referendum
Anno 7 numero 19
Settembre 2016
NO!
La terza Festa della Divisione Fiume Adda si svolge a Cernusco dal 25 al 28 agosto. Prenderemo lo slancio verso il referendum. Lo diremo cantando, ballando, discutendo; lo grideremo forte:
allo stravolgimento pasticciato della Costituzione. Difendiamo i valori della democrazia conquistata a caro prezzo dai partigiani. Di cui onoriamo la memoria, anche col voto a pagina 2 il programma della festa e le informazioni ➔
Perché NO? L’AddaMartesana in festa
I TEMI DELL’AUTUNNO
D di
Franco Salamini*
opo la breve pausa estiva eccoci di nuovo, come nei mesi scorsi, a misurarci ai banchetti in mezzo alla gente con quello che sarà uno dei temi cardini dell’agenda politica: il referendum sulle modifiche costituzionali. Il “referendum di ottobre”, come lo definiva Renzi, ha via via dilatato i suoi tempi, tanto che, nelle intenzioni del premier, potrebbe diventare il “referendum di Natale”, con la speranza che un buon Babbo Natale porti in regalo la vittoria del SÌ. Giocare con la data del referendum per puro calcolo opportunistico, non farà altro che disincentivare ulteriorcontinua a pagina 3 ➔
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Diciamo un bel «NO!» Festosamente
referendum
Settembre 2016
il fiore del partigiano
A CERNUSCO SUL NAVIGLIO LA TERZA FESTA DI ZONA - DAL 25 AL 28 AGOSTO
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Tutti sono invitati, dai nonni ai bimbi. Anche i gufi
ruccazzano passa il testimone a Cernusco: la terza edizione della Festa di zona Adda-Martesana dell’ANPI trasloca quest’anno, seguendo il Naviglio, nell’area feste Villa Fiorita di Cernusco, in via Guido Miglioli. Il sito è facilmente raggiungibile in metropolitana (MM2, stazione di Villa Fiorita). La Festa si apre giovedì sera alle 21,30 con la musica dei 1000 e Una Nota. La sera di venerdì 26 è dedicata all’approfondimento di tematiche care alla nostra Associazione: alle 20,30 con Carlo Ghezzi (segreteria nazionale ANPI) e Massimo Bonini (segretario generale della Camera del Lavoro di Milano) apriremo un “dialogo su Lavoro e Costituzione”. La serata prosegue in musica alle 22,oo con I Lavoranti, che presentano “Il nostro De André”. Sabato 27 , dalle 21,30, canteremo con gli Amici di Jones il suonatore. Per domenica 28 prenotiamo un pranzo collettivo (alle 12,30) e alle 21,30 i Midnight Breakfast ci offriranno una serata blues. Buona Festa a tutti! Y
il fiore del partigiano ➔ segue da pagina 1
mente la partecipazione: un pessimo servizio che si fa alla democrazia. Democrazia, libertà, disegno eversivo, svolta epocale: sono parole impegnative, ma c’è da scommettere che man mano si avvicinerà la data del voto, più accesi e aspri saranno i toni e si evocheranno scenari sempre più inquietanti, mentre sarebbe il caso che tutti si cercasse di limitarsi al merito con sobrietà di linguaggio. Non voglio inoltrarmi nell’analisi dei 40 e più articoli modificati, ma vorrei cercare di capire il senso della modifica costituzionale legata alla nuova legge elettorale, l’Italicum, entrata in vigore lo scorso luglio.
scelte che intervengono pesantemente anche sulla prima parte della Costituzione, attraverso le leggi sul lavoro, la scuola, la sanità. Il nuovo modello prevede la predominanza dell’esecutivo sul Parlamento, una sola Camera di nominati, un Senato non più elettivo, di cui non sono chiare le funzioni che potrebbero andare in conflitto con quelle della Camera, un’ampia maggioranza, indipendentemente dal risultato elettorale (un partito che raggiunge il 20% ha la possibilità, se vince, di avere una rappresentanza del 55%), un drastico ridimensionamento dei luoghi della partecipazione e della rappresentanza, il mercato che detta le regole, meno stato sociale. Si potrebbe sintetizzare: un premierato forte
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giunto il numero di firme sufficienti né per i due quesiti per i referendum elettorali, né per quelli per il NO alla riforma costituzionale. Colpa della scarsità di mezzi, certo, della mancanza di un’adeguata informazione, anche, ma non dobbiamo nasconderci che, a fronte della generosità di pochi, la struttura organizzativa ha visto tante defezioni, alcune volute, altre nate da sottovalutazione o pigrizia. Credo che soprattutto l’ANPI dovrà fare un’analisi attenta e approfondita del perché non si sia raggiunto un risultato che era alla nostra portata. Questo non ci consentirà di accedere ai rimborsi per le spese sostenute, non ci permetterà di avere a disposizione spazi istituzionali, che saranno riconosciuti esclusivamente ai Comitati del SÌ e a quelli per il NO dei gruppi parlamentari. Dovremo, come nei mesi scorsi tornare nelle piazze, nei mercati, in mezzo ai cittadini perché sarà l’unico modo per far sentire la nostra voce. Dovremo essere più inclusivi, capaci di coinvolgere più realtà possibili, aperti anche a chi appare lontano da noi, meno autoreferenziali. Il primo e fondamentale momento di ripresa della mobilitazione dovrà essere la festa dell’ANPI di zona, che si terrà dal 25 al 28 agosto a Cernusco sul Naviglio presso l’area Feste di Villa Fiorita. La festa di zona è ormai l’appuntamento di fine agosto per tutte le sezioni ANPI dell’Adda-Martesana. Quest’anno abbiamo deciso di tenerla in un nuovo spazio, ampio, ben attrezzato, attraente e facilmente raggiungibile. L’impegno sarà maggiormente gravoso rispetto agli anni precedenti, per le dimensioni e le modalità organizzative della festa. Una scommessa che possiamo vincere se ci sarà l’adesione convinta delle sezioni e la partecipazione di tanti cittadini. La festa è aperta a tutti gli antifascisti, a tutti coloro che si riconoscono nei valori e nei principi della nostra Costituzione, indipendentemente da come voteranno al referendum. Allora tutti mobilitati per la buona riuscita della festa, per rilanciare l’azione della nostra associazione, per riprendere la campagna referendaria a favore del NO! Questa volta non possiamo permetterci distrazioni o defezioni, il conto da pagare sarebbe ecY cessivamente salato.
Perché NO? L’Adda-Martesana in festa
Due brevi considerazioni. Coloro che sostengono il SÌ affermano che le modifiche alla Costituzione non c’entrano nulla con la nuova legge elettorale. Senza dubbio una è una modifica costituzionale, l’altra una legge ordinaria, ma guarda caso l’Italicum prevede l’elezione di una sola Camera, dando per scontata la riforma costituzionale, che prevede un Senato non elettivo. Tanto è vero che, se dovessero prevalere i NO, bisognerà scrivere una nuova legge elettorale. Da qui il legame inscindibile, sia politico che istituzionale, dei due interventi. La seconda: la maggior parte dei costituzionalisti a cui viene riconosciuta indiscutibile competenza è contraria alla modifica costituzionale, mentre una parte significativa di coloro che la sostengono si esprime come Cacciari: «Una riforma modesta, maldestra, concepita male, scritta peggio, insomma “una puttanata” che però realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni». La stessa ministra Boschi, relatrice della riforma, sostiene «meglio una riforma perfettibile che nessuna riforma». I costituenti che scrissero la Carta con tutta probabilità non la pensavano esattamente così. Fecero il maggior sforzo possibile per scrivere pagine belle e nobili per la nostra democrazia, nessuno – immagino – si sentiva impegnato a scrivere una “puttanata”. Quindi il disegno non è eversivo, ma modifica il modello di democrazia previsto dalla nostra Costituzione, perché se è vero che si interviene solo sulla seconda parte, è anche vero che la Carta ha un equilibrio tra i principi che sostiene e il modello istituzionale. Ma il disegno politico è più ampio, frutto di
senza i necessari contrappesi in un’economia fortemente liberista. L’attuale Costituzione prevede una Repubblica parlamentare fondata sui diritti, la responsabilità, la partecipazione, che si esercita attraverso le rappresentanze: autonomie locali, partiti, associazioni, organizzazioni sindacali. Un’economia che ha come fine non tanto l’arricchimento personale, ma il bene comune.
Chi sostiene il NO è accusato di essere un conservatore. Certo siamo attenti a conservare questi principi, ma soprattutto vorremmo che fossero applicati, perché la Costituzione non è un libro di sogni, di principi astratti, ma la vita vera di tutti noi. I principi e i valori presenti nella Carta sono quelli che fanno la differenza tra una vita che vale la pena di essere vissuta e la maledizione incomprensibile di un dio crudele. Il percorso per i Comitati del NO sarà accidentato. Abbiamo alle spalle due passaggi che hanno mostrato la nostra debolezza: non abbiamo rag-
*ANPI di Cernusco sul Naviglio
l’anno scorso In queste due pagine, la serata tributo a Rino Gaetano, con Danilo Scortichini. Balli e canti pure con il coro “Note di libertà”. Tavolate di amici e famiglie, tra chiacchiere e sorrisi, anche in cucina. (foto AndreA peSciAni e rocco ornAghi)
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Non sono modifiche,è u il fiore del partigiano
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referendum
FORMA E CONTENUTI DELLA LEGGE DI REVISIONE RENZI-BOSCHI SONO GRAVI E PREOCCUPANTI
L di
da Left del 28 giugno 2016
luigi Ferrajoli
a legge di revisione costituzionale RenziBoschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo. La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione. Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome. La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da
una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza («abbiamo i numeri!»), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedutefiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso. Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e Parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte Costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito. Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà
più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.
Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni. In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali «in conformità» – non è chiaro in quali forme e grado – «alle scelte espresse dagli elettori», e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81, 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera. All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad
n’altra Costituzione il fiore del partigiano
esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.
Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di rafforzamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conY viene a una democrazia parlamentare. *Giurista, ex magistrato, professore universitario e filosofo del diritto italiano
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Una “Carta” per l’oligarchia
L
di
da futuroquotidiano.com del 15 aprile 2016
Domenico gallo*
a Costituzione della Repubblica italiana fu approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947, con 458 voti favorevoli e 62 contrari. I deputati dell’Assemblea costituente furono eletti con sistema proporzionale, rappresentavano tutte le componenti politiche sociali e culturali presenti nel popolo italiano e vararono la Costituzione con un accordo quasi unanime. Si trattava di edificare le mura della casa comune per unire il popolo italiano e trasformarlo in una comunità politica unita da un destino comune. La nuova Costituzione fu scritta ad iniziativa e ad impulso esclusivamente del Parlamento, senza che il Governo potesse mettervi becco. Quando l’Assemblea Costituente discuteva del progetto della Costituzione, i banchi del Governo rimanevano vuoti. Tutto il contrario di quello che è successo questa settimana con l’approvazione della revisione costituzionale. Quando Renzi si è presentato in Parlamento l’11 aprile per concludere la discussione finale sulla sua nuova Costituzione, i banchi del Parlamento erano vuoti, mentre il banco del Gover- AltAn no era strapieno. Questo dovrebbe far riflettere sulla totale delegittimazione politica del percorso che ha portato una maggioranza risicata, frutto di un Parlamento eletto con una legge maggioritaria dichiarata incostituzionale, ad approvare sotto dettatura dell’esecutivo la più pesante riforma della Costituzione della storia repubblicana. La Costituzione è un bene comune: la sua riforma dovrebbe fiorire da un dibattito collettivo, aperto e condiviso perché in essa sono scolpite le basi della convivenza
civile. Le Costituzioni si modificano infatti con assemblee costituenti, in ogni caso con parlamentari eletti con sistemi proporzionali a seguito della più ampia condivisione tra le forze politiche. Le Costituzioni sono fatte per unire un popolo, per questo non possono essere imposte da una minoranza faziosa ed arrogante.
La Costituzione italiana ha unito il popolo italiano costituendolo in comunità politica che si riconosce in un destino comune. Quel destino che i padri costituenti vollero garantire alle generazioni future, ancorandolo ad una serie di beni pubblici repubblicani, quali: l’eguaglianza, la pace, il pluralismo, l’istruzione, la solidarietà sociale, la salubrità dell’ambiente, la dignità del lavoro, che sono tutt’ora di straordinaria attualità anche se da molti anni languono nei palazzi della politica, quando non sono apertamente ripudiati. Il popolo italiano è rimasto unito anche quando si sono verificate drammatiche rotture storiche, come la guerra fredda, proprio grazie alla Costituzione. È la Costituzione che ha impedito che la guerra fredda ci trascinasse nella tragedia della guerra civile, com’è avvenuto in altri Paesi. È la Costituzione che, attraverso l’indipendenza della magistratura, ci ha salvato da sbocchi autoritari ed ha tenuto unito il popolo italiano nelle drammatiche contingenze della strategia della tensione e del terrorismo. Adesso che, per le vicende della globalizzazione e delle crisi politiche del dopo ’89, si sono sfaldate le grandi organizzazioni di coesione sociale, come i sindacati, i partiti e le associazioni di massa, nella società liquida in cui l’individualismo trionfa perché imposto dal mercato, la Costituzione è l’unico baluardo che mancontinua a pagina 6 ➔
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Referendum: domande il fiore del partigiano
Settembre 2016
referendum
FACCIAMO CHIAREZZA SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE E SULLA LEGGE ELETTORALE
Riforma costituzionale
da anpi.it. - 29 Luglio 2016
Si dice che sono molti anni che si discute e non si è mai fatto nulla. Perché opporsi adesso, quando si decide, finalmente, di fare qualcosa di positivo per l’aggiornamento della Costituzione? Non si tratta di fare a tutti i costi, ma di fare bene, aggiornando quando occorre, ma rispettando lo spirito e i valori della Costituzione. Inoltre non è vero che non si sia fatto nulla. Sono stati modificati, in varie occasioni, molti articoli della Costituzione e, in taluni casi, addirittura alcune parti. È vero, invece, che non si è data attuazione a norme fondamentali della Costituzione, ma su nessuna di esse interviene questa riforma.
Dunque, contrarietà ad ogni modifica del sistema parlamentare? Niente affatto: si può correggere il “bicameralismo perfetto” in modo molto semplice e rapido: differenziando, almeno in parte, il lavoro delle Camere (ad esempio, riservando la fiducia al governo solo alla Camera, e il controllo sull’esecutivo e sull’attuazione ed efficacia delle leggi al Senato). E poi creando un sistema che consenta di approvare insieme le leggi più importanti e che affidi le altre ad un solo ramo del Parlamento, con la facoltà di intervento da parte dell’altro ramo. Questa riforma si sarebbe potuta fare in poco tempo, già col governo Letta, invece di mettere mano a modifiche molto estese e controverse.
La riforma abolisce o no il Senato? La riforma non abolisce affatto il Senato ed anzi
Una “Carta” per l’oligarchia
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tiene l’unità del popolo italiano, che ci consente di essere ancora una comunità politica unita da un destino comune in cui tutti possiamo riconoscerci. Da domani, se la nuova Costituzione di Renzi e Boschi sarà confermata dal referendum, le istituzioni non saranno più la casa comune del popolo italiano. Già adesso non godono di buona salute perché le leggi elettorali hanno prosciugato i canali di collegamento fra il Parlamento e la società, fra la società civile e la società politica, che si è resa autonoma dal popolo sovrano
ne ribadisce la funzione legislativa e quella di revisione costituzionale, ma indebolendolo concretamente con la composizione, fatta di sindaci e consiglieri regionali, cioè senatori a tempo parziale.
Perché l’elezione del Senato dovrebbe essere diretta? La riforma Boschi, nell’attribuire ai consigli regionali, e non ai cittadini, il diritto di eleggere il Senato, viola la sovranità popolare, di cui «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto ( ... ) costituisce il principale strumento di manifestazione», come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014. Affermare poi che il popolo italiano - con la riforma Boschi - eleggerebbe indirettamente il Senato perché i consigli regionali, eletti dal popolo, eleggerebbero a loro volta i senatori, è una vera baggianata. È come dire che il popolo italiano elegge il presidente della Repubblica perché il presidente viene eletto da Camera e Senato, che sono eletti dal popolo. Si tratta di una analogia superficiale e, come tale, giuridicamente improponibile. In realtà, la cosa più grave è che non si sa neppure come le elezioni avverrebbero «in conformità della volontà popolare», visto che su questo punto l’art. 2 rinvia ad una legge ordinaria (che non c’è).
Non c’è il lato positivo del risparmio di spesa, visto che la funzione dei senatori è prestata a titolo gratuito? Se si pensa che occorre ridurre il numero dei parlamentari, si può ridurre proporzionalmente il numero dei deputati e quello dei senatori. Se invece si riduce drasticamente solo il numero dei senatori, squilibrando il sistema, vuol dire che il disegno è un altro: praticamente “azzerare” il Senato e dare tutto il potere ad una
sola Camera ed a chi la governa. Questo è grave e pericoloso perché elimina il sistema di pesi e contrappesi giustamente disegnato dalla Costituzione. Quindi, la riforma prevede che i senatori esercitino contemporaneamente anche le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, senza considerare che l’importanza e l’onerosità delle funzioni senatoriali (funzione legislativa ordinaria e costituzionale; raccordo tra lo Stato, le Regioni e i Comuni, con l’Unione Europea; valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni; verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori ecc. ecc.) ne renderebbero aprioristicamente impossibile il puntuale espletamento. I futuri 100 senatori, in quanto sindaci o consiglieri regionali, non saranno compensati per le loro funzioni di senatore, ma avranno soltanto un «rimborso spese» di imprecisabile dimensione (anche se è difficile credere che si faccia un lavoro in più gratuitamente). Godranno dell’insindacabilità giudiziaria per i fatti posti in essere nell’esercizio delle proprie funzioni - il che è condivisibile - e, ancorché senatori, solo part-time, godrebbero anche dell’immunità «personale» dagli arresti, dalle perquisizioni personali e domiciliari, e dai sequestri della corrispondenza, col rischio connesso all’abnorme numero dei consiglieri regionali attualmente indagati o addirittura rinviati a giudizio - di trasformare il Senato in un “refugium peccatorum”. Inoltre, è pacifico che verranno poi fuori le solite “diarie” e resteranno comunque in piedi tutte le costose strutture del Senato. Ci sarà uno snellimento al procedimento legislativo. Non è vero, perché sono previsti molti tipi e molte modalità di esercizio della funzione legi-
ed è diventata autoreferenziale, manomettendo i meccanismi della rappresentanza politica. Una crisi profonda testimoniata, a tacer d’altro, dalla totale perdita di fiducia degli italiani nei partiti politici (3%) e nel Parlamento (8%).
Solo che per curare la malattia ci viene proposto di uccidere il malato. La cura proposta con questa riforma è peggiore del male. Niente chiacchiere, niente dibattiti, nessuna mediazione politica. Per legge (Italicum) un solo partito deve comandare, controllando la maggioranza della Camera politica ed il governo, non importa se espressione di una minoranza di elettori. Quest’unico partito che non è un intellettuale collettivo ma una struttura di potere controllata da una o pochissime persone (il capo politico ed il suo “cerchio magico”), deve
governare senza contrappesi e senza dialogare con nessuno. Il Parlamento non sarà più un luogo di raccordo, di mediazione e di sintesi del pluralismo sociale. Questo comporterà la rottura dell’unità del popolo italiano perché le formazioni sociali nelle quali si articola il pluralismo del popolo italiano non avranno più un luogo istituzionale nel quale le domande ed i bisogni collettivi possano essere filtrati e composti. È vero che ci saranno ancora le elezioni politiche, ma non serviranno per consentire ai cittadini di concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale, come pretende l’art. 49 della Costituzione, bensì saranno lo strumento in base al quale singoli individui otterranno il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popo-
e risposte
Ma questo che viene configurato è il Senato delle autonomie? No, perché non rappresenta le Regioni, ma assegna solo determinati poteri a consiglieri regionali e sindaci. In Paesi come la Germania, è il governo dei Lander (Regioni) che elegge il Senato e così nasce una vera rappresentanza.
La riforma attribuisce poteri legislativi all’esecutivo, cioè al governo? La riforma amplia il potere d’iniziativa legislativa del governo mediante la previsione di disegni di legge «attuativi del programma di governo», da approvare, da parte della Camera dei deputati, entro 70 giorni dalla deliberazione d’urgenza dell’assemblea. Il che rischia di restringere ulteriormente gli spazi per l’iniziativa legislativa parlamentare - attualmente ridotti al solo 20 per cento - grazie a possibili capziose interpretazioni estensive sia del concetto di “programma di governo”, sia del concetto di “attuazione del programma”. In altre parole, si finirebbe per mettere nelle mani del governo l’agenda dei lavori della Camera.
Quale sarebbe la posizione costituzionale del premier grazie alla riforma Boschi e all’ltalicum? II nostro ordinamento si orienterebbe di fatto verso un “premierato assoluto”, grazie all’Italicum e alla riforma Boschi: l’Italicum trasformerebbe il voto al partito del leader in un’investitura quasi diretta del premier e la legge Boschi eliminerebbe il Senato come potenziale contro-potere esterno della Camera senza prevedere efficaci contro-polare, ed è irrilevante che siano prescelti da una minoranza di elettori. Quello che si sta realizzando è un caso veramente straordinario: la sostituzione di una Costituzione, espressione della sovranità popolare al più alto livello in un momento decisivo della storia patria, con una Costituzione imposta da una minoranza, per consolidare e stabilizzare un potere di minoranza, cioè un sistema di oligarchia. Abbiamo già sperimentato nel secolo scorso un sistema politico che i costituzionalisti dell’epoca definirono come “governo del Primo Ministro”, in cui il governo era affidato ad un partito unico che - per legge - aveva il controllo del Parlamento. Sappiamo tutti com’è Y andata a finire.
*Magistrato presso il Tribunale di Roma
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Legge elettorale
mArilenA nArdi
slativa (secondo alcuni, sette, secondo altri, assai di più); l’art. 70 della Costituzione si risolveva in una riga e mezzo, quello “nuovo” si protrae per tre pagine ed è indice solo di confusione, conflitti, rallentamento.
il fiore del partigiano
teri interni. Col duplice rischio, connesso all’“uomo solo al comando”, di produrre eccessivi squilibri di rappresentanza e di condizionare addirittura i poteri del presidente della Repubblica.
Cosa accadrà se vincerà il NO? Sarà il caos? Trattandosi di riforma costituzionale, non succederà nulla. Tutto resterà come prima, sul piano costituzionale, essendosi però evitato uno stravolgimento del sistema costituzionale e restando ben aperta la possibilità di apportare quelle opportune modifiche, ritenute necessarie per correggere il cosiddetto “bicameralismo perfetto”. Quanto alle conseguenze politiche, ne ha parlato solo il presidente del Consiglio. Noi siamo di diverso avviso e non lasciamo entrare la politicapartitica nella campagna referendaria. Escludiamo, in ogni caso, il caos; il governo andrà avanti fino a che il Parlamento gli darà la fiducia. E questo non c’entra nulla con le riforme costituzionali. Quanto agli aspetti economici, è singolare il fatto che sia la Confindustria a prospettare il disastro economico. Ogni volta che i “poteri forti” si occupano della Costituzione c’è da preoccuparsi e da temere che si perseguano interessi particolari, anziché l’interesse pubblico.
Ci sono altre misure, nella legge sulla riforma del Senato, che suscitano perplessità e/o contrarietà? Certamente: mentre si parla di partecipazione e della necessità di rafforzarla, si triplica il numero delle firme necessarie per i progetti di legge di iniziativa popolare; e non si fissano termini per la trattazione dei progetti in Parlamento, rinviando la questione ai regolamenti parlamentari. Anche per il referendum, si finisce – in sostanza – per aumentare il numero delle firme necessarie (portandole a 800.000); inoltre, si rinvia alle calende greche ogni provvedimento sulla tutela delle minoranze e lo “statuto delle opposizioni”, richiesto da tutti a gran voce. Ma almeno la durata delle due Camere è la stessa? No, perché quella della Camera resta prestabilita, mentre quella del Senato è legata alle vicende degli organi da cui provengono i senatori (Regioni e Comuni).
La nuova legge elettorale ha recepito molte delle osservazioni pervenute da varie parti e fatte proprie dalla Corte Costituzionale; e dunque è ora necessaria ed utile. Non è così; la legge elettorale è stata oggetto di vari ripensamenti e poi costruita sul modello di un partito che vince le elezioni superando il 40% e ottenendo un premio di maggioranza che gli consente di raggiungere il 54%, cioè 340 deputati su 630. Così governa da solo, tanto più che non è più disturbato dal Senato, privato di reali poteri.
Il cittadino può liberamente esprimersi e non più dipendere dalle scelte dei partiti. Non è vero: restano 100 capilista che vengono praticamente nominati dai partiti; in più, per essi c’è la possibilità di presentarsi in più circoscrizioni ed esercitare solo in seguito l’opzione, col risultato che sarà eletto, ancora una volta, chi è stato designato dal partito di provenienza. In più c’è anche il premio di maggioranza, che praticamente distorce la volontà popolare, mutando in modo consistente la composizione della Camera. Le preferenze ci sono (due) ma rappresentano la parte minore e secondaria, restando esclusi comunque i capilista.
Essendo stato previsto il ballottaggio ed essendo escluse le coalizioni, vincerà comunque il migliore. Non è così: al ballottaggio, non essendo previsto un quorum, vince chi ha più voti e prende il premio di maggioranza anche se i voti sono stati assai pochi (è stato ipotizzato che potrebbe “conquistare” la Camera, con tutte le conseguenze già dette, il partito che ha ottenuto solo il 25 % dei voti. Davvero questo rappresenterebbe la volontà popolare?).
La legge elettorale non è nella Costituzione e quindi non si tratta di una riforma costituzionale; perché dunque se ne parla nella campagna referendaria sulla Riforma del Senato? La ragione è semplice: è un problema di democrazia e di rappresentanza; se due leggi, contemporaneamente, tolgono spazi di rappresentanza ai cittadini, incidono sulla pienezza dell’esercizio della sovranità popolare, alterano il sistema di poteri e contropoteri deliberato dalla Costituzione, finiscono inesorabilmente per influenzarsi a vicenda e soprattutto per porre, unitariamente, un problema di democrazia, che entra sempre in gioco quando si incide sulla rappresentanza e sulla libera manifestazione della volontà dei cittadini, cui spetta per indicazione costituzionale, la sovranità popolare.
Ora si parla molto di modificare la legge elettorale. Lo dicono tutti, che è necessario, e sembra disponibile anche il partito di maggioranza. Dunque, non ha più senso insistere sugli aspetti negativi della attuale legge elettorale. Ancora una volta si dice il falso. Nessuna delle proposte di modifica in discussione riguarda i punti più delicati e negativi dell’attuale legge, come l’eccessivo premio di maggioranza e soprattutto la permanenza di troppi “nominati” dai partiti e non Y eletti dai cittadini.
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Voi al governo, che cosa avete capito?
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da libertaegiustizia.it del 12 gennaio 2016
di
guStavo ZagrebelSky*
C
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento del professor Zagrebelsky, letto ieri davanti all’assemblea del comitato del No dal professor Francesco Pallante.
oloro che vedono le riforme costituzionali gravide di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è «la più bella del mondo». Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole «democrazia» e «lavoro» che campeggiano nel primo comma dell’art. 1. Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un «non detto» e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la «riforma» come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico. Ciò si spiega, per l’appunto, con il «non detto».
Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in «tempi esecutivi»! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia eco-
nomica, oggi prevalentemente nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in Parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che spingere a misure che ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il ritorno a condizioni precostituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ridotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola. A questa desertificazione social-politica corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare «la sera stessa delle elezioni» il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni potrà governare controllando il Parlamento attraverso il controllo del partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche.
L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva. Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più deboli e delle risorse
mArilenA nArdi
referendum
LA DOMANDA DEL PROFESSOR(ONE) GUSTAVO ZAGREBELSKY AI DISCOLI DI PALAZZO CHIGI
naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere che solo a queste condizioni il nostro Paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici, consideri conveniente venire a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento dello Stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa («ce lo chiede l’Europa») sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari (gli “analisti” della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le Costituzioni antifasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature (è detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la democrazia e la Costituzione, ha protestato). La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il «non detto» è qui.
UNA NOTA DEL PRESIDENTE CARLO
S
Referendum: l’im
26 luglio 2016 i va diffondendo, per fortuna, il convincimento che la campagna referendaria debba svolgersi con civiltà, senza ricatti e senza pressioni “politicamente scorrette”. Non va dimenticato, però, che un requisito importante, anzi fondamentale, di una campagna civile è la verità. Le opinioni possono essere diverse, ma sui presupposti di fatto non dovrebbero esserci dubbi. La verità, prima di tutto. Mi capita, peraltro, di leggere su un grande quotidiano l’articolo di un autorevole esponente del “Sì” (Il confronto sul referendum e le ragioni per votare “Sì”) che mi sembrava muoversi sulla linea civile di cui ho detto. Ma poi, dopo aver sostenuto che una delle grandi difficoltà delle democrazie occidentali è costituita dall’estraneità dei cittadini alla politica, si afferma che vada particolarmente sottolineata «quella parte della riforma (del Senato) che riconosce il diritto dei cittadini al referendum propositivo e a veder prese in esame entro un determinato termine le proposte di legge di iniziativa popolare che oggi finiscono in un cestino».
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NEL 2006 SCANDIVA: «PERICOLOSO DARE TROPPI POTERI AL PREMIER»
Napolitano: «La Carta non si può cambiare a colpi di maggioranza»
Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a «portare a casa» il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che stanno sopra di loro e da cui, alla fine, dipende la loro legittimazione tecnica. La chiamiamo «riforma costituzionale», ma è una «riforma esecutiva». Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla. I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma – innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro – e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo caY pirci?
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da Il Fatto Quotidiano del 31 maggio 2016
ubblichiamo una parte dell’intervista che Giorgio Napolitano rilasciò a Myrta Merlino per il programma Economix (andò in onda il 15 aprile 2006 su RaiTre). Si parlava di Costituzione e dei 60 anni della Repubblica. Napolitano era senatore a vita, di lì a poco voterà la fiducia al governo Prodi, e il suo nome era tra i candidati alla presidenza della Repubblica. In quel giugno si tenne il referendum sulla riforma costituzionale di Berlusconi e Bossi, che ha più di una parentela con quella di Renzi, Alfano e Verdini.
Napolitano, volevo affrontare con lei è il tema della riforma della Costituzione. Mi pare di capire che lei considera la nostra ancora una Costituzione giovane e fresca. Non crede che sia invecchiata? Gli americani considerano giovane la loro Costituzione dopo più di 200 anni… Però il centrosinistra ha molto modificato il titolo V. E molto ora il centrodestra, cambiandone oltre 50 articoli. Ecco, in entrambi i casi importante è stato il metodo: si è fatto in Parlamento, senza raggiungere la maggioranza dei
*Giurista, presidente emerito della Consulta
SMURAGLIA
portanza della verità Due proposte, dice l’autore, che rappresentano una novità che, insieme con una buona legge elettorale, «potrebbe riattivare il circuito virtuoso tra società e politica». Bene. Guardiamo però le norme in questione e ci accorgiamo facilmente che quel circuito virtuoso è molto di là da venire, perché il legislatore della riforma, che avrebbe ben potuto dettare disposizioni precise, in tutti e due i casi, invece non l’ha fatto, rinviando l’attuazione dei principi enunciati sostanzialmente alle calende greche. Leggiamoli: all’art. 71 attuale si aggiunge un comma in cui si parla del referendum costituzionale propositivo, ma se ne rinviano «condizioni ed effetti» ad una legge costituzionale. Questa è la prima delle due future novità. Passando alla seconda, che riguarda l’iniziativa legislativa popolare, anche in questo caso c’è un comma aggiuntivo all’art. 71, ma da un lato si scrive che «la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge di iniziativa popolare sono garantite, nei tempi, nelle forme, e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari» (dunque ancora un rinvio alle calende gre-
che, per l’attuazione effettiva del principio); e dall’altro si moltiplica addirittura per tre il numero delle firme richieste, appunto, per la presentazione di leggi di iniziativa popolare. E in questo caso la trasformazione del numero di firme da 50.000 a 150.000 non è rinviata ma diventa di immediata applicazione. Davvero un singolare modo per favorire la partecipazione, a meno che non si intenda che essa si risolva in una promessa, anzi in due promesse e in una norma peggiorativa. Dunque siamo d’accordo di discutere sul merito, ma a condizione che si dica la verità, tutta la verità sulle cosiddette «novità» che dovrebbero risolvere il problema del circuito vizioso attualmente in atto tra cittadini e istituzioni; circuito vizioso palesemente destinato a protrarsi ancora a lungo, nonostante le affermazioni di principio che finiscono per essere, unite all’aumento del numero di firme, meno ancora di un atto di intenY zione e di buona volontà.
Carlo Smuraglia
Presidente Nazionale ANPI
due terzi e dunque si è arrivati a un referendum. È giusto riformare la Costituzione a colpi di maggioranza? No, non è giusto. Credo però che la riforma del titolo V operata dalla maggioranza del centrosinistra sia stata preceduta da consultazioni, in modo particolare con le Regioni, che erano interessate al federalismo. Anche se alla fine non ci fu accordo in sede politica. La legge di revisione costituzionale approvata di recente, e che è sottoposta a referendum confermativo, è stata invece davvero un colpo di maggioranza, non c’è stato nessun dialogo, nessun confronto, e io credo che in generale occorre cercare la più larga intesa per qualsiasi modifica della Costituzione. Quindi, secondo lei, non sarebbe da riformare l’articolo 138, ma bisognerebbe trovare ampie intese per affrontare il cambiamento. C’è chi sostiene che l’articolo 138 vada modificato nel senso di rendere obbligatoria la maggioranza dei due terzi. Forse questo è troppo. Se ne può ragionare e bisogna ragionarne tutti insieme, maggioranza e opposizione. Entro giugno ci sarà il referendum che dovrà approvare o abrogare la riforma che il governo Berlusconi ha approvato in Parlamento. Quali sono secondo lei i punti che proprio non bisogna che passino perché stravolgerebbero la Carta? Non deve passare una eccessiva amplificazione dei poteri del capo del governo. Non deve passare una riduzione dei poteri del presidente della Repubblica come figura garante della Costituzione e dei valori costituzionali e credo che non debba passare l’enorme pasticcio che si è combinato tra il Senato, più o meno battezzato “federale”, e la Camera, che provocherebbe la paralisi del procedimento legislativo. È un referendum molto difficile, gli italiani faranno fatica a capirlo e non prevede un quorum. Quindi è un referendum per cui basta un solo voto in più di una maggioranza anche molto piccola e questa riforma passa. Non lo considera un pericolo reale? Dipende da come si impegneranno i tanti che credono nella necessità di bocciare questa revisione. È un problema di volontà e sensibilità politica che spetta ai partiti coltivare e stimolare. Non sarà l’ennesimo elemento di divisione e lotta fra le parti politiche? Spero di no. Penso che una parte di coloro che in Parlamento hanno votato per la revisione costituzionale non era poi tanto convinta e tantoY meno credo lo sia oggi.
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La (falsa) carità del premier schiaffo alla miseria
referendum
RENZI L’AVEVA MINACCIATO: «USERÒ LA DEMAGOGIA». L’UNICA PROMESSA MANTENUTA
U
di
da il manifesto del 11 agosto 2016
maSSimo villone*
n tempo lontano, ogni signora della buona società aveva i suoi poveri, destinatari degli abiti smessi, degli avanzi di cucina, di qualche soldo o altro aiuto. Ora abbiamo i poveri del premier, cui magnanimamente si promettono 500 milioni risparmiati con la legge Renzi-Boschi. Ma quelle signore, alla fine, la carità la facevano davvero. Quella del premier è come sempre pubblicità ingannevole. Da dove verrebbe il risparmio di 500 milioni? Certo non dalla riforma del Senato. A quanto si sa, persino la Ragioneria dello Stato quantifica a meno di un decimo di quella cifra, e altre valutazioni riducono ancora. Ne rimangono almeno 450, e certo la soppressione del Cnel vale molto meno. Si potrebbe allora pensare alle Province. Ma su queste la legge Renzi-Boschi non fa altro che togliere la copertura costituzionale. La riforma in realtà è stata già fatta con legge ordinaria, e da questa legge vengono i risparmi, se ve ne sono. Rimangono i limiti agli emolumenti dei consiglieri regionali. Ma a questi non manca la fantasia per aggirarli, e comunque sono alla fine spiccioli. E allora?
I 500 milioni sono una cifra fantasiosa, volta a fare colpo sulla pubblica opinione e dare lustro al premier. La povertà è un problema vero e grave nel nostro Paese. Le statistiche ufficiali ci parlano di milioni sotto la soglia di povertà, con numeri crescenti. Ma proprio per questo la promessa del premier è uno schiaffo alla miseria. Se anche ci fossero quei 500 milioni – e così non è – sarebbero una goccia nel mare. Perché non si affronta il tema del reddito di cittadinanza? Perché non si pensa a una seria politica di contrasto alla povertà, per rendere vera per tutti la garanzia di una vita dignitosa? È questo il compito di un governo, non la distribuzione di mance caritatevoli. C’è da vergognarsi. Vogliamo diritti, non carità. Ma questa sensibilità a Palazzo Chigi manca. Come manca la sensibilità per una comunicazione sobria e corretta. Per il ministro Boschi non rispetta il lavoro del Parlamento chi vota no. Il no diventa un insulto all’istituzione. Ma forse rispettavano l’istituzione il ministro e il premier quando sostituivano a mano armata i dissenzienti
nelle commissioni parlamentari? O ponevano questioni di fiducia che prassi pluridecennali precludevano? O facevano presentare emendamenti premissivi – nuovissima invenzione, di cui abbiamo più volte scritto su queste pagine – per stroncare l’ostruzionismo? O minacciavano a ripetizione crisi e sfracelli per ridurre i parlamentari riottosi all’obbedienza? O comprimevano all’inverosimile i tempi parlamentari per le convenienze del governo? Rispetti il ministro, piuttosto, chi vuole liberamente esercitare il proprio diritto di voto.
Renzi dichiara ora di aver sbagliato nel personalizzare, e che bisogna guardare ai contenuti. Ne saremmo lieti, se non fosse mera rappresentazione. La promessa dei 500 milioni è uno spot per il premier, che si autopromuove come il buon padre di famiglia pensoso del benessere dei propri cari. È un altro modo, anche più sottile, di personalizzare, senza rischiare la poltrona minacciando dimissioni nel caso di sconfitta del Sì. Comunque, si sfugge al confronto di merito sulla riforma. Può mai avere un senso scambiare povertà e forma di governo, sostegno vitale e sistema di checks and balances? Piuttosto, ci avviciniamo agli esempi antichi di voto di scambio fondato sul bisogno che la nostra storia elettorale ci consegna numerosi, dai pacchi di pasta alle scarpe. E si rafforza il sospetto che ritardare il voto trovi ragione
solo nel posporre le urne a una legge di stabilità utile a operazioni di tal genere.
Si oscura il merito anche insistendo che il referendum ha a che fare solo con la legge costituzionale, e non con l’Italicum. La connessione è invece indiscutibile, perché è la legge elettorale che consegna un Parlamento reso poco rappresentativo e subalterno nelle mani del leader della minoranza fatta artificialmente maggioranza dal premio. Separare referendum e legge elettorale serve a Renzi anche a inchiodare nell’angolo la minoranza Pd. Ma questa si è cacciata da sola nei guai, ingoiando in Parlamento quel che ora rifiuta. Conclusivamente, qualche suggerimento per Renzi. Presenti una proposta di legge costituzionale che riduce i deputati a 400 e i senatori a 200, sopprime il Cnel, cancella la copertura costituzionale delle province, limita gli emolumenti dei consiglieri regionali. Quattro articoli di pochi righi ci danno un taglio dei costi identico o maggiore. Con questo possiamo serenamente cestinare senza danno la Renzi-Boschi, insieme all’Italicum. Se poi vuole davvero fare una bella figura, cancelli l’acquisto di un paio di F35 e di una manciata di carri armati. Così troverebbe 500 milioni veri, e non i 500 fasulli che nella riforma proprio non ci sono. Y *Professore emerito di Diritto costituzionale
pillole di resistenza culturale Adamo era semplicemente un essere umano, e questo spiega tutto. Non voleva la mela per amore della mela. La voleva soltanto perché era proibita. Lo sbaglio fu di non proibirgli il serpente; perché allora avrebbe mangiato il serpente. Y Mark Twain (da Wilson lo Svitato, 1894) Non ci è dato di scegliere la cornice del nostro destino, ma ciò che vi mettiamo Y dentro è nostro.
Dag Hammarskjöld Diplomatico ed economista
Sappiamo che parte della sinistra non voterà le riforme costituzionali e si porranno sullo stesso piano di Casa Pound e noi con Casa Pound non votiamo. Y Maria Elena Boschi Ministra
A curA di
mauriZio gheZZi
Lei mi chiede di commentare le dichiarazioni della Boschi sul fatto che chi vota No sta con Casa Pound. Le dico la verità: mi sembrano affermazioni così incredibili, così fuori dal mondo, che avevo evitato anche di rispondere. Diciamo che mi rifiuto di accettare una impostazione, ripeto, di questo tipo: fuori Y dal mondo. Carlo Smuraglia Partigiano L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il Y fascismo. Pier Paolo Pasolini (1962)
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Oltrepò, terra gloriosa di vini e di combattenti partigiani
le iniziative
BELLINZAGO LOMBARDO - VISITA A VARZI, CHE FU REPUBBLICA PARTIGIANA
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uest’anno come itinerario nei luoghi partigiani la sezione ANPI di Bellinzago ha scelto di visitare Varzi, Repubblica partigiana dell’Oltrepò. Un bel numero di partecipanti, una cinquantina, che alle 8 di una domenica mattina, 12 giugno, erano pronti con il loro bello striscione. Pronti, via, sono partiti alla volta di Varzi. Il gruppo contava, tra gli altri, la presenza di Peppo, Antonio, di Angelo Brambilla, di Righini, del mitico “Gatùn” con Genoveffa e di tanti altri vecchi compagni e qualche giovane. A Varzi siamo stati ricevuti nell’aula consiliare, dove una storica del luogo (tra l’altro figlia di un partigiano della Repubblica di Varzi) ci ha illustrato la storia della Repubblica partigiana, di com’era organizzata: una vera e propria polis democratica. L’incontro con il novantaduenne partigiano Luigi Persani, nome di battaglia “Cicci’’, entrato nella Resistenza a 17 anni e facente parte della Repubblica di Varzi, con il suo racconto sulla lotta partigiana vissuta, ci ha veramente entusiasmato e particolarmente emozionato. Finito l’incontro e dopo le foto di rito, “Cicci” ha voluto a tutti i costi portarci a casa sua con Dany e Monica, per un bicchierino (per modo di dire…). Dopo assaggi vari dei vini che produce in proprio, fino al grappino finale, ci ha congedato con 4 graditissimi bottiglioni di vino, con la promessa di rivederci presto. Dopo il ritemprante pranzo in un ristorante tipico, ci siamo recati a visitare Pavia. Poi il ritorno a casa, soddisfatti di questa nuova esperienza partigiana. Y Antonio Rolla Vicepresidente ANPI di Bellinzago Lombardo Sezione «25 aprile»
Foto di gruppo a Varzi. Sotto, a sinistra, Antonio e Monica insieme al partigiano Luigi, con il fazzoletto dell’ANPI della nostra Zona. A destra, “Cicci” presenta la sua produzione di vino e il suo cane Zorro
Varzi Libera
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Uomini del “Reparto Cecoslovacco” sfilano per le strade di Varzi liberata
da anpi.it/voghera
l primo risultato della ripresa partigiana, dopo il rastrellamento dell’agosto 1944 è l’occupazione di Varzi il 19 settembre 1944 iniziano furiosi combattimenti tra fascisti e i partigiani che intendono impadronirsi della cittadina della Val Staffora. la sera del 19 il presidio repubblichino (alpini della divisione “monterosa” ) rinchiuso nei locali delle scuole si arrende. ma gli scontri proseguono per altri tre giorni. i fascisti sparano dalle case cercando di sorprendere alle spalle i partigiani, i quali rispondono al fuoco e riescono a neutralizzare i cecchini. Solo nella giornata del 24 settembre Varzi può dirsi libera. un ruolo decisivo è giocato dal “reparto cecoslovacco”. Sono una trentina di disertori della Wermacht, passati con i garibaldini. il bilancio finale della battaglia parla di una ventina di feriti tra i partigiani. i morti tra i garibaldini sono tre: Angelo Salvaneschi, lorenzo togni, Arturo Albertazzi. A perdere la vita sono anche due civili: giovanni corvetta e laura romagnese. con Varzi libera, inizia l’esperienza della repubblica partigiana, che si concluderà il 27 novembre 1944 sotto l’incalzare del feroce rastrellamento invernale del ’44-’45, che sconvolgerà l’intero oltrepò. Y
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Un nuovo inizio di testimonianza
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le iniziative
BUSSERO - RICOSTITUITA LA SEZIONE
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a sezione ANPI di Bussero, intitolata ad Angelo Barzago, è stata ricostituita, dopo alcuni anni di inattività, il 20 gennaio 2016. Non disponiamo ancora di una sede, ma confidiamo, con il supporto dell’Amministrazione Comunale, di averla quanto prima. Ad oggi contiamo più di 40 iscritti alla nostra sezione. Il Direttivo è così composto: Cristina Roverselli (Presidente), Roland Alikaj, Francesco Beltrami, Paola Magnani, Rosa Sanna, Marco Santandrea, Giulia Viganò
Le nostre priorità: ▪ Testimoniare l’impegno democratico e antifascista dei cittadini di Bussero; ▪ Costituire un punto di riferimento certo per la cittadinanza, con la quale costruire una relazione stabile; ▪ Impegnarsi attivamente per la positiva riuscita delle iniziative e campagne promosse dai livelli provinciale e nazionale, diffondendole e condividendole; ▪ Coordinare la nostra attività con le altre
I nostri riferimenti
cristina roverselli roverselli.mi540@agenziazurich.it roland Alikaj ralikaj@hotmail.com francesco beltrami beltrami_francesco@alice.it paola magnani lamarck2131@alice.it rosa Sanna rosa_sanna@yahoo.it marco Santandrea gisfi@tiscali.it giulia Viganò giulia0508@virgilio.it
sezioni ANPI che operano nella zona (Adda-Martesana); ▪ Cooperare con l’Amministrazione comunale e con le altre associazioni presenti sul territorio per l’organizzazione di eventi che rispondano alle finalità statutarie dell’ANPI; ▪ Dare la più ampia diffusione alla nostra attività; ▪ Coltivare la memoria per costruire il futuro.
I nostri primi progetti: ▪ Dare visibilità alle iniziative ANPI e alla nostra attività e costruire un punto di incontro e discussione con i cittadini democratici e antifascisti di Bussero; ▪ Costruire presso i locali dell’Amministrazione Comunale un luogo che sia testimonianza permanente dell’impegno democratico e antifascista dei cittadini di Bussero; ▪ Impegnarci in una ricerca storica incentrata sugli eventi della Resistenza nella zona della Martesana e in particolare a Bussero; ▪ Impegnarci in una ricerca storica sulla partecipazione italiana alla Resistenza nei paesi esteri, con particolare riferimento ai Balcani. ▪ Impegnarci attivamente affinché l’ormai prossimo referendum sulla riforma della Costituzione abbia un esito rispondente alle direttive stabilite dall’ANPI Nazionale. Ma per realizzarli... Abbiamo bisogno anche della collaborazione e della partecipazione di tutti i cittadini democratici e antifascisti di Bussero. Per questo chiediamo a chiunque sia interessato alla realizzazione dei nostri progetti di mettersi in contatto con noi. In particolare chiediamo a chi fosse in pos-
Altri momenti della biciclettata partigiana del 24 aprile scorso. Seguendo il tracciato del Naviglio Martesana siamo convenuti a Pessano, sostando ai cippi dei caduti per la Resistenza
biciclettata partigiana. La bandiera della sezione di Bussero sfila sulle spalle di Paola (sopra) e nelle mani di Roland (sotto)
sesso di qualunque materiale (lettere, testimonianze, fotografie e quant’altro) sulla Resistenza a Bussero e nella nostra zona e all’attività di cittadini di Bussero nella Resistenza in altre zone d’Italia o estere di contattarci per stabilire assieme come utiY lizzare tale materiale. Marco Santandrea Sezione «Angelo Barzago» di Bussero
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le iniziative
CASSANO D’ADDA GLI HA INTITOLATO UN PARCO
Un nome, per sempre: Silvio Villa U
n primo maggio particolare quello che ha vissuto quest’anno la città di Cassano d’Adda. Una domenica mattina piuttosto fredda e bagnata non ha scoraggiato la presenza dei tanti, cassanesi e non, che si sono ritrovati per la cerimonia d’intitolazione del parco del Dopolavoro alla memoria di Silvio Villa, illustre concittadino. Lo disvelamento della targa siglava il completamento delle opere di ripristino del parco e della struttura del Dopolavoro. Nel salone al primo piano dell’edificio da poco ristrutturato si sono succeduti interventi che hanno reso omaggio alla statura morale e all’impegno inesauribile di Silvio Villa come antifascista (fu internato militare nei lager nazisti, dagli anni ’60 al 2000 fu presidente dell’ANPI
Sul palco del Dopolavoro (sopra), il sindaco Maviglia, i figli di Silvio Villa e Antonio Pizzinato. A destra, lo striscione della Stigler-Otis. In alto, la targa all’ingresso del parco
locale), sindacalista, amministratore comunale (fu anche vice-sindaco). Amava Cassano e ne studiò la storia e le tradizioni. Il sindaco Roberto Maviglia si è definito particolarmente felice della possibilità che si è potuta cogliere di legare il nome di Silvio Villa a quel particolare angolo della città, socialmente significativo e immerso nella bellezza dell’ambiente naturale. Il ricordo delle comuni battaglie sindacali è stato il tema dell’intervento dell’amico Antonio Pizzinato, ex segretario nazionale della CGIL, ex parlamentare e presidente onorario regionale dell’ANPI. Davanti al palco un folto gruppo di ex delegati e lavoratori della StiglerOtis reggevano uno storico striscione del consiglio di fabbrica degli anni ’70. Intervallate ai ricordi di autorità e amici, si sono ascoltate letture scelte a cura dell’Arci Colpo d’Elfo. Gli interventi dei familiari, iniziati con quello del figlio Giancarlo – che sulle orme del padre ne prosegue l’impegno antifascista come attuale presidente dell’ANPI –, si sono conclusi con i toccanti ricordi dei proniY poti Andrea e Anastasia.
Settembre 2016
INZAGO NON DIMENTICA CHI SI SACRIFICÒ PER LA LIBERTÀ
Quintino Di Vona, patriota antifascista
Il professor Quintino Di Vona, ucciso per mano fascista a Inzago il 7 settembre 1944
nella ricorrenza del 72° anniversario del martirio del prof. Quintino di Vona, la locale Sezione Anpi organizza: Giovedì 8 settembre 2016 alle ore 21.00 presso l'Auditorium De André ricorDanDo il ProFeSSor Quintino Di vona rappresentazione musicale e teatrale con il gruppo “la dalia rossa”. Domenica 11 settembre 2016 cerimonia Di commemoraZione Ore 10.00: dalla sede ANPI in via Piola n. 10, partenza del corteo verso il cimitero sulla tomba del prof. di Vona; poi in Piazza Maggiore Discorsi commemorativi davanti alla lapide del prof. Quintino di Vona, con un rappresentante dell’Anpi provinciale. Y
Commemorazione davanti alla lapide in onore del professore (foto enzo mottA)
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il fiore del partigiano
A cosa serve la satira: protestano i licenziati Fiat
Settembre 2016
le idee
I LICENZIATI FIAT DAVANTI ALLA SEDE RAI DI ROMA IN SOLIDARIETÀ AL DIRITTO DI CRITICA
Francesca Fornario è stata allontanata e censurata dai palinsesti Rai per aver adottato la satira nei confronti della politica. La società televisiva ha esplicitamente chiesto alla giornalista di evitare di fare battute sul premier Matteo Renzi nel suo programma Mamma non Mamma che va in onda su Radio Due.
I
di
da il manifesto dell’11 agosto 2016
FranceSca Fornario
eri nei pressi di viale Mazzini a Roma, luogo in cui è situata la sede della Rai, i licenziati Fiat di Pomigliano si sono recati per offrire solidarietà alla giornalista. Nel 2014 i cinque operai sono stati destituiti per aver osato contestare l’azienda depositando, durante le ore di lavoro, un manichino di Marchionne che si impicca davanti ai cancelli della fabbrica. «Protesta dei licenziati Fiat di Pomigliano davanti alla sede Rai di Viale Mazzini a Roma in solidarietà alla giornalista Francesca Fornario». Leggo il comunicato e penso: «È uno scherzo». «Per difendere la libertà di satira e di critica, un operaio si è incatenato alla statua che campeggia fuori da…». Vedo la foto, lo striscione, controllo se non sia un fotomontaggio. Operai. Licenziati. Di Pomigliano. Che srotolano uno striscione davanti alla Rai. Non per chiedere indietro il lavoro. Non per chiedere indietro la casa, che i più hanno lasciato alla moglie che ha lasciato loro, negli anni in cassintegrazione a Nola, mentre a Pomigliano si facevano gli straordinari ogni sabato per produrre automobili e loro no, loro in automobile ci dormivano. Non per chiedere indietro la vita, la loro e quella dei colleghi che hanno provato a togliersela, perché la vita in cassintegrazione al reparto-confino di Nola crolla per «l’effetto domino», lo chiamano così, mimando il crollo di un palazzo con le mani: 700 euro al mese per un lavoro che non c’è più, i soldi che non bastano per pagare la mensa a scuola e l’assicurazione della macchina e allora vai in giro senza fino a quando non ti fermano e ti tolgono la patente precipitandoti nell’illegalità, e allora ti deprimi e ti incazzi e tua moglie ti lascia. Nemmeno, lo striscione, chiede indietro
la vita dei tre di loro che sono riusciti a togliersela. L’ultima, Maria Barbato, cassintegrata a zero ore alla Fiat di Nola, che a 47 anni si è uccisa con tre coltellate al petto lasciando scritto: «Non si può vivere sul ciglio del burrone dei licenziamenti». Lo striscione che si sono portati da Acerra chiede indietro la satira. «Satira Libera. I 5 licenziati Fiat». Mi precipito a Viale Mazzini e li trovo lì, stupiti del mio stupore. Stupiti di vedermi quanto me di vederli. «Ragazzi, ma siete matti? La mia è la guerra del burro, la vostra la guerra vera!». Mi spiegano che è la stessa guerra. Che anche loro hanno perso il posto per aver osato criticare l’azienda, danneggiandone l’immagine. «Sì, ma io me ne sono andata perché non c’erano più le condizioni per…». Che anche a loro è stato impedito di fare satira su Marchionne. «Eh?!». E via con le battute su Marchionne che facevo a Radio2. Marchionne che va a produrre la Panda in Polonia dove gli operai non pretendono di fare la pausa-pranzo. Fino a quando non scopre che lungo il Gange c’è un ashram di fachiri in grado di trattenere la pipì per 36 ore e trasferisce lì la produzione della Panda. Fino a quando non legge su Focus che i macachi delle Filippine sanno avvitare i bulloni… «Noi siamo stati licenziati per aver esposto davanti ai cancelli della fabbrica un manichino di Marchionne che, in preda ai sensi di colpa, si impicca, come ave-
Francesca Fornario davanti alla sede Rai, insieme agli operai Fiat di Pomigliano licenziati
vano fatto tre di noi. Lasciando una lettera in cui chiede che i 316 operai deportati a Nola tornino a Pomigliano, dove ci sono interi reparti vuoti». La satira è l’unico linguaggio che riesce ad arrivare a chi è fuori dalla fabbrica, spiegano. Le cariche le subiamo, ma le prendiamo e basta. Con la satira, invece... Raccontano di quando hanno affrontato i poliziotti con gli scudi di legno. Di quando hanno accolto Renzi vestiti da pagliaccio. Di quando travestiti da fantasmi, come i morti sul lavoro o sulla cassintegrazione. Mi invitano a diffondere l’appello da firmare in vista dell’udienza del 20 settembre, dove si deciderà la loro sorte, con Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Erri De Luca, Luigi De Magistris. Una vita che faccio satira e a cosa serve non l’ho mai saputo spiegare meglio di Mimmo. A fare in modo che tutti si accorgano di quello che ci sta succedendo. Y l’appello da sottoscrivere si trova agli indirizzi: ilmanifesto.info/no-alla-distruzione-deldiritto-del-lavoro-difendiamo-la-libertadi-opinione-dei-lavoratori nolicenziamentiopinione.wordpress.com
il fiore del partigiano
Agnès Heller: l’Europa non è innocente
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Settembre 2016
le idee
LA FILOSOFA UNGHERESE: MURI E FILI SPINATI TORNANO AI CONFINI DEGLI STATI-NAZIONE
«Questa crisi
è un test di esistenza per un continente senza identità politica, dove risorge il bonapartismo dei leader, mentre il nazionalismo ha sconfitto la solidarietà»
D con
da il manifesto del 8 aprile 2016
roberto ciccarelli
diSegno di mArilenA nArdi
a bambina Agnès Heller ha fatto l’esperienza della persecuzione e dello sterminio nazista. L’origine ebraica condannò suo padre, che fu ucciso a Auschwitz nel 1945. Con sua madre lei si salvò per miracolo, nel ghetto di Budapest. L’inizio sconvolgente di una vita: «Ho pensato tutta la vita cosa significa negare a un perseguitato un rifugio in un altro paese – racconta oggi – Se gli altri paesi europei ci avessero dato asilo forse la metà degli oltre 600 mila ebrei ungheresi si sarebbero salvati». Da filosofa, già allieva di Gyorgy Lukacs ha perso due volte la cattedra per le sue opinioni politiche: la prima dopo il 1956, dopo la repressione sovietica della rivoluzione ungherese; la seconda perché criticò l’invasione della Cecoslovacchia e Praga rimase sola. Agnès fuggì prima in Australia, poi a New York dove ha insegnato nella cattedra di Hannah Arendt. Due grandi filosofe unite dallo stesso destino, nello stesso luogo: quello dell’immigrazione, della persecuzione per le idee o per l’origine. Insieme hanno vissuto il paradosso del migrante,: un essere umano protetto dai diritti umani che per essere rispettato deve diventare oggetto di repressione, di controllo o respingimento da parte delle leggi degli stati. Una contraddizione esplosiva nel
cuore della democrazia liberale e dello stato di diritto, prospettive oggi sostenute da questa filosofa ungherese di 86 anni. Oggi c’è qualcosa di peggio dei fili spinati e dei muri che tornano a svettare sui confini dell’Europa dell’Est fino alla Germania: il miscuglio di paure dello straniero, cinismi geopolitici e nazionalismi risorgenti che hanno portato al discutibile e gravoso accordo tra Unione Europea e Erdogan che bloccherà migranti e profughi provenienti dalla Siria (e non solo) in Turchia. Sei miliardi di euro per tenere lontano dall’Europa gli effetti delle guerre, rafforzando un continente che vuole restare una fortezza. «I filosofi non offrono soluzioni, illuminano le contraddizioni» sostiene Heller parlando prima di iniziare una conferenza organizzata dai senatori del Pd ieri nella biblioteca di piazza della Minerva a Roma. Comunque una soluzione viene proposta dalla filosofa: «Fare entrare in Europa chi è in pericolo e in cambio chiedergli l’osservanza della legge e della costituzione – sostiene – Tutti devono potere diventare cittadini e non essere rifiutati». Il problema, tuttavia, resta l’Europa e le sue politiche migratorie. «Sono il frutto di un conflitto tra diritti umani e diritti di cittadinanza – spiega Heller – Le carte dei diritti umani sono finzioni giuridi-
Il ritratto: filosofa radicale della vita quotidiana
nata nel 1929 da una famiglia ebrea di budapest, Agnès heller è stata una delle principali esponenti della «Scuola di budapest», una corrente del marxismo critico che ha ispirato le politiche del «dissenso» nei paesi comunisti dell’europa dell’est. il libro che l’ha fatta conoscere in italia è stato La teoria dei bisogni in Marx e gli studi sull’economia politica e la rivoluzione della vita quotidiana. tra i suoi libri più recenti: La filosofia radicale. Il bisogno di un’utopia concreta e razionale (pgreco); con z. bauman, La bellezza (non) ci salverà (il margine); il classico che ha segnato il suo rapporto con l’italia: L’Uomo del rinascimento. La rivoluzione umanista (pgreco).
che che hanno valore di fatto. I diritti di cittadinanza sono invece fatti che hanno un valore politico. L’universalismo dei diritti umani spinge ad aprire le porte ai rifugiati, senza fare distinzione tra migranti e profughi di guerra. In nome dei diritti di cittadinanza si può arrivare a chiudere la porta usando la motivazione del Welfare: visto che è in crisi, e le risorse sono poche, si sostiene che gli europei non dovrebbero condividerli con chi non lo è. In questo modo salta l’unico legame possibile tra queste prospettive: la solidarietà». Quella che prima era una faglia, ora è diventato un abisso. La crisi economica l’ha squadernato, i partiti xenofobi e nazionalisti intingono il loro pungolo dentro l’inchiostro dell’odio. Heller cita il premier del suo paese, Viktor Horban, il primo ad avere eretto muri e fili spinati sulle rotte delle moltitudini umane che hanno attraversato nell’ultimo anno i confini d’Europa. «Come cittadina ungherese trovo assurdo puntare sull’odio infondato contro gli stranieri, e opporre un «noi» europeo o nazionalistico a un’entità astratta ed estranea identificata con i migranti». Questo è accaduto. Il trattato di continua a pagina 17 ➔
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Come si crea il nemi il fiore del partigiano
le idee
I RESPINGIMENTI DI CHI FUGGE DALLE GUERRE E DALLA FAME NON RISOLVONO NIENTE. E
D
di
da guidoviale.it del 10 agosto 2016
guiDo viale
“SperAnzA” di mArilenA nArdi
al razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo con il latte materno. Lo assorbiamo con l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme spesso inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione. È come con la cultura patriarcale, a cui il razzismo è strettamente imparentato e che riguarda, in forme differenti, sia gli uomini che le donne; che ne sono spesso sia vittime che portatrici inconsapevoli. Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi di manifestarsi. Primo: fastidio. Anch’esso in gran parte inconsapevole, ma più facile da riconoscere. Fatto di mille atti di insofferenza: l’uso, a volte ironico, di termini offensivi; il volgere lo sguardo altrove; la contrapposizione tra «casa nostra» e chi casa e paese suoi non li ha più.
E
sul teleschermo. Ma vediamo anche quanto sia facile scivolare lungo la china della ferocia; e quanto sia invece difficile risalirla in senso inverso. D’altronde la strada che collega volgarità e prepotenza verso le donne, al femminicidio, che in guerra può comportare stupri di massa, schiavitù e stragi, ha una unidirezionalità analoga. L’alternativa tra respingimenti e accoglienza di profughi e migranti – che sta dividendo la popolazione di tutto l’Occidente “sviluppato” in due campi contrapposti, facendo terra bruciata delle posizioni intermedie – dovrebbe indurre a chiedersi quali possibilità di successo abbia il respingimento. Non nel suscitare consenso – qui il suo successo è travolgente – ma nel realizzare i suoi obiettivi. Ma anche se invocarlo non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio. Non sono in gioco solo politica, diritto e convivenza, ma l’idea stessa di noi e degli altri come persone. Innanzitutto respingere, se si riesce a farlo, vuol dire rigettare tra gli artigli di chi ha costretto a fuggire coloro che cercano asilo nei nostri territori; condannarli a inedia, morte, angherie e ferocia da cui avevano cercato di sottrarsi; o, peggio, farne le reclute di milizie e guerre da cui siamo ormai circondati, dall’Africa al Medioriente; o, ancora, affidare il compito di farla finita con “loro” – nella speranza, vana, di dissuadere altri dal tentare la stessa strada – a Stati, potentati o bande criminali che si trovano sulla loro strada.
Accoglierli tutti non
MIGRANTI - L’ITALIA HA BISOGNO DI IMMIGRATI
luigi manconi valentina briniS
di e
Nelle classi svantaggiate ha radici nella competizione, vera o presunta, per spazi, servizi e lavoro. Poi vengono le parole e i gesti aggressivi e discriminatori: l’affermazione di una “nostra” superiorità; le iniziative per escludere, separare, discriminare; le angherie che giustificano emarginazione e sfruttamento con differenze “razziali”. Fin qui la pratica del razzismo è affidato all’iniziativa “spontanea” dei singoli. Poi vengono le azioni organizzate, come i pogrom di varia intensità e la delega alle istituzioni: le angherie contro profughi, migranti, sinti e rom, della polizia o delle amministrazioni locali; le campagne di stampa e media contro di loro; le politiche di respingimento e le leggi discriminatorie. Ma ovviamente non ci si ferma qui. Il grado superiore è trattare profughi e migranti come scarafaggi, il loro confinamento fisico e, alla fine, le politiche di sterminio. Implicite, quando si affida a Stati “terzi” il compito di provvedervi, chiudendo gli occhi su ciò che questo comporta. Esplicite, quando vengono gestite direttamente. La Shoah è stata la manifestazione più aberrante di questa deriva; ma, prima, lo sono stati i massacri del colonialismo e ora lo sono le pulizie etniche delle molte guerre civili del nostro tempo. Una volta la popolazione poteva far finta di non vedere. Oggi le stragi le vediamo ogni giorno
da il manifesto del 2 giugno 2016
se avesse ragione Monsignor Nunzio Galantino, Segretario della Conferenza Episcopale Italiana? I progetti da lui tratteggiati nell’intervista di ieri a Repubblica, rivelano una lungimiranza tale da proporli come concretamente realizzabili. E poco importa se già gli ostili gli attribuiscono la perversa intenzione di «accoglierli tutti», i richiedenti asilo e i migranti economici. D’altra parte «Accogliamoli tutti» fu il titolo di una prima pagina del manifesto di qualche tempo fa e di un nostro libro del 2013. Quest’ultimo recava un sottotitolo («Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati») che motivava la possibile combinazione virtuosa, in base a una sorta di «altruismo interessato», tra interessi dei residenti e interessi dei nuovi arrivati. Non vogliamo, certo, attribuire ad altri, tanto meno al segretario della Cei, capacissimo di parlare in
prima persona e con argomenti ben torniti, le nostre convinzioni: così come non vogliamo ricavare da quanto appena detto da Tito Boeri (che, fino a prova contraria, non è un volontario della Caritas) prove scientifiche di ciò che noi riteniamo utile, e non solamente giusto, per il nostro Paese. E, tuttavia, quando il presidente dell’Inps dice che i contributi previdenziali versati dagli immigrati, e di cui mai usufruiranno sotto forma di pensioni, rappresentano «quasi un punto di Pil», offre un’indicazione preziosa. In altre parole, l’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno dell’Italia: e sono le categorie della demografia e dell’economia a mostrarlo con inequivocabile evidenza. Questo significa, forse, che l’impresa non sia terribilmente ardua? Nient’affatto. In estrema sintesi, la convivenza è possibile, realizzabile, economicamente, socialmente e culturalmente proficua e, tuttavia, assai faticosa e spesso anche dolorosa. Gli ostacoli possono essere enormi, ma nessuno è insormonta-
bile. E, soprattutto, il contrario di questa prospettiva è una utopia regressiva e torva, quella che porterebbe non alla Fortezza Europa – come si augurano i comici Amish padani (e chiediamo scusa agli Amish veri) – bensì a una sorta di «cronicario Europa», senescente e sterile, autarchico e reclinato su sé stesso. Non solo. Quel dato ricordato da Boeri ne richiama altri particolarmente istruttivi: i circa 2 milioni e 400mila lavoratori stranieri regolari producono oltre l’8,8% della ricchezza collettiva del nostro Paese. E si pensi a un altro fattore demografico inesorabile: tra non molto tempo, gli italiani della fascia di età oltre i 65 anni saranno 1 su 4. Con quali conseguenze rispetto al fabbisogno di assistenza e cura (solo in minima parte fornito da autoctoni), è facile da immaginare. Ed è solo un esempio. Tutto ciò in uno scenario dove, nel corso del 2015, hanno sì abbandonato il nostro Paese 91 mila cittadini italiani ma anche 48 mila stranieri già regolarmente residenti.
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coincasa
il fiore del partigiano
Settembre 2016
CREANO RISENTIMENTI
di mArilenA nArdi
è un’utopia
“trAnSito”
Ma respingere è più un desiderio che una possibilità reale: molti Stati da cui provengono profughi e migranti non hanno accordi di riammissione; non sono disposti a “riprenderseli”; non hanno istituzioni e mezzi per farlo. O li usano per ricattare, come fa il governo turco. Per sbarazzarsene bisogna lasciarli affogare. Altrimenti, in Italia e in Grecia, i due punti di approdo, le persone cui viene negata l’accettazione – asilo, protezione sussidiaria o umanitaria, permesso di soggiorno – vengono abbandonate alla strada e alla clandestinità: merce a disposizione di lavoro nero e criminalità. In questa condizione sono già in decine di migliaia. Ma se il resto d’Europa continuerà a mantenere barriere ai confini di questi paesi, non ci sarà altra soluzione che quella di enormi campi di concentramento dove internare centinaia di migliaia di refoulés, senza alcuna prospettiva di uscita. Nessuno ne parla, ma il governo non sta facendo niente per far aprire ai profughi sbarcati in Italia le porte di tutta l’Europa. E poi, dopo i campi di concentramento, cos’altro? Ma mentre le politiche di respingimento infieriscono sul popolo dei profughi, legittimando ogni forma di razzismo, e si moltiplicano le stragi che accompagnano le guerre cosiddette “umanitarie”, non si fanno i conti con il fatto che in Europa ci sono decine di milioni di cittadini europei (oltre quaranta milioni di religione musulmana) legati da vincoli di cultura, religione, nazionalità e parentela, alle vittime dei soprusi perpetrati dentro e fuori i confini dell’Unione. Come si può pensare che tra loro non
maturi una ripulsa ben più forte che quella che proviamo noi? Ma anche, tra molti, soprattutto giovani, la pulsione a “colpire nel mucchio”, come succede a tante vittime “collaterali” dei nostri bombardamenti? È uno stragismo che ha poco a che fare con la religione, ma molto con un senso pervertito di indignazione. Affrontare questi fenomeni senza una politica di riconciliazione (e, ovviamente, di pace) dentro e fuori i confini d’Europa significa promuovere l’apartheid. Ce n’è già tanto, ma la strada da percorrere è ancora molta. Con le politiche di respingimento si fa credere che adottandole potremo mantenere il nostro stile di vita e i nostri consumi, per quanto insoddisfacenti. Invece, che si accolga o si respinga, le nostre vite e le forme della convivenza sono destinate a cambiare radicalmente. Niente sarà più come prima. Y
QUANTO GLI IMMIGRATI HANNO BISOGNO DELL’ITALIA Perché tutte queste cifre che, se analizzate con attenzione dovrebbero ridimensionare sensibilmente quell’immagine di «emergenza epocale» costantemente evocata, non sono sufficienti a rassicurarci? Per tante ragioni, e per una essenzialmente: perché la gestione, così spesso improvvisata e sgangherata dei flussi migratori e, in particolare, degli sbarchi, con l’immenso carico di sofferenza e di emozione che li accompagna, accredita una percezione grottescamente alterata di minaccia e di invasione. Al contrario, e senza alcuna tentazione provocatoria e tantomeno profetica, pensiamo proprio che «accoglierli tutti» (o quasi) sia possibile. Certo, attraverso una politica comune europea, che resta l’obiettivo più difficile da raggiungere; e una politica italiana dell’immigrazione e dell’asilo che si proietti su un arco di medio termine (cinque-dieci anni) con i relativi investimenti e l’adeguata mobilitazione di personale, strutture e servizi. E ancora: mutuando e moltiplicando quelle iniziative – oggi modeste nelle
dimensioni, ma potenti per il messaggio trasmesso – capaci di realizzare canali legali e sicuri per l’accesso in Italia e in Europa, come il corridoio umanitario al quale lavorano la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane e la Tavola Valdese. D’altra parte, una semplificazione e una maggiore duttilità delle norme che amministrano gli ingressi regolari (oggi ridotti a ben poca cosa) e una più intelligente articolazione del mercato del lavoro in grado di accogliere e qualificare tanti lavoratori generici, sottraendoli all’illegalità, potrebbero consentire l’occupazione di settori di manodopera straniera, oggi marginalizzati. Tutto ciò non è una ricetta miracolosa, è un percorso lungo, dagli esisti incerti, ma costituisce la sola alternativa realistica e saggia all’esplosione di laceranti conflitti etnici e alla stessa dis-integrazione dell’Europa. Richiede molto tempo, intelligenza politica e la capacità di sottrarsi alla sudditanza psicologica verso Y gli imprenditori politici dell’intolleranza.
Heller: «L’Europa non è innocente»
➔ segue da pagina 15
Schengen non ha avuto più storia: molti altri paesi hanno chiuso i confini e le paure delle destre sono diventate incendi nelle cancellerie. L’Europa coltivava il sogno di un’entità sovranazionale, ma si è riscoperta un’unione di Stati-Nazione. Horban si è messo all’avanguardia di una delle tradizioni politiche europee: il bonapartismo che diventa un nazionalismo che sembrava non avere più credito. L’Europa non è mai stata innocente. I primi rifugiati, ricorda Heller, sono stati gli europei che fuggivano dalle loro guerre. Dopo la prima guerra mondiale e i primi anni venti la «nazione» – un concetto che ha un passato rivoluzionario – sconfisse l’internazionalismo proletario e le aspirazioni cosmopolitiche della borghesia e generò il fascismo. Heller ha vissuto nel socialismo reale e descrive l’universo concentrazionario dei Gulag. «L’Europa ha sempre definito gli altri come “infedeli”, “selvaggi”, “barbari”, “nemici” o “sottosviluppati” – afferma – Dopo il nazifascismo si è identificata con le sue vittime e ha istituzionalizzato l’universalismo. Oggi è in corso una battaglia sui suoi valori costituenti che mette a rischio la sua stessa esistenza. L’identità europea non può essere data per scontata, oggi più che mai, visto che non suscita entusiasmo». «Questa crisi è un test di esistenza per l’Europa. Se gli stati sceglieranno il bonapartismo e le rivendicazioni nazionalistiche e persino etniche, ai danni dell’universalismo della tradizione repubblicana e federalista, se sceglieranno il nazionalismo al posto della solidarietà, l’Europa resterà un insieme economico di Stati, senza identità politica». E questo può essere Y l’antefatto di un altro inferno.
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Brava gente a Sala Bag
Settembre 2016
il fiore del partigiano
ALLE PORTE DI PARMA, TRA RITUALI DI PSEUDO-SANTERIA, MEDIA DISTRATTI E UN
le storie
Viaggio nei torbidi retroscena in cui è maturato il brutale
È
DI
ANNAMARIA RIVERA
da il manifesto del 26 luglio 2016
un tardo pomeriggio afoso quando passo dal Buddha Bar di Sala Baganza, sulla provinciale verso Parma. È qui, nel locale gestito da Luca Del Vasto, che sarebbe stata preparata la spedizione punitiva – sei contro uno – ai danni di Mohamed Habassi, cittadino tunisino poco più che trentenne. Ricordo che la notte fra il 9 e il 10 maggio lo sventurato è stato seviziato e torturato a morte, in una modesta abitazione di Basilicagoiano, frazione del comune di Montechiarugolo. A distinguersi per ferocia e crudeltà sarebbe stato lo stesso Del Vasto, ideatore del raid mortale, spalleggiato dal suo vecchio amico Alessio Alberici, fumettista di qualche fama locale: un raid compiuto, si dice, al fine di punire la vittima per il mancato pagamento della pigione dell’alloggio di proprietà della compagna di Del Vasto. A.Z., di Sala Baganza, col quale ho parlato a lungo del delitto, mi aveva avvertita: «Qui è come se niente fosse accaduto: il bar è tuttora aperto e assai ben frequentato». E tuttavia, quando ci arrivo, provo un certo turbamento nel vedere sulla terrazza cinque avventori dall’aria più che rilassata e, all’interno, un folto gruppo che fa il tifo per non so quale squadra di calcio, davanti a un grande schermo televisivo. Dietro il banco c’è una giovane donna. Mi avvicino per comprare qualcosa e le rivolgo la parola. «Dunque è ancora aperto il famigerato Buddha Bar!», esclamo, cercando di moderare il sarcasmo. Non lo coglie affatto e mi risponde stupita: «Famigerato? E perché?». «Possibile che lei ignori – le domando – che il gestore di questo bar, forse anche titolare, è in carcere per omicidio aggravato?». La barista non fa una piega: «Ah, si riferisce a quella storia… Non è Del Vasto il titolare, ma la sua compagna. E poi lui è una brava persona: lo dicono tutti». Io obietto: «Le sembra che possa dirsi una brava persona uno che sevizia, tortura e uccide?». Lei minimizza: «Chissà che gli è preso: forse un momento di pazzia. Ma era davvero una brava persona». Poi taglia
corto: «Comunque io ne so poco: sono stata assunta solo un mese fa».
Indulgenti e solidali Questo dialogo paradossale riassume bene il clima descritto da A.Z. Secondo lui, buona parte degli abitanti di Sala Baganza è solidale o comunque indulgente verso Del Vasto, che pure «da molti mesi andava dicendo in giro che avrebbe ucciso Habassi». Un tal clima di quasi omertà – che non è circoscritto a quel comune – è confermato da molti indizi. Anzitutto, come ho già scritto, dal silenzio quasi unanime dei media nazionali (con l’eccezione de La Stampa che il 12 maggio dedicò all’omicidio un pezzo di cronaca a firma di Franco Giubilei, ma senza più tornare sul caso). Anche il tenore che prevale nei commenti in rete è improntato perlopiù alla diffamazione della vittima, all’indulgenza verso i carnefici, alla difesa del buon nome della città e della sua provincia; nonché del sacrosanto diritto alla proprietà privata. E a proposito di provincia: ha ben ragione don Vinicio Albanesi a sostenere – come ha fatto dopo l’omicidio razzista di Emmanuel Chidi Namdi – che la provincia è infida e ipocrita poiché spesso tende a banalizzare, minimizzare, coprire anche gli ambienti più corrotti, fascisti o razzisti. E qualche analogia c’è tra Fermo e la provincia di Parma: entrambe alquanto floride, sicché né il frusto teorema della “guerra tra poveri”, né il deterministico «è colpa della crisi economica» valgono a spiegare la violenza d’ispirazione razzista (che il movente razzista sia palese o non). In particolare, il comune di Sala Baganza – sede di numerose aziende metalmeccaniche e agro-alimentari, sebbene conti poco più di 5.500 abitanti – ha un reddito medio secondo solo a quello di Parma; e il comune di Montechiarugolo, contesto dell’orrendo massacro, nella provincia figura al quarto posto per ricchezza. Delle volte, in provincia, è proprio la rete di relazioni di prossimità (ci si conosce tutti e ci si saluta per strada) a far sì che sia tollerato e coperto quanto di torbido si annida nelle pieghe della società locale. Ricordo che Sala Baganza è stata coinvolta, insieme ad altri comuni emiliani, nella maxiinchiesta giudiziaria della Procura bolognese
Buona parte degli abitanti sembra voler giustificare gli «insospettabili» killer reo-confessi
Protesta antirazzista a Parma in ricordo di Mohammed Habassi (in alto). In basso, “Integrazioni faticose” disegno di Marilena Nardi
sull’infiltrazione della ’ndrangheta. Tuttavia, nella prima fase del procedimento, è stato il primo Comune del parmense a essersi costituito parte civile, ricevendo un risarcimento di 150mila euro. Anche intorno al Buddha Bar e al suo gestore – descritto dai miei testimoni come aggressivo, violento, un po’ perverso – si addensa qualcosa di ben torbido: un mélange d’interessi materiali, nottate nel locale a base di cocaina e spogliarelli, saltuario utilizzo di prostitute, occhiuta sorveglianza mediante telecamere disseminate ovunque e usate, alla bisogna, per intimidire e ricattare. Ma v’è anche l’affiliazione a una malintesa santeria, con relativi sacrifici rituali di animali. Che qualche pratica pregressa su corpi animali possa contribuire a spiegare la meticolosità e la ferocia estrema delle torture inflitte al povero Habassi è cosa che avevo già intuito: la reificazione, fino al supplizio, dei corpi vivi e vulnerabili dei non umani può essere esercizio che rende concepibile e realizzabile la riduzione a cosa degli umani, spinta fino allo scempio dei loro stessi corpi, A.Z. me lo conferma, e con molti dettagli. A iniziare l’entourage di Del Vasto alla “santeria” sarebbe stato un certo Rafael, santero cubano. Secondo A.Z., questa pseudo-santeria era usata anche come strumento di pressione e ricatto verso le dipendenti del Buddha Bar, affinché vi si affiliassero: cosa confermata da alcune ex cameriere. Una di loro mi racconta d’essere stata costretta, con altre due ragazze, ad assistere, a casa di Del Vasto, allo sgozzamento di quattro galline e tre piccioni: avrebbe dovuto essere il rituale della loro iniziazione, cui però le tre si sottrassero indignate e sconvolte, lei dopo aver
anza
CLIMA OMERTOSO
le idee
esterne. «Si poteva chiedere a qualcuno di scendere e intervenire? Si poteva fare di più che telefonare alle forze dell’ordine?», si chiede retoricamente il Nostro. Sì, si poteva: non è da escludere che bussare a quella porta, in molti e tutt’insieme, avrebbe interrotto il supplizio. Ma per il Nostro i vicini di Habassi sono «cittadini coraggiosi». Ed è scandaloso, egli scrive, che dopo il delitto nessuna autorità sia andata «a confortare» gli abitanti del quartiere, «scioccati dal male e dalla cattiveria umana, dalle urla, dal rumore di ossa rotte e poi messi alla berlina». Oltre tutto, i meschini «vorrebbero vendere gli appartamenti, ma nessuno li comprerà»: una vera tragedia, di fronte alla quale sembra impallidire il dramma di Mohamed e del suo bambino, rimasto doppiamente orfano (la madre di Samir è morta lo scorso agosto in un terribile incidente d’auto, ndr).
Gli insospettabili e il balordo Il groviglio d’interessi e lerciume morale, in un contesto ove ha un certo peso la criminalità organizzata, fa apparire ancor più osceno il contrasto, che emerge dalle cronache locali, fra la descrizione dei due principali carnefici come persone insospettabili e perbene, e la rappresentazione della vittima come persona molesta e deviante, nel cui passato andrebbe ricercato il movente. E non è inconsistente il rischio che, nel corso del processo, Del Vasto e il suo sodale riescano ad attribuire la responsabilità dell’esecuzione materiale del delitto ai quattro operai romeni reclutati per il raid. Per fortuna, a Parma e provincia v’è anche un’estesa società civile, consapevole, attiva, impegnata, anche contro discriminazione e razzismo. Perciò c’è da sperare che qualche associazione per la tutela dei diritti dei migranti voglia costituirsi parte civile, così da contribuire a esplorare il verminaio locale, nel quale forse si annida il vero movente del calY vario inflitto a Mohamed Habassi. “integrAzioni fAticoSe” di mArilenA nArdi
Un dettaglio sonoro A rendere più ambiguo il contesto sta un “dettaglio”. S’incarna nel rapper Nicola Comparato, in arte CumbaRat, autore ed esecutore di un paio di pezzi che pubblicizzano il Buddha Bar (commissionati da Del Vasto, si può immaginare). Ma anche del rap che è colonna musicale di «Parma Non Ha Paura», comitato per la sicurezza fondato alcuni mesi fa da Luigi Alfieri, ex firma del quotidiano La Gazzetta di Parma. Il pezzo, dal titolo esplicito di «Parma non ha paura», basterebbe da solo a illustrare quali siano i principali bersagli politici del comitato. Il tema dominante del rap, infatti, è costituito dagli «immigrati»: quelli «pieni di agevolazioni/che rubano nelle abitazioni», recitano due versi sgangherati. Com’è nel suo stile, Alfieri (che di recente ha manifestato l’intenzione di candidarsi a sindaco di Parma) definisce eufemisticamente «antirazzismo realista» quello di CumbaRat. Ma sarebbe sufficiente ascoltare questo rap insieme con l’osceno «Odio tutte le donne» per cogliere a qual campione di sessismo, xenofobia e trivialità si sia affidato Alfieri. Che pure cerca di coprire il suo comitato con una patina di moderazione: per esempio, invece che dure ronde di tipo leghista si organizzano «allegre scampagnate» o «passeggiate del sorriso» nei luoghi del «degrado» e dell’«insicurezza». L’operazione politica di détournement, compiuta da Luigi Alfieri rispetto al delitto Habassi, mostra bene quale sia lo spirito di «Parma Non Ha Paura». Subito dopo l’assassinio e le polemiche, non del tutto infondate, su una certa inerzia dei vicini durante il lunghissimo supplizio, scandito dalle urla laceranti della vittima, egli si schiera nettamente dalla loro parte, dopo aver svolto «un’inchiesta giornalistica». Certo, è del tutto verosimile che – com’egli riferisce – i carabinieri, una volta allertati dalla telefonata di qualcuno, si siano rimpallati la responsabilità con la polizia e viceversa, così che il loro intervento sarebbe risultato, infine, maldestro e tardivo. A tal punto – potremmo congetturare – da risultare fatale per il povero Mohamed, ritrovato morto in una pozza di sangue, dissanguato lentamente da emorragie interne ed
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GLI ALIBI DEL RAZZISMO
omicidio di Mohamed Habassi vomitato per il ribrezzo. Prima del sacrificio, Del Vasto le aveva avvertite che quello dei volatili valeva solo per riti iniziatici. Una volta iniziate, avrebbero partecipato all’immolazione di ben altri animali.
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il fiore del partigiano
L’onnipotenza della paura
C
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da il manifesto dell’8 luglio 2016
aleSSanDro Portelli
hissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà «Devils and Dust»: «ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere – la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere...». È la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossroads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno… È l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati). Era «visibilmente nervoso» e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. A causa di un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro. Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso – condonato, se non sotterraneamente
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Poggioreale, prime crepe nel muro della «cella zero» il fiore del partigiano
Settembre 2016
le storie
LA PROCURA DI NAPOLI INVIA L’AVVISO DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI PER VIO
D DI
da il manifesto del 13 agosto 2016
ELEONORA MARTINI
a lesioni aggravate a violenza privata, da sequestro di persona ad abuso di autorità: è ampio il ventaglio di reati ipotizzati dalla procura di Napoli nell’inchiesta sui maltrattamenti subiti da alcuni detenuti nel carcere di Poggioreale, anche nella cosiddetta «cella zero». Non tutti saranno eventualmente oggetto di una possibile richiesta di rinvio a giudizio, ma per intanto i magistrati hanno recapitato l’avviso di chiusura delle indagini a 22 agenti di polizia penitenziaria e a un medico. Tra venti giorni, preso atto delle controdeduzioni presentate nel frattempo dalla difesa, che conta di poter dimostrare l’«infondatezza» delle accuse, il pm Alfonso D’Avino, che coordina le indagini condotte dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto, deciderà se e per quali reati chiedere il rinvio a giudizio di alcuni o di tutti gli indagati. I fatti risalgono ad un arco di tempo che va dal 2012 al 2014. Fu Adriana Tocco, garante
dei detenuti della Campania, a raccogliere le prime due denunce di maltrattamenti subiti nel carcere che diedero l’avvio all’attuale inchiesta giudiziaria. La prima vittima attese la fine della pena, prima di decidersi a parlare, nel gennaio 2014. «Era un uomo molto mite, sebbene avesse commesso un reato di frode finanziaria – racconta al manifesto Adriana Tocco -, mi raccontò per filo e per segno ciò che gli fece un poliziotto, senza alcun motivo». Da allora sono diventate 150 le denunce di sevizie, maltrattamenti, a volte vere e proprie torture, perpetrate negli anni. Fu così che si scoprì la presenza, a Poggioreale, – in realtà antica di oltre un ventennio, come denunciò per primo, nel 2012, Pietro Ioia, attivista per i diritti dei reclusi e presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani – della cosiddetta «cella zero», una stanza vuota posta al piano terra, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti, dove si sarebbero consumati i pestaggi. Il 28 marzo 2014, poi, una delegazione della Commissione libertà civili del parlamento europeo, dopo aver audito formalmente l’associazione Antigone, ispezionò il penitenziario napoletano. In seguito alla visita, l’allora direttrice Teresa Abate venne trasferita ad
altro incarico, sostituita con l’attuale dirigente, Antonio Fullone, così come il comandante della polizia penitenziaria. «Da allora – racconta ancora Adriana Tocco – non ho più ricevuto denunce di maltrattamenti. Poche settimane fa, a fine luglio, sono stata
COMMENTO DI CARLO SMURAGLIA
N
Il caso Regeni: una questione di principio 5 aprile 2016
on ci sono parole per esprimersi su un caso drammatico e terribile in sé, ma poi aggravato dal comportamento del Paese (o meglio del Governo del Paese) in cui è avvenuto. Non si tratta di omertà ma di peggio. È sorprendente il fatto che le reazioni del nostro Paese siano così formali e così sostanzialmente “timide”. So bene che ci sono molti interessi economici che “consigliano” prudenza, ma si tratta di
cattivi e inaccettabili consigli e di un comportamento incomprensibile. Lo Stato italiano deve farsi sentire, con tutto il vigore necessario; ed è il caso che lo faccia presto e bene. Non è “solo” una questione di umanità, è anche una questione di principio, tanto più grave quando si legge sulla stampa di diversi casi di persone “scomparse” in Egitto e magari trattate come questo povero ragazzo, torturato come solo gli aguzzini più feroci sanno fare.
Ci uniamo all’appello che arriva da tante parti per la verità e la giustizia; non è tollerabile che ci si prenda in giro raccontandoci frottole, quando si tratta della vita e della sorte di un ragazzo, vilmente torturato e ucciso. Facciamoci sentire, tutti, affinché emerga, almeno, la verità, se non anche la giustizia, come sarebbe necessaY rio. Carlo Smuraglia
Presidente Nazionale ANPI
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il fiore del partigiano LENZE A 22 POLIZIOTTI PENITENZIARI E A UN MEDICO
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le idee in visita di nuovo a Poggioreale per accertarmi della veridicità di alcune lettere ricevute dal garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Ho parlato a lungo con i carcerati e ho potuto verificare che quel tipo di violenze sono terminate». «Ci auguriamo – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili». Un rischio concreto, innanzitutto perché dai primi casi di violenza sono già passati quattro anni, ma soprattutto perché, come spiega ancora Gonnella, «in mancanza del reato di tortura, al di là del fatto che possa essere effettivamente stato commesso o meno, vengono ipotizzati reati per i quali sussiste il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità». Motivo per il quale l’associazione Antigone chiede «che non si perda ulteriormente tempo e che a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile per introdurre
L’interno del carcere di Napoli, Poggioreale
nell’ordinamento italiano il reato di tortura». Ma al di là dei reati eventualmente commessi da alcuni poliziotti penitenziari, rimane la questione aperta dell’isolamento, regime disciplinare dove, fa notare Antigone, «più facilmente, possono avvenire violenze» e che «rappresenta una soluzione particolarmente afflittiva che spesso induce i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi». Per questo Antigone ha presentato recentemente una proposta di legge per riformare l’applicazione del regime di isolamento, «invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato a farla loro». Rimane comunque il fatto che la cosiddetta «cella zero» non è contemplata da alcun regolamento penitenziario, e che la sua presenza, all’interno delle mura di molti penitenziari, non solo quello partenopeo, è Y stata negata per decine di anni.
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condiviso, nella cultura delle istituzioni – che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo). E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare «orango» una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) «fa parte del discorso politico» e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere. Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica. E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza. In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che «Black lives matter», le vite nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere. Y
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le persone - la Storia
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Dall’altra parte il fiore del partigiano
IL RACCONTO - SECONDA PUNTATA
8 settembre 1943, a 19 anni il coraggio di una scelta: Aldo Aldi, studente-operaio, parte per il fronte alleato e intraprende il lungo viaggio da Milano a Taranto. Tra rischi, sacrifici e paure, scopre la coraggiosa solidarietà di tanta gente umile
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➔ segue dal numero scorso
ontinuiamo la pubblicazione del breve diario di uno dei tanti giovani che, dopo l’8 settembre 1943, a soli 19 anni, ha saputo scegliere con la propria testa, con il cuore e con coraggio, come lottare contro le prepotenze, le crudeltà dei nazisti e dei fascisti. La sorella, Nella, ha scoperto solo alla sua morte il quaderno in cui vengono narrati - giorno dopo giorno - i sacrifici, le paure, i rischi passati durante i 600 chilometri di strada percorsa per arrivare al fronte, ma anche la solidarietà e il coraggio di tanta buona gente che, nonostante i bombardamenti, i rastrellamenti dei nazifascisti, la paura e i lutti, è sempre pronta ad aprire la porta di casa a chi chiede aiuto. Aldo Aldi combatterà con il reggimento San Marco al seguito degli inglesi, sarà ferito e tornerà a Milano il 25 aprile del ’45. Grande invalido di guerra, ammalato di tbc, dovrà essere ricoverato in sanatorio per tre anni. Terminerà gli studi, si iscriverà ad una scuola di regia e farà a lungo il regista di allora popolarissimi fotoromanzi.
Mi scrutò profondamente, non abbassai gli occhi. Perché mi sarei dovuto vergognare?
Porto Recanati, 2 novembre Nuovamente in una stalla. Dopo la Lombardia, l’Emilia, poi la Romagna e ora le Marche. Brava gente, i marchigiani, riservati ma molto generosi. Ora sono rimasto di nuovo solo. Ad Ancona la linea ferroviaria terminava e bisognava affidarsi alle gambe o a qualche carretto (macchine non ne ho vista nemmeno una) di fortuna. Ad Ancona il mio compagno non ha voluto più proseguire, non so la vera ragione, mi ha detto che preferiva tornare dalla sua fidanzata a Treviso. Comodo! Anch’io avrei preferito Lory a questo viaggetto, ma se fossi ritornato avrei avuto vergogna di me stesso. Ho trovato Ancona martoriata dai recenti bombardamenti; distruzioni, scene pietose e guardie repubblicane, ecco quello che mi ha colpito di più. Proseguendo, ho voluto evitare la strada nazionale, ho attraversato la città e mi sono arrampicato per una strada secondaria fino a San Pietro la Croce. Questa strada scala il monte Conero costeggiando il mare e sovente vi si trova a strapiombo, offrendo dei colpi d’occhio incantevoli. «Italia, sei bella!» mi veniva di mormorare con un sospiro, «sei bella e soffri tanto». La giornata era splendida e il mare con tonalità che arrivavano dall’azzurro cupo al verde smeraldo. Ho fatto tutta la salita senza accorgemene, c’erano molte persone con le spalle cariche di suppellettili che sfollavano da Ancona. Poi giù, a saltelloni fino a Numana. Mendicai senza vergogna
un pezzo di pane, che mi fu dato di buon grado da una famiglia di contadini, bianco e ancora caldo; sarà stato quasi un chilo e lo divorai vicino ad una fontanella. La cordialità di quella gente, quel pane caldo, l’acqua limpida della sorgente e il sole che risplendeva come a primavera mi parvero buoni auspici e mi misero di buon umore. Di tedeschi nemmeno l’ombra. Poi giù ancora a livello del mare, su una spiaggetta tutta sassolini rossi, e lo costeggiai fino a Porto Recanati. Avevo coperto trenta chilometri. Ero soddisfatto e i piedi non mi dolevano molto, ma ero conciato da far paura. “Se mi vedesse Lory!”, pensavo, “Le scarpe mi sembra che resistano bene”. Incominciava ad imbrunire e, per paura che il buio mi cogliesse per strada, mi diedi da fare per cercarmi un giaciglio. Chiesi ad una masseria, due chilometri oltre il paese. Era una casa colonica molto grande, con quattro pagliai (segno che coltivavano molti campi) dipinta di rosso, a destra della strada. I contadini stavano tornando dai campi e rinchiudevano i buoi nella stalla. Chiesi del padrone; era un omone grande e grosso che fumava un pipone più grosso di lui. Mi scrutò profondamente, non abbassai gli occhi. Perché mi sarei dovuto vergognare? Ora loro erano tranquilli e sereni, rientravano stanchi dopo molte ore di lavoro e trovavano una zuppiera fumante, la sposa coi figli ad attenderli sotto il tetto. Se io ora sono un fuggiasco, lo faccio per salvaguardare la loro tranquillità; indirettamente domani, se mi sarà data la fortuna di poter combattere contro quei cani di tedeschi e fascisti, io salverò le loro terre dall’occupazione straniera. Appena ho chiesto da dormire, ho notato come un attimo di sospensione ai lavori, per un breve istante ho sentito tutti gli occhi convergersi su di me, due bambini si erano aggrappati ai calzoni dell’omone, che si era tolta la pipa di bocca e mi guardava con una strana espressione; poi fece un cenno ad una ragazzina che sparì di corsa in casa. Intuii che avevano capito. Dopo mezz’ora mi trovavo nella stalla, seduto su un aratro con un’enorme zuppa di fave e un bastone di pane. Intorno a me cinque o sei famigliari mi guardavano mangiare come incantati. È il giorno dei morti e nelle Marche usano, in questo giorno, la zuppa di fave. Mentre mangiavo, ho notato che una donna si asciugava gli occhi e mormorava qualche cosa in un dialetto che non capivo. Poi ho dovuto raccontare la mia storia. Ho chiesto loro se era possibile continuare per l’Adriatica o se c’era pericolo di essere catturati dai tedeschi. «Potete continuare», risposero, «ma farete bene ad evitare i paesi». Ora questo letto di paglia, dopo una notte insonne nella stazione di Falconara e trenta chilometri di montagna, mi fa l’uomo più felice della terra. Anche qui un lumicino ad olio, ventiquattro buoi giganti e topi. Ma potrò dormire bene e al caldo. A Porto Recanati un bando dice pressappoco così: «Chiunque darà vitto, alloggio, o aiuterà in qualunque modo fuggiaschi e badogliani, sarà punito secondo la legge marziale tedesca».
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il fiore del partigiano Pedaso, 3 novembre Pescara dista da Ancona esattamente centocinquanta chilometri. Ne ho percorsi settanta in due giorni e fra altri due giorni conto di arrivarci. Non mi sento quasi stanco, incomincio ad abituarmi ai lunghi percorsi. L’Adriatica è una strada magnifica, un nastro d’asfalto che da Padova si snoda fino a Bari e, cominciando da Rimini, costeggia sempre il mare. Attraversa paesini bianchi, giardini, pinete, e lungo il suo percorso qua e là sono disseminate ville di ogni tipo e di ogni gusto. Deve essere molto bello percorrerla come turisti in stagione propizia e in tempi buoni. Il tempo si mantiene buono, il cielo completamente sereno e il sole brilla durante tutto il giorno. La bellezza che mi circonda contribuisce grandemente a mantenere il mio animo tranquillo, sebbene non sia completamente privo di preoccupazioni. Il pensiero che maggiormente mi turba è quello di incappare ad ogni curva nella bocca… del lupo. Sembra abbandonata, questa regione; ho provato a percorrere svariati chilometri senza incontrare anima viva. Solo diverse carcasse di macchine bruciate lungo i margini della strada stavano a testimoniare l’attenta continua sorveglianza dei caccia inglesi lungo la costa. La ferrovia, che divide la strada dalla spiaggia, è interrotta in svariati punti, parecchi vagoni ormai non mostrano al sole che i loro scheletri. Questi sono i segni della guerra, per il resto calma, calma assoluta e qualche volta sconcertante, che fa pensare ad un tranello. Ma i paesi e le masserie sono abitati e, verso l’interno, i contadini lavorano. Brava gente, dal cuore d’oro, tutte le famiglie si assomigliano; se chiedo loro un pezzo di pane, non rifuggono mai dal darmi anche un piatto di minestra. Il mio stato non lascia loro dubbi sulle mie intenzioni. Oggi a Porto Recanati mi hanno detto che due uomini mi precedevano ed avevano la mia stessa meta. Questo mi consola, chissà che non li raggiunga? Questa mattina sono partito alle sei da Porto Recanati, i contadini che mi hanno ospitato mi hanno fatto un sacco di auguri e mi hanno dato un bastone di pane «per dopo». Dalla strada vedevo verso l’interno Loreto con il santuario della Madonna, ho pregato perché mi aiuti. Un primo ostacolo si è presentato al fiume Chienti. Qui il ponte della strada era stato gravemente danneggiato e una compagnia di borghesi, prelevata dai paesi vicini, vi stava lavorando sotto la sorveglianza di qualche tedesco. Io rimasi coperto alla loro vista dalla curva della strada, e chi mi avvisò fu una bambina che da Porto Civitanova aveva portato da mangiare al padre. Sono disceso lungo l’argine boscoso fino alla foce del fiume (a quattrocento metri dalla strada) e lo passai a guado, senza nemmeno togliermi le scarpe, col cuore che mi saltava dal petto. Andò bene, poco dopo non udivo più i comandi rudi e il rivangar delle pale. Proseguii senza altri incidenti fino a Pedaso. Ora sono in un magazzino di frutta; ho fatto una scorpacciata di fichi secchi e ne sto mangiando ancora; buonissimi, bianchi e teneri; una delizia. Ho avuto buon naso a scegliere l’Adriatica. Però qui non ci sono i buoi che riscaldano, e fa fresco, ma i contadini sono stati tanto buoni da darmi una trapunta. Una lampada a carburo illumina l’ambiente. Che strano destino, il mio! Chi l’avrebbe detto solo qualche mese fa che oggi sarei stato a Pedaso in un magazzino fra ceste di mele e di fichi a scrivere queste pagine? Ora penso che se questo diario mi venisse trovato addosso, nel caso (Dio non voglia) che io venga acciuffato, costituisce un elemento decisivo perché si chiuda la mia vita. Ma non voglio lasciarlo; i miei figli dovranno leggerlo un giorno, quando avranno la mia stessa età, e forse solo allora si saprà che anch’io ho scritto un diario.
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I contadini mi hanno offerto delle indicazioni preziose. I tedeschi sono nell’interno, non possono stare lungo la costa perché sarebbero allo scoperto e perché i caccia rivelerebbero facilmente tutti i loro movimenti. Scendono ogni tanto a far retate di uomini ed animali, e guai a farsi cogliere in quei momenti. Ho chiesto informazione sugli abruzzesi, perché domani entrerò nella loro regione. Mi hanno risposto che è gente buonissima. Meno male. Ora mi posso permettere una ricca pipata, dopo due giorni di completa astinenza (che tortura). I contadini mi hanno dato delle foglie di tabacco che ho tagliato a pezzetti. Penso a Lory, chissà se qualche volta penserà a me?
Giulianova, 4 novembre Abruzzo, terra forte e gentile. Razza fiera e generosa. Dalle Marche, l’Adriatica entra nell’Abruzzo fra un trionfo di verde, e una doppia fila di pini la costeggia continuamente. Tra questi pini ho percorso ancora quaranta chilometri. Nessun incidente, tranne il passaggio a guado del Tronto. Incomincio a risentire della fatica, sono stanco, la barba lunga mi fa male e gli occhi mi bruciano. Le scarpe incominciano ad andarsene, ho dovuto sostituire le stringhe che non tenevano più con della corda, ma non importa. Non importa se tutte le notti devo dormire vestito, con la giacca per guanciale e il cappotto per coperta, non importa se i pantaloni cominciano a lacerarsi in fondo e le maniche della giacca a mostrare la camicia nei gomiti. Basta arrivare, e sono già a buon punto; il fronte non è che ad un’ottantina di chilometri. Stanotte sono ancora in una stalla.
Montesilvano, 5 novembre Bisognerebbe fare un monumento d’oro a tutta questa gente, per tutto quello che fa per noi. Già, ora siamo in tre, sdraiati su dei soffici materassi in una camera di una casa miracolosamente rimasta incolume fra le altre del paese distrutto, completamente raso dai Ho dovuto bombardamenti. Un lume a petrolio mi fa luce mentre scrivo, gli altri due dormono già prosostituire le fondamente. stringhe che non È stata una giornata piena di ansie e le difficoltà ora incominciano a farsi sentire veratenevano più mente. Partenza da Giulianova alle sei. Ero a poche centinaia di metri da Roseto degli con della corda, Abruzzi, quando una donna mi venne incontro ma non importa correndo per la strada, trascinandosi un ragazzo per mano. «Signirì, signirì, li tedeschi! Fuggite, fuggite!» Capii al volo di cosa si trattava: una delle solite crudelissime retate. Non ebbi il tempo di riflettere molto, saltai un fosso e mi buttai a corsa pazza attraverso gli orti e i cespugli verso il mare. Sulla spiaggia vi erano una decina di barche, fra queste un motopeschereccio. Mi nascosi sotto la poppa di questo e attesi trepidando. Dal paese mi giungevano urli di donne, pianti di bimbi e voci concitate di uomini. Tra queste, la solita imperiosa voce tedesca. Maledetti! Un pescatore mi salvò. Un uomo di una sessantina d’anni, piccolo, abbronzato e rugoso. Lo chiamavano così mi ha detto lui - zì Mincuccio. Zì Mincuccio mi spinse in una baracca e, senza che avessi tempo di fiatare, mi tramutò in un pescatore fatto e finito. Scalzo, di mio solo la camicia, un paio di calzoni strappati che mi arrivavano al ginocchio, una papalina in testa e due remi in spalla. Avvolti i miei indumenti nel cappotto, mi imbarcai col mio continua a pagina 24➔
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le persone - la Storia
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uomo che non proferiva parola. Mi disse solo che i tedeschi quel giorno avevano invaso l’Adriatica fino a Pineto. Era necessario fare una decina di chilometri via mare. Pensavo che Dio mi avesse mandato quel vecchio. Quando mi sbarcò a Silvi, l’avrei abbracciato dalla riconoscenza. lui brontolò qualcosa stringendomi la mano, accese la pipa e si allontanò remando lentamente. Costeggiai per un lungo tratto la spiaggia (mi ero cambiato prima di toccare terra) per paura che i tedeschi fossero ancora sulla nazionale. Camminando così, con le onde che quasi mi toccavano le scarpe, mi tornò alla mente l’estate del ’40 al Lido di Venezia, le passeggiate con Lory lungo la spiaggia e avrei pianto di nostalgia. Quanto era lontano! Ero quasi giunto a Montesilvano, quando mi imbattei in due straccioni seduti lungo il margine della strada. Capii subito chi fossero, né loro si meravigliarono nel vedermi: ero uno straccione anch’io come loro. Ci siamo stretti la mano commossi, e quindi, abbastanza allegri, siamo giunti qui, dove un tempo esisteva un paese chiamato Montesilvano, a dieci chilometri da Pescara. Potevamo giungere a Pescara prima che facesse buio, ma sapevamo cosa significava, Pescara. Era l’ultima città prima del fronte, la zona pullulava di tedeschi che facevano razzia di ogni cosa e trascinavano i borghesi nell’interno dove stavano facendo fortificazioni. Pescara incominciava a vivere in quei giorni il martirio della guerra, si sottoponeva inerme alle barbarie dei tedeschi che l’avevano minata per metà. I cittadini erano costretti ad andarsene (dove?) con le poche suppellettili che riuscivano a trasportare. La gente che ci ospita, una famiglia benestante, ci ha detto tutto questo. Abbiamo saputo che il ponte sul fiume Pescara, che immette alla città, è completamente minato e che le sentinelle poste su di esso hanno l’incarico di non lasciare entrare ed uscire nessuno dalla città, a meno che non siano forniti di documenti comprovanti la loro residenza in essa. Non so come faremo noi a passare. Per questo ci siamo fermati a Montesilvano, capitare a Pescara al buio per noi significava l’arresto e poi… Da dove siamo noi (a dieci chilometri da Pescara) si odono gli scoppi delle mine fatte brillare dai tedeschi. Preludio del fronte.
«Fuggo dai tedeschi, per favore, un posto per dormire». Mi fece entrare subito
In una casa di contadini, 6 novembre Ho passato Pescara! È il primo vero grande ostacolo che sono riuscito a superare, e sono rimasto ancora solo. Se sono riuscito a passare, devo ringraziare il naviglio di Gorla che mi ha visto sguazzare nelle sue acque quando ero bambino e dove ho imparato a nuotare. Siamo partiti da Montesilvano alle cinque e abbiamo proceduto cautamente fino in vista di Pescara. Qui ci siamo fermati a consultarci. Uno sfollato ci ha tolto dai nostri pensieri. Ci ha insegnato la strada che dovevamo percorrere per giungere ad un traghetto con cui ci sarebbe stato possibile attraversare il fiume. Non ci garantiva, però, che questo traghetto ci fosse ancora. Ci siamo incamminati per la strada indicataci, cioè non proprio una strada, bensì un sentiero largo tre metri che si inerpica sulle colline della periferia di Pescara. Ad una svolta ci siamo incontrati con un tedesco, il mio cuore ha dato un tuffo e devo essere impallidito, non ho visto le facce dei miei compagni perché venivano dietro, ma per fortuna non accadde nulla. Il tedesco tirò dritto, dopo essersi voltato più volte, però. Tuttavia in quel sentiero non mi trovavo più abbastanza sicuro, preferii abbandonarlo e, strappandomi pelle e panni tra cespugli e boschetti, ridiscesi e raggiunsi l’argine del fiume alla ricerca del traghetto, il quale, secondo le indicazioni, doveva essere ottocento metri circa alla nostra destra, incominciammo a
risalire il fiume lungo l’argine fitto di vegetazione e di canneti. Avevamo percorso quattrocento metri, quando ci colpì la vista di un edificio situato a mezza costa della collina, ai piedi della quale scorreva il fiume. Sulle terrazze dell’edificio due sentinelle tedesche facevano servizio. Che fare? Se avessimo continuato, ci avrebbero visti. Decidemmo di attendere l’imbrunire. Attendemmo così nascosti quasi tre ore, poi ci avvicinammo cautamente fino all’altezza delle sentinelle che ora si distinguevano confusamente. Da qui, camminando a quattro gambe lungo il canneto, passammo sotto il loro naso. Per percorrere in quel modo duecento metri abbiamo impiegato un’ora! Il cuore mi batteva a più non posso e mi sembrava persino che le sentinelle dovessero udire quel “tum tum”. Ogni tanto mi fermavo col fiato sospeso per ascoltare; nulla, poi avanti, piano piano. Ci fu un momento, quando un mio compagno urtò una canna con un piede, che credetti fosse giunta la fine: quello scricchiolio mi era sembrato un frastuono. Eravamo infangati fino al collo! Siamo giunti così, dopo tante fatiche, al luogo dove presumibilmente doveva esserci il traghetto. Niente, solo le tracce di quello che una volta doveva essere il pontile d’imbarco. Non ci pensai due volte: «Io passo a nuoto» dissi ai miei compagni. Essi mi guardarono sconcertati: non sapevano nuotare! Ma io ormai ero in quello stato d’animo in cui non poteva resistermi nulla (mi era capitato altre volte anche a Milano), tutti i miei nervi erano tesi all’azione; sapevo che se non avessi passato Pescara quella volta non l’avrei passata più. Era ormai buio e in cielo c’erano già le stelle, dove sarebbero andati quei due diavoli? Dove sarei andato io? Non mi interessava, sapevo solo che dovevo passare. Incominciai a spogliarmi, battendo i denti, faceva un freddo cane. Rimasi in mutandine, avvolsi gli abiti nel cappotto e legai tutto con la cintura. Scesi lentamente in acqua, badando bene di non fare rumore. I miei compagni mi porsero i panni che ressi con un braccio levato. Nuotai sull’altro fianco lentamente, producevo soltanto un leggero sciacquio, ogni tanto cambiavo braccio e mi lasciavo trasportare per brevi tratti dalla corrente. L’acqua mi sembrava tiepida in confronto alla temperatura dell’aria. Dopo dieci minuti ero sull’altra sponda. Appena uscito mi sembrava di gelare, buttai le mutandine, mi asciugai sfregandomi duramente con l’argentina(1) e mi rivestii rapidamente. Solo il cappotto si era un poco bagnato in un angolo. Imboccai il primo sentiero, senza saper dove sarei andato a finire; non riflettevo più, avevo il cuore stretto dall’angoscia e dall’orgasmo, avevo anche paura. Dopo il freddo subentrò uno strano torpore, somigliante per tutto alla febbre. Passai in questo stato, camminando imprudentemente tra boschetti e prati, due colline. Finalmente mi apparve l’ombra di questa casa, potevano esserci dei tedeschi, ma poco fa non ci pensavo. Non ne potevo più. Bussai e un vecchio socchiuse la porta, capii che temeva visite dei tedeschi. «Fuggo dai tedeschi, per favore, un posto per dormire». Mi fece entrare subito e tre donne si affaccendarono intorno a me. Non mi chiesero nulla, badavano solo che mi scaldassi e mangiassi. Mangiai vicino al caminetto. Quel fuoco e quella gente ospitale mi ridiedero tutto il coraggio e tutta la forza. Ora però ho molto sonno. Vorrei addormentarmi e sognare Lory, la mia mogliettina, la mia Butterfly. Ma forse sono un Pinkerton meno fortunato, lei non aspetterà il mio ritorno, forse avrà già rivisto Franco e a me non rimane che contemplarla in questa fotografia. Odo ancora i colpi delle mine, maledetti loro, non la finiranno mai! Presso San Vito Chietino, 7 novembre Gli ostacoli si susseguono incalzanti. Questa mattina mi sono
Dal nome della Repubblica sud-americana dell’Argentina. Maglione a giro collo, di lana o cotone, con maniche lunghe dall’attaccatura larga; in origine usato dagli sportivi, poi divenuto di uso comune. 1
il fiore del partigiano rimesso in cammino alle sei. Il tempo si mantiene buono. Incominciai con l’orientarmi. Mi trovavo a un paio di chilometri oltre Pescara e verso l’interno, sulle colline, ad una altezza di circa trecento metri. Queste colline fertilissime sono dei costoni paralleli fra loro e perpendicolari al mare; aumentano di altezza dalla costa verso l’interno, fino a congiungersi con la spina centrale degli Appennini: come la resca di pesce. I dorsi sono coperti da boschi di quercia o di acacia, sul fondo di quasi tutte le valli scorre un ruscello di acqua buonissima. Si somigliano tutti. Mi misi in cammino, salendo e scendendo questi colli, tra i boschi dei quali mi sentivo sicuro. Le scarpe si erano sfasciate e ho dovuto legarle assieme con del fil di ferro, le calze le avevo gettate già da qualche giorno. Passai al largo di Francavilla al Mare, a venti chilometri da Pescara e mi diressi verso Ortona. Il fronte non era più che a venticinque chilometri! Ormai non potevo più passare davanti a una masseria (ed erano tante) senza che i contadini mi chiamassero per darmi da mangiare, per darmi da bere, per farmi scaldare vicino al fuoco e riposare. Appena passavo, capivano («Ne passano tanti» dicevano, «poveri figli di mamma») e mi domandavano immancabilmente: «Signuri, ’u venite?», «Dall’altra parte», rispondevo io. E mi erano attorno in cinquanta e volevano sapere tutto, volevano che raccontassi tutto il mio viaggio, interrompendo spesso il racconto con sospiri ed esclamazioni. Le donne piangevano spesso, specialmente quelle che avevano i figli lontano, e mi dicevano che facevano questo con la speranza che qualche altro facesse altrettanto con il loro figliolo. Scene commoventissime che non sono capace di descrivere. Era la solidarietà di tutta quella gente per i perseguitati, per gli infelici, i colpiti da quella tragedia immane che in quelle terre si andava vivendo. Era la guerra che stava per passare, la guerra con tutte le sue brutture rese ancora più infami dalle barbarie e atrocità tedesche. Famiglie intere venivano fatte sgomberare con poche suppellettili dalle loro case e dalle loro terre, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Dove se ne andavano questi poveri disgraziati? Se non ubbidivano, era la morte sul posto, senza pietà per nessuno. Era una via crucis per quelle famiglie. Incontravo spesso lunghe teorie di gente di ogni età, cariche di fardelli, che se ne andavano verso l’interno: donne veramente eroiche seguivano i loro uomini in quella condanna, i bambini più piccoli non si rendevano conto di nulla e balbettavano in braccio ai fratelli più grandi, molti vecchi preferivano morire dove la terra da generazioni veniva coltivata da gente del loro stesso sangue. E quegli infelici venivano ospitati, senza che lo chiedessero, da altre famiglie che ancora avevano la loro casa, dividevano il pane e la pizza senza imprecare, rassegnando il loro destino nelle mani del Signore. In una casa dove sono capitato erano ben sessanta persone fra donne, uomini, vecchi e bambini; eppure se avessi chiesto un pezzo di pane e un posto per dormire, ci sarebbe stato anche per me. È la prima volta che mi imbatto in gente così generosa, così buona, è davvero la solidarietà del bene contro il male. Resto alquanto discosto dall’Adriatica, verso l’interno, perché è infestata di tedeschi che fanno saltare i ponti, le linee ferroviarie a scartamento ridotto, i porti di Pescara e Ortona e interrompono le strade. Le retate di uomini (ogni tanto qualche contadino porta le notizie) sono frequenti, vengono portati via come si trovano e spediti chissà dove. Le case vengono scoperchiate per asportare le travi, al fine di costruire trincee e fortificazioni, così pure i mobili e i materassi. Ecco cosa fa il “popolo più civile del mondo”!
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Settembre 2016
A mezzogiorno, mentre mangiavo in una masseria, i contadini mi dissero che sarebbe stato quasi impossibile passare Ortona, e volevano a tutti i costi che mi fermassi con loro fino all’arrivo degli inglesi. Ma gli inglesi erano fermi al di là del Sangro e chissà quando si sarebbero mossi. Preferii proseguire. Ero quasi all’altezza di Ortona quando, dal colle dove ero io, vidi sul colle di fronte, parallelo a questo, un grande movimento di truppa. Là sopra passava una strada secondaria che conduceva ad Ortona, tutte le masserie erano occupate dai tedeschi, parecchi dei quali erano intenti a stendere fili telefonici. Già, come mi avevano detto i contadini, era quasi impossibile passare, senonché questa volta fu un pastore che conduceva un grosso gregge a togliermi dall’imbarazzo. Appena lo vidi gli chiesi se si poteva arrivare a San Vito Chietino proseguendo diritti. Scosse il capo e poi, indicando con il bastone i miei vestiti, disse: «Così no». Dovevo sembrare veramente un individuo molto sospetto, sembrava che quella gente mi leggesse in fronte le mie intenzioni. Mi condusse a valle, dove in una profonda incassatura della roccia, scavata nel tufo, vi era una piccola grotta, l’imboccatura della quale era coperta di rami intrecciati. Dentro, poca paglia, una ciotola di latte, due o tre forme di formaggio, diversi bastoni di pane scuro e un sacchetto di fichi secchi. Mi disse che non era il solo a vivere in quel modo, ma che ormai famiglie intere si erano scavate delle grotte e vivevano con la speranza di sfuggire ai tedeschi. «Bisogna pur fermarsi in qualche posto ad aspettare gli inglesi», mi diceva, «se si continua ad andare indietro, come ordinano i tedeschi, non andrebbe a molto che si morirebbe tutti di fame e di freddo». E si arrangiavano così: li cacciavano di casa in casa, sistematicamente, e loro avevano pensato alle grotte. Vi avevano portato tutto quello che avevano potuto, dai viveri al tabacco, ed ora attendevano la liberazione rintanati come bestie. Domandai al pastore come mai osasse girare di giorno con tutto quel gregge, e lui mi rispose che ormai gliene avevano portato via più di un Domandavano: quarto e siccome non aveva di che rinchiuderlo o nasconderlo, tanto valeva che lo por«Signuri, tasse a pascolare. Sembrava rassegnato, ma ’u venite?», chissà quanto doveva soffrire! Quello era tutto il suo capitale. Trasse di sotto la paglia un «Dall’altra mantello strappato e logoro, un cappellaccio nero a larghe falde e un paio di stivaloni di parte», gomma sgangherati. Mi disse che dovevo inrispondevo io dossarli. Questa volta la mia trasformazione non richiese molto tempo, infilai i pantaloni, infilai gli stivaloni sopra le scarpe, mi tolsi il cappotto che arrotolai legando le maniche per tenerle insieme e finalmente, imbacuccato nel mantello, con il cappellaccio che mi scendeva sugli occhi, diventai un perfetto pastore. Con un bastone ricavato da un ramo di quercia mi accostai al gregge. Il mio uomo andava avanti; passammo da una piccola gola senza essere disturbati, e io mi sforzavo di recitare la mia parte nel miglior modo possibile, del resto non era difficile. Giunsi così in vista di San Vito. Era quasi buio. Lasciai, ringraziandolo, il pastore e mi diedi da fare per cercare da dormire. Ho trovato in questa piccola casetta, dove abita da solo, un vecchietto arzillo e vivace che si chiama zì Nicola. Ora sto scrivendo vicino al fuoco del caminetto, mentre lui sembra assorto in profondi pensieri. Domani dovrò rendermi conto della situazione di questi luoghi. Y continua nel prossimo numero
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Brigata nera a Piazzale
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il fiore del partigiano
le storie - la Storia
IL 10 AGOSTO 1944 LA STRAGE DI QUINDICI PATRIOTI PRELEVATI ALL’ALBA DAL CAR
Ora si conoscono i nomi di chi dette l’ordine e di chi sparò
L
ALFONSO AIRAGHI SAVERIO FERRARI
da il manifesto del 10 agosto 2016
DI E
a fucilazione, all’alba del 10 agosto del 1944, di quindici patrioti antifascisti a ridosso di una staccionata in Piazzale Loreto a Milano e lasciati a terra sotto il sole, vilipesi e oltraggiati dai fascisti fino a sera, impedendo ai parenti di avvicinarsi, suscitò un così forte sdegno nella popolazione che fu alla base della decisione successiva della Resistenza di esporre nello stesso piazzale i corpi di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi della Repubblica sociale italiana fucilati a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945. Ripercorriamo brevemente l’antefatto e le fasi dell’eccidio. Alle 8,15 dell’8 agosto 1944 due bombe collocate da persone rimaste sconosciute fecero saltare un autocarro tedesco in sosta dalle tre del mattino in viale Abruzzi all’altezza del numero 77, causando il ferimento dell’autista, il caporalmaggiore Kuhn Heinz, e la morte di alcuni passanti italiani. L’attentato non fu mai rivendicato, né fu mai citato nei resoconti dell’attività dei Gap (Gruppi di azione patriottica). A seguito di questo attentato il colonnello Von Goldbeck, capo del comando militare tedesco a Milano, e il capitano Theodor Saevecke della Sd (Gestapo), progettarono una rappresaglia. Verso le cinque di mattina del 10 agosto 1944 quindici prigionieri furono prelevati dal carcere di San Vittore e fucilati in Piazzale Loreto. I tedeschi, una volta di più decisero in modo unilaterale, disprezzando l’alleato fascista, ridotto a mero esecutore dei loro ordini. Molto ormai si conosce riguardo le responsabilità di chi ordinò la rappresaglia. Quasi nulla invece in relazione a chi compose il plotone di esecuzione e materialmente fucilò.
La Ettore Muti e la brigata nera Il controspionaggio partigiano indicò da subito nei fascisti della Legione Ettore Muti i responsabili materiali dell’eccidio. La responsabilità della Muti fu confermata da due sentenze della Corte d’Assise Speciale di Milano, una del 20 luglio 1946 e l’altra del 23 maggio 1947. Il 20 luglio 1946 comparve davanti ai giudici milanesi Pietro Petit, ex milite della Muti, imputato di collaborazionismo, di aver partecipato a rastrellamenti di partigiani, nonché di aver fatto parte del plotone di esecuzione di Piazzale Loreto. Fu la moglie, Giuseppina Zoppis, a denunciare il Petit. Inizialmente per maltrattamenti. Poi confessò che ricevette dal
Aligi Sassu, “Martiri di Piazzale Loreto”
marito la confidenza della sua partecipazione alla fucilazione. Egli naturalmente negò, ma nel corso del dibattimento riferì cose che poteva aver appreso solo dai suoi commilitoni. Disse che quella mattina in Piazzale Loreto erano presenti un «tale Griffanti» e due sergenti, Dalla Valle e Ragno, e che quest’ultimo in particolare si vantava di aver preso parte all’eccidio. Il Petit fu assolto per insufficienza di prove. La seconda sentenza del 23 maggio 1947 fu emessa contro Vittorio Rancati, Giacinto Luisi, Luigi Campi, Diego Benedetti, Silvio Borghi, Giovanni Villasanta e Franco Cattaneo, accusati di aver ucciso il patriota Eraldo Soncini che tentò di sottrarsi con la fuga alla fucilazione di Piazzale Loreto. Tutti gli imputati appartenevano alla Brigata Nera Aldo Resega Gruppo Oberdan che aveva sede in Via Cadamosto 4 a Milano, eccezion fatta per il Benedetti Diego che era invece capitano della Guardia Nazionale Repubblicana. Dal testo della sentenza si apprese che, dopo che i quindici martiri furono fatti scendere velocemente dal camion che li aveva trasportati dal carcere di San Vittore, uno di loro, il Soncini, approfittando dello sbandamento generale tentò la fuga. Immediatamente fu inseguito da un gruppo di fascisti composto da uomini della Muti e della Brigata Nera, tra cui il Luisi e il Campi, che incitati dal maggiore Vitali, spararono ripetutamente contro il malcapitato che, colpito a morte, cadde di fronte al portone di ingresso dello stabile di Via Palestrina 7, dove il Luisi senza alcuna esitazione lo finì con una scarica di mitra.
La Corte condannò Giacinto Luisi e Luigi Campi alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena, Vittorio Rancati alla pena di dieci anni, Giovanni Villasanta a otto anni, assolse Diego Benedetti per non aver commesso il fatto, mentre per i restanti imputati decretò «il non doversi procedere». Poi tra condoni, amnistie e nuovi condoni i due principali imputati, ossia il Luisi e il Campi si videro ridotta la pena a tredici anni di cui tre di libertà vigilata.
L’armadio della vergogna Nel 1994, a seguito di reiterate richieste del Procuratore militare Antonio Intelisano, incaricato di preparare l’estradizione dell’ex capitano delle Ss, Erich Priebke, furono rinvenuti casualmente 694 faldoni riguardanti stragi compiute da nazisti e fascisti in un armadio della Procura militare di Roma in Via Cesi. L’armadio che si trovava in fondo a un corridoio aveva le due ante rivolte verso il muro e Franco Giustolisi che per primo ne scrisse, lo chiamò «Armadio della vergogna». Quando il 19 giugno 1999 l’ex capitano delle Ss Theodor Saevecke fu condannato quale mandante della strage di Piazzale Loreto, si seppe dell’esistenza del fascicolo 2167 dell’Ufficio procedimenti penali contro criminali di guerra tedeschi aperto dalla Procura generale militare del Regno, conservato in quell’armadio. Nello stesso si menzionavano come imputati il «Gen. Von Tensfeld, Col. Rauff, Capitano Saevecke», ma anche «il Col. Pollini», nonché il «Capitano Cardella, Confalonieri, Manfredini Parti lese: Principato Salvatore, Galimberti Giovanni e altri 13. Fatti di Milano (Piazza Lo-
Loreto
il fiore del partigiano
CERE DI SAN VITTORE
Sepolti al Campo 10 Il capitano Pasquale Cardella fu processato contumace assieme a molti altri della Muti, e condannato a morte nel 1947 dalla Corte d’assise di Milano per l’uccisione di alcuni patrioti e per sevizie. Non fu mai rintracciato risultando disperso. Il sergente Renato Griffanti morì dalle parti di Vercelli in uno scontro a fuoco con i partigiani nel febbraio del 1945, mentre i sergenti Lamberto Dalla Valle e Santo Ragno finirono i loro giorni uccisi a Milano tra l’aprile e il maggio 1945. Questi ultimi tre furono sepolti al Campo 10 del Cimitero Maggiore, dove sono state progressivamente raccolte le spoglie di quasi un migliaio di caduti repubblichini, tra loro anche alcuni voY lontari nelle Ss.
UN’INSEGNANTE SCRIVE AGLI STUDENTI
le idee
reto) del 10 agosto del 1944». Per la prima volta quindi comparirono i nomi di alcuni italiani: il colonnello della Gnr (Guardia nazionale repubblicana) Pollini, il capitano Cardella della Legione Muti, la guardia carceraria Manfredini e l’agente italiano della Sd tedesca (Gestapo) Confalonieri. Tra gli atti degli interrogatori condotti nell’aprile del 1946 dallo Special Investigation Branch figuravano – tra gli altri – quelli riguardanti i citati Petit, Campi e Borghi. Da questi documenti si ebbero nuove rivelazioni che oggi ci permettono di far maggiore chiarezza su cosa accadde il 10 agosto 1944. Alle quattro del mattino i militi della Brigata Nera furono svegliati e condotti in Piazzale Loreto, dove vennero messi a controllare le vie che vi confluiscono. Poco dopo arrivarono i fascisti della Muti, della Gnr e dell’Aeronautica Repubblicana e tutti insieme presidiarono la zona. Infine giunse un autocarro tedesco con a bordo i quindici patrioti che vennero fatti scendere e fatti addossare a una staccionata di legno con le spalle rivolte al plotone d’esecuzione. A questo punto il Soncini tentò la fuga con l’esito che si è detto, mentre gli altri vennero falciati dagli uomini della Muti comandati dal capitano Pasquale Cardella che lesse velocemente la condanna e ordinò il fuoco. Quindi quella mattina sul luogo dell’esecuzione erano presenti: gli uomini della Brigata Nera e gli uomini della Gnr con compiti di «ordine pubblico», alcuni avieri, e i militi della Muti che eseguirono la fucilazione ordinata dai tedeschi rappresentati dal sergente delle Ss Anton Heininger, che insieme a un altro soldato tedesco, tale Jarsko avevano «l’obbligo di riferire al capitano se la fucilazione di alcuni detenuti civili italiani aveva avuto luogo o meno».
Lezione d’antifascismo
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Settembre 2016
C
da il manifesto del 3 giugno 2016
are ragazze e cari ragazzi, l’anno scolastico volge al termine, eppure sento il bisogno di scrivervi perché vi ho sempre considerati soggetti di diritto e mai semplicemente studenti. Mi rivolgo a voi perché questo, dopo tanti anni d’insegnamento, è il mio modo naturale di situarmi nel mondo, perché è a voi che ho cercato di trasmettere, nel tempo, quel senso permanente di scomodità che consiste nel non sentirsi mai a proprio agio, nell’avvertirsi sempre un poco fuori posto o, come sosteneva Adorno, nell’interpretare la forma più alta di moralità non sentendosi mai a casa, nemmeno a casa propria. Non ho mai avuto quel pudore che induce buona parte degli insegnanti a rimanere dietro un’impenetrabile coltre, in nome di una presunta neutra «professionalità». Sono sempre stata – oggi direbbe qualcuno – «politicamente scorretta». D’altronde vi ho sempre insegnato che non esistono narrazioni fattuali oggettive, ma che dietro ogni narrazione c’è una soggettività che rimanda a un preciso orizzonte valoriale. La memoria è oblio, direbbe Le Goff: quando ricordiamo, facciamo selezioni. Dietro i «non-detti» ci sono i nostri «detti». Provate a scrivere la vostra biografia in dieci righe e scoprirete che dietro la vostra narrazione si nascondono tagli e amnesie più o meno consapevoli perché nessuna narrazione potrà mai espungere la soggettività, nemmeno nella scuola delle «competenze». E se è vero che ogni nostro atto è implicitamente espressione dell’intera personalità di chi lo compie, comunque, con voi, mi sono sempre dichiarata apertamente: «ragazzi, la vostra insegnante, prima di essere insegnante, è antifascista». In questa dichiarazione, declinata in una specie di patto d’aula, era ed è compresa la mia assunzione di responsabilità e di tensione morale nei vostri confronti. Era ed è un modo per ri-orientare l’azione didattica verso uno sforzo comune di giustizia, un impegno collettivo volto a realizzar-ci attraverso e non contro l’altrui dignità, fuggendo così dal rischio delle ovvietà e delle sclerotizzazioni. (…). Nel continuo fare riferimento ai valori della Resistenza e dell’antifascismo, volutamente sono stata con voi anti-commemorativa, poco ieratica, laica, fedele alla lezione di Calvino. Ho inteso la Resistenza come «educazione in atto», come processualità in corso, mai come agiografia. Non mi sono mai piaciute le celebrazioni, né i «tre minuti di silenzio» dopo il suono della campanella: sono troppo museali, servono, ma solo apparentemente, a emendare coscienze. La moralità nasce dal conflitto, non dalla pa-
ralisi, né dalle pacificazioni o dalle omologazioni. Non possiamo sottrarci a una storia comune, ma possiamo e dobbiamo discernere. Eppure, è inutile nasconderci – lo avverto incrociando lo sguardo di qualcuno di voi – quell’azione didattica, declinata sul «paradigma antifascista», sembra oggi un pezzo di antiquariato. Certo, quel paradigma da troppo tempo è in crisi. E a questa crisi hanno magistralmente contribuito la pretesa di una pacificazione fondata sull’indistinzione, la smobilitazione delle coscienze critiche, l’atteggiamento bulimico nei confronti della memoria, che ha aperto la strada alle memorie in concorrenza e al revisionismo, rendendo tutto uguale e, dunque, tutto neutro. E mentre tutto ciò accadeva, nel subconscio dei meno attenti, passava, senza particolari azioni di contrasto, l’idea di essere parte di un progetto globale declinato su nuovi leaderismi. Nel frattempo, mentre si consumava il processo di sdoganamento del fascismo, le parole cambiavano di senso e gli antifascisti diventavano gli «antagonisti»: una mutazione genetica che si ricapitola all’interno di ciò che Calvino avrebbe efficacemente definito «antilingua». (…). L’antilingua è ciò che ci allontana dal senso, dalla familiarità, dai fondamenti. Così stiamo perdendo lo status di antifascisti e stiamo diventando gli antagonisti, i perturbatori, i destabilizzatori, almeno per le vestali del dettato di J. P. Morgan e dei liquidatori a buon mercato delle Costituzioni antifasciste. Non è stato poi così difficile partorire questa mostruosità: l’antifascismo, in questo paese non si è mai costituito quale reale nervatura della nostra memoria collettiva. (…). Il risultato è che, a colpi di revisionismo, abbiamo superato anche le omologazioni tra vittime e carnefici: i nuovi fascisti che fanno marcette su Roma diventano i «bravi ragazzi» e gli antifascisti diventano gli «antagonisti», con tutta la carica semantica di negatività che il termine comporta per i media mainstream. Chiudo questa lettera, cercando di neutralizzare l’amarezza con una bellissima metafora di Bloch: «il bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Io continuerò, per quanto mi sarà possibile, a fare l’orco. Continuerò a interpretare il mestiere d’insegnante sollecitandovi a non agire mai in nome di un presunto «Befehl ist Befehl» e, a settembre, quando incontrerò nuovi studenti, per prima cosa dirò loro: «ragazzi, la vostra insegnante, prima di essere insegnante, è antifascista». Y Patrizia Buffa insegnante al liceo «Girolamo Fracastoro» di Verona
Questo è stato
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il fiore del partigiano
le storie - la Storia
Settembre 2016
Vita di Piera Sonnino, unica superstite di una famiglia ebrea genovese di otto persone, sterminata dal nazismo. Il ritorno, il dolore del ricordo, la necessità della memoria
➔ segue dal numero scorso
Mi chiamo Piera Sonnino
IL RACCONTO - QUINTA E ULTIMA PARTE
U
da Diario del mese del 24 gennaio 2003
na sera, al ritorno in baracca, una sorvegliante venne a leggere un elenco di nomi: dapprima tutti ungheresi e poi due italiani. Uno di essi era quello di Maria Luisa. L’ordine di raggrupparsi fu così brusco che Maria Luisa dovette correre. Pensammo che l’attendessero ore di lavoro notturno e ci angosciammo per lei, già stanchissima della lunga giornata. Al mattino, al risveglio, eravamo certe di rivederla da un momento all’altro. Anzi, aprendo gli occhi, contavamo di ritrovarla al nostro fianco rientrata nella stessa notte. Alla sera Bice e io non vedevamo l’ora di giungere nella stalla. Maria Luisa non c’era. Un’ungherese ci fece comprendere che era partita con le altre dirette a un campo lontano dal nostro. Bice e io quella sera piangemmo abbracciate, disperatamente.
Dopo la partenza di Maria Luisa, Bice cominciò a peggiorare. Piangeva spesso e si lamentava. Andava perdendo le forze a vista d’occhio. I suoi diciotto anni parevano essersi contratti, quasi accartocciati, come una foglia d’albero, staccata verde, nella polvere al sole. Andava divenendo sempre di più una creatura senza età, pallida di quel pallore bianco, quasi cartaceo, dei «subumani». Era divenuta esile, si muoveva con lentezza, come se ogni gesto le costasse infinita fatica. Fino a quando ci fu Maria Luisa eravamo in due ad aiutarla: poi rimasi sola. Rimasi sola a trascinarla lungo la strada che conduceva al lavoro, sola a difenderla dalle sorveglianti, sola nel tentativo di evitarle le maggiori fatiche, sola a sforzarmi di trattenere in lei la vita. E anch’io mi scoprivo a compiere il gesto più elementare come se fosse terribilmente complicato e faticoso. Mi scoprivo senza più carne, pelle tesa sulle ossa. Ciò che più mi riusciva di fare era di starle accanto, di non perderla mai di vista. Soffrivo alla sera perché dormivamo separate. Bice in mezzo alle ungheresi, a fianco di un traliccio di legno che un tempo aveva contenuto una stufa o arnesi da lavoro, e io addossata a una parete della stalla. La sera del 13 gennaio Bice si lamentò più del solito sulla via del ritorno. La dissenteria era continua, inarrestabile; non esisteva posizione che la diminuisse almeno per un attimo. Sul lavoro, per la strada, sulla paglia. Quella sera mia sorella, dopo la prima cucchiaiata di broda, ebbe un conato di vomito, respinse la gamella e andò a gettarsi sul suo putrido giaciglio. Le rimasi vicina fino a quando le ungheresi non mi ordinarono di filare via. Avevo intenzione di rimanere desta per udire se Bice si lamentava, ma ero così spossata che caddi subito in un sonno profondo. All’alba, come al solito, le sorveglianti ci destarono urlando e agitando i bastoni. Accorsi presso Bice: aveva gli occhi aperti e fissava
il soffitto. Ebbi la sensazione che non avesse dormito. Tentai di sollevarla perché si alzasse. Le sorveglianti sul piazzale davano già l’avviso dell’appello. Bice cercò di agevolare il mio sforzo, ma ricadde pesantemente. La spronai. Fu inutile. Corsi disperata fuori dalla stalla. Una sorvegliante mosse minacciosamente il bastone verso di me. Piangevo e gridavo per farle comprendere che Bice stava troppo male per poter lavorare quel giorno. La sorvegliante si gettò su di me come una furia. Mi picchiava e io continuavo a gridare, mi batteva sul capo, sul volto, sul petto, e io continuavo a piangere, a gridare, non avvertivo il dolore delle percosse, non sentivo nulla, non ne ho traccia in me, ho soltanto l’angoscia che provavo nella previsione che non fossi riuscita a farmi capire, che la sorvegliante entrasse nella stalla e battesse anche Bice. Riuscii ad afferrare la donna per un braccio e a trascinarla verso la stalla. La sorvegliante finì per intuire ciò che dicevo. Si chinò su Bice, le dette una rapida occhiata, poi, dopo un moto di disgusto, mi cacciò fuori. Mia sorella rimase stesa sulla paglia mentre io, incolonnata con le altre, andavo a lavorare. La giornata fu di una lunghezza lancinante. È difficile trovare parole per descrivere come la misura del tempo sia semplicemente una convenzione: come esista dentro di noi un tempo che può restringersi e dilatarsi all’infinito sfuggendo a ogni metro. Quando venne la sera ero più spossata dall’attesa che dalla fatica. Bice era nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata al mattino. Vicino a lei vi era una gamella piena a metà di broda e un pezzo di pane. Appena mi vide entrare mi indicò l’una e l’altro con un piccolo cenno del capo. Aveva la testa avvolta nel suo cappuccetto blu. La guardai e ansia e speranza per un attimo mi cozzarono dentro. Bice aveva il volto disteso, gli occhi quasi limpidi. Le chiesi come stava. Per la prima volta, dopo molti giorni, mi rispose che stava benissimo. Chiesi a un’ungherese il permesso di dormire accanto a mia sorella. Non ebbi neanche risposta. La donna cadde quasi di schianto sul proprio giaciglio e chiuse gli occhi. Cercai di resistere al sonno. Sapevo che non avrei dovuto dormire. Ma la stanchezza era più forte della volontà. Il sonno era soltanto un rapidissimo chiudere e aprire gli occhi. La notte, dalle tenebre all’alba, durava un attimo. Mi destai al grido delle sorveglianti. Bice era immobile ancora con gli occhi aperti in quella strana fissità. La paglia sotto di lei e attorno a lei era marcita per la dissenteria. Con un filo di voce insistette a dirmi che stava benissimo. Pareva avesse raggiunto uno stadio in cui non c’era più sofferenza. Al termine dell’appello mi prosternai dinanzi alla sorvegliante che il giorno prima mi aveva battuto, le chiesi che mi facesse rimanere accanto a mia sorella. Ripetevo la parola «morte», la sola che avessi appreso in tedesco. Ero inginocchiata dinanzi a quella donna, col
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lorenA munforti
capo piegato fino a toccare con la fronte la terra. Il bastone si abbatté mentai. Mi destai all’improvviso oppressa da una sensazione di tersulle mie spalle e avvertii una fitta al petto. Mamma, mamma..., rore. L’alba era vicina. Chiamai la signora Foà, la pregai di andare chiamavo. Mamma, mamma... aiutami. Bice sta morendo, fa che a vedere come stesse Bice. La signora si alzò a fatica, ancora assonquesta donna capisca, che abbia un briciolo di umanità. Ero ancora nata. Scavalcò il corpo delle altre donne che, nel sonno, si lamentacurva così, prona a terra, quando udii il passo della colonna che si vano e raggiunse il giaciglio di Bice. Si sporse su di esso e rimase un attimo immobile. La vidi stendere una mano per toccare mia soallontanava. Corsi come una pazza accanto a Bice. Bice non mi chiese neppure il motivo per cui non ero andata a la- rella. Chiusi gli occhi. Mamma, mamma... imploravo. La signora vorare. Le presi la mano e gliela strinsi. Un poco più tardi pensai che Foà mi tornò vicino e mi posò una mano sul capo. È morta, disse sarebbe stato bene ripulire il suo giaciglio e lavarla. L’afferrai con con un soffio. amore sotto le ascelle e stavo per sollevarla quando un lungo ran- Accanto a Bice assistetti al levarsi di un grigio giorno di neve. Nel tolo mi paralizzò. Distesi nuovamente Bice e le ripresi la mano. Ri- corso della mattina una «kapò» venne a chiedermi le generalità di masi così tutto il giorno, senza muovermi, senza parlare, con Bice. Annotò tutto con estrema diligenza su di un registro. Se l’assurda speranza di trasmettere calore e vita a quel corpo. Sapevo ciò che stava per accadere, ma non volevo crederci. continua a pagina 30 ➔ Bice era l’ultimo solido frammento del passato che mi rimaneva. Avvertivo con crescente paura i sempre più lunghi periodi di assenza della mia mente, gli abbandoni frequenti, la volontà di vivere sempre più fievole. Conoscevo quei sintomi perché spesso altre ne avevano parlato e sapevo che cosa significassero. Ma finché Bice fosse rimasta con me io sapevo anche che non mi sarei lasciata sopraffare. Ma erano rapidi lampi quelli che si accendevano in me per la mia sorte: ero troppo assorbita in quella di Bice. Rivedevo mia sorella bambina, la sorprendevo ancora una volta a crescere seria e tranquilla come la nostra mamma, incapace di manifestare un qualsiasi risentimento e di nutrirlo, buona. Bice era il frammento di un passato di ansie e di paura, ma anche di affetti. Andavamo a scuola assieme e ci chiamavano «le sorelle carciofo», un nomignolo che qualche volta ci faceva ridere. Carciofo perché eravamo punte e aculei. Dicevamo alle compagne di classe: ci piacerebbe invitarvi a casa, ma come possiamo fare? Abbiamo tutto all’aria. Stiamo facendo ordine. Un ordine che, per essere fatto, aveva bisogno di un intero anno scolastico. Se qualcuna insisteva diventavamo, senza volerlo, sgarbate. La cattiva sorte di mio padre e poi, dopo il 1938, il suo tracollo e il suo precoce invecchiamento e noi, sue figlie, a sforzarci di distrarlo, di ridestargli lo spirito allegro di un tempo: mille e mille immagini della nostra casa, della nostra famiglia, erano attorno a me e a Bice quel giorno. E forse Bice non le ricordava come immagini ma le viveva come realtà. Forse lei era tornata a casa da un lungo viaggio e aveva bussato alla porta e mamma era andata ad aprire e noi tutti le eravamo andati incontro per abbracciarla e baciarla. Nessuno di noi parlava di la deportazione e il ritorno. Il 20 ottobre 1944 la famiglia Sonnino persecuzioni, di fughe, il cielo era azzurro e la giunge a Bolzano. Erano partiti 24 ore prima da Genova. luce azzurra e verde irrompeva dal giardino della nostra casa. Giorgio ballava con Bice e noi Il 23 ottobre inizia il viaggio verso Auschwitz, che dura quattro giorni e quattro notti. All’arrivo, i genitori Ettore e Giorgina vengono inviati battevamo le mani e Bice non ricordava più ciò alle camere a gas. All’arrivo muore probabilmente anche Paolo, che era accaduto. E neanche di essere partita e il figlio maggiore. Dopo un mese circa, le tre sorelle Sonnino vengono di essere tornata. Una lacuna del tempo si rinportate a Belsen, dove rimangono, senza lavorare, un altro mese. chiudeva, se ne saldavano i lembi scacciandone Da Belsen, insieme ad altre tre italiane vengono portate nella città il male, e per Bice forse la vita riprendeva dagli di Braunschweig, dove dormono in una stalla e lavorano alle macerie anni in cui i messaggeri dell’incubo non erano della città. Ai primi di gennaio 1945, Maria Luisa viene portata ancora arrivati fino a noi. Forse per questo Bice a Flossenbürg, dove morirà il 20 marzo. Dopo Braunschweig, mi rispondeva di stare benissimo e rimaneva Piera Sonnino viene portata in una fabbrica sotterranea di Bendorf. sdraiata senza più lamentarsi e col volto, bianco Caricata su un treno, dopo 10 giorni di viaggio, viene liberata come la carta, disteso. il 9 maggio 1945 ad Amburgo. Quando tornarono le ungheresi fui costretta a Tratteggiato in bianco il ritorno, che toccherà di nuovo Belsen, lasciare mia sorella. Io mi vergogno di scriverlo, Merano e Cortina e finalmente, dopo cinque anni e mezzo, Genova. ma anche quella sera, nonostante avessi impeÈ il 21 settembre 1950. gnato tutte le mie forze per resistere, mi addor-
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le storie - la Storia
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n’andò senza dare un’occhiata a quel corpo senza vita. Nel pomeriggio vennero a prendere il corpo di Bice. Lo portarono fuori dalla stalla e lo depositarono su una panca accanto alla porta della latrina. Nevicava. Gettarono su mia sorella un sacco che le coprì a mala pena il ventre appiattito. Il volto, nella corona blu del cappuccetto, rimase esposto alla neve e così le mani e le gambe. L’indomani mattina, prima dell’appello, nell’ora in cui ci era consentito andare nella latrina, passai accanto a Bice. Vi ripassai la sera e l’indomani e poi la sera e ancora il giorno dopo e un altro giorno ancora. Dopo quattro giorni ben poco emergeva più di Bice dalla neve. È da quel momento che i miei ricordi si fanno confusi, staccati, impersonali. Il subcosciente li trattiene come un male che cova dentro di me. So che dovrei liberarmene ma non ne sono capace. Non sono capace di farli riaffiorare alla coscienza.
Mi rammento che alla fine di marzo con la signora Foà, la signora Noemi Jona, l’ebrea di Trieste e un gruppo di ungheresi fui trasferita in un altro campo. *Si tratta di A Berndorf*. Non sono sicura che sia questa Bendorf Am Mein, l’esatta dizione del nome: è un nome che ho nelle vicinanze udito senza averlo mai veduto scritto. A di Koblenz Berndorf vi era una fabbrica sotterranea di accessori per aeroplani. Nelle gallerie l’aria era mite, faceva caldo; dopo il gelo sofferto durante i lavori alle macerie di Braunschweig, quel tepore ci accolse come un’estate. Ne ho un ricordo animalesco, come di un godimento cui la mente non partecipò in alcuna misura. La signora Foà fu addetta a un turno diverso dal mio. Rimasi con la triestina: due italiane tra centinaia di ungheresi. La triestina aveva un aspetto spaventoso tanto era magra. Ricordo che una sera parve cedesse e rinunciasse a vivere. Quando ciò accadeva la morte era vicina. Mi si strinse accanto e mi sussurrò all’orecchio che era stata arrestata a causa della sua matrigna che l’aveva denunciata. Bisogna che mio padre lo sappia, ripeteva. Bisogna che lo sappia. L’indomani si destò smarrita e riprese la solita esistenza. Dopo qualche giorno scomparve. Non la vidi più. In quel periodo, in un banale incidente, mi si ruppero gli occhiali. Fu come se divenissi cieca. Il mondo si restrinse attorno a me. Si trasformò in forme nebbiose ed evanescenti, ovunque minacce e pericoli. Ero sola e cieca. Nella mia mente a questo punto vi è un vuoto che non tento neppure di colmare perché so che sarebbe impossibile. Il vuoto si interrompe. Siamo incolonnate e attraversiamo Berndorf in una corsa pazza. Ci spingono su un vagone. Ne rinchiudono la porta. Il treno si muove. Non ho il senso della direzione. Ancora una volta mi manca. Quando il treno si ferma e la porta viene riaperta intravedo confusamente alcune di noi prendere dei corpi e farli rotolare giù. Il fatto si ripete sovente. Mi desto su qualcosa di morbido e di duro a un tempo. Tocco. Sono gambe, è un ventre, è un letto. Un volto. Gelido. Ho dormito su una morta. Ancora vuoto. Cori di grida come lunghi e impetuosi ululati di vento. Da ora in avanti non so più se le immagini della mia memoria si riferiscono a frazioni di realtà – l’intera realtà non è pensabile che possa essere stata registrata – o ad allucinazioni. Il convoglio si arresta ancora una volta, bisogna scendere, aiutare chi non può scendere: due ungheresi mi prendono per le braccia, scorgo poco distante la massa confusa delle compagne ammassate su uno spiazzo, riprendo coscienza e mi trovo bocconi con la bocca nella polvere, la sete mi tormenta, mi anno 1959. guardo attorno, lo spiazzo è diventato una piaTre immagini nura senza confine, sono sola, mi alzo gridando di Piera. Qui sopra terrorizzata e comincio a correre, una botte d’acè con Maria Luisa, qua piovana, mi chino a bere, l’acqua è sporca, nata l’8 agosto mi assilla la paura che possa farmi male, ma con1959, e Bice, nata tinuo a bere, poi riprendo a correre, un muro diil 4 maggio 1954. nanzi a me, una baracca, qualcuno che mi
distende su un pagliericcio e poi più niente. Anche i ricordi dei giorni successivi sono confusi. Dal pagliericcio sul quale ero distesa scorgevo attraverso i vetri di una finestra pile di casse e divise kaki, mi arrivava all’orecchio un vociare confuso, rombi di motori sovrastavano all’improvviso ogni altro rumore, rombi che rimanevano a lungo nella mia mente. Avevo il corpo dolorante e la febbre altissima. Ero incapace di qualsiasi movimento e di qualsiasi pensiero. Avvertivo al mio fianco, nella stessa baracca, la presenza di altre donne ma non potrei dire chi e quante erano. Il velo di incoscienza si squarcia allorché una voce mi annuncia che l’indomani sarò trasportata all’ospedale. Il terrore mi squassa: urlo. Non voglio andare all’ospedale. So che cosa significa andare all’ospedale. Non voglio essere gasata. Tento di alzarmi per dimostrare che sto benissimo. Posso lavorare, certo che posso, sto in piedi, agito le braccia, non ho bisogno di cure. Perdo nuovamente la consapevolezza di me e del tempo. Un’altra immagine: l’indomani. Due uomini entrano con una barella e si dirigono verso di me. Ricomincio a urlare. Mi afferro ai bordi del pagliericcio, alle lenzuola. Non sono malata, mi sento benissimo. Mi sento forte. Non sono mai stata così ricca di energie. Per pietà, risparmiatemi. I due uomini mi sono vicini. Chiamo la mamma, Roberto, Paolo che mi vengano a difendere, perché impediscano a quei due di portarmi via. Ho l’impressione di lottare come una belva per difendere la mia vita e invece i due uomini mi sollevano senza alcuno sforzo e mi caricano sulla barella. Continuo a urlare. Tutti i miei sensi sono dolorosamente acutizzati. L’autoambulanza corre. Un’ampia scalinata. Corsie bianche. Un letto. Cado ancora nell’incoscienza. Una mano fresca sulla fronte. Riapro gli occhi. Un’infermiera è curva su di me. «Come stai?», mi chiede in italiano. Il primo mio pensiero è nuovamente percorso da scariche di terrore. «Sto benissimo. Posso lavorare. Mi faccia alzare. Vado subito al lavoro». L’infermiera non comprende. Ricordo il suo viso chino quasi a toccare il mio. «Ti ho chiesto come ti senti!». Scoppio a piangere. «Lei è italiana come me», singhiozzo, «la prego mi faccia andare via di qui. Mi faccia tornare in baracca. Posso lavorare. Non voglio essere gasata». Gli occhi dell’infermiera si dilatano. In quel torbido crepuscolo della mia mente li vedo diventare grandi, enormi. Pieni di pioggia. Due braccia mi stringono e un petto accoglie la mia testa rasata, il teschio che è il mio viso. L’infermiera comincia a parlare. Ogni sua parola mi riporta lentamente alla vita. Siamo al 17 maggio, mi dice. La guerra è finita da nove giorni. Qui sei nell’ospedale di Altona, ad Amburgo. Ci sei entrata il 9 maggio. Tento di scuotermi. No, dico, è impossibile. La guerra non è finita. Mi dica la verità, non m’illuda. Mi dica che devo morire piuttosto. L’infermiera mi accarezza il capo. La guerra è finita, insiste. Mi lascia un attimo: ritorna con sigarette, cioccolata, biscotti americani, me li sparge sul letto. Comincio a ridere. Brava, applaude l’infermiera, così. Così. Guardati attorno. Guarda che pulizia. Stamattina sembravi sveglia quando i medici sono venuti a visitarti. Di’, che forse i tedeschi ti manderebbero tanti medici? Ci credi ora che la guerra è finita? Io rido, ci credo, ci credo. Fatemi alzare. Fatemi tornare a casa. Forse i miei sono già in viaggio per l’Italia. I miei. Una nube. L’infermiera mi dà qualcosa da bere. Sta’ tranquilla adesso, mi sussurra. Cerca di dormire. Sei malata. Molto malata. Ma non morirai e potrai tornare a casa. Come i tuoi. Il 26 agosto, grande giornata. Con altri italiani lascio in barella l’ospedale di Amburgo. L’infermiera viene a salutarmi. Tra un paio di giorni sarai a casa. Un treno ospedale ci attende in stazione. Il convoglio parte quasi subito. Un’oscura e profonda felicità mi pervade e quasi alimenta la speranza di ritrovare i miei. La mente è ancora così debole che dico i miei e penso a tutti: papà, mamma, Roberto, Giorgio, Maria Luisa, Bice... Anche Bice. Solo a tratti un nero ricordo mi travaglia. Una panca e sopra un cumulo di neve. Il cielo plumbeo.
il fiore del partigiano Dopo poche ore il convoglio si arresta. Le crocerossine passano di vagone in vagone: chi può scendere e fare un breve tragitto si prepari. Gli altri pernotteranno sul treno. L’indomani ancora in barella vengo portata a terra. Lo spettacolo che si offre ai miei occhi torna a sconvolgermi la mente; perdo ancora una volta quel minimo di equilibrio nervoso che ero riuscita a raggiungere. Siamo dinanzi alle baracche del campo di Belsen*. Ignoro per quale ragione il nostro treno ospedale partito per raggiungere l’Italia sia stato costretto a quella sosta, ignoro i motivi per cui le autorità americane, che pure erano state così generose nei nostri confronti, si trovarono nella necessità di imporci quell’ultimo supplizio, ma mi è sufficiente richiudere gli occhi per risentire il collasso della mia ragione e delle mie forze dinanzi a ciò che tornavo a rivedere. La sosta a Belsen si protrasse sino alla metà di settembre. Gli americani non tralasciarono alcuno sforzo e impegnarono tutta la loro scienza per restituirci alla vita, per richiamare dentro di noi a raccolta la volontà di vivere. Impiegai quel tempo, cercando disperatamente, attraverso le crocerossine e alcuni deportati del vecchio campo che ancora vi rimanevano, tracce di Maria Luisa. Ritenevo che da Braunschweig l’avessero rimandata a Belsen, ma ogni ricerca fu vana.
Il 21 settembre 1945 rivedo finalmente l’Italia. Al momento in cui varcavamo la frontiera il convoglio era un solo grido. Era la nostra vita, sfuggita allo sterminio, che gridava, urlava, impazziva. Fui ricoverata all’ospedale della Croce Rossa di Merano. Mi affrettai a scrivere ai miei parenti annunciando che ero tornata. Il primo ottobre un’infermiera corse trafelata ad annunciarmi che avevo una visita. Lasciai il letto e così com’ero corsi fuori: nella penombra del corridoio vidi avanzare verso di me qualcuno che mi parve di riconoscere. Un irrefrenabile impeto mi riempì il cuore e la gola: «Roberto! Roberto!...», urlai. Avevo gli occhi pieni di lacrime e dovette venirmi vicino per constatare che non era Roberto. Era Carlo, il figlio di zio Flavio. Chiesi ansiosamente a Carlo notizie dei miei. Mio cugino mi rispose sconsolato di non saperne nulla. Soltanto io fino a quel momento avevo comunicato di essere sopravvissuta. Ma non vi era da disperare, aggiunse Carlo. I rimpatrii sono tutt’altro che conclusi. Scrissi subito al ministero dell’Assistenza postbellica. In data 9 novembre mi giunse una prima risposta. «Siamo assai dolenti di doverle riferire che dagli elenchi tutt’oggi in nostro possesso risulterebbe deceduta a Flossembürg il 20 marzo 1945 una signorina Maria Luisa Sonnino, nata il 5 ottobre 1920: temiamo si tratti della sua congiunta ricercata. Inoltre su un elenco trasmessoci dalla Comunità israelitica di Milano risulta deceduta “la famiglia Sonnino di Genova” senz’altri dati più particolari, notizia quest’ultima recata dal signor Giuseppe Mortara di Bologna». Soltanto due anni dopo, il 29 settembre 1948, potevo avere qualche notizia della fine dei miei fratelli. L’ingegnere Simone Spritmann, che faceva parte del nostro transport da Bolzano ad Auschwitz, mi inviò una lettera dalla quale stralcio qualche brano: «Nella notte, o meglio al mattino del 28 ottobre 1944, nel salone delle Saune, mentre noi eravamo schierati e un tenente delle Ss camminava dinanzi alle nostre file, io mi trovavo accanto al suo fratello maggiore. Ricordo questo benissimo. Egli accusò durante l’interrogatorio di essere affetto da postumi di pleurite. Egli fu unito al gruppo dove c’era suo babbo. Di Roberto posso dire poco. A me risulterebbe che sia andato in transport (nella camera a gas, nda). Egli sparì presto dalla circolazione. Invece Giorgio, povero, caro e dolce Giorgio, fu a lungo vicino a me. Era come un mio figlio. Ho dovuto lottare con lui, confesso che ho dovuto anche schiaffeggiarlo. Quel ragazzo si lasciava andare. Non voleva resistere. Non voleva nemmeno fare la coda in attesa del rancio. Per molto tempo fu aiutato soprattutto da me. Questo finché rimanemmo nella stessa baracca e allo stesso lavoro. Rimproveri, scherzi, nulla, nulla è valso. Si lasciò andare dolcemente fino al trasferimento al Krankenbau. Il fatto avvenne verso la fine di novembre. Non lo rividi più». Le ceneri di mia madre, di mio padre, di Paolo, Roberto e Giorgio
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sono ad Auschwitz; Maria Luisa è finita in una fossa comune. Di Bice ignoro il luogo della sepoltura.
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Nel maggio del 1946 lasciai l’ospedale di Merano e *Nell’intervista rilasciata fui trasferita nella Clinica di Loano del professor Zaa Survivors of the Shoah nel 1998, la signora noli dove rimasi fino al maggio del 1948. Il primo Sonnino inverte giugno dello stesso anno fui ricoverata all’Istituto la successione degli eventi. Codivilla di Cortina da cui uscii nel settembre del Si ritrova a Belsen 1950. Mio zio Flavio Sonnino, fratello di mio padre, dopo la liberazione e parte non lesinò denaro perché fossi curata nel migliore per l’Italia da Amburgo. dei modi. Furono anni quelli di completa abulia, vissuti passivamente, compresi in una solitudine senza fine. Forme specifiche mi avevano aggredito in più punti, ebbi più volte la pleurite, per mesi fui costretta a rimanere a letto, per un tempo lunghissimo, anche dopo aver lasciato le case di cura, dovetti portare il busto per combattere la spondilite, ciò che rimaneva del mio istinto vitale forse sopravviveva soltanto nell’arrendevolezza con cui mi sottoponevo a ogni genere di cura. Sovente venivo colta da crisi di pianto che mi lasciavano stordita. Più di una volta mi sorpresi a desiderare di morire, il desiderio della morte era sempre presente in me ma senza nulla di drammatico o di doloroso, come qualcosa di naturale. A Merano, a Loano e poi a Cortina conobbi della gente; uomini e donne come me malati, ospiti delle stesse case di cura dove mi trovavo, ma non riuscii a stringere rapporti amichevoli profondi. Era ancora come se fossi in mezzo alle ebree ungheresi impossibilitata a comunicare. Il 21 settembre 1950, dopo sei anni di assenza, rimisi piede a Genova. Che cosa dire di quel mio ritorno? Di quel mio ritrovarmi in una città che avevo sognato e dela vita continua. siderato fino alla disperazione, che mi era apparsa come Piera Sonnino, il 18 la mia casa e che ritrovavo ma deserta dei miei? Erano gennaio 1952. ad attendermi zia Anna e mia cugina Giulia, moglie di un Sotto, Palmiro Tonipote di mio padre. Mi attendevano anche le vie, le piazze, i luoghi dove ero vissuta con i miei fratelli e le mie gliatti circondato da sorelle, una realtà che esisteva ormai senza di loro ma di compagni di partito: Gaetano Parodi, cui io facevo parte. Furono giornate di un’intensità indimarito di Piera, è il menticabile. Di un dolore rinnovato alla radice. secondo da destra Quando potei, mi interessai per conoscere la sorte di (quello senza caquanto avevamo lasciato nella casa di via Montallegro. pelli). A sinistra, L’appartamento era stato completamente saccheggiato e svuotato. Di tutto ciò che avevamo posseduto riuscii a re- Piera Sonnino a una conferenza per la cuperare un solo mobile. Una vecchia chiffonier. Qualche pace alla fine degli tempo dopo, avendo appreso del mio ritorno, una signora anni Sessanta. abitante in via Montallegro mi portò qualcosa che aveva trovato nella polvere il giorno in cui la mia casa era stata svaligiata: una fotografia di mia madre, la sola che io possegga dei suoi ultimi anni. Trascorsi qualche mese dividendo il tempo con zia Anna e poi la mia vita ebbe una svolta. Conobbi degli uomini e delle donne con i quali mi accorsi di potermi intendere. Non fu facile per me superare la barriera che mi divideva da loro. Ma quando ciò avvenne mi trovai come in un mondo nuovo: un mondo di creature semplici, ottimiste, profondamente serie e consapevoli dei valori della vita umana, dei diritti della personalità umana, dei sentimenti umani. È stato per merito loro che ho cominciato a vedere chiaro dentro di me e dentro la storia della mia famiglia: per merito loro se mi sono trovata più volte, dinanzi a un microfono, con voce incerta ma con tutto il mio dolore e tutte le mie speranze, a dire: «Compagni, amici, amiche, miei fratelli, operiamo tutti assieme perché a nessuna famiglia della terra tocchi più la mia lunga notte di Auschwitz, la lunga notte del martirio del mio popolo e di tutti i popoli europei...» Y
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Parole luminose in terra desolata
le idee
RECENSIONI E INVITI ALLA LETTURA
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gianmaria testa - Da questa parte del mare einaudi editore - 112 pagine, € 12,00
da il manifesto del 6 giugno 2016
embra un luogo comune: il dono inaspettato. Non lo è, non lo sarà in futuro. Soprattutto quando un amico se ne va e la notizia circola improvvisa e secca, inappellabile. Eppure è come se funzionasse una sorta di trasmittente nascosta nelle pieghe delle cose, nei viluppi del tempo che svanisce attimo dopo attimo, e quell’amico ha lasciato un regalo prezioso, appena dopo aver fatto un segno di saluto con una mano che oscillava, piano, piano, a dire «ci rivediamo, prima o poi». Gianmaria Testa è stato amico di molte persone. Di una prima ristretta schiera, quelli che avevano a che far quotidianamente o quasi con i suoi occhi curiosi e indagatori, con le sue spalle larghe che sembravano caricare un peso contadino sul dorso sinuoso della chitarra, incombendo sul calice di vino bianco posato sul tavolo accanto. Di una cerchia più allargata, ma forse non meno intima. Quelli che avevano imparato a fidarsi di un uomo, prima che di un autore di canzoni, di uno vero che quando scriveva qualcosa lo faceva perché aveva da dire qualcosa, non una pendenza col mercato. Gianmaria Testa se n’è andato in punta di piedi (il 30 marzo scorso, ndr) e ha lasciato una cosa che non ci aspettavamo, e della quale parleremo. Un libro. Prima ha lasciato qualche disco che ci conserverà per sempre l’impronta, il calco sonoro di
una voce che tra pieghe aspre e vibrati impercettibili continuerà a parlarci all’infinito. Racconta Pietro Leveratto, contrabbassista del più nobile jazz italiano contemporaneo, uno che ha accompagnato i più grandi, e dunque anche Testa: «Gianmaria scriveva cose semplici di una difficoltà estrema. Faceva sembrare leggere cose pesantissime, volava dove altri avrebbero arrancato col fiato corto. Io ho sempre avuto rispetto per chi ha quel dono». Quel dono di arrivare alla sintesi non per chissà quale dono innato di facilità di scrittura, ma per aver semplicemente ragionato sulle cose scegliendo la via meno ovvia, la meno gratificante, quando urgono invece ragioni della pancia e delle viscere che aprono la strada all’affermazione roboante e beota. Gianmaria Testa aveva pensiero affilato e radente, a scoperchiare e rimuovere in un trancio di lama l’epitelio duro del luogo comune. L’aveva fatto in un disco che si intitola Da questa parte del mare, diversi anni fa. Bellissimo e struggente, ma di una durezza commisurabile a quella della vita vera. Affrontato come un lavoro da fare: spiegare (a se stesso, in prima battuta: poi a chi avrebbe ascoltato in seconda) cosa voleva dire trovarsi all’alba livida del terzo millennio, e dove, ancora una volta, scappare, forzare confini, buttarsi in una terra incognita per scampare a una terra matrigna di sentimenti, e madre invece di fame e torture, umiliazioni e assenza di for-
tuna. All’epoca, era il 2007, nei telegiornali li definivano «clandestini», oggi il politically correct li chiama «migranti» o «rifugiati», ma la sostanza davvero non cambia. Oggi sono, perlopiù, i respinti e gli annegati. Sempre di più, e con le mani sempre più scorticate dai fili spinati della fortezza Schengen. Gianmaria lo sapeva che non era cambiato nulla, da quando fece uscire quelle canzoni, che la scorza dura delle pance piene non avrebbe trovato pietà per quelle vuote. E Da questa parte del mare è diventato, pensiero dopo pensiero, un libro. Con la prefazione dell’amico di sempre Erri De Luca. Pubblicato da Einaudi. Bello, duro e struggente come le canzoni che ne rappresentarono l’epitome. Come se Gianmaria avesse preso i testi delle sue undici canzoni, avesse scrollato i fogli che contenevano le righe, e dalla carta si fosse liberato per aria il molto di pensiero e di fatti che c’era nascosto dietro ogni singola storia di migrante immaginata, ascoltata, ricostruita. Poi quel «molto» è diventato, ancora una volta, parola scabra, asciugata: perché Gianmaria Testa è narratore semplice e petroso, di disarmante e asciutta chiarezza, non fumisteria di polvere estetizzante. Diceva «ho l’impressione che nei confronti delle migrazioni abbiamo avuto un sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti». Il regalo nel regalo di questo libro piccolo e ad altissimo peso specifico è in coda, poesie di Testa ritrovate e raccolte, spesso brevi e delicatamente tese come un haiku: «Quanto meno/ un’ombra/ racconta/ di una luce». Y
Storia istituzionale del Paese (e del suo popolo)
gli inizi ci fu un sovrano che, «con lealtà di Re A e con affetto di padre», concesse ai suoi amatissimi sudditi una Costituzione: era il 4 marzo
Guido Festinese
domenico gallo - Da sudditi a cittadini. il percorso della democrazia edizioni gruppo Abele - libro + cd rom, € 16.00
1848 e quella costituzione, emanata da Carlo Alberto di Savoia, divenne, qualche anno dopo, la carta fondamentale del Regno d’Italia. Il nuovo Stato, culmine del Risorgimento, riconosceva il diritto di voto all’1,9 per cento della popolazione, cioè ai soli maschi abbienti. Un secolo dopo, il 1° gennaio 1948, la Costituzione repubblicana ha proclamato che «la sovranità appartiene al popolo» (articolo 1), introdotto il suffragio universale di donne e uomini e stabilito che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (articolo 3). Oggi c’è chi quella Costituzione vuole modificare. Tra questi poli si muove il testo di Domenico Gallo: una storia istituzionale del Paese, la cui stella polare è la convinzione che la storia non sia una vetrina di sovrani, governanti e generali ma un faticoso percorso di uomini e donne alla riY cerca di dignità e diritti.
Domenico Gallo, magistrato da trentacinque anni, è attualmente giudice presso la Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è attivo nei comitati per la difesa
della Costituzione. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di numerosi libri tra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006) e La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008). Laura De Romanis laureata in scienze dell’educazione, è insegnante di scuola primaria. Ha realizzato nella scuola impegnativi e appassionati progetti sul tema “cittadinanza e costituzione”. Il cd rom, ricco di contenuti extra, progettato e curato da Laura De Romanis, è un utile strumento per l’insegnamento e la riflessione di gruppo che ripercorre l’intera storia d’Italia.
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Vite di resistenti in armi e valligiani antifascisti
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giuseppe brighenti - il partigiano bibi - Sestante edizioni - per la richiesta di copie contattate la sezione Anpi “giuseppe brighenti” di endine gaiano al telefono numero 0358.25412 oppure al 346.4700260
n diario della lotta antifascista condotta golo combattuta il 22 febbraio del ’44 contro te- riuscita manovra i fascisti riescono a sottrarsi ai tra l’alta Val Seriana e il Lago d’Iseo. deschi e fascisti. Bettini fu tra i fondatori della tentativi di liberare i 6 prigionieri da parte di Giuseppe Brighenti, nome di combatti- Brigata “Valtoce” ed entrò a capo di questa for- Brasi e dei partigiani del presidio del vicino mento “Brach”, è stato uno dei protagonisti mazione partigiana il 25 aprile del ’45 in Milano Campo d’Avene. Il comandante Paglia e gli altri combattenti vengono trascinati a Costa Volpino della Resistenza in quella zona, dove operava la insorta . Il libro, scritto sotto forma di diario, è il racconto e dopo 4 giorni fucilati. A Paglia, in quanto fi53a Brigata Garibaldi “13 Martiri di Lovere”. La storia prende spunto dallo strano compor- degli scontri avvenuti sui monti dell’Alta Val Se- glio di un decorato di medaglia d’oro al valor tamento di Bibi, un cane che viene adottato dai riana, del ripiegamento, per sottrarsi ai rastrel- militare, veniva offerta salva la vita; proposta partigiani, l’animale sembra “comprendere” da lamenti, nei rifugi tuttora esistenti, come quelli che il Paglia sdegnosamente rifiutò, pretenche parte stare: con il suo diverso modo di ab- del Curò sul Lago del Barbellino, e di luoghi pro- dendo di essere fucilato con i suoi compagni. baiare più volte segnala ai partigiani la presenza tagonisti di dure lotte, come il sanguinoso as- Il partigiano Bibi è anche il racconto del rapdei fascisti della famigerata “Tagliamento” e dei salto partigiano all’albergo Franceschini, nella porto fra la popolazione e il fascismo, e il genetedeschi. La Brigata partigiana portava il nome zona della Cantoniera del Passo della Presolana roso apporto dei contadini montanari dato alla “13 Martiri di Lovere” per ricordare i primi epi- (è quell’edificio fatiscente che si vede tuttora sul Resistenza. È il racconto delle lotte prefasciste sodi di lotta partigiana culminati con la fucila- lato sinistro della strada che dalla Val Seriana delle operaie cocchiane* o di singoli episodi di zione dei 13 combattenti per la Libertà avvenuta conduce a Colere e, attraverso la via Mala, a Lo- opposizione al regime come quella di “Gioàn il 22 dicembre 1943 sul lungolago a Lovere e vere) per liberare la via verso il rifugio Albani in Portinér” e del bicchiere di vino gettato sulla focon lo scioglimento delle prime formazioni di val di Scalve. O la vittoriosa battaglia contro te- tografia del duce e della più discreta ma ferma lotta armata al fascismo. Nell’anno successivo, deschi e fascisti a Fonteno nell’agosto del 1944. opposizione al fascismo del nonno di Brighenti. il 18 novembre del ’44, sempre a Lovere, ven- A seguito della pesante sconfitta fascista e tede- Lo scritto è anche l’amara riflessione sul periodo nero fucilati Renato e Florio Pellegrini “Falce e sca di Fonteno si scatenò la rabbiosa reazione postfascista e della ripresa di potere delle vecMartello”; i due fratelli vennero catturati du- tedesca e repubblichina, con pesanti bombar- chie figure tolleranti se non apertamente colluse rante una delle lunghe marce di trasferimento damenti sui monti e rastrellamenti, con feroci col fascismo e del discredito, subito iniziato a nel terribile inverno del ’44. Essi affrontarono il episodi repressivi anche nei confronti di conta- guerra conclusa, intentato contro chi il fascismo plotone di esecuzione nel cimitero del paese al dini e pastori, colpevoli di dare ospitalità ai par- l’aveva seriamente combattuto. Dopo la guerra, Giuseppe Brighenti fu nomicanto di Bandiera Rossa e al grido di «Viva la tigiani. In questo contesto si inserisce la dolorosa vi- nato sindaco di Endine e per due legislature fu Libertà». A Lovere la resistenza iniziò subito dopo l’8 set- cenda della Malga Longa sopra Sovere e Gan- parlamentare comunista. È morto dieci anni fa, tembre 1943. A un gruppo di uomini, tra i quali dino. All’alba del 17 novembre 1944 un forte il 10 agosto 1996. Y Luigi Gatti Macario e Faccardi, alpini reduci dall’aggres- contingente della GNR sorprende il ridotto presione all’URSS, al comando di Giovanni Brasi e sidio partigiano. Dopo tre ore di furiosi comLeonardo Giove, comunisti e storici oppositori battimenti i partigiani, dietro garanzia che i *romano cocchi, emiliano di nascita, dapal regime fascista, si unirono gruppi di giovani feriti vengano trasportati a valle, si arrendono prima seminarista, fu poi organizzatore, pronon ancora ventenni, studenti e operai, in mag- alle soverchianti forze fasciste. Contravvenendo pagandista, giornalista in bassa lombardia, quindi a bergamo, dove divenne un potentisgioranza appartenenti a famiglie antifasciste agli accordi, il russo Ilario Efanov “Starich” e simo sindacalista “bianco”. Approderà nel che avevano preso parte alle lotte sociali e sin- Mario Zeduri “Tormenta”, già feriti nei com- campo comunista (fu segretario personale di dacali prima del 1921. Il gruppo di Lovere si fuse battimenti, vengono finiti a pugnalate. Con una gramsci e redattore de L’Unità). con quello di Grumello del Monte dei tenenti del disciolto esercito Aleardo Locardi e Cesare Bettini di Cassano d’Adda. Aldo giannulli, ivan brentari - l’insolita morte di erio codecà A seguito dell’eccidio di LoSperling & Kupfer - 384 pagine, € 19,90 vere e, anche a causa delle inuò un delitto irrisolto di oltre ses- L’unico sospettato dell’uccisione di Codecà, un ex filtrazioni fasciste, il gruppo di sant’anni fa, ispirare oggi un ro- partigiano comunista, sarà assolto. Erano anni difresistenti si sciolse. Alcuni si manzo? La morte dell’ingegner Erio ficili, in cui si pensava a un colpo di Stato incoragriorganizzarono sulle montaCodecà, a Torino, il 16 aprile 1952 non giato dall’ambasciatrice Usa Clare Boothe Luce. gne fra Bossico, Pian della ha mai visto l’individuazione di man- Anni torbidi, costellati da cadaveri eccellenti (la Palù, il Monte Blum, il Pizzo danti e autori del delitto. Dirigente Fiat morte dell’avvocato Ugo Palermo fratello del senaFormico e Valbondione e forcon spiccata abilità nelle relazioni industriali e pub- tore comunista Mario, il «suicidio» del principe a marono la 53 Brigata Garibliche, venne distaccato negli anni ’30 in Romania Lanza di Trabía). baldi, nelle cui file militarono (dove si sposò) e poi nella Germania nazista. Finita A ricrearne l’atmosfera arriva ora il romanzo-indaanche due cassanesi, Paolino la guerra si occupò, sempre per la Fiat, di scambi gine di Aldo Giannuli e Ivan Brentari L’insolita Colnago e Vinicio Fumagalli. commerciali con l’Est. morte di Erio Codecà (Sperling & Kupfer), un libro Cesare Bettini si trasferì in Codecà venne ucciso in un momento critico per i rap- preparato sulla base di una puntigliosa, cospicua doValdossola, ritrovando l’amico porti Italia-Usa: gli americani infatti sospettavano cumentazione. La parte romanzesca vede un avvoFilippo Beltrami, “il Capiche gli italiani vendessero metalli pregiati ai Paesi cato ai giorni nostri che studia il delitto Codecà comunisti, usando bolle false di accompagnamento. insieme a vecchi amici appassionati di gialli. Il trattano”, milanese storico oppoQuesti traffici vedevano coinvolta la Fiat, forse anche teggio storico getta squarci di luce su quegli anni un sitore al fascismo, e partecipò Y po’ dimenticati dalla letteratura. il Pci, che avrebbe lucrato sulle tangenti. alla battaglia campale di Me-
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I MOVENTI CHE INDUSSERO LA “SUBLIME PORTA” A INTERVENIRE, E LE SUE RICADUTE S
le storie - la Storia
Eugene Rogan ricostruisce «La Grande Guerra nel Si parla molto della Turchia, ma se ne conosce poco la storia che pure spesso si è intrecciata a quella d’Italia. Un libro ricostruisce nei dettagli la Grande Guerra nel Medio Oriente, la fine dell’impero ottomano e le ricadute sugli assetti regionali che ancora oggi fanno sentire i loro effetti.
I di
da Alias domenica del 19 giugno 2016
FranceSco benigno
l 13 novembre 1919 quarantadue navi da guerra britanniche, francesi, italiane e greche risalirono gli stretti dei Dardanelli dirette a Istanbul e ormeggiarono proprio davanti al nuovo palazzo reale, il Dolmabhaçe Palace, che domina le acque del Bosforo. La Sublime Porta aveva ormai perduto la guerra, Istanbul era conquistata e con questo evento epocale, cui sarebbe seguita la rivolta nazionalista repubblicana di Mustafa Kemal e la nascita della Turchia moderna, si chiusero sei secoli di storia ottomana, il più grande impero
islamico al mondo. Si può ben dire che tutto ebbe inizio da lì, come ci racconta Eugene Rogan, in La grande guerra nel medio oriente-La caduta degli Ottomani 1914/1920 (Bompiani, pp. XXVIII-746, euro 25,00). La lezione di questo libro – scritto da un docente di Oxford in modo godibile e accattivante, come spesso accade con gli studiosi inglesi – è che la prima guerra mondiale ebbe un ruolo decisivo nel ridefinire in modo duraturo i confini (e i problemi) dell’area mediorientale; il quadro geopolitico allora disegnato avrebbe esibito, insomma, una straordinaria resilienza. Certo, nessuna delle battaglie combattute in quella parte del mondo ebbe la portata, tragicamente grandiosa, di quelle che segnarono la tormentata vicenda del fronte occidentale: La Marna, Verdun, la Somme, Caporetto. Ma tutto sommato, a cent’anni di distanza, i popoli europei che allora si combatterono con tutta la violenza resa possibile da nuove micidiali armi di distruzioni di massa, dagli obici alle mitragliatrici, adesso convivono pacificamente nell’Unione europea; in Medio Oriente, invece, le questioni politiche emerse
nel quinquennio bellico si direbbero eternate. È in quegli anni che emerse – di fronte al nazionalismo rampante dell’élite al potere a Istanbul, il gruppo dei cosiddetti «giovani turchi» – la questione curda; e, soprattutto, è in quegli anni, che maturò il genocidio armeno. Di fronte all’atteggiamento aggressivo della Russia, che trovava sponda nella comunità armena, il governo turco ne decise la deportazione in massa; a differenza di altre minoranze epurate, come quella greca, gli Armeni non avevano però una terra promessa in cui andare o da cui tornare: furono quasi interamente sterminati.
L’uso politico della religione dei «Giovani turchi» (e dei tedeschi) Tutto si può vedere, in una prospettiva generale, partendo dalla questione, così decisiva nel nostro tempo, dell’uso politico della religione e dei processi di radicalizzazione islamica. Una delle ragioni fondamentali che spinsero la Germania a chiedere con forza (e poi a ottenere) l’intervento ottomano nella guerra fu la speranza che la Porta potesse guidare la sollevazione islamica contro i propri
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Medio Oriente»
avversari, e soprattutto contro i britannici in Egitto. A questo fine il barone Max von Oppenheim, grande conoscitore del Medio oriente e scelto personalmente dal Kaiser Guglielmo II, istituì a Berlino nell’agosto del 1914 un ufficio di propaganda panislamica allo scopo di usare il Jihad per istigare rivolte contro gli infedeli. Il sultano di Istanbul, il più importante capo politico islamico, era infatti anche la guida spirituale della religione islamica, il califfo. Le prove generali dell’uso politico del Jihad erano già state fatte, con buoni risultati, qualche anno prima, nel 1911, in Libia, contro gli invasori italiani. I «giovani turchi» al potere a Istanbul avevano tentato di organizzare la resistenza anti-italiana facendo perno sulla Jihad lanciata dalla confraternita religiosa dei Sanussi, un ordine mistico musulmano transnazionale. E ancora, di fronte all’invasione britannica della Mesopotamia (l’attuale Iraq) e alle difficoltà di convivenza con la popolazione sciita, il governo ottomano fece svolgere atti pubblici di reverenza verso la memoria di Alì, il quarto califfo e padre spirituale del movimento sciita: addirittura, nel 1915, mentre gli inglesi muovevano verso Baghdad, veniva inviata da Istanbul, scortata da un drappello di cavalleggeri e quasi fosse un’arma segreta, la bandiera di Alì, una reliquia venerata e dotata di grande appeal tra la popolazione sciita.
Il protocollo di Damasco e il patto Sykes-Picot È in questo contesto che si spiega la scelta britannica di giocare, in funzione anti-ottomana, la carta della rivolta delle popolazioni arabe riottose al dominio turco. E fu questo lo scenario in cui precipitò l’azione militare e diplomatica, circonfusa della nota aurea mitica, di Thomas Edward Lawrence, il famoso «Lawrence d’Arabia», uomo dell’intelligence, grande conoscitore del Medio oriente, inviato a organizzare la guerriglia araba. Convincere i leader arabi ad abbandonare la fedeltà alla Porta, aveva come controparte la garanzia di importanti concessioni territoriali nella divisione futura delle spoglie ottomane. Il protocollo di Damasco, firmato dai principali leader arabi, fissava la richiesta di uno stato arabo indipendente nei territori ex-ottomani a cavallo tra Asia ed Africa, includente la Grande Siria (e cioè l’attuale Siria più il Libano e la Palestina), l’Arabia e la Mesopotamia. Nel 1915, in una fase difficile della guerra e di fronte alle complicazioni emerse con la disastrosa campagna di Gallipoli, il governo britannico largheggiò in promesse, come testimonia la corrispondenza tra sir Henry McMa-
Sfilata di truppe britanniche d’occupazione, d’inizio ’900, sull’attuale Viale Istiklal, a Costantinopoli (verosimilmente, ndr). In basso, nella pagina a fronte, reclutamento militare ottomano presso Tiberiade
hon, luogotenente britannico in Egitto, e l’emiro Sharif Husayn, che governava una parte dell’attuale Arabia Saudita, lo Hayaz, ed era stato scelto come leader dell’insurrezione. Rivolta araba contro Jiahd islamica, dunque: sicché i campi di raccolta dei prigionieri di guerra erano anche, da una parte e dall’altra, dei centri di reclutamento per volontari. I tedeschi, in particolare, avevano allestito vicino a Berlino un campo di internamento chiamato Halbmondlager, il campo della mezzaluna, dedicato ai prigionieri di guerra musulmani. Lì i prigionieri venivano trattati bene, e c’era anche una moschea frequentata da attivisti islamici, al soldo del governo tedesco, incaricati di raccogliere volontari. Lo stesso avveniva sul fronte alleato dove Francesi e Inglesi cercavano di arruolare prigionieri affascinati dall’eco straordinario della rivolta araba. Questi volontari entravano a far parte di eserciti estremamente compositi, costruiti mediante quella che Rogan definisce una chiamata globale alle armi: nel conflitto in Medio oriente si trovavano infatti, oltre a combattenti di molti paesi europei e ai contingenti mediorientali, truppe provenienti da ogni angolo del mondo: gurka e maori, soldati venuti dai possessi coloniali africani (Senegal, Guinea, Sudan, Maghreb) e dall’estremo Oriente (indiani, Pakistani, Australiani, Neozelandesi). Una vera Torre di babele che conferisce senso pieno all’aggettivo «mondiale» assegnato a quella guerra. Con la continuazione del conflitto, però, con-
trariamente alle promesse fatte agli arabi, emersero le reali intenzioni inglesi in merito alle zone d’influenza in medio oriente, rese evidenti dal patto Sykes-Picot, stilato nel 1916 e presto divenuto pubblico: esso prevedeva il riconoscimento alla Francia della Siria, il mantenimento sotto controllo britannico della Mesopotamia, e i ricchi giacimenti petroliferi di quella zona; e la disponibilità alla creazione di uno stato ebraico in Palestina (come affermato dalla dichiarazione Balfour diffusa nel novembre 1917), atto fondato sulla convinzione dell’importanza dell’appoggio del movimento sionista sul prosieguo della guerra. A queste scelte, destinate, e non a torto, a rianimare lo stereotipo della Perfida Albione, si può aggiungere la posizione pilatesca assunta nella lotta infra-araba, che avrebbe visto negli anni seguenti il dominio dell’alleato Sharif Husayn minacciato e poi travolto dall’ascesa di un’altra creatura occidentale, quell’Ibn Saud che dai suoi territori dell’Arabia centrale puntava alla riunificazione della penisola. La sconfitta della dinastia Hashemita (rimasta al potere oggi solo sul trono giordano) e l’ascesa di quella Saudita, portarono come conseguenza lo stabilirsi nel cuore dei luoghi sacri musulmani (Medina, La Mecca) di quella variante fondamentalista della dottrina islamica nota come il Wahabismo: anche questa un’eredità, tra le tante, di quell’evento davvero cruciale che fu la caduta dell’impero Ottomano. Y
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naZionale Partigiani D’italia Fiume aDDa Redazione: presso la sede della Sezione Quintino di Vona di Inzago (MI) in Via Piola, 10 (Centro culturale De André) In attesa di registrazione. Supplemento ad Anpi Oggi Direttore responsabile: Rocco Ornaghi Stampato presso Bianca & Volta - Via del Santuario, 2 - 20060 Truccazzano (MI) Si raccolgono abbonamenti per versione cartacea e/o digitale (formato pdf)
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