex ministro Michael Gove) due tra i suoi apologeti più entusiasti – persegue infaticabile grazie al dominio conservatore di questi anni: imperialismo «democratico» e violenza sui minori. Il «Child Migrants Programme», programma di popolamento delle colonie iniziato nell’immediato secondo dopoguerra quando il paese, unico vincitore in mezzo alle macerie del continente, si trovava tuttavia in condizioni economiche di totale prostrazione, fu in realtà una deportazione che non avrebbe sfigurato nel repertorio di efferatezze del totalitarismo fascista appena sconfitto nel 1945. In una manovra d’ingegneria sociale apertamente razzista, che ambiva a popolare di bianchi le terre dell’impero per meglio tenere sotto controllo i sudditi extraeuropei, e allo stesso tempo ad alleggerire le tensioni sociali nella madrepatria, migliaia di bambini dai tre ai quattordici anni d’età furono dislocati ai quattro angoli dell’impero: una win-win situation che trovava tutti d’accordo, così almeno devono averla vista i suoi ideatori. Ma la ragione per cui il governo laburista – istallatosi a sorpresa nel 1945, dopo aver sconfitto i Tories del leonino Churchill – abbia perpetrato una simile barbarie è abbastanza semplice: si trattava di una pratica diffusa da centinaia d’anni da parte della Gran Bretagna, presumibilmente l’unico paese al mondo ad aver fatto una cosa simile su simile scala. In 350 anni di storia imperiale, circa 150000 bambini furono sparsi in giro per i domini, dalla
Soccer nella famigerata Fairbridge Farm School di Pinjarra, Australia Nella pagina a destra: sopra, imbarco per l’Australia con la nave SS Asturias nel 1947; sotto, ragazzini in coda per la distribuzione di cibo
Virginia all’Australia, dalla nuova Zelanda al Canada, fino allo Zimbabwe (ex-Rhodesia). Le origini del programma sono dunque da rintracciarsi nel 1618, quando partì il primo contingente di cento bimbi da Londra alla Virginia: l’ultimo arrivò in Australia nel 1970.
Nel novecento le mete furono soprattutto Canada, Nuova Zelanda e Australia, dove, nell’ultima ondata, ne furono inviati più di tremila tra il 1947 e il 1965. Si trattava di bambini provenienti da orfanatrofi o da zone particolarmente disagiate del paese. A volte erano figli di ragazze madri costrette a separarsene, per via dello stigma con cui era vista la condizione all’epoca. Nei casi in cui i genitori c’erano, gli si chiedeva di consegnare i figli alla patria, in certi casi nemmeno quello. Agli orfani si rivelava che i genitori erano morti, e che sarebbero partiti verso una vita migliore. Ma nelle istituzioni di ricevimento, remote aziende agricole o presso famiglie adottive, dov’erano spediti a svolgere lavori manuali di durezza incredibile – spesso letteralmente dall’altra parte del mondo e in un’epoca in cui si emigrava per sempre –, in moltissimi subirono maltrattamenti, punizioni fisiche, violenze sessuali e schiavitù. Il tutto col volenteroso beneplacito di organizzazioni religiose e pii istituti cattolici e an-
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il fiore del partigiano CON MOLTE DIFFICOLTÀ
aprile 2017
le idee
NONOSTANTE LA GUERRA
Il rimpatrio forzato dei migranti in Afghanistan
A
glicani. Per esempio, la seguente perla scaturì dalle labbra di Sua Grazia l’arcivescovo di Perth nel 1938, e merita di essere citata nella sua interezza per l’affinità evidente con quelle proferite sempre più spesso nel dibattito pubblico contemporaneo: «Quando le culle vuote contribuiscono dolorosamente al vuoto degli spazi, è necessario cercare fonti di approvvigionamento esterno. Se non ci riforniamo dalla nostra stirpe, ci lasceremo sempre più esposti alla minaccia dello sciame di milioni dei nostri vicini di razza asiatica». Le autorità nazionali erano altrettanto a conoscenza dei maltrattamenti. Tuttavia osservarono un altrettanto religioso silenzio sulla crudeltà che avveniva sotto la propria egida. Le denunce avevano cominciato a emergere già negli anni Ottanta, ma le vittime hanno dovuto attendere il 2010 perché il governo britannico facesse pubblica ammenda nella persona dell’allora primo ministro Gordon Brown, qualche mese dopo l’allora controparte australiana, Kevin Rudd. Si diceva sopra dell’intreccio perverso di una pagina fosca dell’altrimenti luminosa storia patria con le denunce ormai dilaganti di abusi sessuali inflitti ai minori in istituzioni pubbliche e private compresa la Bbc, la Premier League di calcio e perfino il parlamento, tenute finora sotto silenzio da un’omertà sistematica. Costituisce un combi-
nato disposto letale che si è finora confermato difficile da indagare. È stato nel 2014, per far fronte al pericolo destabilizzante di simili rivelazioni che, quando era ancora ministra dell’interno, Theresa May aveva istituito l’Iicsa. Nella sua anodina formulazione, l’inchiesta ha come scopo accertare se istituzioni pubbliche e non abbiano «preso sul serio la loro responsabilità di proteggere i bambini da abusi sessuali e di fare significative raccomandazioni per un cambiamento nel futuro». Ma l’iter sta incontrando ogni sorta di difficoltà, non solo perché vi sono varie personalità politiche del passato che risultano a vario titolo coinvolte. Tanto che ha perso finora tre presidenti, tutti dimissionari.
La nazione che per secoli ha imposto l’emigrazione ai propri connazionali, in buona sostanza deportandoli, è la stessa che oggi impedisce l’immigrazione agli stranieri: è un paradosso abbastanza illuminante. Eppure, anche in mezzo al fiume di dolore e sofferenza evocato in questa inchiesta dai superstiti metropolitani (inteso nel senso di metropole, centro del British Empire) dei misfatti dell’imperialismo, il non voler agire sulle cause reali della diseguaglianza sociale, motivo ultimo per cui si commettono simili efferatezze, rischia di essere ancora una volta ignorato. Y
da Emergency n° 81 del dicembre 2016
lla vigilia della conferenza di Bruxelles, l’Unione Europea e il governo afgano hanno ratificato un accordo per il rimpatrio, anche forzato, degli afgani la cui richiesta di asilo sia stata respinta nei Paesi dell’Unione Europea o che non abbiano titolo a rimanervi. Unica eccezione i minori non accompagnati, i quali «non saranno rimpatriati se non saranno stati rintracciati familiari o se in Afghanistan non si sarà provveduto ad adeguate disposizioni di accoglienza e cura». Tutto ciò nonostante l’Afghanistan sia un Paese in guerra dove la situazione precipita di giorno in giorno. Lo vediamo nei nostri ospedali, dove nei primi 6 mesi di quest’anno abbiamo registrato il 9% di pazienti in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Lo confermano i dati di Unama, la missione di assistenza dell’Onu in Afghanistan, secondo i quali nei primi 6 mesi del 2016 si è registrato il più alto numero di vittime civili dal 2009: 5.166 persone tra morti e feriti. Il rimpatrio forzato in un Paese in guerra dove l’incolumità personale è a rischio è inaccettabile e viola i diritti umani fondamentali. Emergency è in Afghanistan dal 1999. Negli ultimi quindici anni abbiamo visto peggiorare drasticamente la vita della popolazione: aumento dei combattimenti, aumento dell’insicurezza, aumento degli sfollati interni – oltre un milione – rendono impensabile considerare l’Afghanistan un Paese sicuro. L’Europa continua a mettere a rischio la vita degli afgani: prima con la missione della coalizione internazionale che ha causato migliaia di vittime, ora negando la possibilità̀ di mettersi in salvo a chi ̀e riuscito a scappare dal Paese. Y
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il fiore del partigiano
aprile 2017
Il Libro (del golpe) Bianco
le idee
RIFORMULATA LA DEFINIZIONE DI “DIFESA DELLA PATRIA”, PIÙ POTERI ALLE FORZE ARMATE
M
di
da il manifesto del 14 febbraio 2017
maNlio diNuCCi
entre i riflettori mediatici erano puntati su Sanremo, dove si è esibita anche la ministra della Difesa Roberta Pinotti cantando le lodi delle missioni militari che «riportano la pace», il Consiglio dei ministri ha approvato il 10 febbraio il disegno di legge che consentirà l’implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, delegando al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate». Revisione, in senso «migliorativo», di quello attuato nelle guerre cui l’Italia ha partecipato dal 1991, violando la propria Costituzione. Dopo essere passato per 25 anni da un governo all’altro, con la complicità di un parlamento quasi del tutto acconsenziente o inerte che non lo mai discusso in quanto tale, ora sta per diventare legge dello Stato. Un golpe bianco, che sta passando sotto silenzio. Alle Forze armate vengono assegnate quattro missioni, che stravolgono completamente la Costituzione. La difesa della Patria stabilita dall’Art. 52 viene riformulata, nella prima missione, quale difesa degli «interessi vitali del Paese». Da qui la seconda missione: «contributo alla difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese». Il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, stabilito dall’Articolo 11, viene sostituito nella terza missione dalla «gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento, al fine di garantire la pace e la legalità internazionale». Il Libro Bianco demolisce in tal modo i pilastri costituzionali della
Repubblica italiana, che viene riconfigurata quale potenza che si arroga il diritto di intervenire militarmente nelle aree prospicienti il Mediterraneo – Nordafrica, Medioriente, Balcani – a sostegno dei propri interessi economici e strategici, e, al di fuori di tali aree, ovunque nel mondo siano in gioco gli interessi dell’Occidente rappresentati dalla Nato sotto comando degli Stati Uniti. Funzionale a tutto questo è la Legge quadro entrata in vigore nel 2016, che istituzionalizza le missioni militari all’estero, costituendo per il loro finanziamento un fondo specifico presso il ministero dell’Economia e delle finanze. Infine, come quarta missione, si affida alle Forze armate sul piano interno la «salvaguardia delle libere istituzioni», con «compiti specifici in casi di straordinaria necessità ed urgenza», formula vaga che si presta a misure autoritarie e a strategie eversive. Il nuovo modello accresce fortemente i poteri del capo di Stato Maggiore della difesa anche sotto il profilo tecnico-am-
ministrativo e, allo stesso tempo, apre le porte delle Forze armate a «dirigenti provenienti dal settore privato» che potranno ricoprire gli incarichi di Segretario generale, responsabile dell’area tecnico-amministrativa della Difesa, e di Direttore nazionale degli armamenti. Si tratta di incarichi chiave che permetteranno ai potenti gruppi dell’industria militare di entrare con funzioni dirigenti nelle Forze armate e di pilotarle secondo i loro interessi legati alla guerra. L’industria militare viene definita nel Libro Bianco «pilastro del Sistema Paese» poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati». Non resta che riscrivere l’Articolo 1 della Costituzione italiana, precisando che la nostra è una Repubblica, un tempo democratica, fondata sul lavoro dell’industria bellica. Y
Due immagini della ministra della Difesa Roberta Pinotti. Ex militante pacifista
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il fiore del partigiano
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le persone - le idee
il suo canto libero. Predrag Matvejević. Nato a Mostar 84 anni fa, ha vissuto anche in Italia, dal 1994 al 2008. Amava cantare e suonare il pianoforte
I
di
Predrag Matvejević, lo slavo europeo da il manifesto del 21 marzo 2017
giaNluCa PaCiuCCi
l 2 febbraio scorso si è spento a Zagabria Predrag Matvejević, uno dei più straordinari intellettuali jugoslavi (così amava definirsi, anche dopo il crollo del Paese di Tito), profondamente slavo del sud e profondamente europeo. Non dell’Europa delle banche e dei respingimenti dei/delle migranti (e degli imprigionamenti dei/delle migranti, come nell’Ungheria postcomunista e prefascista di Orbán), ma di quella accogliente e fonte di pensiero aperto, che guarda con vivo interesse a tutte le sponde del Mediterraneo, mare comune, e non nostro. Dalla nativa Mostar in Erzegovina, egli si è diretto verso l’amata Francia e l’amatissima Italia: ma questa scelta di vita, dovuta prima a ragioni di studio e poi – negli anni Novanta – alle guerre jugoslave e al trionfo dei nazionalismi aggressivi, non è mai divenuta occidentalizzazione del pensiero né sterile conversione/pentimento, ma ulteriore europeizzazione/fusione essendo il mondo dell’Est, il mondo ex, parte integrante dell’Europa, da sempre. Le sue radici a oriente, e a Odessa (da dove proveniva suo padre), gli hanno permesso di situarsi ovunque al centro di correnti di pensiero generoso e rigoroso. Di questo spostamento verso occidente, sono stati protagonisti anche tre altri grandi recentemente scomparsi, Zygmunt Bauman, Tzvetan Todorov e Jannis Kounellis (morti rispettivamente il 9 gennaio, il 7 e il 16 febbraio scorsi), che meritano di essere ricordati in questo vivo canto funebre. Di Matvejević piace ricordare l’adesione al modello di so-
cialismo jugoslavo, di cui pure vedeva i limiti e le contraddizioni: vicino ai marxisti della rivista Praxis, non esitò a difendere oppositori di Tito, tra cui anche qualcuno che poi sarebbe diventato osceno protagonista delle guerre degli anni Novanta, come il poeta Rajko Petrov Nogo. Di quest’ultimo scrive Matvejević: «…A suo tempo ne presi le difese, quando a Sarajevo fu oggetto di attacchi per il suo nazionalismo serbo. In quell’epoca voIl ricordo del leva essere considerato uno scrittore grande intellettuale di sinistra o progressista. Nella scorsa guerra ha stabilito la sua didi Mostar. Prima mora a Pale, presso il quartier genevicino ai marxisti rale di Karadžić, ha dato una mano della rivista “Praxis”, al boia…». Peraltro anche alcuni esponenti del gruppo Praxis, come il poi, dopo filosofo Ljuba Tadić e Mihajlo Marla dissoluzione ković, si chiusero «nelle fitte tenebre del nazionalismo». della Jugoslavia, E piace ricordare il suo appoggio a contro le mafie ogni dissidente del socialismo reale, da lui interpretato come regime op- nazional-confessionali pressivo e liberticida. «…Ho avuto l’occasione di incontrare nell’emigrazione Aleksandr Solženycin. Mi confidò che per anni, dopo l’uscita dal gulag, continuava a mettersi un filone di pane sotto il cuscino…», scrive Matvejevjć in Pane nostro (2009). Il pane della paura, il pane sottratto o concesso dall’aguzzino, il pane rubato dal vicino di sofferenza. continuA A pAginA 36 ➔
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le persone - le idee
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La sua voce si è ancora alzata, dopo la dissoluzione della Jugoslavia, contro i nuovi padroni (le mafie nazionalconfessionali) in tutte le repubbliche sorte dalla tragedia della guerra. Esemplare il suo articolo “I nostri talebani” (ancor più netto il titolo con cui l’articolo uscì sul Piccolo di Trieste, “I talebani cristiani”), denuncia spietata – da un uomo mitissimo – dei nazionalisti croati parafascisti e revisionisti, ma anche dei troppi ducetti serbi, servi di Milošević. In genere ognuno accusa i talebani altrui: Matvejevjć invece invita a guardare nel proprio campo per scorgere i tradimenti che vi si annidano e che, in sintonia con tradimenti più grandi, possono trascinare interi popoli verso il macello, insensibilmente, nella fase iniziale, e poi con rovinosa velocità. Per questo articolo egli fu condannato a cinque mesi: reati d’opinione, nell’Europa postcomunista delle democrature (suo conio linguistico). Per ricordarlo a un mese dalla scomparsa il 1° marzo 2017, con il patrocinio dell’Università di Trieste e grazie a diverse organizzazioni culturali (PEN Trieste; Euromediterranea; Associazione “Tina Modotti”; Gruppo 85Skupina 85; Casa Internazionale delle donne-Trieste; Tenda per la Pace e i Diritti; Associazione Iniziativa Europea; Amici di Predrag Matvejević) si è svolto un pomeriggio di ricordo e di riflessione. L’incontro è stato ospitato nell’Aula Magna della Scuola Interpreti (Trieste), nel palazzo che era, all’inizio del Novecento, il Narodni dom (Casa del popolo/della nazione), e cioè la casa delle culture slave di Trieste, che fu incendiato da squadracce fasciste il 13 luglio 1920: luogo simbolico per una Trieste democratica che vuole ricordare il Novecento nella sua interezza, dallo squadrismo alla politica di snazionalizzazione antislava all’invasione della Jugoslavia (6 aprile 1941) cui seguirono crimini di guerra impuniti operati dagli italiani brava gente… (da ricordare agli smemorati Napolitano, Fassino, Violante, Gasparri, per cui la storia comincia il 1° maggio del 1945 con l’arrivo delle truppe di Tito a Trieste…). I lavori, coordinati dalla sociologa Melita Richter, hanno tentato di tratteggiare la figura di Matvejević nei suoi vari aspetti di studioso e di intellettuale che voleva vivere le contraddizioni del suo tempo. Particolarmente significativi i contributi di Sinan Gudžević – che si è anche soffermato sull’inutile polemica intorno alle condizioni di ospedalizzazione di Matvejević negli ultimi anni della sua vita, del tutto corrette (lo conferma sua moglie Mira, presente all’incontro) e invece scioccamente denunciate come inadeguate da un gruzzolo di intellettuali italiani –; di Marija Mitrović, Marina Moretti e Milan Rakovac, presenti a Trieste insieme a tante/i altre/i, ma anche di Erri De Luca, Toni Maraini e Juan Octavio Prenz, che hanno inviato preziosi messaggi. Ecco alcune parole di De Luca: «…Così ho conosciuto Predrag Matvejević, e sua moglie Mira. Abbiamo fatto sera insieme molte volte, erano tutte buone. A Sarajevo, finito l’assedio, siamo saliti in collina una sera d’estate, a bere. C’era Izet Sarajlić, c’era Ante Zemljar, cantavano con Predrag in italiano: Non ti potrò scordare piemontesina bella / tu sei la sola stella che brillerà per me. Izet l’aveva imparata da un soldato italiano, un invasore, Ante da un compagno di lavori forzati a Goli Otok. L’oste aspettò che le voci non avessero più canti, per chiudere…». In fondo questo ha detto l’intenso pomeriggio dedicato a Matvejević: occorre cantare fino alla fine, fino a notte tarda, e finché si ha voce, sperando nella pazienza degli osti e dei vicini, invitati a unirsi al coro. Questo canto, il canto di Predrag come quello di Izet – il
poeta di Sarajevo – e quello di Ante – il poeta partigiano dell’isola di Pago/Pag – saranno con noi fino a che dureranno la vita e la storia. Sperando che a spegnerlo non siano i calci della soldatesca o di altri fanatici, magari non in tuta mimetica ma forse ancora più pericolosi dei primi. Y Gianluca Paciucci poeta, insegnante, saggista e traduttore
Mostar, Europa mediterranea
Uno scorcio di Mostar col ponte vecchio ricostruito dopo la guerra
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da Crotone News del 3 febbraio 2017
o scrittore e saggista Predrag Matvejević è morto, all’età di 84 anni, nell’ospedale di Zagabria dove era ricoverato da tempo. Uomo impegnato dal punto di vista dei diritti umani, Matvejević è stato anche docente universitario e si è sempre battuto per la pace e il dialogo tra i popoli, in particolare, ovviamente, tra quelli dei Balcani. Nato a Mostar quando la città faceva parte della Jugoslavia (poi sarebbe diventata Bosnia-Erzegovina), ha vissuto anche in Italia (dal 1994 al 2008), dove ha insegnato Slavistica alla Sapienza di Roma dal 1994 al 2007. In precedenza era stato docente di Letteratura francese all’Università di Zagabria e di Letterature comparate alla Nuova Sorbona-Parigi III. Era emigrato in Francia nel 1991. Fu consulente per il Mediterraneo nel Gruppo dei saggi della Commissione europea durante la presidenza Prodi; vice presidente del PEN Club Internazionale di Londra; cofondatore e presidente del comitato scientifico della Fondazione Laboratorio Mediterraneo (oggi Fondazione Mediterraneo) di Napoli. Per la sua attività di scrittore ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero, fra cui il Premio Malaparte nel 1991, il Premio Strega europeo nel 2003 e il Prix du Meilleur livre étranger 1993 a Parigi. Il governo francese gli ha conferito la Legion d’Onore, il presidente della Repubblica Italiana gli ha attribuito la cittadinanza italiana e il titolo di Commendatore dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana. Tra le sue opere più importanti si ricordano, Breviario Mediterraneo – tradotto in varie lingue – Sarajevo, Un’Europa maledetta, Pane nostro. Y Bruno Palermo
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Il Ghetto di Roma come un ring per Moretto
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le storie - la Storia
IN UN LIBRO DI MOLINARI E OSTI GUERRAZZI LA LEGGENDA DEL PUGILE EBREO
A
di
da La Stampa del 13 gennaio 2017
mirella Serri
Roma nel dedalo di viuzze che circondano il Portico d’Ottavia, chiamato confidenzialmente la Piazza dagli ebrei romani, Elena era considerata una tipa un po’ stramba, una visionaria. A tarda sera del 15 ottobre 1943, tutta scarmigliata, cominciò a bussare alle porte delle case. Il suo obiettivo? Convocare i capi famiglia. Ma quasi nessuno le diede retta. All’alba del mattino dopo, quando le SS bloccarono via di Sant’Angelo in Peschiera, via del Teatro di Marcello e gli altri accessi al Ghetto, gli ebrei romani capirono che la “matta” aveva ragione e che era in atto quella retata dei nazisti a cui la donna li sollecitava a reagire. Ma come? Non era impossibile. C’era qualcuno in quelle strade e in quelle piazze che, fin dalla data dell’emanazione delle leggi razziali, aveva cercato di far capire ai correligionari che la rassegnazione era un passaporto per l’aldilà: si trattava di Moretto, al secolo Pacifico Di Consiglio. Questo pugile dilettante fu così uno dei pochi ebrei a mettere in atto un’eccezionale strategia di sopravvivenza: adesso a ripercorrere la vicenda di questo piccolo-grande ribelle sono Maurizio Molinari e Amedeo Osti Guerrazzi in Duello nel Ghetto (Rizzoli, pp. 265, € 20). Un romanzo-verità che con materiali d’archivio e testimonianze inedite ricostruisce, come recita il sottotitolo, «La sfida di un ebreo contro le bande nazifasciste nella Roma occupata».
Tra i diseredati Il libro di Molinari e Osti Guerrazzi ridà anima e corpo al prestante Pacifico e al suo scontro all’ultimo sangue con Luigi Roselli, uno dei più crudeli collaborazionisti dei nazisti. Ma la vicenda all’Ok Corral tra Moretto e il fascista s’intreccia con una narrazione corale di cui fanno parte gli Spizzichino, i Di Segni, i Pavoncello, i Di Porto e tutti gli altri esponenti della Comunità ebraica romana, costituita in gran parte da diseredati, da coloro che praticavano i mestieri più umili e vari, dagli “stracciaroli” ai “ricordari” o “urtisti” (quelli che vendono cartoline-ricordo e statuette nel centro capitolino buttandosi “a urto” sui turisti). È tutto un mondo unito, solidale e colorato che frequenta il bar di Monte Savello e il ri-
indomito. “Il Moretto” pronto per un allenamento. La boxe fu la sua palestra di pratica antifascista
storante Il Fantino in via della Tribuna Campitelli, e che diventa protagonista di una storia fino a oggi mai raccontata: la resistenza dei “dannati della terra”, di coloro che non se ne vanno, fieri di essere italiani e ebrei. Che, quando viene applicata la legislazione antisemita, non hanno rapporti con gli alti papaveri dei ministeri, non hanno aderenze o amici importanti che permettano loro di essere “discriminati” e di scapolarsela di fronte ai provvedimenti razziali. Che vogliono comunque dimostrare che Roma appartiene anche a loro e alla loro tradizione. Se quindi, da un lato, l’ebreo Mario Fiorentini entra a far parte dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica del Partito comunista, Paolo Alatri da prima della guerra cela un deposito di armi e una tipografia clandestina e l’editore Ottolenghi crea un’organizzazione di combattenti, vi sono anche altri oppositori del regime, proprio come Moretto, ragazzo di bottega che dopo l’8 settembre, privo di relazioni e di conoscenze, cerca senza riuscirci di aggregarsi ai primi gruppi di partigiani. Da quando aveva compiuto 17 anni nel fatidico ’38 dell’emanazione delle leggi razziali, Pacifico era un perseguitato speciale: le camicie nere del quartiere, come Roselli di professione rigattiere, non tolleravano il suo disprezzo. Il pugile Pacifico era tale di nome ma non di fatto, i suoi uppercut erano ben mirati e non chinò mai la testa di fronte alle più violente smargiassate.
Moderno Scaramouche Dopo che è stata diffusa la notizia dell’armistizio con gli anglo-americani, Moretto, impugnando una mitraglietta, è con tanti altri antifascisti a Porta San Paolo e cerca di ostacolare l’avanzata della Wehrmacht. Invece Elena “la matta”, con un manipolo di ebrei, prova a procurarsi armi e munizioni. Sfuggito per un pelo al rastrellamento del 16 ottobre, Di Consiglio sarà nel mirino di Roselli il quale, dopo l’occupazione nazista della Capitale, aveva messo su una vera e propria industria della morte e del ricatto: in cambio di quattrini, prometteva agli ebrei la libertà e poi li denunciava al colonnello Kappler. Pacifico elaborò un piano audace per aiutare gli abitanti del ghetto: sedusse la nipote di Roselli e, tramite le informazioni che gli passava la ragazza, da moderno Scaramouche si faceva beffe dei persecutori e strappava loro le vittime. L’ora fatale arrivò anche per lui: arrestato e picchiato a sangue venne portato in via Tasso e poi a Regina Coeli. Caricato su un camion con destinazione prima Fossoli e poi Auschwitz, riuscì a scappare. Però non abbandonò Roma e tornò sempre lì dove erano le sue radici, a Portico d’Ottavia. La Comunità è falcidiata da deportazioni, lutti, miseria e Pacifico-lupo solitario sotto l’impermeabile bianco maschera la pistola per freddare nazisti e fascisti. Nel giugno 1944, quando le truppe alleate entrano nella capitale, combatte al loro fianco e aiuta i soldati americani a liberarsi degli ultimi cecchini tedeschi, quindi prenderà la tessera del Partito d’Azione. E gli aguzzini?
Un cazzotto al torturatore Roselli e il suo gruppo di accoliti, di cui faceva parte la nota «Pantera nera», una bellissima ebrea che denunciava i correligionari, furono processati nel marzo del 1947: Moretto è uno dei testimoni determinanti per la condanna. Quando arriva in tribunale, alto un metro e ottanta e con le sue spalle possenti, si fa largo tra la folla, supera lo sbarramento dei carabinieri e molla un cazzotto in faccia a uno dei suoi ex torturatori. Gli imputati verranno condannati a pene dure ma l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti cancellerà parecchi anni di carcere. Nemmeno a guerra finita però Moretto «ha perso la voglia di lottare», scrivono gli autori, «e la battaglia ora si chiama memoria». Negli anni condividerà le proprie avventure e la propria esperienza con le nuove generazioni. Dunque anche grazie ai ricordi di Moretto (scomparso nel 2006) i due scrittori hanno potuto restituirci la voce e la superba Resistenza dei poveri e dannati in uno dei periodi più oscuri della storia italiana. Y
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“Autobiografia” di un nazista e di un popolo irresponsabile
le idee
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
S
Jonathan littell - le Benevole traduzione di margherita botto, supercoralli einaudi, torino 2007, pp. 956, € 24,00
e si vuole capire e indagare la realtà maledetta e apparentemente incomprensibile del nazismo e dello sterminio degli ebrei non si può prescindere da questo monumentale romanzo di 956 pagine uscito quando il suo autore, nato nel 1966, aveva da poco superato i quarant’anni. Jonathan Littell è nato da una famiglia di origine ebraica emigrata dalla Polonia negli Stati Uniti alla fine dell’800. Ha vissuto l’infanzia in Francia e, dopo varie esperienze nella cooperazione internazionale in luoghi di guerra (Bosnia e Cecenia), si è stabilito in Spagna, a Barcellona. Il grande enigma di come sia stato possibile l’Olocausto qui viene aggredito con un punto di vista dalla parte del carnefice: un grandioso affresco in cui Maximilien Aue, un ufficiale delle SS che è riuscito a scappare in Francia sotto falso nome e che dirige una piccola azienda, rievoca la sua storia personale partendo dalla sua adesione al nazionalsocialismo, attraverso la campagna di Russia e la battaglia di Stalingrado e poi, tornato a Berlino, durante il lento declino della Germania assediata, le missioni ad Auschwitz e in altri campi di concentramento fino alla presa di Berlino da parte dei sovietici. Nella parte introduttiva si butta sul tavolo del lettore questo inquietante paragone tra il dirigere un’azienda e il dirigere un campo di concentramento; si tratta sempre di elargire premi o punizioni a seconda della produttività del sottoposto. Il libro riproduce, in un certo modo, nel lettore la reazione che ha il protagonista di fronte alle esecuzioni degli ebrei e di altri gruppi “indesiderati” nell’Europa orientale: di fronte alle prime pagine si ha un moto di ripulsa, quasi non si riesce a continuare a leggere di fronte alla descrizione cruda di come avvenissero le esecuzioni, partendo dalle
prime prove con numeri limitati di vittime, usando i gas di scarico di un camion, fino alla macelleria su scala industriale dei campi di concentramento; mentre poi il protagonista si adatta, inghiotte tutto, anche se a prezzo di malesseri vari come vomiti, diarree, incubi notturni. Uno dei misteri del libro e della storia è proprio come faccia una persona di questo tipo a superare ogni freno morale e, negli intervalli tra un’esecuzione e l’altra, a partecipare alla vita di società degli altri ufficiali delle SS, alle feste che si tenevano nelle case vicino ai campi, insieme a persone i cui figli indossavano indumenti appartenuti a bambini ebrei passati per la camera a gas. Quest’ufficiale delle SS incontra la guerra in Ucraina, dove si materializza la “soluzione finale” della questione ebraica, in cui (numeri fatti all’inizio del libro) morirono più di 5 milioni di ebrei, mentre una parte seguente è dedicata alla battaglia di Stalingrado vista dalla parte degli assediati tedeschi in attesa di un soccorso da altre armate naziste che non arriverà mai. Vengono descritte le rivalità tra ufficiali, lo scaricabarile tra esercito e SS sulla responsabilità dei massacri di civili (la Wermacht, cioè l’esercito tedesco, fa finta di non sapere), la tensione tra necessità per la Germania di avvalersi del lavoro gratuito e l’annientamento dei prigionieri nei campi di concentramento (che, quindi, non sono certo in grado di lavorare). Notevole la mole di ricerche storiche che sta alla base del libro (completamente di fantasia) e la conoscenza molto ampia della struttura del regime nazista nei suoi nuclei principali. Salvatosi miracolosamente a Stalingrado, tornato ferito a Berlino, il nostro ufficiale viene incaricato di un’importante missione. La missione che il
La giustizia chiusa in quell’armadio
marco de paolis, paolo pezzino - la difficile giustizia. i processi per crimini di guerra tedeschi in italia. 1943-2013 - Viella - pp. 168, € 20,00
A
lla fine del secondo conflitto mondiale, l’individuazione degli autori dei gravi crimini commessi durante l’occupazione tedesca in Italia contro le popolazioni civili rimase ristretta a pochi casi eclatanti: gli Alleati mollarono il progetto di punire i massimi responsabili delle forze armate tedesche in Italia, e gli italiani, a parte poche condanne (Kappler per le Fosse Ardeatine, Reder per Marzabotto e altri eccidi), ben presto posero fine a quella stagione processuale. Una nuova se ne aprì invece dopo la scoperta, nel 1994, di quello che fu definito l’“armadio della vergogna”: in realtà una stanza di Palazzo Cesi, a Roma, sede della Procura generale militare, in cui erano conservati centinaia di fascicoli giudiziari sui crimini di guerra commessi sulla popolazione italiana tra il ’43 e il ’45, illegalmente archiviati dal procuratore generale militare nel 1960. Ragion di Stato, protezione dei criminali di guerra italiani, culture militari poco sensibili al tema della difesa dei civili in guerra, e attente a proteggere in ogni caso l’immunità dei combattenti in divisa: queste alcune delle cause di una giustizia limitata, tardiva e quindi negata. Y
protagonista svolge in vari campi di concentramento sarebbe quella di migliorare le condizioni di vita nei campi stessi, in modo da rendere idonei i prigionieri al lavoro coatto: missione impossibile di fronte al fanatismo e all’impazzimento generale e anche al rimpallo di responsabilità tra i vari gradi della gerarchia. Vi è poi l’enigma della popolazione civile in Germania: non sa nulla dello sterminio o non vuole saper nulla? In una parte del libro, di fronte a una ragazza che si è innamorata di lui e a cui ha detto che si occupava di “problemi economici” per il Reich, Maximilien Aue svela la propria vera attività: cioè economizzare la produttività dei campi di concentramento, e nello stesso tempo si stupisce che la propria interlocutrice non si sia mai posta la domanda di dove vadano a finire gli ebrei che spariscono dalle città tedesche. Vi è qui un parallelo con l’oggi dell’Occidente che non vuole vedere le stragi che accadono fuori dal suo perimetro dorato: che siano le morti dei migranti che vogliono raggiungere una vita decente, o gli eccidi in Siria, oppure – un ventennio fa – i bambini iracheni morti innocenti privi di cibo e medicine Parlando in generale, invece, la tesi è che nell’ebreo malvagio, infido speculatore, siano trasposte le negatività di un popolo, di una persona – nel caso di Hitler –, che nell’ebreo vede il suo doppio negativo: un caso psichiatrico che ha coinvolto tutto un popolo. Un popolo che non ha mai discusso gli ordini provenienti dall’alto, così che dell’Olocausto nessuno si sente responsabile perché ognuno ha svolto soltanto il proprio compito, anche se è un compito di assassino. Y
Pietro Tagliabue
Cinque vite libere e resistenti
uesto libro raccoglie, in versione trascritta, cinque testimonianze sull’esperienza della guerra e della Q Resistenza antifascista. Cinque documenti di storia
a cura di upm – un punto macrobiotico - vite partigiane - Quodlibet- pp. 152, € 15,00
orale, dunque. Ma, soprattutto, cinque racconti su cosa significa scegliere di essere persone libere. L’insegnamento più emozionante che si ricava dalla lettura di queste pagine bellissime, ricche di aneddoti, anche divertenti, è che perfino la paura si può trasformare in forza. In fondo, non sappiamo davvero quello di cui siamo capaci. Se si vuole si può trasformare la propria vita e la realtà, questo ripetono Walchiria, Teresa, Sergio, Rosario e Massimo; e si può perfino invertire un destino collettivo drammaticamente segnato. I tempi storici che stiamo attraversando, di dismissione dello Stato e di “occupazione” finanziaria internazionale, dovrebbero indurci a interrogare l’eccezionalità storica del biennio ’43-’45 con occhi nuovi. Leggiamo dunque queste cinque testimonianze pensando soprattutto a noi e alle nuove forme di resistenza a cui siamo chiamati. Y
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Pelle nera, cittadinanza italiana, razza partigiana
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Carlo Costa, lorenzo teodonio - razza partigiana. Storia di giorgio marincola iacobelli editore - pp. 192, € 15,00
ginnasio (ossia le scuole medie) presso il liceo-ginnasio Umberto I, nei pressi della basilica di Santa iorgio Marincola nacque il 23 settembre Maria Maggiore, non lontano dalla stazione Ter1923 a Mahaddei Uen, un presidio militare mini. italiano a 50 chilometri da Mogadiscio da Qualche anno più tardi, nel 1938, conobbe Pilo Alun sottufficiale italiano, Giuseppe Marincola bertelli (Parma, 1907-Roma, 1944), suo inse(Pizzo Calabro, 1891-Roma 1956) ed Aschirò Has- gnante di storia e filosofia, filosofo idealista, san, una donna somala nata nel 1901 ad Harar- antifascista noto alla polizia (era stato arrestato nel dere, cittadina a 400 km a nord-est di Mogadiscio. 1928 e di lì sottoposto a sorveglianza). Ad Albertelli Due anni dopo, nel settembre 1925, nacque nella è stato riconosciuto il ruolo di educatore al discapitale somala la sorella Isabella. Giuseppe Ma- senso di molti antifascisti e partigiani romani che rincola riconobbe i due bambini, dando così loro la lo avevano incontrato. Fu esponente del movicittadinanza italiana. Questo a differenza dei tanti mento liberal-socialista di Calogero e Capitini, partigiano nelle file del Partito figli nati in colonia dall’unione tra d’azione a Roma, dove morì nel soldati italiani e donne africane. 1944, ucciso nella strage delle Nel 1926 Giuseppe Marincola portò Fosse Ardeatine. i due bambini in Italia. Affidò GiorAlbertelli educò Giorgio alla critica, gio al fratello Carmelo ed a sua moal dubbio, al dissenso, alla giustizia glie, Eleonora Calcaterra, a Pizzo sociale ed alla libertà. La maturaCalabro, e portò Isabella con sé a zione dell’antifascismo in Giorgio Roma, nel quartiere popolare di appare essere stata un percorso Casal Bertone, dove si era stabilito culturale e formativo, da lui lasciato con la moglie Elvira Floris, sorella di in pagine di appunti rimasti conun suo commilitone, sposata nel servati nella casa di Casal Bertone. giugno del ’26. Giuseppe avrà nel Nel 1943 Giorgio, studente di me’28 e nel ’29 due figli da Elvira, Rita dicina, assieme ai suoi amici e ed Ivan. compagni di classe Caio Cefaro e Fino al 1933 Giorgio visse a Pizzo Corrado Giove entrò nelle formaCalabro, in un ambiente molto dizioni armate del Partito d’azione, verso da quello strutturato della partecipando alla Resistenza roRoma capitale del Regno ed epicenmana. Tra il febbraio ed il maggio tro della retorica propagandistica Giorgio Marincola con 1944 venne trasferito dal comando fascista. Un contesto, quello pizziCaio Cefaro militare del partito nella provincia tano, di affetto, libertà ed accoa piazza San Giovanni di Viterbo, aggregato, insieme ad glienza per Giorgio, stando alle in Laterano, 1941 alcuni compagni di partito, ad una memorie familiari. Si trasferì a (arCh. Fam. CeFaro) banda partigiana formata da solRoma per iniziare a frequentare il da razzapartigiana.it
dati sbandati. All’indomani della liberazione di Roma (4 giugno 1944) Giorgio prese la decisione di continuare la Resistenza, arruolandosi, attraverso esponenti del Pd’a, nelle file dell’intelligence militare britannica, lo Special Operations Executive. Dopo un breve corso di addestramento in Puglia, nell’agosto 1944 fu aviolanciato in Piemonte nella zona di Biella come membro di una missione alleata, la missione Bamon, con compiti di guerriglia, collegamento e addestramento. Nel gennaio 1945, dopo numerosi attacchi nel Biellese e missioni di collegamento con il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), venne arrestato durante un rastrellamento, condotto al carcere di Biella e costretto a parlare ai microfoni di Radio Baita, una radio di disinformazione tedesca. Durante la trasmissione, invece di leggere il copione sottopostogli, riaffermò la sua convinzione nella libertà e fu conseguentemente pestato dai suoi carcerieri. Nel marzo venne deportato al Polizeilicher Durchganglager di Bolzano, uno dei diversi campi di concentramento nazisti nella penisola, dopo essere passato per le carceri di Torino e (probabilmente) Milano. Il lager venne liberato il 30 aprile 1945, quando le ostilità erano cessate in gran parte dell’Italia e Giorgio, invece che riparare in Svizzera (come peraltro gli era ordinato dal comando della missione) preferì unirsi ad una banda partigiana della Val di Fiemme. Il 4 maggio del 1945 un’autocolonna di SS in ritirata, dopo uno scontro a fuoco attaccò i villaggi di Stramentizzo e Molina di Fiemme, dandoli alle fiamme ed uccidendo rispettivamente 21 e 6 persone. Tra i 21 di Stramentizzo i partigiani erano undici. Uno di loro era Giorgio Marincola. Y
Pedine segrete sulla scacchiera di Himmler
n Sudtirolo, un convoglio speciale di cinque autoIdabus giunge nel villaggio di Villabassa, a circa 30 km Cortina d’Ampezzo. A bordo 139 persone, scortate
mirella serri - gli invisibili. la storia segreta dei prigionieri illustri di hitler in italia longanesi, collana il Cammeo - pp 232, € 16,40
dalle SS naziste. È il 28 aprile 1945. Uomini, donne, persino una bambina, provenienti da diciassette diversi Paesi. Tra loro, alcuni dei più conosciuti protagonisti della storia d’Europa. Sono “prigionieri d’onore”, personalità che in quegli anni di guerra sono stati detenuti segretamente in vari lager dei Reich, da Dachau a Flossemburg. Himmler, il potente ministro dell’Interno della Germania nazista, vorrebbe utilizzarli per trattative di pace con gli Alleati. Il libro racconta la storia di questo convoglio e le vicende intrecciate dei prigionieri speciali del Fuhrer. Oltre ad agenti segreti britannici, contesse, giornalisti, teologi e professori, ci sono: l’ex Cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg, incarcerato dopo
l’annessione dell’Austria; l’ex Vice-Cancelliere e sindaco di Vienna Richard Schmitz; il ministro greco della guerra Alexandros Papagos; l’ex Presidente della Banca centrale tedesca Hjalmar Schacht; l’ex Primo ministro francese del Fronte Popolare Léon Blum; l’industriale Fritz Thyssen; Vassilij Kokorin, nipote del ministro degli Esteri sovietico Molotov; il generale Sante Garibaldi, nipote dell’Eroe dei due Mondi; il principe Filippo d’Assia, marito della principessa Mafalda di Savoia. Molti di questi prigionieri sono stati rinchiusi nei lager, con false identità e in isolamento. Solo il comandante dei campi conosceva il loro vero nome. I 139 “invisibili” sono destinati alla Fortezza Alpina, il ridotto prescelto dai gerarchi nazisti per l’ultima resistenza. Ma il piano fallisce. I prigionieri sono liberati e la loro storia sarà pressoché dimenticata, fino a oggi,
con la pubblicazione di questa ricostruzione storica. Il testo ripercorre la loro avventurosa vicenda, i motivi che li hanno condotti nei lager e le loro terribili peripezie per approdare in Sudtirolo. Ma ricostruisce anche i retroscena fino a oggi mai raccontati dell’intreccio che porta detenuti ebrei e antifascisti a trovarsi a fianco di altri prigionieri che hanno fatto parte della schiera dei “carnefici” di Hitler o di Mussolini: come il capo della polizia Y di Salò Tamburini. mirella Serri insegna letteratura e Giornalismo all’università “la sapienza” (roma)
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Festa della Liberazione
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Partigiani, fratelli maggiori testo di
miChele l. StraNiero FauSto amodei
musiCa di
Partigiani che adesso cantate, partigiani che fate all’amore sulla montagna ricordando le notti passate quando l’aria sapeva di foglie vi mancava la madre e la moglie e l’Italia ascoltate le nostre parole, ascoltate le nostre parole.
Se cerchiamo sui libri di storia, se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d’aria non troviamo la vostra memoria, ma se invece spiamo sui volti dei fratelli, sui tratti sconvolti dell’Italia riviviamo quegli anni trascorsi, riviviamo quegli anni trascorsi.
Eravate partiti cantando la speranza nel cuore, occhi aperti, sulla montagna, eravate partiti sognando. Noi sapemmo di favole strane, noi ragazzi, e di guerre lontane
W L’ITALIA
LIBERA A DEMOCRATIC EMANCIPATA SOLIDALE
per l’Italia, noi fratelli minori inesperti, noi fratelli minori inesperti. Una voce nell’ora dei morti ci ha chiamati alle vostre bandiere con l’Italia
a vegliare la fiamma sui monti; ma se un giorno tornasse quell’ora, per i morti che avete lasciato sulla montagna, partigiani, chiamateci ancora! Partigiani, chiamateci ancora!
il fiore del partigiano PeriodiCo dell’aSSoCiazioNe diviSioNe
NazioNale PartigiaNi d’italia Fiume adda Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in Piazza Professor Quintino di Vona, 3 In attesa di registrazione. Supplemento a Patria Indipendente Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)
anno 8 numero 21
aprile 2017
Festa della Liberazione
A di
Pubblichiamo l’intervento del Presidente dell’ANPI tenuto all’iniziativa del 10 marzo promossa dall’ANPI di Modena sul tema del contrasto ai neofascismi.
Carlo Smuraglia
bbiamo assunto l’impegno di dedicare il 2017 alla Costituzione, per celebrare la ricorrenza del 1947, l’anno della Costituente, l’anno delle grandi discussioni e infine dell’approvazione con un voto significativo (85%), su cui, in partenza, nessuno avrebbe potuto scommettere. La nostra Costituzione ha sicuramente bisogno di continuA A pAg. A pAginA 2 ➔
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LIBERA DEMOCRATICA EMANCIPATA SOLIDALE
Articoli dA pAginA 2 A pAginA 8 ➔
marilena nardi
Antifascisti ancora e sempre
UN INTERVENTO DEL PRESIDENTE